Roberto Cipriani
Premessa
Per parlare correttamente e fondatamente della dignità femminile nel contesto cattolico occorre anche perlustrarne in primo luogo le remote radici, che affondano assai indietro nel tempo e che si sono poi riprodotte e ramificate sino ai nostri giorni. Insomma la storia in proposito è lunga, affascinante e ricca di sorprese, che contraddicono il comune sentire legato principalmente all’esperienza della quotidianità contemporanea.
Nella sua originale e didascalica ricostruzione di una sorta di mappa cronologica delle religioni (The Histomap of Religion edita nel 1966, ma già pubblicata da John B. Sparks nel 1943) la storica Anne Spark Glanz sostiene che già 160.000 anni fa la fecondità della donna era considerata una potenza naturale (che molto più tardi corrisponderà in qualche modo al concetto di mana, lemma di origine polinesiana che sta ad indicare una forza straordinaria presente in un soggetto umano o in un altro elemento naturale e che può estrinsecarsi attraverso pratiche rituali e/o sacrificali). Ma nel contempo mancava probabilmente pure la consapevolezza della funzione procreatrice maschile, di cui si è potuto avere contezza piena solo in epoche successive.
Risalirebbe in particolare a 120.000 anni fa l’attribuzione di un significato religioso all’unione generatrice, in stretta affinità con la potenza divina e con la sensazione di appagamento. Mentre ancora più recente (100.000 anni fa) sarebbe il sorgere di tabù e di cerimonie a contenuto sessuale miranti alla preservazione della capacità creatrice sia maschile che femminile.
Peraltro la religione come rappresentazione, in particolare come danza (femminile, ma anche maschile), è attestata già nel periodo dell’Homo sapiens,cioè nel paleolitico superiore (conclusosi verso l’8000 avanti Cristo, con il ritiro dei ghiacci): è quanto proverebbe una raffigurazione presente nelle grotte dell’Addaura sul versante occidentale del monte Pellegrino, nei pressi di Palermo.
80.000 anni fa invero i rituali non avevano relazione né con l’osceno né con il puro ed è solo con il passaggio dal nomadismo al sedentarismo (caratterizzato da una forma di agricoltura stabile) che si ebbe un aumento dei culti legati alla natura ed alla fertilità. Inoltre restava forte la dipendenza del genere umano dalla coltivazione del suolo e dalla presenza di animali (da accrescere sempre più di numero, grazie alla riproduzione). La stessa fertilità della flora e della fauna era associata a quella umana: si praticavano riti a carattere propiziatorio (soprattutto di tipo sessuale): 20.000 anni fa sorgeva il rito detto della Venere di Willendorf (o di Savignano), la quale era connotata da molti attributi della fecondità, cioè fianchi adiposi e grandi seni (che si ritrovano anche nelle grotte spagnole di Altamira ed ancor più nell’arte detta di Cro-Magnon, dal nome della località francese della Dordogna dove sono stati scoperti dei reperti risalenti al magdaleniano, cioè a circa 18.000-10.000 anni fa).
Ancora in Spagna, a Cogul, si trova una decorazione pittorica (realizzata 18.000 anni fa o un po’ più tardi) che rappresenta una danza di donne attorno ad un uomo.
Culti fallici compaiono in India qualche migliaio di anni dopo. Tali riti permangono nell’induismo con Linga (simbolo maschile) e Yoni (simbolo femminile).
Intanto cominciavano a svilupparsi le figura di dei tribali e re-divinità, mentre trovava diffusione anche il culto della dea madre, collegata alla natura ed alla fertilità (Iside, Astarte – protettrice delle prostitute, le quali operavano nel suo tempio -, Rea, Afrodite, Cibele – di cui è figlio Attis, protettore della natura e destinatario di un culto affine a quello cristiano -); presso gli Ashanti (popolazione sudanese attualmente nel Ghana) erano già presenti alcune dee della terra; presso gli egiziani si venerava Hator, dea madre raffigurata come mucca (mentre il bue era simbolo di Api).
L’era pre-cristiana
Tra il 4500 ed il 2500 avanti Cristo giungevano in Europa dall’oriente popoli ad organizzazione patriarcale (androcentrica), ma nel centro dell’Asia sopravviveva nondimeno il culto della Grande Dea (Nanaia o Anahita): Gengis Khan le si prostrava nove volte.
Nel nord-est dell’India era Leimaren la dea suprema, fonte della creazione e della parola sacra. Invece nell’isola giapponese di Hokkaiko prevaleva Fuchi-kamui, dea del fuoco e della casa.
In Africa presso i Bantu la parte del corpo femminile destinato alla procreazione era considerata un tempio ed era detta Lemba.
Presso i pellerossa Navajo c’era Asdzáá-nadleehé, la dea che si rinnova, mentre la madre cosmica era detta Shima.
Per gli Aztechi la dea della terra era Coatlícue, quella della fertilità Chicomecóatl, quella del mais Xilonen.
Presso i Maya si venerava una dea della procreazione, detta Ix Chel. E nelle Ande c’è tuttora il culto della Pachamama, cioè la madre terra. In Australia poi la gran madre ha il nome di Kunapipi.
Per gli Inuit, gli eschimesi del Canada, la dea per eccellenza è Nuliajok (o Sedna).
Singolare è infine il caso della Corea dove lo sciamano è quasi sempre donna (mudang).
Va anche ricordato che fra il 3000 ed il 2000 avanti Cristo è documentato in Egitto il culto fallico del dio Min. Presso i Fenici si venerava la Signora di Byblos.
Zeus (Giove) ed Era (Giunone) rappresentavano nel mondo classico greco-latino l’idea di unione (perpetuata più tardi anche nel calendimaggio, con il matrimonio fra il re e la regina di maggio). Presso i Sumeri c’era la dea luna. La grande madre-terra era venerata dagli Hittiti e dai Cretesi (al tempo di Minosse). La madre-terra greca era Gea, ma in particolare Demetra (Cerere) proteggeva le messi e Flora e Pomona la frutta.
Ermes (Priapo) era il dio fallico greco-romano. Nel contempo si sviluppava il culto di Dioniso (misteri dionisiaci), cui seguirono poi i misteri baccanali.
Eostric era la dea teutonica della fertilità (divenuta poi Ester, presso i cristiani). Soprattutto tra gli ebrei si ricordava il “seme di Adamo” e si rispettava il principio della vita negli animali.
Va anche detto che la concezione riguardante il condottiero vincitore era tale da farlo considerare un dio; lo stesso dicasi per il re, da trattare ugualmente come un dio per il potere esercitato.
