IL CULTO CRISTOLOGICO NELLA RELIGIOSITÀ POPOLARE

Roberto Cipriani


Premessa


La nostra indagine sul culto cristologico del crocifisso, condotta alla metà degli anni novanta, riguarda un caso singolare di religiosità popolare tuttora rilevabile nella Sicilia centrale, presso il santuario di Castel Belici, 489 metri s.l.m., non lontano dai comuni di Marianopoli e Villalba, in provincia di Caltanissetta. Ogni anno il 3 maggio, nella giornata che il calendario liturgico cattolico dedica all’Invenzione della Santa Croce, diverse migliaia di pellegrini spesso a piedi, talora scalzi, si recano a rendere omaggio ad un crocifisso ligneo scolpito nel XVII secolo da frate Umile da Petralia.


Il tempio, lasciato senza cura per un lungo periodo, è stato recuperato al culto popolare per volontà dei devoti e delle devote del Signuri di Bilìci, ritenuto portentoso e taumaturgo per molte malattie. La chiesa di Castel Belici è ricca di ex voto, a testimonianza delle grazie che i fedeli ritengono di aver ottenute dal miracoloso Crocifisso.


Grazie alla spinta dal basso, all’interesse ed alla pressione del popolo, la devozione è rifiorita di recente, anche per l’occasione del 350.mo anniversario dall’inizio del culto al Crocifisso nella cappella del castello feudale. Una commissione di laici, accompagnata da una vigile consulenza sacerdotale, ha da tempo l’incarico di organizzare la celebrazione solenne del 3 maggio e di curare l’accoglienza presso il santuario.


L’inchiesta è stata realizzata sia con una metodologia quantitativa (mediante la somministrazione di 350 questionari ai pellegrini) sia con una metodologia qualitativa (attraverso l’osservazione partecipante e numerose interviste libere con vari protagonisti dell’evento).


I partecipanti al pellegrinaggio, provenienti da diverse parti della Sicilia, chiamano il viaggio (u viaggiu) la loro esperienza di cammino verso il santuario. Il viaggio può essere intrapreso sia per chiedere un aiuto particolare sia per ringraziare di qualche vantaggio ottenuto.


Del resto se in un comune della Sicilia centrale, ad esempio in provincia di Caltanissetta, Agrigento, Palermo, capita che qualcuno abbia dei problemi di salute, che non riesce a risolvere per le vie mediche abituali, può sentirsi consigliare da un congiunto, un amico, magari un estraneo, di rivolgersi “a lu Signuri di Bilìci”, il quale “provvederà”.


Questo genere di provvidenza non può che essere di natura metafisica, divina. In effetti, “lu Signuri di Bilìci” altri non è che Cristo stesso raffigurato come crocifisso, in una scultura in legno realizzata da un frate-artista del XVII secolo, frate Umile da Petralia, autore di molte altre opere simili realizzate in diverse parti d’Italia (dalla Sicilia, soprattutto, a Roma, Loreto, Assisi).


Indubbiamente l’opera del religioso-scultore è di fattura pregevole. Soprattutto il capo del crocifisso suscita un notevole fascino. Lo si direbbe una creazione non umana. Non a caso su di esso è nata una leggenda, variamente ricordata e costellata di dettagli da parte dei nostri intervistati, che raccontano dell’intervento di un angelo per completare l’opera rimasta incompiuta proprio all’altezza della testa.


Se è vero che la suddetta opera d’arte esercita una sua attrattiva tutta speciale nondimeno vi è da dire che la sua presenza al castello di Belici non è casuale. Essa è in fondo il frutto di un preciso disegno che nasce dall’azione controriformista della chiesa cattolica, a lunga gittata nel secolo XVII, con il desiderio di contrastare il movimento protestante.


In effetti il caso del Crocifisso di Belici non è isolato. Esso è un punto di riferimento essenziale, uno snodo si direbbe, per una fitta rete di culto che si ramifica in particolare nella Sicilia centrale e vede il proliferare di espressioni locali e persino domestiche che ruotano senza soluzione di continuità attorno alla figura del Cristo crocifisso.


La scelta di questa immagine, di così forte impatto per la cultura popolare, non è senza significato. Essa risponde ad un desiderio preciso: mantenere legate o recuperare le masse popolari alla chiesa-istituzione, ritrovare un punto di dialogo, di connessione. Quale migliore soluzione, dunque, se non quella della figura umanissima del Gesù dolente, vittima sacrificale, incarnazione massima del dolore umano, modello di sofferenza e parametro essenziale per gruppi di persone avvilite da drammi personali quotidiani e tragedie immani che scaturiscono da guerre, pestilenze e carestie?


Sociologicamente si deve osservare che il cattolicesimo in quest’area (ma non mancano esempi anche altrove) ha colto nel segno facendo della figura del Cristo in croce un medium formidabile di comunicazione, in grado di resistere alle traversie dei secoli e suscettibile di essere recuperato anche in un’epoca che si direbbe tutta dominata da spinte secolarizzanti e da nuovi idoli globali.


In verità il culto del Crocifisso riesce ad allignare agevolmente su un terreno che non è affatto alieno da sensibilità di tipo religioso, come è emerso anche in una precedente indagine condotta nella medesima area [Cipriani 1992] e che tuttavia non aveva dedicato spazio alla religiosità popolare, esaminata invece più specificamente attraverso questa ricerca sul pellegrinaggio al Castello di Belìce.


Altre forme di pellegrinaggio non mancano di costellare il calendario annuale dei devoti siciliani, impegnati a visitare i numerosi santuari dell’isola o ad affrontare viaggi più lunghi per recarsi a San Giovanni Rotondo presso la tomba di Padre Pio, a Pompei, a Loreto, od ancora più lontano a Fatima o, soprattutto, a Lourdes. Del pellegrinaggio a quest’ultima località francese si pensava di tenere anche conto, nel progetto originario di questa ricerca. Ma poi per ragioni contingenti (la sopravvenuta indisponibilità di ricercatori già specialisti in questo genere di ricerche in itinere) ed anche per considerazioni più rigorosamente metodologiche (il campione dei treni per ammalati e loro accompagnatori a Lourdes è troppo ristretto, per cui risulterebbe poco rappresentativo di una realtà più vasta) si è preferito concentrare tutta la nostra attenzione sull’evento (limitato nel tempo ma assai più ampiamente rilevante) de “’u viaggiu a lu Signuri di Bilìci”, cioè al castello, dopo l’attraversamento dell’omonimo torrente.


Il simbolo della croce


La croce, simbolo cristiano per eccellenza, ha una forma ascensionale, che ben si attaglia a costituire il culmine di una forma  elevata. La presenza di una croce o di un crocifisso rende un monte ancor più manifestamente sacro. D’altro canto gran parte della mistica cristiana ha il carattere di una prassi ascetica, cioè di un’ascesi, che di per se stessa indica la procedura volta al progredire verso gradi sempre maggiori di spiritualità, mortificazione, rinuncia. I percorsi ascensionali di questo tipo comportano una gradualità, scandita da una divisione in fasi, in tappe successive di avvicinamento e di innalzamento.


L’obiettivo rimane sempre il raggiungimento di un luogo stabile, sicuro, protetto e protettivo. Insomma la vetta diventa un elemento di distinzione, che marca la differenza fra chi vi giunge e chi deve accontentarsi di guardarla da lontano.


La mole maestosa di una montagna funge sovente da salvaguardia contro eventi ostili e diventa punto di riferimento essenziale, non trascurabile. La sua forma vagamente triangolare sembra alludere anche alla tensione umana verso la dimensione divina. In effetti la base terrena è il piedistallo di una massa piuttosto consistente che si innalza verso l’alto per esprimere purezza, spiritualità eccelsa.


Clara Gallini [1971: 26-28] in riferimento alla tradizione delle “novene sarde”, le quali comportano la costruzione di villaggi provvisori nei pressi del santuario, scrive che “sono due mondi profondamente diversi a prima vista.


Il paese è sempre lì, stabile nel tempo, e visibile a tutti, perché per la sua strada ci si deve comunque passare. La chiesa campestre bisogna invece cercarsela, spesso in fondo a una strada che finisce proprio lì…


L’ubicazione di una chiesa campestre … viene scelta … con un maggior grado di libertà, che consente quindi di tener conto anche di motivazioni estetiche: si segue, di solito, un sicuro senso paesaggistico. È rarissimo il caso che comunità di novena sorgano ai margini della pianura …; il più delle volte sorgono in montagna: potrà essere la testata di una piccola valle … o la vetta di un monte …, da cui si spazi su un ampio paesaggio; potrà essere, come avviene anche per i paesi, il cuore di un altopiano. Ma per lo più si preferisce costruire sul dolce declivio di un colle che scende giù, pochi chilometri più in basso, verso il fiume o un lago, oppure su uno sprone o al bordo, quasi precipite, di un altopiano o di un pianoro, da cui lo sguardo abbracci ampie distese di monti e di valli. La zona circostante è spesso ricca di fonti e quindi di vegetazione, di macchia o degli ultimi boschi rimasti. È raro che vi si coltivi. Ecco la prima rottura che lo spazio della novena propone rispetto a quello, noto e quotidiano, dell’orizzonte di paese.


È una natura diversa e più varia, che dà l’immagine della libertà. Una libertà raggiungibile con poche ore di cammino a piedi, come si faceva fino a pochi anni orsono: or ancor più ravvicinata, a portata di una mezz’ora di automobile.


Una libertà che si crede di ottenere, situandosi entro una zona-limite.


Un numero considerevole di chiese campestri è infatti decentrato rispetto alla superficie dell’agro comunale, ed è molto spesso situato in un punto vicinissimo al tracciato del suo confine o addirittura sul confine stesso; si può anche dare il caso che, in questo luogo, si situi la confluenza di tre o più confini di paese. Sappiamo che i tracciati dei limiti comunali furono stabiliti legalmente e disegnati su carte catastali attorno alla metà del secolo scorso. Sappiamo anche che  gli operatori cercarono di rispettare, il più possibile, l’andamento di quei confini che la tradizione orale, rigorosamente osservata per secoli, attribuiva all’agro di ogni singolo abitato. Per questo, possiamo ritenere che la attuale ubicazione “di confine” delle chiese campestri risponda a una situazione assai vicina a quella originaria.


Essere al confine significa due cose: situarsi in una posizione il più possibile eccentrica rispetto al paese e protendersi, al contrario, verso l’altro o gli altri paesi più vicini. La comunità di novena è, insomma, una specie di zona franca “fuori” del paese dalla cui parrocchia dipende, ma “al centro” di convergenza di un certo numero di paesi diversi.


È in questo peculiarissimo punto che si sono poste le premesse per la realizzazione, entro la festa, di un momento di libertà.


Libertà vigilata, di breve tempo, pronta immediatamente a venir risucchiata entro le durezze della vita di sempre, come un elastico che prima si tiri al massimo e poi, all’improvviso, si molli, facendolo ribattere di nuovo sulla mano, nella posizione da cui era partito.


Anche l’urbanistica delle due comunità – di paese e di novena – risponde a criteri antitetici.


