Roberto Cipriani
Habeas corpus è un’espressione latina che significa “abbi il corpo”, o meglio “abbi il tuo corpo”. Si riferiva ad una norma giuridica in base alla quale una persona non potesse essere arrestata e tratta in prigione senza un motivo fondato, senza cioè aver commesso una colpa: riusciva dunque a mantenere il possesso effettivo della sua stessa persona, del suo corpo.
L’origine di tale regola giuridica è abbastanza antica. La si fa risalire al periodo della Magna Charta inglese delle libertà (concessa nel 1215 dal re Giovanni).
Habeas corpus ad subiciendum erano le parole iniziali del writ che ingiungeva a chi avesse imprigionato qualcuno di dichiarare per quale ragione lo fosse e da quale giorno ed inoltre di presentare in carne ed ossa la persona imprigionata davanti ad un giudice perché ne venisse legittimata o meno la detenzione.
La finalità dell’habeas corpus era quella di salvaguardare l’integrità e la libertà del soggetto nei confronti di qualunque sopruso di un’autorità, ivi compresa quella giudiziaria (nel qual caso si passava al giudizio di un tribunale superiore).
L’Habeas Corpus Act del 1679 è il riferimento giuridico più autorevole in questo campo. E la stessa Costituzione degli Stati Uniti prevede che l’habeas corpus “shall not be suspended, unless when in cases of rebellion or invasion the public safety may require it”.
Le situazioni di guerra comportano spesso un’invocazione dell’habeas corpus. Se ne deduce così che l’elemento ultimo che fa di una persona un soggetto portatore di diritti è proprio la sua stessa corporeità, il suo soma, la sua materialità, costituita in gran parte di acqua. D’altra parte la stessa mente è capace di funzionare solo se già esiste un supporto fisico concreto. In definitiva nessuna azione umana è neppure immaginabile e realizzabile in assenza di un corpo che la compia di fatto. Di conseguenza nessuna sociologia nella misura in cui si interessa dell’agire umano può fare a meno di indagare il ruolo e le potenzialità del corpo. Insomma una sociologia del corpo non solo è utile ma certamente è indispensabile.
Per questo il testo qui presentato aiuta a colmare le numerose lacune che sinora hanno impedito all’analisi sociologica di cogliere sino in fondo la valenza di tante dinamiche rilevanti. Oggi ancor più che nel passato la dimensione corporea è finalmente al centro dell’attenzione dei sociologi, in concomitanza con l’accresciuta sensibilità degli individui sociali alla loro “presenza fisica”, alla loro “immagine esteriore”, a quanto risulta più appariscente e comunicativo.
Non a caso si pone una particolare cura nell’adattare il corpo alle esigenze più diverse, in vista del raggiungimento di particolari obiettivi: convincere, aiutare, affascinare, comunicare ed altro ancora. In pari tempo il consumo del corpo è più accentuato che nel passato sino a dar luogo ad un corpo virtuale che sostituisca quello reale per non affaticarlo, per esimerlo da compiti rischiosi, per sperimentare percorsi inusitati, per andare oltre i livelli gestibili nell’ambito della verificabilità empirica.
Il paradosso è che proprio l’elemento materiale della fisicità diviene oggetto di un approccio tipicamente spirituale, quello della sacralità. Si può anche discutere se il corpo sia il sacro per eccellenza o più semplicemente qualcosa di sacro. Il punto è che in entrambi i casi la sua connotazione ha a che vedere con la sacralità, con un carattere metafisico applicato a ciò che tuttavia resta di fatto ad un livello fisico.
Non c’è digital divide che riesca a separare anche le consapevolezze delle proprie consistenze corporee: un collegamento Internet rimane un prolungamento ed un’accelerazione delle possibilità di comunicazione ma non dà mai la possibilità del contatto fisico o della sola visione face to face, a contatto del respiro dell’altro, che nessuna telecamera tecnologicamente avanzata potrà mai trasmettere da un continente all’altro, da una persona lontana ad un’altra, limitandosi semmai ad una perfezionata emissione acustica che riproduce in tempo reale il respirare altruima senza alcuna possibilità di sostituire la realtà dell’incontro diretto, della simbiosi dei ritmi corporei, della condivisione di un abbraccio, dello scambio di uno sguardo, dell’emozione di una stretta di mano fra persone realmente l’una vicina all’altra.