Un ruolo importante hanno le tre consorti della trinità induista (Brahama, Siva, Visnu): Sarasvati (dea della sapienza), Lakshmi (dea della bellezza), Kali (o Parvati, moglie di Siva o Durga). Yashoda è poi la dea nutrice di Visnu. Sempre presso gli induisti i numi tutelari dei villaggi sono Mata, o Amba o Amma cioè mamma. Aditi è la dea infinita, Nirrti quella ctonia, Prthivi la grande terra, Kali è la dea feroce, Tripurasundari e Lakshmi quelle benefiche. Le dee consorti (tra cui Aindri), di derivazione sanscrita, sono obbedienti ai mariti, invece quelle locali sono più indipendenti. Infine va ricordato che il fiume Gange, detto Ganga, è una dea, regina di tutte le dee come personificazioni dei fiumi. Però va anche chiarito che la situazione è androcentrica: la lettura dei Veda è proibita alle donne, che per giungere alla liberazione ultima devono sperare di rinascere come uomini. La moglie mangia dopo il marito, non lo nomina ma lo serve. Durante il ciclo mestruale la donna non può accedere alla parte più interna dei templi (1).
Secondo una norma della legge ebraica era consentito solo all’uomo di ripudiare la donna e non viceversa. Lo stesso accadeva in epoca romana, durante la quale operarono pure delle diaconesse.
Gli inizi del cristianesimo
Nel III secolo dopo Cristo gli gnostici consideravano Maria di Magdala una apostola e permettevano funzioni sacerdotali femminili: non a caso nella cattedrale di Marsiglia c’è una raffigurazione di Maria Maddalena che evangelizza.
Grande importanza ebbe pure Elena (247/248-328/335), madre di Costantino. Dunque nei primi tre secoli c’è stata un’attribuzione di maggior potere alle donne (poi di nuovo nel XII e XIII secolo, nonché nel XVI e XVII, ma questi ultimi dati sono controversi). In campo cristiano è da menzionare Marcella, vedova romana, che con la sua seguace Paola (347-404) – più tardi detta la Vecchia – riuniva gruppi di donne altolocate e dedite ad una vita di pietà e povertà. Va citata anche Perpetua, sorella di Agostino e fondatrice di un ordine femminile.
San Gerolamo fu sostenitore della verginità femminile (“cesserà di essere una donna e sarà chiamato uomo”), favorendo così un’ambigua condizione di potere e subordinazione insieme. Quattro donne emersero fra le altre: Eudossia, Pulcheria, Teodora ed Irene.
Nel vangelo di Luca, 8, 1-3, già si parlava di varie donne operanti insieme con Gesù: «In seguito Egli se ne andava di città in città e di villaggio in villaggio, predicando e annunziando la buona novella del regno d’Iddio, mentre i Dodici erano con lui, come pure alcune donne, che erano state liberate da spiriti maligni e da malattie. Maria, detta Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna moglie di Cuza procuratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano coi loro beni». Di loro si è persa quasi ogni traccia storica: ma vi pone qualche rimedio Carla Ricci in un suo pregevole contributo (2).
È nel IV secolo che comincia a diffondersi il monachesimo femminile. Gregorio Nisseno parla di sua sorella Macrina (offrendoci così la prima biografia cristiana dedicata ad una donna) e ricorda in modo accorato la lamentazione funebre delle consorelle colpite dalla perdita della loro maestra, fatta oggetto di grande venerazione:
«È stata spenta la luce dei nostri occhi;
è stato tolto il lume della guida delle nostre anime;
è stata distrutta la sicurezza della nostra vita;
è stato tolto il sigillo dell’immortalità;
è stato strappato il legame della concordia;
è stato abbattuto il sostegno dei deboli;
è stato soppresso il rimedio dei malati.
Grazie a te anche la notte era per noi illuminata in luogo del giorno della tua vita pura;
ora invece anche il giorno si cambierà in tenebra» (3).
Secondo Elena Giannarelli che introduce, traduce ed annota l’opera del Nisseno, «il IV secolo è uno dei momenti chiave nella storia della Chiesa antica: caratterizzato dal diffondersi, da Oriente a Occidente, di un fenomeno importantissimo come il monachesimo, esso assegna soprattutto la definitiva affermazione della religione cristiana, con la conversione delle classi sociali più elevate dell’impero. Ciò avviene grazie all’apporto dell’elemento femminile, più aperto e disponibile ad accogliere novità religiose quando queste diano dignità e valore nuovi a una categoria definita dalla tradizione ebraica e pagano-classica come sinonimo di debolezza. La donna costituisce per il cristianesimo un problema notevole che proprio in questa età si cerca di risolvere» (4).
Ma qual è l’esemplarità biografica, teologica e filosofica insieme del caso di Macrina? «Attraverso la santità della protagonista si esalta nella sua realizzazione concreta il solo modo che l’essere umano ha di giungere alla perfezione. I presupposti sono: la rinuncia ai valori terreni, il superamento della propria dimensione fisica, l’imperturbabilità, una tensione continua verso Dio, l’abbandono totale alla sua volontà, il prevalere dello spirito sulla carne. “Filosofia” intesa in questo senso è il tema centrale dell’opera; lo si vede subito fin dalla premessa del libro: anche il genere letterario scelto è in linea perfetta con un simile assunto. Si tratta di una biografia filosofica; ciò consente di seguire il progresso del personaggio verso una dimensione superiore a quella propria dell’uomo comune.
Caratteristica del Nisseno è la concezione dinamica della virtù, per cui il raggiungimento della santità prevede una serie di tappe. In questo iter concepito in modo dialettico, dove ogni fase è un superamento della precedente, c’è un elemento immutabile: la vocazione, che non viene mai meno, malgrado ostacoli e opposizioni. Nel caso della sorella, Gregorio deve misurarsi con l’handicap naturale di Macrina, che è una donna» (5).
Agostino scrive di sua madre Monica, Gregorio Nazianzeno di sua madre Nonna, Gerolamo di varie donne, vergini e vedove.
Clemente Alessandrino (studiato soprattutto da Giuseppe Lazzati) è il teorico dell’uguaglianza fra uomo e donna.
Dopo qualche tempo, «nel nono secolo le donne cristiane, le loro famiglie e i loro consiglieri ecclesiastici avevano creato un’alternativa ai ruoli convenzionali consentiti alle donne nelle società precedenti. Nell’Europa cristiana, le donne devote potevano lasciare le famiglie, evitare il matrimonio e le gravidanze. Potevano diventare “spose di Cristo” e raccogliere i frutti della loro unione spirituale» (6).
In effetti «l’eredità lasciata alle donne europee del nono secolo dalla cultura greca, romana, ebrea, celtica e germanica si basava soprattutto su tradizioni che giustificavano e perpetuavano la loro subordinazione, ma in parte essa fu anche rappresentata da immagini e memorie di donne che conferivano loro potere. La vita e gli insegnamenti di Gesù di Nazaret, più tardi istituzionalizzati nella forma della fede e delle pratiche della Chiesa cristiana, contribuirono sia alle tradizioni basate sul potere, che a quelle basate sulla subordinazione della donna» (7).