Il paese fa corpo, come un pugno chiuso, entro uno spazio sociale guadagnato di fronte a una natura che isola e separa, e a un modo di produzione (quello agricolo e pastorale) che frantuma in microunità familiari autonome.


Il paese afferma la propria socialità contro la natura e un modo di produzione che isola e separa.


La novena si apre alla natura, vi si immerge con confidenza. La festa nega la produzione e afferma il vivere di gruppo”.


Quanto scrive Clara Gallini sulle modalità delle “novene sarde” corrisponde in larga misura (fatta eccezione per la costruzione del villaggio provvisorio) a quanto si riscontra a Belici, meta del pellegrinaggio che ha luogo il 3 maggio in onore del Crocifisso. In effetti il santuario è collocato su un altopiano che domina un paesaggio mirabile ed è punto di confine o di confluenza ravvicinata di diversi comuni (soprattutto Marianopoli e Villalba, ma anche Santa Caterina Villarmosa, Resuttano, Vallelunga Pratameno, nella provincia di Caltanissetta, e Castellana Sicula, Valledolmo, Petralia Soprana, Petralia Sottana, nella provincia di Palermo), di due province (Caltanissetta e Palermo) e di due diocesi (Caltanissetta e Cefalù). Proprio nella zona del santuario è collocato il limite territoriale. Ai suoi piedi corrono i torrenti Belici, Vicaretto ed Ogliaro, la ferrovia  Caltanissetta-Palermo, l’acquedotto della Madonie. Queste ultime fanno da corona per lo scenario di fondo della vista che si gode dall’altezza dei 489 metri di Castel Belici e dei 499 metri del luogo in cui è situato il cosiddetto calvario (dove è collocata una croce in ferro, ora sormontata da un pilastro che fa da piedistallo ad una statua del Redentore con le braccia aperte).


Si è detto che il monte può essere considerato pure un centro, una sorta di ombelico. A tal proposito conviene ricordare, fra l’altro, l’importanza scritturistica del monte Tabor (alto appena 588 metri, luogo della transizione del Cristo dalla condizione umana a quella divina, mediante la trasfigurazione), la cui radice linguistica ha a che vedere con la dimensione ombelicale.


Appunto da un ombelico primordiale sarebbe nato il mondo. E dall’ombelico di Visnù, secondo un’antica tradizione induista, ebbe origine il fiore di loto che schiudendosi costituì la prima comparsa della vita. Il centro del loto era occupato dal monte Meru, asse del mondo. Fiore puro ed incontaminato, il loto è anche simbolo di una capacità di resistenza persino in acque torbide, dunque è un chiaro segno dell’inattaccabilità del bene da parte del male. Infine non è da trascurare il nesso precipuo fra il loto-ombelico e l’acqua, linfa di vita e contenitore di vita (nel grembo materno).


L’omphalos, l’ombelico secondo la lingua greca, è non solo generatore ma essenzialmente un centro spirituale. Celebre è rimasto l’omphalos collocato a Delfi in Grecia, luogo sacro ad Apollo che ivi avrebbe ucciso il serpente Pitone (citato da Varrone nel De lingua latina, VII, 17), figura ctonia, sotterranea (come non sottolineare qui il singolare elemento di convergenza con la figura del  demonio sconfitto dal Cristo crocifisso?). Detto luogo era ritenuto punto d’incontro fra l’esistenza terrena degli uomini, quella sotterranea dei morti e quella divina. Anche l’isola di Ogigia era per Omero l’ombelico del mondo.


Omphalos è considerato sia il Santo Sepolcro, dove si narra venne posto il corpo del Cristo dopo la morte, sia l’albero di pipal detto della Bodhi (illuminazione), presso il quale il Buddha fu illuminato. Ogni riferimento ombelicale è inoltre un ritorno alle origini, alla vita primordiale, come avviene nella pratica yoga che prevede appunto la contemplazione del luogo primigenio, cioè l’ombelico, centro energetico e trasformatore.


Nella cultura celtica il dio Nabelco (Marte) era signore e centro, anzi la divinità del centro: del resto proprio in un luogo sacro, all’interno di una foresta, i druidi eleggevano il loro signore e capo-sacerdote.   


“Il luogo sacro – scrive Cazeneuve [1971: 244] – si presenta sempre, più o meno, come il centro del mondo, dato che ogni gruppo primitivo tende a limitare a se stesso la sua  nozione dell’universo umano. Spesso, il centro del mondo è una montagna “dove si incontrano il cielo e la terra” [Eliade 1948: 321; 1949: 30; 1976: 111], cioè evidentemente il piano umano e il piano extra-umano”.


Si può aggiungere che “il sacro celeste rimane attivo nell’esperienza religiosa, per mezzo del simbolismo dell’“altezza”, dell’“ascensione”, del “centro”, ecc. … La montagna è più vicina al cielo, e questo le conferisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (“alto”, “verticale”, “supremo”, ecc.), e d’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche. Ed è, in quanto tale, dimora degli dei. Tutte le mitologie hanno una montagna sacra, variante più o meno illustre dell’Olimpo. Tutti gli dei celesti hanno luoghi riservati al loro culto, sulle cime” [Eliade 1976: 111].


Inoltre “l’altitudine ha una virtù consacrante. Le regioni superiori sono sature di forze sacre. Tutto quel che più si avvicina al cielo, partecipa con intensità variabile alla trascendenza. L’“altitudine”, il “superiore”, sono assimilati al trascendente, al sovrumano. Ogni “ascensione” è una rottura di livello, un passaggio nell’oltretomba, un superamento dello spazio profano e della condizione umana. Inutile aggiungere che il sacro dell’“altitudine” è convalidato dal sacro delle regioni atmosferiche superiori e, quindi, del Cielo … Ne consegue che la consacrazione mediante rituali di ascensione o scalata di monti, o salita di scale, è valida perché inserisce chi la pratica in una regione superiore celeste. La ricchezza e la varietà del simbolismo dell’“ascensione” sono caotiche soltanto in apparenza; considerati nel loro insieme, tutti questi riti e simboli si spiegano col sacro dell’“altitudine”, cioè del celeste. Trascendere la tradizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra (tempio, altare) per mezzo della consacrazione rituale o della morte, si esprime concretamente con un “passaggio”, una “salita”, un’“ascensione”” [Eliade 1976: 113-14].


Per di più “San Giovanni della Croce rappresenta le tappe della perfezione mistica per mezzo di una Subida del monte Carmelo, e illustra da sé il proprio libro con una montagna dalla lunga e faticosa ascesa. Tutte le visioni e tutte le estasi mistiche comprendono una ascensione al cielo. Secondo attesta Porfirio, Plotino conobbe questo rapimento celeste quattro volte durante tutto il periodo della loro convivenza. San Paolo fu anch’egli sollevato fino al terzo cielo” [Eliade 1976: 120-21].


Ancora Eliade [1976: 239] presenta poi una disamina più puntuale: “la pietra su cui si era addormentato Giacobbe non era soltanto la “casa di Dio”, era anche il luogo dove, per mezzo della “scala degli angeli”, Cielo e Terra venivano posti in comunicazione. Di conseguenza il betilo era un “centro del Mondo”, come la Ka’ba della Mecca o il Monte Sinai, come tutti i templi, palazzi e “centri” consacrati ritualmente. La qualità di “scala” che unisce il Cielo e la Terra derivava da una teofania effettuatasi in quel punto; la divinità che si mostrò a Giacobbe sul betilo rivelava, in quel momento, il luogo ove poteva scendere in terra, il punto ove il trascendente poteva manifestarsi nell’immanente”.


Lo studioso rumeno ricorda inoltre “alcune credenze intorno all’omphalos (“ombelico”) del quale Pausania dice (X, 16, 2): “Quel che gli abitanti di Dodona chiamano omphalos è fatto di pietra bianca e si ritiene che occupi il centro della terra, e Pindaro, in una delle sue odi, conferma questa opinione”. Molti lavori sono stati pubblicati sull’argomento … Una tomba, considerata come punto d’interferenza del mondo dei morti, del mondo dei vivi e di quello degli dei, può essere contemporaneamente un “centro”, un “omphalos della Terra” … Il luogo, ove poteva stabilirsi la comunicazione col mondo dei morti e con quello degli dei sotterranei, era consacrato come un anello di congiunzione fra i vari piani cosmici, e un tal luogo poteva trovarsi unicamente in un “centro”” [Eliade 1976: 240]. Inoltre “sovrapponendosi all’antico culto ctonio di Delfo, Apollo si annetté l’omphalos e i suoi privilegi. Inseguito dalle Erinni, Oreste è purificato da Apollo accanto all’omphalos, il luogo sacro per eccellenza, l’“ombelico” che col suo simbolismo garantisce una nuova nascita e una coscienza reintegrata” [Eliade 1976: 240-41].


Il simbolismo del centro rinvia direttamente ai miti relativi all’albero cosmico, simbolo dell’universo e suo pilastro di sostegno. Tale albero detto anche albero della vita, albero dai frutti miracolosi che danno immortalità a chi ne mangia (è chiara qui l’allusione pure alla proposta fatta dal serpente ad Adamo), incarna in sé l’idea di sorgente di vita e di vita immortale. “L’Albero della Vita è il prototipo di tutte le piante miracolose, che risuscitano i morti, guariscono le malattie o danno la giovinezza, ecc.” [Eliade 1976: 302]. Non a caso “il vero legno della Croce risuscita i morti, ed Elena madre di Costantino lo fece ricercare. La Croce fu fatta col legno dell’Albero della Vita, che stava in Paradiso, e da questo deriva la sua virtú. L’iconografia cristiana spesso rappresenta la Croce come Albero di Vita. Leggende sul legno della Croce e sul viaggio di Seth in paradiso circolarono per tutto il medioevo in tutti i paesi cristiani. … Adamo … mandò il figlio Seth a domandare l’olio della misericordia all’Arcangelo che custodisce la porta del Paradiso. … L’Arcangelo gli consigliò di guardare il Paradiso tre volte. La prima volta Seth vide la fonte da cui nascevano i quattro fiumi e, al disopra della sorgente, un albero secco. Al secondo sguardo, un serpente si avvolse intorno al tronco. Al terzo, vide l’albero innalzarsi fino al cielo: portava sulla cima un neonato e le sue radici affondavano nell’Inferno (l’Albero della Vita si trovava al centro dell’Universo, e il suo asse attraversava le tre regioni cosmiche). L’Angelo spiegò a Seth quel che aveva veduto, e gli annunciò l’avvento di un Redentore; gli diede poi tre semi del frutto dell’albero fatale gustato dai suoi genitori … dai semi … spuntarono nella valle di Hebron tre alberi, che crebbero di una spanna fino al tempo di Mosè. Questo, conoscendone l’origine divina, li trapiantò sul Monte Tabor o Horeb (“centro del mondo”). … Davide ricevette il comando divino di portarli a Gerusalemme (altro “centro”). … i tre alberi si fusero in uno solo, che servì a fabbricare la Croce del Redentore” [Eliade 1976: 303-0]. L’albero della croce del Cristo è origine di nuova vita, elemento sacrale. Ma “il simbolo che incorpora la realtà assoluta, la sacralità e l’immortalità è di difficile accesso. I simboli di questa specie si collocano in un “centro”, cioè sono sempre ben difesi, e giungere fino a loro equivale a un’iniziazione, a una conquista (“eroica” o “mistica”) dell’immortalità” [Eliade 1976: 392].