La mente stessa ha bisogno di un corpo per esercitare le sue potenzialità raziocinative, le sue capacità analitiche ed interpretative di linguaggi e simboli. Ed in fondo anche la memoria ha bisogno di una mente in cui installarsi e di un corpo cui ancorarsi, per essere “substrate and servant of consciousness”.
Persino il dolore e la gioia sono inconcepibili senza una base corporea che ne renda possibile l’esperienza diretta attraverso il vissuto personale.
La differenza fra una persona reale ed un robot, ad esempio, non è solo data dalla presenza o dall’assenza di un soma ma essenzialmente dalle relazioni intersoggettive, emozionali, affettive, che una macchina non può mai né intrattenere né gestire. Il rapporto fra mente e corpo è imprescindibile giacché l’una e l’altro sono interconnessi all’interno di una collocazione anatomica precisa. Le nuove frontiere aperte dalla manipolazione delle cellule staminali non fanno che confermare la centralità della dimensione corporea in tutte le sue articolazioni, dal sistema nervoso a quello circolatorio. Anche gli esperimenti di clonazione e gli studi sul genoma rafforzano l’idea di una centralità del corpo, senza del quale non è possibile sviluppare alcuna forma di pensiero, di azione e di ricerca consapevole. In fondo non c’è cultura se non collegata ad una serie di soggetti-corpi interagenti fra loro. Persino nelle esperienze estreme che portano a sperimentare gli stati alterati di coscienza il tramite resta la struttura corporea. Per non dire delle esperienze musicali e di quelle coreutiche, dell’estasi e della contemplazione mistica.
Un discorso a parte meriterebbe il corpo femminile: soggetto-oggetto di strumentalizzazione consumistica, sottoposto ad un forte controllo culturale di matrice essenzialmente maschile. Questo è l’esito di una pedagogia fuorviante e per nulla paritaria, che sin dalle prime esperienze infantili di gioco pone le premesse per distinzioni di genere che non aiutano a collocare il corpo entro un quadro politicamente e socialmente corretto. Prevale cosi l’ottica moralistica a tutto danno della scoperta libera e spontanea, saggiamente orientata, delle differenze di sesso.
Una pedagogia altrettanto mistificante conduce a trasformare il corpo stesso in un’arma, come nel caso dei terroristi suicidi, i quali imbevuti di ideologia e di confessionalismo spinto si votano al martirio divenuto quasi una mania.
Quasi tutto sembra congiurare contro la libera espressione corporea: l’aumento delle comodità e l’asservimento alle logiche della velocità annientano le possibilità di sperimentazione alternativa basata sulle capacità di movimento autonomo dei singoli. Insomma si tende a favorire la passività, e dunque l’assenza di riflessione: si comincia con il corpo, si prosegue con la mente ed alla fine l’assoggettamento eterodiretto è un risultato acquisito.
La divisione per generi a livello corporeo ha una sua corrispondenza quasi speculare nella divisione per razze in termini corporei (dal colore della pelle all’altezza, dalla configurazione degli occhi alle caratteristiche dei capelli).
Il fatto è che la realtà dei corpi comporta molte realtà corporee, ricoperte o meno di abiti, regolate o prive di regole, segnate dal benessere o dal malessere, integre o frammentate, connotate dalla gioia o dal dolore. Del che questo libro offre prove esemplari.
In definitiva i vari autori qui coinvolti mostrano chiaramente – se per caso ce ne fosse ancora bisogno – che corpo e mente (e memoria) non sono affatto elementi scissi fra loro. Cartesio parlava di corpo come res extensa (cioè qualcosa di esteso) e di pensiero come res cogitans (cioè qualcosa che pensa), considerando l’uno e l’altro come due sostanze. Però poi lo stesso Cartesio vedeva proprio nell’uomo l’unione di corpo ed anima, annullando così il dualismo delle sostanze.