«Le donne europee, come le donne di epoche precedenti, vissero quindi in una cultura in cui i valori, le leggi, le immagini e le istituzioni decretavano la loro inferiorità e imponevano la loro subordinazione agli uomini. La subordinazione femminile fu, tra le tradizioni ereditate dalle donne europee, la più potente e resistente» (8).
Il secondo millennio
Verso l’anno mille si diffuse un’idea ascetica, spiritualista della chiesa cristiana. E dopo un paio di secoli, secondo lo storico francese Duby, cominciò ad essere rivalutata la posizione delle donne. Lo studioso parigino del Collège de France si interroga sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle donne medievali, annotando: «Almeno, nel loro campo, sotto i veli dei quali l’autorità maschile le avvolge, nelle camere nelle quali vorrebbe tenerle ammassate, e dietro lo schermo che innalzano davanti agli occhi dello storico le invettive ed il disprezzo degli uomini, io le indovino, solidamente unite dai segreti che si trasmettono e da forme d’amore compatibili a quelle che fanno, all’epoca, la coesione delle compagnie militari, investite di grandi poteri – sulla servitù, per la loro condizione di mogli, sulla discendenza, per la maternità, sui cavalieri che le circondano, per la loro cultura, le loro attrattive, e per le relazioni che sono sospettate di intrattenere con le potenze invisibili -, io le indovino, ripeto, forti, molto più forti di quanto non immaginassi, e perché no, felici, così forti che i maschi si danno da fare per indebolirle con le angosce del peccato. D’altra parte mi è sembrato di poter situare verso il 1180, quando il prepotente slancio di crescita che trascinava l’Europa si trovava nell’acme del suo vigore, il momento in cui la posizione di queste donne fu in parte rivalutata, in cui gli uomini si abituarono a trattarle come persone, a discutere con loro, ad allargare il campo della loro libertà, a coltivare quei doni particolari che le rendono più vicine al soprannaturale» (9).
Ma non è questa l’unica lettura possibile, giacché secondo un’altra prospettiva ed appena qualche tempo dopo «nel tredicesimo secolo gli atteggiamenti nei confronti dei ruoli delle donne all’interno della Chiesa si erano cristallizzati intorno a queste preoccupazioni maschili, questo miscuglio di paure tradizionali della femmina come essere sessuato. Consentire, sì, alla donna una vita di devozione religiosa, ma, visti i pericoli inerenti al suo essere, questa vita deve essere fortemente limitata e controllata. Le monache devono essere tenute separate dagli uomini, anche religiosi. Le proibizioni di monasteri associati, dell’insegnamento delle monache ai bambini maschi, di qualunque contatto non strettamente necessario tra le donne e i loro confessori, guadagnarono un grande appoggio. Fatto ancora più importante, le donne devono essere tenute in rigido isolamento. Non devono lasciare il convento, non devono avere contatti con nessuno al di là delle sue mura» (10).
Frattanto la stessa verginità era scelta come modo primario di sottrarsi alla subalternità rispetto al maschio. La chiesa istituzionale aveva cercato di mantenere comunque la donna in un ruolo di sudditanza. Le prove documentali non mancano. Ancora Duby ce ne dà conferma attraverso l’analisi di un testo indirizzato dall’abate Adamo di Perseigne ad una nobildonna: «Appare con estrema evidenza ciò che gli uomini di Chiesa pensavano del corpo della donna e ciò che volevano che ne pensassero le stesse donne: “un ricettacolo di escrementi”, ripetevano. In ogni caso la tana del peccato corruttore, dacché i nostri primi progenitori per la colpa di Eva furono cacciati dal Paradiso terrestre, a causa delle pulsioni incontrollabili della carne. Ne consegue che le dame, queste ragazze che non hanno conservato l’integrità, l’innocenza del corpo, devono distaccarsene, farlo tacere quanto più è possibile. Abbandonarlo, certamente, all’uomo che ricevette solennemente la loro carne peritura, che se impadronì e che arde ancora dal desiderio di trarne godimento. Che l’unione, la commixtio dei sessi, si compia. È cosa necessaria: è la legge del matrimonio, il dovere degli sposi. L’ideale sarebbe che questo dovere fosse penoso. Per molte donne in questo tempo lo era fisicamente. Comunque sia, la dama si guardi, con tutte le sue forze, dal parteciparvi. Resti di marmo, contratta, con i denti serrati, resista, rifiuti di farsi traviare dal piacere» (11).
Parole austere, tipiche di un ambiente, quello cistercense, poco propenso a compromessi o cedimenti in favore di una certa flessibilità.
In pari tempo, invero, anche il potere delle badesse era riconosciuto uguale, di fatto, a quello dei vescovi. E l’influenza delle donne si esercitava anche sugli uomini, come nel caso di Matilde di Canossa, che fece incontrare Enrico IV e Gregorio VII nel gennaio 1077 e fu esaltata in un poema di quasi tremila versi (Codice Vaticano Latino 1922) dal monaco Donizone, il quale terminò la sua opera dal titolo Vita di Matilde di Canossa dopo la morte della contessa, di cui scrisse che «lasciò dunque la parte del re e, pia, ospitò per tre mesi il papa Gregorio, a cui come Marta servì; sempre attenta, coglieva, con l’udito della sua mente, ogni discorso del papa, al par di Maria le parole di Cristo» (12).
Matilde fu elogiata anche da Rangerio, vescovo di Lucca, che nella sua Vita metrica di Sant’Anselmo così la ricorda: «non appena conobbe le gioie malvagie della misera carne, ne ebbe orrore e subito se ne vergognò. Non poté conservarsi al primo marito come avrebbe voluto, e al suo uomo appena fanciulla si sottomise. Le parole materne, la potenza di una stirpe importante, la trattennero dal suo pio volere. Ma quando il Signore la sciolse dalla madre e dall’uomo, dispose ella sola al solo Dio di votarsi».
Che dire poi del caso di Eloisa (1101-1163) ed Abelardo? Ella fu dotta, famosa, eroina del libero amore, e rifiutò il matrimonio ma non rinunciò ad avere un figlio: una monaca passionale, ribelle a Dio ed anticipatrice della liberazione femminile. Di lei Georges Duby dice che fu «donna sensibile, sensuale, ma della quale la sensualità fa la forza, perché è proprio quest’incendio, nell’intimo della sua natura femminile, che la spinge a passare, come dice Pietro di Cluny, da una saggezza profana alla vera filosofia, ossia all’amore di Cristo. Diventando modello e consolazione per tutte le nobili donne che, d’accordo con il proprio marito, entravano tardi in convento, e magari alcune rimpiangevano i piaceri che avevano avuto la possibilità di gustare talvolta nel letto nuziale. Ma era un modello anche per gli uomini: la sua storia, come quella di Maria Maddalena, non insegnava loro, per strapparli alla pigrizia e al sussiego, che le dissolutezze dell’amore, soffocate dalla virtù, sono in grado di rendere un corpo femminile, per debole e impastato di smanie che sia, più puro e più rigoroso del loro?» (13).