“Ma non si creda che questo “itinerario difficile” si attui soltanto nelle prove iniziatiche o eroiche …: lo ritroviamo in molte altre circostanze, per esempio nelle complicate circonvoluzioni di certi templi, come quello di Barabudur, i pellegrinaggi ai Luoghi Santi (Mecca, Hardwar, Gerusalemme, ecc.), le tribolazioni dell’asceta sempre alla ricerca della strada che lo conduca a se stesso, al “centro” del proprio essere, ecc. La strada è ardua, sparsa di pericoli, perché in realtà si tratta di un rito di passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita e dall’uomo alla divinità. L’accesso al “centro” equivale a una consacrazione, a un’iniziazione; all’esistenza di ieri, profana e illusoria, succede una nuova vita, reale, duratura ed efficace” [Eliade 1976: 393-94].


La ricchezza delle suggestioni eliadiane non si esaurisce qui. “In Mesopotamia un monte centrale (la “montagna dei paesi”) unisce Cielo e Terra. Tabor, nome del monte palestinese, potrebbe essere tabbur, e significare“ombelico”, omphalos; quanto al monte Gerizim era chiamato “ombelico della Terra” (tabbur eres). La Palestina, grazie alla sua condizione di luogo più alto (è infatti prossima alla cima della montagna cosmica), non fu inondata dal diluvio. Per i cristiani il Golgota era al centro del mondo, ed era insieme cima della montagna cosmica e sito ove Adamo era stato creato e sepolto. Sicché il sangue del Redentore aveva bagnato il cranio di Adamo, sepolto appunto ai piedi della Croce, e l’aveva riscattato” [Eliade 1976: 386-87]. Non solo. Va anche tenuto presente che “il paradiso dove Adamo fu creato di creta sta, ben inteso, al centro del Cosmo. Il paradiso era l’“ombelico della terra” e, secondo una tradizione siriana, era situato “sopra una montagna più alta di tutte le altre”. Secondo il libro siriaco La Caverna dei Tesori, Adamo fu creato al centro della terra, nello stesso punto ove era destinata a sorgere la Croce di Gesú” [Eliade 1976: 390].


La croce è uno dei simboli fondamentali in campo religioso (non solo per i cristiani, ma anche per gli antichi egiziani, i cretesi, i cinesi ed altri ancora). I suo bracci si intersecano in un centro e si inscrivono in un cerchio ma danno luogo anche ad un quadrato. La croce ha molte valenze simboliche: evoca la terra, su cui è infissa; è riferimento di partenza per ogni orientamento verso i punti cardinali; segue l’asse est-ovest, nord-sud, alto-basso, destra-sinistra, terra-cielo, terra-sottoterra (o viceversa, in ognuna delle direzioni); essa è sintesi e misura; è il cordone ombelicale del mondo legato alla sua origine; segna i luoghi sacri; indica le sepolture; sormonta gli altari o vi sottosta come punto d’intersezione delle strutture del tempio; è punto di irraggiamento; è elemento ascensionale, come una scala; è elemento di connessione, come un ponte; ricorda l’azione salvifica del Cristo; è speranza rivolta al cielo; è segno di sofferenza ma anche di amore per i nemici; è simbolo di passione e di resurrezione; dà la morte eppure dona la vita; è ignominia ed insieme regalità; segna una fine ed in pari tempo un inizio; è pure un omphalos, cioè punto di rottura dello spazio e del tempo; è polo del mondo (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, 13, 28) ed impronta cosmica (Gregorio di Nissa). In effetti “la croce assume i temi fondamentali della Bibbia. Essa è albero di vita (Genesi, 2, 9), Saggezza (Proverbi 3, 18), legno (quello dell’arca, delle verghe di Mosè che fecero sgorgare l’acqua, l’albero piantato sul bordo delle acque correnti, legno cui è legato il serpente di bronzo. L’albero di vita simbolizza in modo reciprocamente scambievole il legno della croce, da cui l’espressione usata dai Latini: sacramentum ligni vitae” [Chevalier, Gheerbrant 1982: 323].


Una delle trattazioni più documentate sul tema della croce è rintracciabile in Jean Hani, autore di un contributo nella raccolta di saggi curata da Julien Ries [Hani in Ries 1988: 47-65]. Il docente di Amiens così definisce la croce: “con il cerchio, il quadrato e il centro, costituisce uno dei simboli fondamentali usati dall’umanità. La croce stabilisce e determina la relazione con il centro mediante l’intersezione di due rette; genera il quadrato collegando i punti terminali degli assi con quattro rette; iscritta nel cerchio, poi, rappresenta uno dei simboli più sacri … il cristianesimo le ha attribuito una portata e una consistenza ineguagliabili”.


Tra le peculiarità della croce è il suo carattere orientativo: “la croce ha come propria funzione quella di orientare  l’uomo, e questo a due livelli. L’orientamento totale dell’uomo è dapprima un orientamento spaziale in relazione ai punti cardinali terrestri e in seguito diventa un orientamento diciamo, temporale, in relazione ai punti cardinali celesti. L’orientamento spaziale si articola secondo l’asse est-ovest, corrispondente al sorgere e al calare del sole; l’orientamento “temporale” s’articola intorno all’asse di rotazione del mondo, Nord e Sud e alto-basso, cioè intorno all’asse verticale che unisce i poli e taglia, all’orizzonte, il piano orizzontale terrestre. L’incrocio di questi due assi dà alla croce la sua terza dimensione, condizione per un orientamento totale. L’orientamento spaziale mette l’uomo in accordo con il suo ambiente vitale, la concordanza degli orientamenti spaziali e temporali lo mette in accordo con il mondo soprannaturale, trascendente: dall’ambito terrestre si passa a quest’ultimo attraverso l’asse verticale” [Hani in Ries 1988: 49-50].


Per di più “non si potrebbe esagerare l’importanza del centro nel simbolismo della croce. Il centro è il punto in cui l’asse polare si incontra con il piano orizzontale; a livello metafisico è il punto in cui il “Raggio celeste”, divino, incontra la materia prima. Da questo punto si irradia in tutte le direzioni e queste, a livello cosmico, genereranno lo spazio e gli esseri che lo abitano” [Hani in Ries 1988: 51-2]. In tale prospettiva viene portato un esempio, quello “della città romana, strutturata intorno al cardo (asse nord-sud) e al decumanus (asse est-ovest). All’inizio della fondazione troviamo un rito augurale nel corso del quale l’officiante, con questi due assi tracciati sopra il suo capo, divide lo spazio celeste per costituire un templum, in modo che la città sia in un certo modo un templum terrestre; infine, al centro, dove i due assi si intersecano, si praticava un mundus, una fossa rotonda, rappresentazione del centro celeste, germe embrionale sottile della costruzione” [Hani in Ries 1988: 52]. D’altra parte nel cristianesimo “la chiesa regolare è costruita su uno schema cruciforme che è contemporaneamente una immagine del cosmo. Il suo orientamento secondo gli assi cardinali ne fa una croce piana e la sua elevazione ne fa una croce solida, tridimensionale in cui l’asse verticale si identifica con l’Axis mundi-schema cruciforme che è anche quello del corpo umano, in questo caso il corpo di Cristo che riassume il creato” [Hani in Ries 1988: 61]. Ancor più convincente, se possibile, è l’interpretazione che Hani fornisce come conclusione del suo saggio: “fare il segno della croce su di sé significa tracciare i due assi di questa croce sui due assi omologhi della struttura corporea: l’asse verticale parte dalla testa, che corrisponde al cielo nella simbolica tradizionale, e va verso il basso del busto, tradizionalmente assimilato al quadrato, immagine della terra; in seguito, l’asse orizzontale congiunge le due spalle. Si traccia così lo schema della creazione sul proprio corpo, che di questa creazione è un riassunto in virtù della corrispondenza del microcosmo e del macrocosmo; questo segno è nello stesso tempo il “segno del Figlio dell’Uomo”. I due assi si incrociano in mezzo al petto, al livello del cuore, centro vitale dell’essere e “luogo” dell’immanenza divina nell’essere creato” [Hani in Ries 1988: 62].


In realtà, secondo quanto scrive Julien Ries [1988: 45], “lo storico delle religioni dispone di una abbondante documentazione sulla croce. Esisteva nell’antica civiltà dell’Indo, nel mondo elamita e mesopotamico, nell’area, assai vasta, delle migrazioni ariane e delle culture nate da queste migrazioni; nelle civiltà precolombiane ed amerinde, nelle culture dei popoli senza scrittura d’Asia, d’Africa e di America. Troviamo la croce nell’induismo, nel buddismo, molti secoli prima della morte di Cristo. Tale universalità mostra che siamo qui in presenza di un simbolo essenziale, primordiale nella vita dell’homo religiosus”.