Nel XII secolo apparvero i Re-taumaturghi. Intanto San Bernardo di Chiaravalle diffondeva il culto di Maria ed il papa Innocenzo III imponeva la confessione, portando a compimento un progetto risalente ai primi anni del nuovo millennio ed in particolare al vescovo Burcardo di Worms ed al suo manuale pratico dal titolo Decretum: «invitare le donne, almeno le più nobili, a confidarsi con un uomo di Chiesa, era trattarle da persone in grado di correggersi da sole; ma era anche catturarle: la Chiesa le prendeva nella sua rete … La Chiesa decise di porre sotto il più stretto controllo la sessualità … La Chiesa divise di conseguenza gli uomini in due gruppi. Ai servitori di Dio vietò l’uso del sesso, lo permise agli altri, alle condizioni draconiane che essa dettava. Rimanevano le donne, il pericolo, perché tutto ruotava attorno a esse. La Chiesa decise di assoggettarle, e a questo scopo definì chiaramente i peccati dei quali le donne, per il loro temperamento, si rendevano colpevoli. Nel momento in cui Burcardo componeva la lista di queste colpe specifiche, l’autorità ecclesiastica accentuava il proprio sforzo per rigenerare l’istituzione matrimoniale, per imporre una morale del matrimonio, dirigere la coscienza delle donne: stesso progetto, stessa lotta. Fu un lungo processo; finì con il trasferimento ai preti del potere dei padri di consegnare la mano della figlia in quella di un genero, e con l’interposizione di un confessore tra il marito e la moglie» (14).
Cominciavano a diffondersi le beghine.
Restano peraltro esemplari i ruoli di santa Caterina da Siena (15) e di santa Caterina de’ Ricci (16). Ma anche quello di altre sante medievali, da Sant’Elisabetta d’Ungheria a Santa Chiara da Assisi, a Chiara da Montefalco, ad Angela da Foligno (17).
Però dal XIV al XVIII secolo migliaia di donne, accusate di stregoneria ed eresia, vennero bruciate dai cristiani (18).
Non scamparono all’accusa di eresia neanche le beghine. Papa Giovanni XII le condannò di fatto nel 1317.
In Europa, nel XVI secolo Teresa de Cepeda y Ahumada (1515-1582), detta di Avila, pensava alla riforma delle carmelitane, riportando l’ordine delle religiose all’antico rigore.
Nella stessa temperie storica si cominciava ad affacciare una nuova figura di laica, la zitella, propugnata in particolare dalla Compagnia di Sant’Orsola, fondata da Angela Merici, che vedeva una concreta possibilità di mettere insieme religiosità ed impegno nel mondo.
Secondo Gabriella Zarri si assisteva così ad una sorta di secolarizzazione della vita religiosa ed in pari tempo ad una nuova sacralizzazione della vita coniugale. In pratica la donna sposata viveva in un recinto sacro, sottoposta al controllo sociale: ogni suo rapporto familiare e sociale era rigidamente codificato e sanzionato (19).
Ne è prova, fra l’altro, il testo di un documento storico risalente al 1580 e relativo alla Visita Apostolica fatta dal vescovo di Melfi, Gaspare Cenci, nella terra di Cerignola, in Capitanata. In un editto per l’osservanza delle festività veniva ingiunto quanto segue: «commandamo in virtu della instessa authorita che tutti li homini et donne di qualsivoglia qualita, anche che siano zite o vacantie conformi alli precetti della chiesa, in tutti giorni di festa commandate come sotto non havendo canonici impedimenti, debbano andar a vider et ascoltar messa, altrimente facendo oltro che commetterando peccato mortale sarando scomonicate nominatamente. Et ordinamo al Reverendo Arciprete, voglia tener essatta cura de tutti et massime delle donne che non andarando alla messa in detti giorni accio nella festa seguente le possi escomunicare nominatamente. Parimenti ordinamo et commandamo in virtu della medesma authorita, che tutte le vidue o madre o altri che passato il mese della morte de loro mariti, figli et altri propinchi, nel qual tempo si tollera stiano in casa vadino alla chiesa ad ascoltar et veder messa sotto la istessa pena come de sopra» (20).
Questo editto denotava una evidente situazione di rigida sorveglianza sulla pratica religiosa dei cittadini e massimamente delle donne. Sebbene il comando impartito riguardasse tutta la popolazione adulta, i riferimenti più precisi avevano a che vedere con il genere femminile (zite, cioè sposate, e vacantie, cioè nubili). Del resto non a caso la stessa scomunica era prevista più che altro al femminile (scomonicate). Questa peculiare attenzione all’inadempienza da parte delle donne era altresì ribadita anche a proposito di vedove (vidue) e madri di famiglia affinché – trascorso un mese di lutto tollerato – riprendessero la loro frequentazione del rito festivo. In caso di mancata ottemperanza non solo si sarebbe commesso un peccato grave (mortale) ma si sarebbe andato incontro alla massima sanzione religiosa, per di più con un carattere pubblico: la scomunica non generica ma nominativa, da pronunciarsi in chiesa in occasione della festa comandata immediatamente successiva a quella della mancata presenza alla messa.
Un secolo dopo, una propugnatrice della mistica dell’abbandono totale a Dio, Jeanne-Marie Guyon, vedova con tre figli, autrice fra l’altro nel 1685 di Le Cantique des Cantiques interprété selon le sens mystique, veniva accusata di quietismo (come Molinos et Fénelon) ed imprigionata dal 1688 al 1702.
Risale quasi al medesimo periodo la contestualizzazione di La finzione di Maria, romanzo storico di Fulvio Tomizza, pubblicato nel 1981 e fondato su documenti di archivio, risalenti alla seconda metà del 1600: tutto ruota attorno all’accusa degli inquisitori che attribuiscono a Maria Janis, una ragazza del Bergamasco, la colpa di fingersi santa. La conclusione dell’opera è amara. «Ben più oscuro e mortificante fu l’inizio della nuova vita di Maria. Nella stessa estate il tribunale ecclesiastico chiuse definitivamente anche il suo caso facendole la grazia, non richiesta, di essere trasferita dalle carceri al “pio Luogo dei Mendicanti di questa città, qualora i signori Governatori di detto luogo si compiacciano di riceverla”. L’avranno di certo ricevuta: l’umiliarsi riesce gradito agli uomini, e su una raccomandazione del sant’Uffizio non si discute. In quel ricovero di derelitti, da cui forse è più difficile venir fuori che di prigione, Maria Janis di Vertova avrà finito i suoi giorni. La sua condizione non le permetteva di poter contare su protettori né su amici disposti a garantire sulla sua condotta. Come i reverendi padri sono riusciti a dimostrare, era soltanto una donna» (21).
Già in precedenza nel contesto asiatico, attraverso l’induismo si era sviluppato il culto Bhakti di Rama e della moglie Sita.
Più tardi è documentato in Giappone il culto ad Amaterasu, dea del sole (segnatamente dal XVII secolo ad oggi, nel tempio di Ise); ma è da ricordare anche la dea Kannon, cui è dedicata una delle statue più grandi al mondo.
Il mondo contemporaneo
In campo cattolico la proclamazione del dogma dell’Immacolata nel 1854 con la bolla Ineffabilis Deus di Pio IX ridiede spazio al culto mariano.
Nel 1875 la signora Elena Petrovna Blavatskij fondò a New York la Società Teosofica, a carattere sincretistico, con l’intento di unire la religiosità orientale con quella occidentale.
Nello stesso anno Mary Baker Eddy (1821-1910) pubblicò il testo-base della Christian Science Association, fondata un anno dopo: Science and Health with Key to the Scriptures.
Nel 1920 ebbe luogo la canonizzazione di Giovanna d’Arco.
Nel 1950 venne proclamato il dogma dell’Assunzione (con la costituzione Munificentissimus Deus di Pio XII), che apportò nuova linfa alla devozione mariana.
Le donne cattoliche furono molto attive in Italia sin dall’inizio del ‘900: è da citare fra le altre Adelaide Coari (cui è intitolata la sezione femminile dell’Archivio Storico del Movimento Sociale Cattolico in Italia presso l’Università Cattolica di Milano): «Il riferimento della sezione femminile dell’Archivio storico alla Coari – nata a Milano nel 1881 e morta nel 1969 – non è casuale, perché fu un personaggio di spicco del femminismo cristiano di inizio secolo, impegnata fin dalla prima ora nel Partito Popolare di Sturzo, appassionata promotrice dell’educazione popolare e assidua operatrice dell’Opera dei figli di don Orione, anticipatrice di posizioni ecumeniche e di dialogo tra le Chiese; ancora ricordata da chi le fu scolaro, ma ignorata da chi redige la storia. Bisogna dire lo scandalo di tale memoria perduta all’interno del movimento cattolico femminile. E pensare che fu Giovanni XXIII a trasmettere, tramite don Giuseppe De Luca, alla studiosa Paola Gaiotti «le carte da lui gelosamente custodite, che testimoniavano di una presenza femminile cattolica, consapevole, agguerrita, dialogante, entro la vicenda complessiva delle donne italiane. Fu lui – testimonia la stessa Paola Gaiotti che negli anni ’60 produsse il primo studio sul femminismo cattolico – a volere riaccendere la nostra memoria» … La storia moderna delle donne, pur attraversata da tante differenze di propositi, di stili, di linguaggi, di valori, è stata una storia comune; un cammino su cui si sono ritrovate fondatrici di congregazioni, umili operatrici di molteplici azioni di solidarietà, donne di grande esperienza religiosa e non credenti. Un’unica storia costruita e costituita da molte storie individuali. E la riflessione sulla storia delle donne è ormai un campo di ricerca comune tra le diverse correnti di pensiero, tra laiche e religiose, tra credenti e non» (22).
Ma è la relazione donna-Chiesa a costituire un problema costante: «Certamente il piano di maggiore scontro tra le donne e la Chiesa è sempre stato quello culturale e con esso l’accesso all’istruzione; e la storia ci mostra come la presenza femminile nella cultura, seppur minoritaria per quantità, abbia dato frutti qualitativamente pregiati, soprattutto in ambito ecclesiale. La modernità ha portato le donne ad uscire dalla cerchia domestica per inserirsi nel mondo produttivo ed ha richiesto loro istruzione e professionalità, di qui posizioni molto contrastanti nel comportamento della Chiesa. Pro e contro la cultura femminile, fu tema di discussione e di dibattito per molta parte del nostro secolo entro gli ambienti culturali e le associazioni cattoliche: secondo una maggioranza benpensante la donna, creata prima di tutto per la famiglia, doveva attrezzarsi solo per tale scopo, non serviva che facesse la speculatrice o la scienziata. Le donne però hanno continuato a studiare, a produrre cultura, ad affermare l’uguaglianza con gli uomini insieme alla propria peculiare differenza» (23). Nondimeno streghe e madonne, diavolesse ed ossesse continuano ad abitare il terreno della cultura e della religiosità popolare anche in epoca contemporanea (24).
A sorpresa giungeva l’espressione di “Dio mamma” usata da papa Luciani nel 1978, ripresa in qualche misura anche nel n. 239 del Catechismo della Chiesa Cattolica, che rinvia ad Isaia (66, 13) ed ai Salmi (131, 2) ma tali passi solo molto indirettamente presuppongono una maternità di Dio, se non a livello metaforico (25).
Ma la martire Edith Stein aveva scritto: «la prima cosa non è essere uomo o donna ma persona».
Questo significa andare ben oltre la sottolineatura di genere, che pure ha potuto affermarsi a fatica in ambiente cattolico. Lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II nei suoi documenti più rilevanti ha solo en passant toccato i temi relativi al ruolo delle donne. I suoi documenti ne parlano qua e là in modo disorganico e rapsodico in termini di diritto, lavoro e parità e madre di famiglia. Così le persone vedove e nubili «possono contribuire non poco alla santità e alla operosità nella Chiesa» (Lumen gentium, 41). Nella Gaudium et spes, al n. 52, si parla della «madre nella casa, di cui abbisognano specialmente i figli più piccoli, pur senza trascurare la promozione sociale della donna». E poco più avanti, al n. 60, si ribadisce quale sia lo specifico del ruolo muliebre, proprio cioè dell’indole femminile: «Le donne lavorano già in quasi tutti i settori della vita; conviene però che esse possano svolgere pienamente i loro compiti secondo l’indole ad esse propria. Sarà dovere di tutti far sì che la partecipazione propria e necessaria delle donne nella vita culturale sia riconosciuta e promossa». Senza negare il diritto alla cultura si coglie l’occasione per ricordare il proprium della funzione legata all’essere madre e/o moglie. Del resto anche in precedenza, al n. 29, tutto era visto in rapporto alla condizione di coniugabile con «la facoltà di scegliere liberamente il marito e di abbracciare il suo stato di vita». Quest’ultimo riferimento rimanda indirettamente all’opzione della scelta religiosa, in chiave di vita monacale. Ma in pari tempo non si nega «di accedere a quella pari educazione e cultura che si riconosce all’uomo». Ben poco di più si trova nelle centinaia di pagine dei vari testi conciliari (costituzioni, decreti e dichiarazioni), fatta eccezione per il Messaggio del Concilio alle Donne, in data 8 dicembre 1965.