Anche Georg Simmel [1993: 113-4] si è soffermato a discutere della valenza della croce ed in particolare del crocifisso. Egli ne parla nell’ambito delle sue riflessioni sull’arte religiosa, subito dopo aver analizzato la figura della Madonna con il bambino: “il Cristo crocifisso, o il Cristo deposto dalla croce, sembra non avere la forza con cui potrebbe tornare a valere come il centro animatore delle vivide passioni che lo circondano. La salma, che palesemente obbedisce al pari di ogni altro pezzo di materia alla mera forza di gravità, a cui manca la direzione dello spirito: verso l’alto, nel dominio sull’inerzia materiale, non rende visivamente comprensibile la superiorità che egli pure deve esercitare. I mezzi pittorici per il superamento di questa contraddizione somigliano a quelli usati per il problema precedente”. Qui il riferimento è ovviamente alla rappresentazione della Madonna con il bambino. Ma anche il Cristo crocifisso ha una sua centralità. Infatti “anzitutto, anche qui la nudità agisce come fattore accentuativo; quindi c’è il fatto che questo corpo è proprio l’unico immobile tra tutti gli altri che sono drammaticamente in movimento. Infine anche in questo caso è proprio il suo esserci presentato come un dato di fatto a convincerci in modo tanto pregnante della sua incredibile forza attraverso l’opposizione rispetto alla sua giustificazione visibile”. Peraltro “il fatto che, grazie a taluni fattori imponderabili, l’apparizione del Cristo possa ciò che in verità non può questa è l’espressione pittorica della profonda paradossalità del cristianesimo; il fatto che venga preteso dall’anima ciò che in realtà è impossibile, dall’essenza terrena il raggiungimento di valori trascendenti, dall’imperfezione la perfezione. Il compito è reso tanto difficile da apparire irrisolvibile. Solo nel momento in cui esso viene tuttavia risolto, almeno idealmente o nell’apparizione del “sacro”, emerge l’incommensurabile potere dell’anima. Si salta, per così dire, lo stadio della “possibilità”; rispetto al compito assoluto del cristianesimo l’anima si trova nella condizione dell’impossibilità e tuttavia anche in quella del compimento e completamento; la “mediazione” di Cristo esprime in un certo qual modo la caduta dell’istanza del “poter-fare”, subentra un termine mediano ideale al fine di rendere percepibile il fatto che l’anima qui porta a termine ciò che non può. Questo fatto fondamentale del cristianesimo, che il credo quia absurdum esprime dal lato dell’intellettualità, è ripreso dall’arte nel momento in cui essa lascia esercitare a manifestazioni provviste di un’evidente capacità di convincimento effetti che esse non sono per l’appunto palesemente in grado di esprimere”. In questo stimolante passo di Simmel occorre seguire con molta cura il percorso dell’argomentazione proposta. Innanzitutto è chiaro che il Cristo crocifisso appare di per sé abbastanza depotenziato, impossibilitato a compiere atti rilevanti per l’intero genere umano. Un Cristo morente, sofferente, o già morto sulla croce, sembra potere ben poco; il suo “poter-fare” è sostanzialmente nullo, nella condizione in cui si trova. Eppure egli diventa centro di attenzione e capace di realizzare ciò che sembra assurdo, impossibile. Il suo corpo privo di spirito animatore è rilasciato verso il basso e non riesce – si direbbe – a dominare dall’alto, a manifestare la sua superiorità. Forse anche per questo il crocifisso viene collocato solitamente in posizione elevata, quasi a fargli superare una certa inferiorità dovuta alla sua postura somatica. Ma è soprattutto la rappresentazione artistica – pittorica o scultorea che sia – che consente di alludere al superamento del gap fra impossibilità e realtà, già facendo leva sulla stessa nudità ed immobilità del crocifisso, la cui situazione è eccentrica rispetto al contesto ma proprio per questo assume un carattere di centralità. Un corpo nudo ed immobile fra altri corpi rivestiti ed in movimento (sulla tela, sullo sfondo o comunque attorno ad esso) segna lo stacco, la diversità, ma soprattutto rinvia alla sua “incredibile forza” che è in grado di trascendere l’opposto, cioè il dato di fatto del suo stato di manifesta inferiorità come soggetto in fin di vita o già spirato. Avviene così che “l’apparizione del Cristo possa ciò che essa in verità non può”. Questo paradosso favorito dalla trasfigurazione artistica corrisponde perfettamente alla medesima capacità che il cristianesimo ha di trasformare un’impossibilità di fondo (quella per l’anima di raggiungere l’irrealizzabile, per il genere umano di attingere il trascendente, per degli esseri imperfetti di divenire perfetti) in una realtà concreta, grazie alla soluzione che “almeno idealmente” o con l’“apparizione del “sacro”” fa vedere il grande potere dell’anima, la quale partendo da una situazione di incapacità giunge però al “compimento e completamento”, grazie alla “mediazione” del Cristo e di fatto a quella della rappresentazione artistica. In definitiva il cristianesimo e l’arte compiono la stessa operazione: convincono in merito alla realizzabilità di quanto a prima vista risulta impraticabile.


Di tutt’altro avviso e tenore è la reazione di Freud a fronte del crocifisso. In una sua lettera del 10 settembre 1911 a Ludwig Binswanger l’inventore della psicanalisi confessa quale sia stata l’origine dei suoi studi su temi religiosi: “la frequenza dei crocifissi campestri qui in Tirolo, dove sono più numerosi di quanto lo fossero fino a poco tempo fa i turisti, mi ha indotto a studi sulla psicologia delle religioni dei quali qualcosa vedrà forse la luce, a tempo e luogo. È certo che dopo la pubblicazione non mi permetteranno di rimettere piede nel Tirolo”. Kerény [1969: 10], nella sua “Introduzione” all’opera freudiana su Totem e tabú, non si limita a riportare questa citazione ma aggiunge che “la sua intenzione però era di giocare un tiro non soltanto agli adoratori di crocifissi, ma anche agli etnologi… Vi sono alcune cose, nell’opera di Freud, che non si spiegano se non in base a un’audacia quasi bricconesca”.


Santuari e pellegrinaggi


Julien Ries distingue varie fasi nello sviluppo delle forme di santuario. In primo luogo parla delle grotte preistoriche, fra cui quelle celebri di Lascaux del periodo magdaleniano, che presentano pitture alle pareti le quali sono delle narrazioni di miti, fondamenti connotativi del primitivo homo religiosus. La fase ulteriore concerne il periodo neolitico con le rappresentazioni della dea madre e del toro. Successivamente, fra il VII ed il V millennio avanti Cristo, compaiono i primi santuari siriaco-palestinesi con altari e culti dei morti, simboli di vita e di morte. Nel IV millennio sorgono i templi sumeri, “dimora del dio”. “Il tempio mesopotamico” in particolare “è costruito su di una terrazza circondata da un muro di clausura che delimita il territorio consacrato al dio. All’interno si trova la sala principale con la statua divina e, in un angolo la ziggurat, torre a terrazze con i piani arretrati l’uno sull’altro, che collegavano il cielo alla terra e avevano sulla sommità l’“appartamento del dio” dal quale i sacerdoti scendevano con la statua del dio al momento delle grandi feste. Davanti al “santuario” della statua del tempio si celebravano le cerimonie del culto in onore del dio: offerte quotidiane, preghiere, adorazioni, partenze di processioni” [Ries 1995: 35]. Nel III millennio cominciano le costruzioni degli edifici sacri egiziani: “i templi sono l’abitazione degli dei sulla terra e luoghi di incontro dell’uomo con il divino. Essi sono dimore del sacro, sempre ricostruite sullo stesso luogo, delimitato una prima volta e consacrato alla divinità” [Ries 1995: 36].


Ries, di solito assai acuto nelle sue analisi, non manca di sottolineare un dato di notevole rilevanza sociologica: “per l’homo religiosus, lo spazio non è omogeneo. C’è da un lato lo spazio nel quale si svolge la sua vita quotidiana con l’alternarsi delle varie attività, ma dall’altra parte c’è una realtà spaziale nella quale avviene l’incontro con il Divino: è lo spazio sacro del santuario e del tempio che noi troviamo nelle diverse religioni” [Ries 1995: 36].


A sua volta Prandi preferisce insistere su una triade di base: “la sequenza santuari, pellegrinaggi, ex-voto esprime un fenomeno ad un tempo complesso e unitario …: ogni tentativo di definire l’uno o l’altro dei tre termini conduce necessariamente a utilizzare i due rimanenti per non incorrere nel rischio di fornirne un’immagine monca o quanto meno riduttiva” [Prandi 1995: 44].


L’inizio della storia dei santuari cristiani è attribuito da Prandi alla pratica delle visite alle tombe dei protomartiri romani. “Luoghi santi per la presenza delle reliquie di coloro che testimoniarono la fede con la vita, essi divennero i punti privilegiati dove chiunque poteva porsi direttamente in comunione con una santità sigillata dal sangue sacrificale. … Essi divennero i centri di una devozione il cui raggio si andò allungando verso le zone progressivamente acquisite al cristianesimo. Si venne così definendo una reciprocità tra luoghi santi e pellegrini … Ben presto le reliquie si sarebbero moltiplicate; non solo, ma avrebbero mostrato poteri miracolosi: di qui l’inventio, in particolare a partire dal VII-VIII sec., di sempre nuovi e spesso improbabili reperti quali, ad es., i molteplici chiodi che erano serviti per la Crocifissione, le spine della corona di Cristo, i pezzetti del legno della Croce, i capelli della Madonna” [Prandi 1995: 44]. Anche al castello di Belici si parla di capelli della Madonna, ma il riferimento non è ad una reliquia ma ad una pianta che cresce in cima al monte, mentre altrove (ad Utelle, nelle alpi provenzali, presso il santuario medioevale di montagna della Madonna della Misericordia dove “quel paesaggio splendido ha da solo orientato e suscitato la costruzione degli uomini. … le Alpi formano una ghirlanda di smeraldo intenso di porpora e di diamante; il vento che soffia insistente crea un clima maestoso sul monte dei miracoli”) “nei giorni dei pellegrinaggi i bambini cercano fra le rocce, le minuscole stelle di pietra scintillante che sono il dono e la grazia della Vergine” [Oursel 1979: 40].


Ma proprio “a partire dal Seicento la mappa dei santuari in Italia si farà sempre più densa. La maggior parte sono testimoni di miracoli e dunque meta di pellegrinaggi continui o stagionali. Diventano pure luoghi di raccolta di ex voto di ogni tipo: la triade santuario-pellegrinaggio-ex voto prima evocata diventa strutturale al fenomeno devozionale dell’epoca moderna e contemporanea” [Prandi 1995: 45].


La religiosità popolare meridionale (e non)


Si è quasi sempre associata la religiosità popolare al territorio meridionale italiano, quasi trascurando il fatto che forme similari costellano anche la realtà del resto del nostro paese. E si è anche ritenuto che la religiosità meridionale fosse una sorta di reazione alle direttive del Concilio di Trento [Avagliano: 257], quasi una modalità di recupero – da parte della popolazione – di caratteri suoi propri nell’espressività religiosa, soprattutto di tipo tradizionale. Anzi, come rileva Violi [1996: 2], è stato “considerato il tema nel quadro del rinnovamento degli studi sull’età della Controriforma” ed è stato “assunto il modello della parrocchia tridentina come il referente concettuale di una ipotesi di ricerca” collocata “sullo sfondo di riferimenti alla storia delle mentalità collettive, alla formazione del mercato e alla modernizzazione nella storia del Mezzogiorno”. In effetti ci si è occupati “del rapporto tra santuario e parrocchia” ritenendo “che la “persistenza fino ai nostri giorni” dei santuari sarebbe una “chiara indicazione della via non tridentina assunta dalla religiosità meridionale”. Tutte le classi sociali assumerebbero, pertanto, il santuario come “cosa propria e diversa dalla Chiesa organizzata””.


Indubbiamente questo carattere oppositivo-contestativo non manca nelle manifestazioni religiose popolari, ma è anche accertato il connotato della continuità fra parrocchia e santuario, tra religiosità ufficiale e religiosità popolare. Il caso del santuario di Castel Belici è emblematico in proposito: il culto del Crocifisso nasce e si sviluppa in un clima controriformistico, viene proposto in un ambito essenzialmente ecclesiale, torna ad essere ribadito attraverso forme similari nel territorio circostante, giunge fino al XX secolo ma in forme diluite, frammentate, quasi sulla soglia della scomparsa definitiva; ma proprio quando la cosiddetta chiesa ufficiale sembra abbandonare il filone di tale devozionalità popolare è lo stesso popolo che riprende possesso totale della sua espressività di fede e continua a celebrare i riti del passato, nonostante il disinteresse del clero ed anzi forse in grazia di tale situazione di “vuoto di potere gerarchico ecclesiastico” (il santuario di Belici è rimasto a lungo quasi del tutto incustodito). Di recente però le due parrocchie più vicine alla cappella del Crocifisso hanno ripreso ad averne cura, inserendo quel luogo di culto in un quadro pastorale a più ampia gittata, che non si limita alla celebrazione festiva del 3 maggio ma è preceduta da altre manifestazioni (fra cui i pellegrinaggi parrocchiali nei giorni di vigilia) ed è seguita da altri momenti rituali previsti dal calendario liturgico per commemorare la croce ed il Crocifisso (in particolare nella data del 14 settembre, giorno dedicato all’“Esaltazione” della Croce, ma anche in quella del 10 settembre, festa dell’Addolorata).  