Non è così nel caso della Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II dal titolo Mulieris dignitatem, datata 15 agosto 1988. Si tratta del documento più importante che la Chiesa cattolica abbia mai prodotto sulla questione femminile. Il respiro del testo è ampio ed articolato, giacché spazia dai testi biblici a quelli teologici, dalla patristica al magistero ecclesiale. La Lettera ha un tono dichiaratamente meditativo sulla donna come madre di Dio, sul suo essere immagine e somiglianza di Dio.
In particolare al n. 6 si legge che la donna «è immediatamente riconosciuta dall’uomo come «carne della sua carne e osso delle sue ossa» (Cf. Gen 2, 23) e appunto per questo è chiamata «donna». Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi dell’uomo: ’iš – ’iššah, cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. «La si chiamerà donna (’išš) perché dall’uomo (’iš) è stata tolta» (Gen 2, 23)».
Dopo aver affermato al n. 10 che «la donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile», il papa si sofferma sulla figura di Cristo e sul suo atteggiamento nei riguardi delle donne nonché sulle figure femminili del vangelo.
Il n. 12 fa riferimento all’atteggiamento di Gesù nei confronti della donna: ««Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna» (Gv 4, 27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi contemporanei. «Si meravigliavano», anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, «pensò tra di sé: “se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”» (Lc 7, 39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di «santo sdegno», dovevano riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole del Cristo: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt 21, 31)».
Ancora più esplicito, se possibile, è il rinvio al «principio» dell’uguaglianza fra uomo e donna in quanto fatti entrambi ad «immagine e somiglianza» di Dio. «La questione posta è quella del diritto «maschile» di «ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo» (Mt 19, 3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele: «Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via» (Mt 19, 7). Gesù risponde: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19, 8)». Dunque si conferma autorevolmente la necessità di non discriminare la donna, che più volte è protagonista nel vangelo come miracolata, dotata di grande fede, di dignitosa umiltà, di particolare saggezza, nonostante povertà e malattie.
Gesù – chiarisce a più riprese Giovanni Paolo II – era in contraddizione con i suoi tempi e con i suoi interlocutori. Ed in effetti, come si legge nel successivo punto 13, l’insegnamento di Cristo non dà adito a nulla «che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna».
Proprio una donna, «e per di più «donna peccatrice», diventa «discepola» di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4, 39-42)».
Molti colloqui di Gesù con le donne sono citati come tra i più belli nel vangelo. Sono donne quelle che restano ai piedi della croce, sono ancora donne quelle che annunciano il risorto, prima fra tutte Maria di Magdala detta non a caso «apostola degli apostoli» secondo l’espressione tipica di Tommaso d’Aquino ma anche secondo Rabano Mauro.
La Mulieris dignitatem scioglie anche qualche nodo problematico relativo a taluni insegnamenti della Chiesa delle origini in merito al posto della donna nella società e nella famiglia. A tale proposito il documento papale è quanto mai esplicito, chiaro: «nella relazione marito-moglie la «sottomissione» non è unilaterale, bensì reciproca» (n. 24). Ecco perché «la «mascolinità» e la «femminilità» si distinguono e nello stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda» (n. 25).
La lunga schiera di donne citate nel vangelo e quelle presenti nella storia della Chiesa sia primitiva (Febe, Prisca, Evodia, Sintiche, Trifena, Perside, Trifosa) sia successiva (Macrina, Olga, Matilde, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta, Brigida, Giovanna d’Arco, Elisabeth Seton, Mary Ward) testimoniano quanto esse abbiano contribuito al rafforzamento del cattolicesimo ed all’azione della Chiesa.
Il documento pontificio raggiunge però la sua acme nella parte finale, soprattutto nei nn. 29 e 30 dove si legge quanto segue: «Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto, ampio e diversificato, la donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità». Inoltre «la donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto che Dio «le affida l’uomo» sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi. Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende «forte» e consolida la sua vocazione».
La conclusione poi è un inno di ringraziamento alle donne: «per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le donne dedite ai tanti e tanti esseri umani, che attendono l’amore gratuito di un’altra persona; per le donne che lavorano professionalmente, donne a volte gravate da una grande responsabilità sociale; per le donne «perfette» e per le donne «deboli» – per tutte. Così come sono uscite dal cuore di Dio in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state abbracciate dal suo eterno amore; così come, insieme con l’uomo, sono pellegrine su questa terra».
Come il Cristo era in contraddizione con il suo entourage palestinese, così Giovanni Paolo II sembra in contrapposizione con la mainstream cattolica non sempre propensa a lasciare spazio alla presenza femminile.
Appare quindi abbastanza fondata l’ipotesi formulata da Feliciana Merino Escalera secondo la quale, in accordo anche con Carla Bettinelli, il papa si sarebbe rifatto in larga parte agli spunti offerti da Edith Stein nei suoi saggi sulla donna. La studiosa spagnola ritiene infatti «probabile questa influenza». «Ogni volta che mi immergo nella Mulieris Dignitatem – scrive la Merino Escalera – constato quanto le idee di santa Teresa Benedetta della Croce coincidano con quelle del Santo Padre, soprattutto se consideriamo che Edith Stein venne beatificata da Sua Santità nel 1987 e che l’Enciclica venne pubblicata nel 1988» (26).
Le convergenze fra la Stein ed il pontefice sono numerose ed incontrovertibili: «entrambi concepiscono la relazione uomo-donna inserita nella storia della salvezza»; «tanto la Stein che Giovanni Paolo II evidenziano l’importanza del peccato nella degenerazione dell’ordine iniziale, nella perdita della originaria unità, dell’uomo con se stesso, con gli altri e con Dio»; l’una e l’altro instaurano un «parallelismo Adamo-Cristo/Eva-Maria»; da parte di ambedue viene enfatizzato «il rapporto che Cristo ha sempre mantenuto con le donne, a differenza della prassi ecclesiale e di determinate pratiche discriminatorie nel contesto socio-culturale»; in entrambi i casi c’è «la rivalutazione delle due vocazioni essenziali della donna: maternità e verginità»; viene comunque difesa «la necessità di preservare la specificità femminile, il «genio» della donna»; infine viene riscontrata una «complementarietà essenziale: l’esser kenegdo, espressione ebrea utilizzata da Edith Stein, immagine speculare per cui l’uomo contempla la propria natura, coincide con la «reciprocità» di Giovanni Paolo II. In entrambi si tratta del fatto che l’uomo e la donna sono l’uno per l’altra, che nella loro unione realizzano la chiamata fondamentale all’amore e al dono reciproco, il livello più elevato della realizzazione della persona» (27).