Ha ragione Violi [1996: 21], inoltre, nel ribadire che “l’area delle influenze di ciascun santuario, non soltanto nel caso dei tradizionali luoghi sacri di confine, non coincide con i confini amministrativi delle regioni e delle province, ma è delineata da fattori religiosi e culturali diversamente diffusi sul territorio”. A Belici in effetti si è sul limitare fra le province di Palermo e Caltanissetta, ma neppure lontano da quelle di Agrigento e Catania (ed in realtà si registra la presenza di pellegrini provenienti anche da queste zone). La nostra indagine empirica mediante questionario mette chiaramente in luce il carattere diffusivo del culto del Crocifisso, fa emergere la centralità (essenzialmente regionale) del santuario beliciano, ne sottolinea il ruolo emblematico, ispiratore di altri riti, luoghi ed oggetti di culto similari.


In pari tempo viene ricordato che “il pellegrinaggio era inteso come un normale atto periodico necessario di una vita di nomadi condotta sui tratturi e sui sentieri malagevoli delle montagne, resistendo persino agli agi offerti dai progressi della nuova civiltà” [Violi 1996: 24].


Ma è soprattutto il periodo bellico che pare esaltare al massimo la funzione-chiave del santuario come punto di riferimento religioso per eccellenza, con peculiare riguardo all’immagine sacra che lo connota. Infatti “si registra, fin dal periodo iniziale della guerra, un incremento delle invocazioni individuali, per casi speciali e materiali e per l’incolumità fisica” [Violi 1996: 99]. In particolare “il riemergere dei caratteri materiali e particolaristici della pietà appare come un fenomeno di ritorno, oltre che come effetto di una secolare permanenza. … Mentre raffiora, talvolta, in contraddizione con l’immagine dominante dell’Italia cattolica, il dubbio che la vita cristiana e la civiltà siano assenti dalla stessa vita nazionale, di fronte a tanti lutti, di fronte alla probabilità espressamente prospettata di disgrazie, ferite, prigionia e morte, ciò che si ritiene essenziale è la vita eterna. Solo dall’alto può giungere l’aiuto efficace… La guerra ripropone una assoluta preminenza della visione della morte e della salvezza eterna, dei destini ultimi di chi è chiamato ad affrontarla”. Il Crocifisso di Belici è stato oggetto di grande devozione nei periodi coincidenti con lo svolgimento delle due guerre mondiali di questo secolo: la salvezza fisica o la liberazione dalla prigionia ricorrevano nelle preghiere dei soldati e dei loro familiari, come ci viene testimoniato in alcune interviste. Si faceva la promessa di un viaggio a piedi scalzi sino al santuario di Belici per ottenere salva la vita di un congiunto, del marito, di un figlio, di un fratello. E comunque si pregava intensamente per il ritorno dei prigionieri, per l’incolumità fisica dei combattenti, per la guarigione dei feriti, per la pace eterna dei morti.


Del resto il rinvio alla figura del Cristo sofferente è una costante della religiosità popolare, specie quando trova motivi di convergenza con situazioni esistenziali personali che sono drammatiche e dolorose. In proposito si possono citare numerose testimonianze. Valga per tutte, a titolo emblematico, una serie di affermazioni raccolte durante un’indagine sull’esposizione della Sindone: ““Tristezza per la sofferenza di Cristo. Come se fosse morto un fratello flagellato”. “M’è sembrato che il corpo martoriato del Cristo non fosse solo il suo, ma di ogni uomo della terra”. “Con gli ammalati ho avuto un’impressione più grande. Mi sono sentita uguagliata loro dalla sofferenza di Cristo” … “Ho chiesto a Cristo di spiegarmi il significato delle sue sofferenze…”. “Commozione. Sono rimasto colpito dal corpo con i segni delle spine, dal volto, che nonostante le sofferenze appare molto sereno e buono” [Garelli 1983: 90]. In realtà “la passione e la sofferenza di Cristo sono gli aspetti su cui ha meditato e riflettuto la maggior parte dei visitatori. Circa il 36% del campione individua infatti nel sacrificio di Cristo il messaggio più alto della Sindone, un messaggio in grado ancor oggi di interpellare l’umanità. Si riscontrano a questo livello alcuni dei contenuti specifici della tradizione religiosa cattolica, quali la funzione di redenzione della sofferenza di Cristo (il valore salvifico della sofferenza e del dolore di Cristo); la riattualizzazione della crocifissione e della passione in seguito alle colpe dei credenti e dell’umanità; l’identificazione del dolore dell’umanità con il dolore di Cristo; la scarsa capacità di sofferenza dell’uomo in rapporto a quella di Cristo; il senso del limite e della nullità dell’uomo e la confessione delle proprie colpe” [Garelli 1983: 106-7].


Sentimenti non dissimili si rinvengono nelle parole che il beato Giacomo Cusmano, sacerdote e medico siciliano, vissuto nel secolo scorso, indirizzava il 2 luglio 1877 alla sorella Vincenzina per consolarla delle sue sofferenze nel campo dell’apostolato: “guarda Gesù che pende dalla croce per la salute delle anime, senti la sete ardentissima che ha per la salute delle stesse e supera ogni ostacolo per cooperarti a salvarle. … Però se è vero ch’Egli è crocifisso da coloro che veniva a redimere, è pur troppo vero che morendo Egli vinceva la morte ed umiliato e percosso dai Suoi nemici nella Sua stessa umiliazione ne riportava vittorioso il trionfo!” [Falzone 1995: 196].


Tuttavia è anche vero che tale interpretazione del Cristo sofferente non esaurisce ogni possibilità di lettura del fenomeno devozionale relativo alla figura del redentore. Quest’ultima “investe una pluralità di rapporti, che vengono costituiti o giustificati, riscattati o convalidati in una complessa prospettiva e articolazione di significati”, come scrivono Lombardi Satriani e Meligrana [1976: 160], i quali trascrivono pure un canto popolare siciliano, basato su un dialogo fra un servo e Cristo [Lombardi Satriani, Meligrana 1976: 172]:


Un servu tempu fa, di chista piazza,


Cussì prijava a un Cristu, e cci dicìa:


– Signuri, ‘u me’ patruni mi strapazza,


Mi tratta comu un cani di la via;


Tuttu mi pigghia ccu la so’ manazza,


La vita dici ccu mancu hedi mia;


Si jò mi lagnu, chiù pejiu amminazza,


Ccu ferri mi castìia prigiunìa;


Undi jò vi preju, chista mala razza


Distruggìtila vui, Cristu, pi’ mia.


(Tempo fa un servo, di questo paese, / Così pregava un Cristo, e gli diceva: / – Signore, il mio padrone mi strapazza, / Mi tratta come un cane di strada; / Mi prende tutto con la sua manaccia, / La vita – dice – neppure è mia; / Se io mi lamento, minaccia ancor di più, / Mi condanna alla prigionia in ferri; / Per cui io vi prego, questa cattiva razza / Distruggetela voi, Cristo, per me. )


La risposta del Cristo è immediata e circostanziata:


– E tu forsi chi hai ciunchi li vrazza,


O pure l’hai ‘nchiuvati comu a mia?


Cui voli la giustizia si la fazza.


Né speri ch’àutru la fazza pri tia.


Si tui si’ omu e non si’ testa pazza,


Metti a prufittu ‘sta sintenza mia:


Iò non sarìa supra ‘sta cruciazza,


Si avissi fattu quantu dicu a tia.


(- E tu hai forse le braccia monche, / Oppure le hai inchiodate come me? / Chi vuole la giustizia se la faccia. / Né sperar che altri la faccia per te. / Se tu sei uomo e non sei un dissennato, / Trai profitto da questa mia affermazione: / Io non starei su questa crociazza, / Se avessi fatto quanto dico a te. )


Questo dialogo cantato non a caso è ambientato in Sicilia, dove – forse più che altrove – si nota una specifica dimestichezza fra la cultura popolare e la figura del Cristo crocifisso. Il colloquio è a tu per tu, quasi senza complessi di inferiorità da parte del servo (contadino?) che chiede vendetta contro la malvagità del padrone ma si sente rispondere che deve provvedere in proprio, difendendosi da solo, senza aspettare interventi dall’alto. Il tono d’insieme sembra rientrare compiutamente nel filone della religiosità popolare “come” protesta (in sostituzione di quella che è più tipicamente – e gramscianamente consapevole –  “di” protesta) [Cirese 1976: 116].


Si potrebbe anche tornare a discutere se tutta la cultura popolare, ed in particolare la religiosità, sia una modalità di protesta contro le istitituzioni dominanti. Il fatto è che molte manifestazioni sono difficilmente catalogabili entro categorie ben precise. Che senso ha definire “come” protesta la devozione verso il Crocifisso ligneo dalle braccia mobili, articolabili, scolpito dalla scuola dei Fantoni (sec. XVII) nell’area lombarda, appena qualche anno dopo la serie scultorea di frate Innocenzo da Petralia, le cui opere sono presenti sia al nord che al centro ed al sud? Le opere fantoniane e quelle innocenziane nascono certamente su committenza ecclesiastica ma vengono assorbite nell’alveo religioso-popolare ed ancor oggi sono oggetto di culto in un contesto di religione di chiesa sorretto tuttavia da un forte consenso di base. Che dire poi delle celebrazioni di teatro popolare che vedono nel nisseno la pratica della scinnenza, cioè della celebrazione drammaturgica del rito della passione e morte del Cristo in forma pubblica, profana, cioè letteralmente fuori del tempio, con larga partecipazione di fedeli in veste di organizzatori, protagonisti, spettatori? Anche in quest’ultimo caso l’immagine centrale è quella del Crocifisso, che così prosegue e prolunga nelle zone della Sicilia centrale la catena di riti devozionali dedicati alla figura del Cristo in croce. La rappresentazione drammatica della passione e morte è indicata anche con il nome di Martoriu, una vera e propria recita con numerosi attori nisseni, talora in tournée anche all’estero, com’è avvenuto nel 1995 con performances in Francia e Germania [Noto 1995: 5].


Giustamente è però da chiedersi, con Sciascia [1965: 34-5]: “ma è davvero il dramma del figlio di Dio fatto uomo che rivive, nei paesi siciliani, il Venerdì Santo? O non è invece il dramma dell’uomo, semplicemente uomo, tradito dal suo vicino, assassinato dalla legge? O, in definitiva, non è nemmeno questo, ed è soltanto il dramma di una madre, il dramma dell’Addolorata? … E parrebbe che, comunque intesa, la passione susciti nel popolo siciliano, un momento di autentico afflato religioso: ma in realtà si appartiene a una “contemplazione della morte” quale può esprimere un mondo assolutamente refrattario alla trascendenza. Se è possibile parlare di religione senza il trascendente, allora è religiosa questa “contemplazione della morte” che trova nella Pasqua la sua più acuta rappresentazione”. Non è agevole trovare prove empiriche sull’assenza della trascendenza. Ma non è neppur garantito che la contemplazione della morte espunga ogni riferimento alla dimensione metafisica. Ammesso pure che ciò sia possibile di fronte all’evento letale di una qualsiasi persona, come non immaginare neanche un barlume di trascendenza dinanzi alla morte del Cristo? La posizione di Sciascia appare qui drastica e senza alternative: ci sarebbero solo materialismo, rifiuto del misterioso, rigetto del divino. Coglie dunque nel segno Fiammetta Basile [1994: 165] quando commenta così lo scritto di Sciascia: “in realtà il senso del sacro che hanno i siciliani è irriducibile a ogni religione ufficiale: il suo nucleo è ancora sgomento, senso del dramma che incombe su tutta l’esistenza umana e che giunge al culmine al momento della morte”. Inoltre “questa fede ha accompagnato i drammi e le speranze di un popolo nel corso dei secoli, i suoi incontri con la divinità, l’accettazione della condizione umana. … Ed è, a ben guardare, una religiosità umile, modulata sui bisogni del quotidiano, nonostante le fantasie barocche di certe manifestazioni e di certi cerimoniali che, in alcuni momenti, hanno il sopravvento”.