Meno elogiativo risulta invece il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992. Si parla della donna ai nn. 369, 371, 372, 373, ma solo per confermare prospettive già note. Il n. 1577 ribadisce che l’ordinazione sacra concerne solo i battezzati di sesso maschile. Nel n. 1605 si afferma, ancora una volta, che l’uomo e la donna sono fatti l’uno per l’altra. Lo stesso dicasi per l’uguale dignità di uomo e donna (n. 2334). Sono 32 i punti principali in cui si tratta della dignità femminile ma in nessuno di essi si legge uno slancio peculiare per una rivisitazione sostanziale di letture scontate.
Per uno sguardo meno tradizionale sul mondo religioso femminile occorre consultare altri documenti, per esempio un compact disc a carattere multimediale predisposto da Carla Ricci, promosso dall’AECA e realizzato dall’Alfa Cfp Opera Diocesana Giovanni XXIII di Piangipane (Ravenna), dall’Associazione Opera Sacro Cuore di Lugo (Ravenna), dall’Enac Emilia Romagna di Fidenza (Parma) e dall’Engim di Cesena (Forlì). Il CD rom, dal titolo Lei multimedia,è diffuso gratuitamente ed è di facile uso. In particolare si segnalano le voci “religione” e “femminismo cattolico” come più pregnanti ed utili, grazie alla descrizione del riferimento, all’elenco di enti ed indirizzi, alle suggestioni per navigare in Internet, alla bibliografia ed alle riviste sull’argomento.
Donne, religione e società italiana
Gli indicatori più affidabili in merito alla presenza femminile nel nostro Paese si trovano nei risultati empirici delle ricerche sul campo.
Che cosa pensano, fra l’altro, delle donne consacrate alla vita religiosa gli italiani e le italiane? L’indagine nazionale su La religiosità in Italia (28), condotta nel periodo 1994-95, ha fornito risultati derivanti da un campione “ponderato” di 4500 soggetti. Essa può fornire qualche indicazione sul tema che qui ci interessa.
Le risposte alla domanda n. 274 (giudizio sulla clausura) del questionario somministrato sono state quanto mai significative. È vero che il quesito riguardava sia i religiosi che le religiose, ma si può ritenere che in buona misura i dati ottenuti siano applicabili in primo luogo alle religiose, non fosse per altro che per la loro maggiore numerosità sul territorio nazionale rispetto ai loro confratelli religiosi e dunque per la loro maggiore visibilità, che ne fa un parametro essenziale di riferimento per quanto concerne la percezione e l’immagine a livello diffuso.
Se si aggiunge poi che il connotato della clausura limitava ma anche sottolineava il carattere di separatezza e di diversità che riguarda più specificamente la condizione delle congregazioni religiose femminili si può concludere che i dati acquisiti attraverso l’inchiesta appaiono abbastanza probanti in termini di valutazione complessiva sulle monache operanti in Italia.
Appunto l’uso del sinonimo monache, rispetto al nome di suore, già segnala qualche differenza rilevante. Infatti il parlare di monache (al posto di suore) comporta di per sé – per situazione di fatto e di uso linguistico comune – un’accezione più valutativa ed in negativo per le donne votate alla professione religiosa. Ma ormai anche il termine suore, per affinità, è accompagnato da giudizi di valore non sempre neutrali, solo alcune volte positivi, generalmente sfavorevoli.
Invece in campo maschile il riferimento ai monaci, piuttosto che ai frati od ai religiosi, assume un orientamento più positivo, induce a maggior rispetto, quasi ad una separazione nel contesto delle organizzazioni religiose. Insomma i monaci sarebbero più credibili ed affidabili. Nel loro novero rientra però una miriade di profili concreti. Ed a loro vantaggio sembra prevalere comunque l’idea di persone tutte dedite al servizio divino, alla contemplazione, alla preghiera, ai lavori più umili.
Ma veniamo al contenuto preciso del quesito posto: “Qual è il suo giudizio sui religiosi e sulle religiose che vivono in clausura (cioè permanentemente chiusi in convento)?”. Era prevista una sola risposta possibile, fra quelle indicate dal questionario. Ha detto che “è la testimonianza religiosa più alta” il 16,9% degli intervistati. Il 20,4% ha ritenuto che “è una forma di testimonianza religiosa valida come le altre”. La maggioranza relativa, cioè il 44%, ha reputato che “è meglio che i religiosi vivano tra la gente”. Infine il 18,7% ha detto che “è una cosa senza senso” o ha espresso altri giudizi negativi. Solo 20 intervistati su 4500 non hanno dato alcuna risposta.
C’è dunque una chiara sollecitazione a vivere nel sociale, ad evitare l’isolamento entro ambiti ristretti. È quasi un invito a “sporcarsi le mani” con le questioni del mondo, della società, degli altri soggetti umani. Insomma la clausura ( e – si può immaginare – anche altre forme succedanee, simili o tendenzialmente affini, fra quelle relative alla vita conventuale) non sembra particolarmente apprezzata, anzi è vista come una segregazione volontaria rispetto alle questioni reali, stringenti, tipiche di chi vive nel quotidiano, cioè affrontando un’esperienza comune alla maggioranza degli individui sociali.
Considerazioni più favorevoli, si direbbe a livello elogiativo, provengono da quasi il 17% degli intervistati. Si può presumere che questo gruppo di rispondenti sia molto legato a posizioni di religione-di-chiesa, cioè ad un’osservanza ed una pratica religiosa costanti, insomma ad una linea ortodossa e ad una militanza forte e consapevole. In fondo è facile ipotizzare che questo stesso sia il bacino di provenienza della maggior parte delle vocazioni religiose.
Favorevole ma meno appassionato è il giudizio di coloro che considerano la clausura come una modalità religiosa al pari di molte altre possibili. Questo orientamento interessa il 20,4% dei casi campionati. Insomma la particolare condizione di vita claustrale, per quanto rigorosa, non comporta un aumento degli atteggiamenti favorevoli.
Non va poi trascurato il 18,7% che si mostra particolarmente ostile, giudica senza senso il tutto, esprime opinioni piuttosto sfavorevoli. Va tenuto presente che questo sottouniverso non è costituito solo da soggetti non orientati religiosamente ma anche da credenti e praticanti (magari saltuari).
In definitiva la vita monastica in generale (fatte salve le dovute eccezioni) non trova molta comprensione nel più vasto ambito sociale. Certamente questo dato di fatto può anche dipendere da una scarsa conoscenza e frequentazione da parte di soggetti ad essa esterni e che hanno poca dimestichezza con lo spirito e le problematiche dell’esperienza religiosa comunitaria, improntata a regole ben definite. I consensi, più o meno differenziati, non mancano ma non provengono da una quota rilevante della popolazione italiana. Anche forzando l’interpretazione dei dati, non più di un italiano su tre appare favorevole alla soluzione cenobitica in senso stretto.