Nel nostro caso, dunque, se è vero che il culto verso il Crocifisso di Belici nasce in piena epoca barocca tuttavia non ne restano gli orpelli, i riempimenti sproporzionati, le aggiunte posticce. La cerimonialità attuale è ridotta al minimo. Il ricco perizoma di un tempo non è più utilizzato. Non si attaccano più denari sulla statua. La modestia del tutto rispecchia in pieno la “religiosità umile” evocata sopra. Il Crocifisso è ridotto alla sua significatività essenziale.


D’altra parte la figura del Crocifisso ben si presta a fungere da simbolo sintetico ed attrattivo. Non a caso nelle zone vicine a Castel Belici, per esempio a San Cataldo, è evidente la centralità della devozione al Crocifisso: “è da sottolineare il dato della devozione cristocentrica che, del resto, risulta confermato da altri dati già noti. Si pensi agli altari, cappelle e chiese intitolate al Crocifisso e alle numerose feste celebrate in suo onore” [Bontà 1998: 28]. Ancora a proposito di San Cataldo si ricorda che “fin dai suoi inizi – il paese fu fondato nella prima metà del Seicento – la comunità si affida alla protezione del Crocifisso… Lungo il Seicento i sancataldesi assegnano nei loro testamenti legati e donazioni alla cappella del Crocifisso nella chiesa parrocchiale. Anche nella chiesa di S. Nicola da Tolentino (l’attuale Mercede), compare già nella seconda metà del Seicento l’altare dedicato al Crocifisso. Nel corso del Settecento la devozione al Crocifisso si diffonde ulteriormente. Numerose chiese si dotano di un altare o di una cappella dedicati al Crocifisso… Intorno agli stessi anni si dà avvio alla pia pratica di venerare nelle famiglie il Crocifisso detto lassa lassa la catina. … Agli inizi dell’Ottocento infine i Mercedari curano la festa dell’Invenzione della Croce e verso la metà del secolo si incomincia a portare in processione il Crocifisso di padre Pirrelli. La festa più importante dedicata al Crocifisso si celebra nella chiesa madre, la seconda domenica di ottobre e in quell’occasione – fin dal Seicento – si svolge un’importante fiera “alla quale sogliono concorrervi le città e le terre convicine”” [Bontà 1998: 28-9].


Un’ulteriore conferma della diffusività di tale simbolo-chiave della religiosità popolare meridionale in generale e centro-siciliana in particolare proviene anche dagli studi di Luigi Maria Lombardi Satriani [1982: 103]: “per quanto riguarda più specificamente la cultura folklorica del Sud d’Italia, oggetto prevalente del nostro impegno di ricerca, ricorderemo l’ampia diffusione nei paesi dei calvari, di cui abbiamo sottolineato, in altro nostro lavoro [Lombardi Satriani, Meligrana 1982], la funzione protettiva in quanto tomba simbolica di un morto paradigmatico. In questo nostro discorso il calvario ci interessa in quanto monumento che rievoca il sacrificio di Cristo, lo spargimento del suo sangue per la redenzione dell’umanità. Le scene della passione riprodotte nel calvario propongono alla pietà dei fedeli un Cristo piagato, sanguinante, crocifisso”. A Castel Belici il set dello spazio sacro presenta un continuum (che è tale anche per i pellegrini in visita) fra  Crocifisso in chiesa, calvario sulla punta estrema del colle e statua del Redentore che sovrasta da un alto piedistallo. Più di recente è stata allestita una via crucis, che completa l’itinerario legato al simbolo più significativo della cultura cristiana.


Appunto la via crucis è un elemento che risulta essere una costante in ambienti anche piuttosto diversi fra loro. Si pensi ad esempio al ruolo di tale strumento devozionale soprattutto in Val Camonica a partire dalla prima metà del Settecento, grazie all’azione dei francescani [Signorotto 1978; Ferri Piccaluga 1978; 1980]. Ma non va trascurata l’azione svolta anche dai religiosi passionisti, promulgatori di varie iniziative legate alla passione di Cristo e promotori (sin dagli inizi del XX secolo) di una rivista di spiritualità completamente dedicata, come recita il titolo, a Il Crocifisso. Il sorgere di più progetti pastorali ha talora riempito probabilmente oltre misura gli spazi di devozione. Come ha scritto Cataldo Naro [1996: 8], “forse è vero che nel passato l’attenzione credente si è concentrata, piuttosto esclusivamente, almeno in alcune correnti di spiritualità e di devozione, nella considerazione delle sofferenze di Gesù durante la sua passione”.         


La letteratura orale popolare è ricchissima di riferimenti alla passione di Cristo ed alla sua morte in croce. Vi è poi tutto un filone di poesia religiosa popolare che già Paolo Toschi [1935] aveva studiata in modo approfondito e che Giovanni Battista Bronzini (1984: 254) ha riconsiderata più di recente nel contesto della tradizione orale, scrivendo fra l’altro che “i predicatori francescani furono i  maggiori promotori di rappresentazioni della passione”, non solo attraverso le loro prediche quasi drammaturgiche ma con la presenza stessa del Crocifisso sul pulpito, quale protagonista visibile e mobile, secondo la gestualità agita dal religioso in funzione di narratore e commentatore della passione. Per la Sicilia in particolare appare meritorio il lavoro di raccolta da parte di Cusimano [1951] per il Trecento ed il Quattrocento. Ma la tradizione risale ancora indietro nel tempo con lo studio di Alfonso Prandi [1967] sui Crocifissi di Cividale. E comunque sulla passione di Gesù ancor oggi la tradizione popolare presenta contenuti originali e significativi [Tommasini 1980: 77-84].


Di tutto questo sembra non accorgersi molto il Primo Sinodo Diocesano della Diocesi di Caltanissetta [1996: 33-53] che nel suo documento su “Liturgia e pietà popolare” non affronta direttamente la questione del diffuso culto popolare verso il Crocifisso e mette l’accento piuttosto sulle prescrizioni, senza una previa e documentata analisi storico-sociologica, facendo così il paio con l’altro documento del Vicariato foraneo di San Cataldo [1996], anch’esso pregiudizialmente ben critico nei riguardi della religiosità popolare ma attento, comunque, alle devozioni locali verso il Crocifisso. Vi è poi chi ha invece un approccio più calibrato nei riguardi della pietà popolare sancataldese [Naro 1997].


L’evento rituale


Il rito è probabilmente da considerare una sorta di fatto sociale totale, segnatamente dove fa capo ad un ambito relativamente ristretto, ad un’area abbastanza definibile e limitabile, come nel caso del viaggio al santuario del Crocifisso di Belici. Il concetto di fatto sociale totale deriva da Marcel Mauss [1965: 286-8] secondo il quale è possibile guardare sociologicamente ad eventi anche minori ma ridotti solo nelle dimensioni, mentre conservano la capacità di illustrare le caratteristiche di un’intera comunità, di un gruppo umano esteso. Occorre procedere con cautela, onde evitare generalizzazioni indebite ed infondate, tuttavia si tratta di fatti sociali che alludono chiaramente alle dinamiche di maggior rilevanza ed alla complessità delle azioni sociali. Il pregio maggiore dei fatti sociali totali è di riuscire a spiegare fenomeni più articolati a livello sociale e ben al di là degli eventi considerati.


L’esperienza rituale va però considerata nelle sue diverse sfaccettature. Essa può essere ambigua, polivalente, si inserisce in un quadro specifico di cultura e produce cultura. Di recente Gianmarco Navarini [1998] ha condotto una documentata analisi sul rito come concetto sociologico, individuandone la funzione di “cemento sociale”, “costruzione della realtà”, “linguaggio terapeutico”, “luogo del potere”, giungendo anche ad una proposta di definizione: “una forma sociale di azione, dal carattere simbolico e ripetitivo, orientata alla rappresentazione di una scena in cui differenti attori, sottomessi a regole comuni, partecipano alla costruzione di una dimensione sacrale” [Navarini 1998: 22]. In questa prospettiva non è difficile collocare anche il viaggio dei pellegrini di Belici, contraddistinto da un linguaggio comunicativo, da regole esplicite o implicite e sostanziali o cerimoniali, nonché da una ripetizione periodica che dà luogo ad una sequenza pluriennale, come pure da simboli molteplici (ma con il Crocifisso come preminente) che traducono in forma culturale i bisogni umani e sono veicolo per idee e concetti. Un ultimo, fondamentale carattere concerne la “competenza di confine”, che ben si attaglia alla situazione del culto beliciano: “l’attuazione di un rituale comporta la costruzione sociale di uno spazio e traccia la presenza di un confine, ovvero di una linea di separazione tra una specifica zona e il resto del territorio. Lo studio empirico di un rituale è pertanto anche osservazione dei modi in cui i confini simbolici vengono costruiti e dei modi in cui all’interno del territorio da essi delimitato gli attori celebrano il proprio stare insieme” [Navarini 1998: 28]. Il rito comporta anche una “esperienza del margine e del confine”. In particolare trattasi di “un modo competente di organizzare l’interazione sociale con una specifica scenografia, dei confini, delle dinamiche, dei ruoli, dei tempi, degli spazi che attingono da una porzione di senso di chi vi partecipa. Ogni individuo che appartiene a un gruppo sociale è a conoscenza dei riti in uso dalla collettività ed è in grado di riconoscerli quando questi vengono messi in atto. Ciò significa che l’attore sociale che partecipa al rito è un attore competente: è in grado cioè di riconoscere la coesistenza delle caratteristiche di regolazione, di ripetizione e azione simbolica presenti nella situazione” [Navarini 1998: 29]. Infine viene ribadita “la competenza di confine, una capacità cognitiva e contingente all’azione che ci permette di distinguere la differenza tra due territori, quello rituale e quello non rituale, quello interno, simbolico-ripetitivo-regolato, e quello esterno, ordinario, strumentale o di altro tipo” [Navarini 1998: 30].


Il rito è sovente anche una festa, cioè un’interruzione del ritmo lavorativo quotidiano. “In quanto pratica istituzionalizzata fondata sulla ripetizione di certe forme stabilite di comportamento, la festa è un rito, che però può contenere al suo interno attività rituali diverse o può essere associata, in quanto momento in cui si consumano in comune cibo e bevande, ossia come banchetto o convivio, a celebrazioni di vario tipo … Inoltre le feste possono essere anche accompagnate da manifestazsioni come le danze, … le forme più o meno sfrenate di baldoria e di licenza concernenti sia l’ingestione di alimenti e di bevande che i rapporti sessuali” [Ciattini 1997: 287]. A Belici questa morfologia festiva è riscontrabile solo in parte. I comportamenti appaiono più contenuti. Tuttavia si racconta che in passato il ballo era una costante, nei momenti di veglia serale e comunque collocati in luoghi e tempi separati da quelli rituali liturgici.


Peraltro è da rilevare, insieme con la Ciattini [1997: 292], quanto le feste, “se non del tutto inventate come in molti casi, siano sempre l’espressione di una relazione attiva e selettiva nei confronti di istituzioni tradizionali o almeno percepite tali”. Ciò è apparso vero a Castel Belici soprattutto fino a qualche tempo fa. Ora il connotato di alternatività è meno rilevabile, comunque risulta meno conflittuale.


Alla base del rito si trova sovente un mito, un racconto leggendario. La “miracolosa” produzione del Crocifisso di Belici ad opera di un pastorello o la realizzazione scultorea ad opera di frate Innocenzo da Petralia hanno entrambe  qualche precedente illustre: ad esempio il Volto Santo, Crocifisso che è supposto essere stato intagliato da Nicodemo a Gerusalemme e che poi è giunto “misteriosamente” nella cattedrale di Lucca.


Singolare è poi la coincidenza di qualche particolare con la vicenda di un altro Crocifisso, anch’esso ligneo, scolpito da frate Angelo da Pietrafitta (Cosenza) nel 1694 per la chiesa di San Rocco a Matera. Il santo patrono degli appestati è molto amato dai contadini ed è celebrato, insieme con il Crocifisso, nell’ultima domenica di aprile. “La gente vi accorre, partecipa alla celebrazione, si commuove davanti a quella bella immagine del Cristo sofferente sulla croce. Non da meno come nei vecchi tempi dicevamo, giacché i materani hanno sempre attribuito a quel crocifisso un grande carisma e la elargizione di speciali grazie celesti” [Pizzilli 1995: 9]. Pure il bandito Vito Eustachio Chita, soprannominato Chitarridd, era un devoto del Crocifisso di San Rocco. Infatti il 26 aprile 1896, ultima domenica del mese, si era recato, incurante del rischio che correva, a rendere omaggio al Crocifisso e ad ascoltare messa. Scoperto, venne ucciso in un conflitto a fuoco: i carabinieri regi trovarono sul suo cappello un’immaginetta di Gesù Crocifisso, da lui acquistata poco prima. A seguito di tale episodio venne composto un canto in cui si inneggiava al “Miracolo del SS. Crocifisso”: “E di Matera il popolo sì, vive oggi beato, perché la grazia ebbesi del Santo Crocifisso quel giorno che il brigante piombò nel cupo abisso”. Al di là di qualsiasi riflessione critica sul contenuto di questo canto, sta di fatto che entrambi, bandito e popolo, denotavano un forte sentimento che li legava al Crocifisso.


Tra le celebrazioni del Crocifisso che costellano il territorio italiano alcune non rispettano le date liturgiche. Così è per esempio per il Crocifisso di Cagnano Varano in provincia di Foggia: la celebrazione ha luogo il venerdì che precede il 23 aprile, il che significa – di solito – dopo la Pasqua e comunque nel giorno della settimana che più direttamente rimanda alla passione e morte del Cristo. A Mazzarino (Caltanissetta) la festa ha luogo la prima domenica di maggio.


Rispettano invece la data del 3 maggio, come a Belici, i comuni di Pescia (Pistoia), Melilli (Siracusa), Castronuovo e Monreale in provincia di Palermo, Sutera (Caltanissetta) e Pastena (Frosinone). In quest’ultima località il rito è assai articolato: sin dal Medioevo la cittadina ha come patrona la Santa Croce. Dal 1866 si svolge la Fiera della SS. Croce, che dura tre giorni, fino al 5 maggio. Un Mastro di festa conserva a casa sua una reliquia del legno della croce di Cristo, consegnatagli dal parroco con la cerimonia dell’Abbusso, che consiste nel bussare tre volte sull’uscio del predestinato alla custodia dell’oggetto sacro. Nella vigilia della festa viene uccisa una giovenca, detta Vitella della Croce (sulla sua fronte è posta una croce), vittima sacrificale (come il Cristo) le cui carni vengono distribuite fra i cittadini. Viene pure tagliato il maggio, l’albero più alto del paese, in genere un cipresso, scelto dal Mastro di festa: la designazione avviene con un taglio a forma di croce sulla corteccia del tronco. Risulta così molto evidente il nesso fra albero della vita e croce crisitana. Dopo il taglio al grido “Viva la SS. Croce” (con il primo colpo di accetta inferto dal Mastro di festa, non prima di essersi fatto un segno di croce), l’albero è portato in processione da coppie di buoi, che si avvicendano secondo una conta a cura dei bovari stessi. In piazza poi, il medesimo albero viene utilizzato per il gioco della cuccagna. In definitiva festa della croce e calendimaggio si coniugano insieme. Lo stesso avviene presso gli etiopi copti, che celebrano al medesimo tempo, il 17 settembre, Mascal cioè il giorno della Santa Croce e la fine della stagione delle piogge cioè l’inizio della stagione secca, danzando attorno ad un rogo e partecipando poi ad un convito offerto dal capo del villaggio [Grossi 1992: 366].


C’è un altro dettaglio non trascurabile ed affine a quanto avviene (o avveniva) a Castel Belici. Ce ne parla Dante Grossi [1992: 368]: “l’accento religioso, e più propriamente di devozione alla SS. Croce, che si riscontra prevalente nelle feste del maggio pastenese, è sottolineata da un’altra suggestiva manifestazione che si svolge nella notte della vigilia della ricorrenza, cioè tra il 2 e il 3. In quella notte – come di veglia per un grande evento – le campane della chiesa suonano ad ogni scader dell’ora. In quel medesimo tempo, dal tramonto all’alba, alcuni devoti fedeli della SS. Croce si recano in pellegrinaggio sulla cima del Monte Solo ove, per l’appunto, è posta una grande croce. Questi ignoti pellegrini salgono l’erta del monte, facendosi luce con fioche lanterne ed in ordine sparso: sì che tali lucerne, alla distanza, sembrano lucciole vaganti sulle falde del monte, mentre le campane scandiscono le ore…”. Qualcosa di simile ha luogo a Pollensa, nell’isola di Maiorca: la sera del venerdì santo si sale, con torce accese, alla cappella del calvario (al cui interno è un Crocifisso del XIII secolo) lungo una ripida scalinata di 365 gradini, fiancheggiata da alti cipressi.


Ma il momento più significativo dei riti di Pastena è quello dell’Abbusso: a mezzanotte “dopo che l’orologio della piazza ha rintoccato i fatidici dodici colpi, il sacerdote si fa accosto alla porta … e bussa una prima volta, ma senza ottenere risposta. Bussa una seconda volta ed il silenzio continua a riempire l’aria d’intorno. Alla terza bussata, dall’interno si ode una voce che domanda: “Chi è?”. La risposta del sacerdote, semplice e carica di promesse, è: “La santissima Croce che viene a visitarvi!”. A questo punto è difficile frenare la commozione. Le porte della casa si spalancano, e tra lo sfolgorìo delle luci e il malcelato turbamento degli astanti, il Mastro di festa in persona, presente sull’uscio, riceve fra le braccia la santa reliquia, la bacia e la porge per il bacio devoto ai familiari” [Grossi 1992: 369].


Non lontano da Pastena e precisamente a Bassiano, in provincia di Latina, si venera un Crocifisso agonizzante scolpito nel 1673 dal laico francescano frate Vincenzo Maria Pietrosanti, autore anche di altri Crocifissi fra cui quelli di Bellegra (Roma), Ferentino (Frosinone), Nemi (Roma) – raffigurato come spirante -, Sezze (Latina) – rappresentato come morto -, Caprarola (Viterbo), Farnese (Viterbo), nonché dell’Aracoeli in Roma, dove l’artista morì nel 1694. Si racconta che scolpisse di venerdì, dopo intense preghiere e qualche mortificazione.


In particolare per il Crocifisso di Bassiano è registrata “la tradizione che non una mano terrena ma celeste compisse la testa. Poiché avendo il pio laico Fra Vincenzo già incominciato a lavorarla, non riuscendo a portarla a perfezione, scongiurava il buon Gesù che gli avesse ispirato il più pietoso atteggiamento. E un giorno di venerdì, uscito dalla stanzetta a pregare, la trovò perfettamente compiuta” [Lambiasi 1942: 36].


La sacralizzazione del territorio


Un importante santuario del Santissimo Crocifisso si trova a Treia, in provincia di Macerata. Ma invero l’Italia intera è ricca di chiese e cappelle dedicate a questa devozione. Sergio Contini [1980. 147-62], direttore della rivista passionista Il Crocifisso, a varie riprese sin dal 1965 ha raccolto brevi monografie sui Crocifissi più noti, regione per regione. Per la Sicilia sono stati considerati quelli di Caltanissetta (detto “Signore della Città”), Gela e Mussomeli (quest’ultimo detto “della Chiesa dei Monti” ed opera di frate Umile da Petralia) in provincia di Caltanissetta, Carini e Monreale (in provincia di Palermo), Calatafimi (in provincia di Trapani), Licata e Siculiana (in provincia di Agrigento), Aidone e Nicosia (in provincia di Enna), Catania – l’uno detto “della Buona Morte” e l’altro “dei Miracoli” -, Caltagirone (in provincia di Catania) – detto “del Soccorso” -. Ma vari altri Crocifissi avrebbero meritato almeno una menzione, a partire per esempio da quelli che si venerano nella chiesa di San Girolamo a Termini Imerese (Palermo) ed in Santa Maria La Nova, cattedrale di Caltanissetta (dove oltre il Crocifisso è presente anche la singolarità di un altare con un Cristo Redentore che imbraccia una grande croce). A San Cataldo (Caltanissetta) merita di essere citato anche il dipinto de “Il Crocifisso con le Anime del Purgatorio”, opera di Carmelo Giunta che lo eseguì nel 1867 per la chiesa dell’Addolorata [Dell’Utri, D’Orto, La Mattina, Riggio 1996: 19, foto 3]. Ancora in provincia di Caltanissetta, a Mazzarino, è degno di menzione il Crocifisso detto “dell’Olmo”, cui è collegata l’omonima confraternita, nota anche come “Fratelli della bara”, già attiva nel 1693 [Ferrigno 1993: 8] ed attualmente molto numerosa giacché conta circa settecento iscritti.


Sono abbastanza cospicui gli elementi di coincidenza fra i vari culti: dal periodo di inizio delle pratiche devozionali (in particolare nel XVII secolo) ai racconti più o meno documentati sulla realizzazione delle sculture lignee, alle manifestazioni popolari che accompagnano le celebrazioni festive.


Eccezionale resta in ogni caso l’impatto delle opere realizzate da due artisti di Petralia, frate Innocenzo, al secolo Giuseppe (detto anche Vanni) Calabrisi (1591-1648) e frate Umile, al secolo Giovanni Francesco Pintorno (1600 o 1601-1639). La loro produzione è così vasta da creare problemi di catalogazione, soprattutto per quanto riguarda le attribuzioni all’uno o all’altro od a loro allievi.


Il primo ha lasciato Crocifissi a Palermo, Furnari e Sant’Angelo di Brolo in provincia di Messina, Loreto (Ancona), Assisi (Perugia), Porretta Terme (Bologna).


Il secondo si era proposto di scolpire trentatre Crocifissi [Macaluso 1992: 20; Riggio, Dell’Utri 1986], a cominciare da quello che nel 1623 o 1624 realizzò per Petralia Soprana e che ora si trova nella locale Chiesa Madre dei SS. Apostoli Pietro e Paolo. Copiosa è la sua serie di Crocifissi scolpiti per chiese della Calabria: a Cutro e Polia (Catanzaro), Bisignano (Cosenza), Cosenza – ma di quest’ultimo non si ha più notizia -. A proposito del suo Ecce Homo di Calvaruso (Messina) si narra che il capo fosse stato scolpito da mano angelica. Altri suoi Crocifissi sono a Malta (dove si trova anche un Crocifisso di frate Innocenzo), Collesano (Palermo), Messina – nella chiesa di Portosalvo -, Milazzo, Mistretta e Mojo Alcantara (Messina), Nicosia e Cerami (Enna), Salemi (Trapani), Grammichele – di incerta attribuzione – e Randazzo (Catania). A Palermo cominciò il suo ultimo Crocifisso, completato poi da frate Innocenzo, per la chiesa di Sant’Antonino [Dell’Utri 1987: 62].


A parte le opere sicuramente di frate Umile e quelle attribuibili con qualche dubbio, sono stati segnalati come da lui eseguiti i Crocifissi di Catania – nella chiesa di Santa Maria di Gesù -, Acicatena (Catania), Agrigento – nella chiesa di San Calogero -, Naro (Agrigento), Caltanissetta – nella chiesa di Santa Flavia -, Caltavuturo e Mussomeli (Caltanissetta), Enna – nella chiesa di Montesalvo -, Agira, Piazza Armerina e Pietraperzia (Enna), Gangi (Palermo), Galati Mamertino (Messina), Ferla (Siracusa), Comiso e Chiaramonte Gulfi (Ragusa).


Come si può facilmente notare, quasi non vengono lasciati spazi privi di una sacralizzazione, che in realtà raggiunge ogni angolo recondito dell’isola. Questa estensione dello spazio sacro è poi accompagnata dalla creazione di reti di santuari e culti che insistono su un medesimo contesto. Si pensi all’ambito interessato dal Crocifisso di Castel Belici: tutt’intorno sono collocati altri tredici santuari, di cui sei a Caltanissetta (Redentore, Signore della Città, Madonna della Catena – dove ogni sabato di maggio si recano dei pellegrini scalzi -, Immacolata, Madonna di Fatima, San Michele), due a Mussomeli (Madonna dei Miracoli e Madonna delle Vanelle) e gli altri a Santa Caterina Villarmosa (Madonna delle Grazie), Recattivo (Madonna di Tagliavia), San Cataldo (Madonna delle Grazie), Sutera (San Paolino) e Campofranco (San Calogero).


L’accesso allo stesso santuario di Belici avviene da più vie, sottolineando così il suo essere al centro di un sistema reticolare quale punto di convergenza da Marianopoli come da Villalba, ma pure dai comuni delle Madonie come del cosiddetto Vallone.


La delimitazione dello spazio sacro e dei suoi punti cardinali di riferimento serve pure per l’esecuzione di un canto contadino in uso per la trebbiatura con la mula (bendata e costretta a girare in cerchio):


Attenta gran mula


‘ca na purtari na bona nova.


E chi nova ed arrivintu!


Sia lodato ogni momentu


Lu Santissimu Divinisimu Sacramentu


E … la bedda Matri di Gibilmanna,


‘ca na va guardari lu cuarpu e l’arma.


E … lu Signuri di Bilìci


Iddu iè lu veru Dia ‘ca murì ‘ncruci.


Alla bedda Matri di Tagliavia


‘ca ni guarda a tia e a mia.


A Santa Lucia


‘ca ni guarda di la vista di l’uacchi.


A Santa Rusalia


‘ca na va guardari di ogni pesti e malatia.


(Attenta grande mula / che ci devi portare una buona notizia. / E che notizia è arrivata! / Sia lodato ogni momento / Il Santissimo Divinissimo Sacramento / E … la bella Madre di Gibilmanna, / che ci deve proteggere il corpo e l’anima. / E … il Signore di Belici / Egli è il vero Dio che morì in croce. / Alla bella Madre di Tagliavia / che ci protegge te e me. / A Santa Lucia / che ci protegge la vista degli occhi. / A Santa Rosalia / che ci deve proteggere da ogni peste e malattia)


Il giro della mula corrisponde in linea d’aria alle diverse dislocazioni di alcuni fra i più famosi santuari siciliani: si comincia dalla Madonna di Gibilmanna presso Cefalù in provincia di Palermo, si gira in senso orario verso il santaurio del Crocifisso di Belici, si prosegue con la Madonna di Tagliavia a Recattivo tra Resuttano e Santa Caterina Villarmosa in provincia di Caltanissetta, si va verso sud dove si trova il santuario di Santa Lucia al Sepolcro a Siracusa e si completa il giro con Palermo e la sua patrona Santa Rosalia. La sequenza non è dunque casuale e rispetta un ordine preciso. Si può facilmente desumere che questa lode contadina sia tipica della zona a nord-est di Belici. Appare significativo soprattutto il legame fra sacro e profano in un contesto che è tipicamente quotidiano e lavorativo e dunque presumibilmente distante da influenze religiose dirette. Nondimeno i numi protettori dell’attività agricola e di chi vi è coinvolto sono ben presenti, stringono il set dell’azione in un cerchio tutelare invocato con il canto e legittimato dall’adesione di fede di chi lo esegue.


Conclusione: la sacralizzazione del tempo


Non solo lo spazio viene sottoposto ad una sacralizzazione diffusa. Anche il tempo calendariale è trattato allo stesso modo. Vale in questo caso l’esempio della cantata settecentesca denominata Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca S. Giuseppi in Betlemmi. Canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru di la città di Murriali, divisi in 9 jorna, pri la nuvena di lu Santu Natali di Gesù Bambinu, oggetto di un’accurata edizione di cui sono autori Francesco Conigliaro, Anselmo Lipari e Cosimo Scordato [1987], che hanno preso molto sul serio questo Viaggiu, “figura esemplare di espressione della religiosità popolare” [Bof 1987: 5] ma anche frutto di attenta elaborazione teologica, che talora però presenta qualche imperfezione formale nelle espressioni dialettali. Il testo originale venne pubblicato a Palermo tra il 1740 ed il 1768 dalla “Stamparia di la Divina Pruvidenza pri la Eredi d’Aiccardu”.  


Il viaggio è doloroso soprattutto per Giuseppe, che Maria cerca di consolare. Ma poi alla nascita di Gesù tutto si tramuterà in gioia.


Al quinto giorno la fatica risulta già gravosa (versi 223-8):


Siguitava lu viaggiu


San Giuseppi cu Maria,


suppurtandu ogni disagiu,


ogni affannu e travirsia.


E tu ingratu e scunuscenti


Si patisci ti lamenti.


(Continuava il viaggio / San Giuseppe con Maria, / sopportando ogni disagio, / ogni affanno e traversia. / E tu ingrato e sconoscente / Se patisci ti lamenti)


Il contenuto della cantata è un invito a considerare le sofferenze del viaggio di Maria e Giuseppe per trarne ammaestramento, stimolo, a sopportare con pazienza le difficoltà della vita. Da Maria in particolare viene l’esempio (versi 241-6):


Chi viaggiu dulurusu


chi fu chistu pri Maria,


ntra l’invernu rigurusu.


‘Ntra lu friddu a la campìa!


La Signura di lu celu


Ntra lu jazzu e ntra lu jelu.


(Che viaggio doloroso / che fu questo per Maria, / nell’inverno rigido. / Nel freddo fuori di casa! / La Signora del cielo / In mezzo alla paglia ed in mezzo al gelo)


Non è qui possibile ripercorrere e commentare tutto l’itinerario proposto da Binidittu Annuleru. Si rinvia per questo al documentato saggio di Cosimo Scordato [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: 33-56, in particolare 50-6, sul Viaggiu come senso della vita, mistero pasquale, dimensione escatologica], al contributo di Francesco Conigliaro [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: in particolare 60-3] ed a quello di Anselmo Lipari [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: in particolare 95, su “Una via segnata dalla Croce”].


In sintesi si può dire con Conigliaro [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: 40-1] che “se il Viaggiu rispetta profondamente i motivi e i temi religiosi della sua ispirazione, ciò non toglie che attraverso il racconto si possono intravedere ambiente, scenario, abitudini, comportamenti tipicamente siciliani. … Il viaggio è lu viaggiu: esso cerca e trova cioè in Sicilia le sue possibilità di senso, mentre a sua volta l’esperienza siciliana del viaggiu cerca il suo senso compiuto in ciò che avviene nei personaggi biblici di Maria e Giuseppe”.


Dal nostro punto di vista interessano in particolar modo due elementi. In primo luogo l’idea del viaggio è un tópos già presente nella cultura popolare siciliana almeno dal secolo XVIII, se non da prima. In secondo luogo il Viaggiu esemplare di Maria e Giuseppe è condotto e narrato in relazione alla figura del messia e del redentore, di cui il Crocifisso costituisce l’elemento simbolico per eccellenza in quanto simbiosi fra vita e morte, scambio-dono fra umano e divino e tra divino ed umano, tramite di comunicazione fra terra e cielo: dalla base della croce sino alla sua sommità, attraverso l’offerta sacrificale del corpo del Cristo uomo-Dio.


Come se non bastasse quanto citato sinora, anche nelle strade cittadine o in cima a qualche altura una serie di calvari ricorda l’evento cruciale della passione e morte di Gesù. In qualche caso, come a Montedoro (Caltanissetta), il calvario è divenuto anch’esso oggetto di culto, soprattutto in occasione della Settimana Santa.


Appunto tale momento centrale dell’anno liturgico dà adito a maifestazioni incentrate sulla croce, specie il venerdì  santo (celebre è la processione dei Misteri a Trapani), allorquando il Crocifisso lascia il suo luogo abituale nel tempio ed avanza in mezzo al popolo [Canta P. 1997: 61]:


tra due ali di folla muta


nell’odore degli incensieri


in una musica drammatica


i portatori del cristo vanno


e improvvisamente


le strade non sono più strade


ma sentieri ciottolosi


che si perdono in lontananza


negli erei1 fioriti


le case non sono più case


ma rupi contorte


cinte da strane necropoli


e cristo non è più cristo


ma un vecchio contadino


portato a spalle


tra i solchi della sua terra


Nota


1 Monti della Sicilia centrale.


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