Illuminante, a complemento e completamento di quanto detto sinora, è il dato relativo agli ostacoli che si frappongono nella scelta della vita religiosa. Anche in questo caso valgono le osservazioni di carattere generale premesse all’interpretazione dei risultati considerati sopra.
Ebbene, la domanda del questionario era così formulata: “A suo giudizio, quali sono oggi i principali ostacoli alla scelta di una vita sacerdotale o religiosa (prete, suora, frate)?”. Si potevano dare non più di due risposte. Le alternative proposte erano le seguenti: “la solitudine legata a questo tipo di vita” (che ha raccolto il 20,2% di sì), “oggi ci sono altre possibilità per fare una scelta di impegno religioso” (che ha registrato il 21,5% di consensi), “bisogna rinunciare a troppe cose” (che ha ottenuto il 26,7% di pareri favorevoli), “non potersi sposare, avere figli” (che è giunto fino al 37,4% dell’universo campionato), “è una scelta che impegna per sempre” (che ha attinto il 23,8% di intervistati consenzienti), “è la mentalità corrente che ostacola questa scelta” (che ha trovato d’accordo il 13,9% del campione), “il peso della responsabilità che la scelta comporta” (che ha fatto registrare il 18% di risposte), “il vincolo eccessivo nei confronti dei superiori” (che si è attestato sul 3,1%), “è un modo di vita retrogrado” (che ha riguardato il 5,2% degli intervistati). Hanno espresso altri giudizi 2,5 intervistati ogni 100.
Il quadro complessivo che emerge è una conferma in larga misura di quanto osservato in precedenza. Le nove motivazioni formulate nella domanda in questione hanno visto numerose adesioni, più o meno consistenti su tutta la linea. In generale l’impedimento matrimoniale sembra essere la ragione considerata come più significativa di altre, ma anche quelle relative alla rinuncia piuttosto ampia ed alla scelta definitiva e irrevocabile sembrano rilevanti, per non parlare della solitudine e della possibilità di altre opzioni religiose.
Detto altrimenti, le motivazioni per la non scelta appaiono abbastanza concrete, decisive, consapevoli. Si può immaginare che gli intervistati non solo non hanno manifestato in proprio la preferenza a favore dell’ingresso in una congregazione religiosa ma sono anche indotti a ritenere che non esistono in genere delle ragioni che inducano altri ed altre a comportarsi diversamente, in quanto gli ostacoli non appaiono facilmente sormontabili e le limitazioni sono piuttosto cospicue. È in questione principalmente la rinuncia a metter su famiglia ed a quel che ne consegue. La scelta peraltro è per la vita, per la sua intera durata, senza possibilità – si direbbe – di ritorno.
I vincoli previsti risultano non facilmente sopportabili. Sono pesanti da sostenere, specie in un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata da larghe libertà di comportamento e da possibilità plurime di impegno religioso e non. Qualcuno degli intervistati poi preferisce esprimersi in un linguaggio che non lascia adito ad alcuna ipotesi differenziata, visto che comunque si tratta di un “modo di vita retrogrado”.
In riferimento al ruolo delle donne (e di conseguenza delle religiose) all’interno della chiesa il campione degli intervistati pensa che esse dovrebbero “contare di più” (lo dice il 47,95) o almeno “contare come oggi” (secondo il 49,3%), mentre appena il 2,7% propende per l’item “contare di meno”. E 61 intervistati non si esprimono affatto. In pratica se si tiene conto che l’universo di ricerca è composto per metà da uomini e per l’altra metà da donne è attribuibile piuttosto alle intervistate la richiesta di maggior attenzione per loro nella chiesa cattolica, mentre saranno stati in maggioranza gli uomini a ritenere che le donne dovrebbero contare come oggi.
Intrigante è da ultimo il risultato relativo al “giudizio sulla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio”. Evidentemente questa proposta concerne primariamente le religiose, che potrebbero ambire ad un ruolo pieno come ministre di Dio al servizio dei fedeli.
Intanto il 34,8% vede in modo positivo l’accesso femminile alla funzione sacerdotale. È vero che il 28,9% appare perplesso, ma ciò è forse dovuto più alla novità della proposta ed al suo carattere modificativo della realtà esistente od anche, magari, ad una mancanza di informazioni e motivazioni sufficienti per esprimere un punto di vista consapevole. D’altra parte l’atteggiamento negativo non è particolarmente diffuso, visto che arriva a non più del 31,5%, in effetti appena un intervistato su tre.
In definitiva l’inchiesta nazionale su La religiosità in Italia mette in evidenza luci ed ombre della situazione attinente alla vita religiosa, declinata essenzialmente al femminile. Nel complesso la valutazione non è del tutto positiva, salvo alcuni settori di maggiore ortodossia di chiesa. Del resto, però, la stessa ostilità dichiarata è minoritaria. Prevale invece l’atteggiamento intermedio: si può inferire che non si disprezza ma neppure si apprezza più di tanto il contributo delle donne che operano nell’ambito delle congregazioni religiose. Forse gioca in senso negativo una mancanza di comunicazione fra mondo monacale e realtà mondana, fra vita cenobitica ed esperienza sociale in senso lato.
Dunque ad alcune chiusure che provengono dal mondo religioso femminile corrispondono altrettante, se non più massicce resistenze che costellano gli orientamenti di fondo dell’universo sociale extra-monastico. Insomma c’è un corto circuito. A volte si tenta di ripararlo ma rischiando di procurare danni maggiori.
Conclusione: nascita e sviluppo del misticismo femminile
Un significativo indicatore del rapporto intercorrente fra condizione femminile e contesto cristiano e cattolico è costituito dalla dinamica relativa al misticismo o meglio ai diversi misticismi che hanno attraversato tante generazioni di donne, assoggettate anche in questo campo al potere definitorio degli uomini (teologi, filosofi ed esponenti dell’apparato ecclesiastico).
Una prima verifica si può avere a partire dalla lettura dell’opera di Egeria, scritta nel IV secolo come diario di viaggio in Terrasanta. L’autrice non si era permessa di cimentarsi in ipotesi e suggestioni relative a testi biblici: questo era compito riservato ai vescovi, ai sapienti, comunque a degli uomini. Già il suo viaggio ai luoghi santi era stato un azzardo. Non avrebbe dovuto andare oltre, con commenti e riflessioni personali (29).
In pratica «quelle forme di misticismo che erano compatibili con le prospettive ecclesiastiche dominanti vennero lasciate fiorire, e quelle che non lo erano vennero eliminate» (30).
Insomma potere e conoscenza sono sempre in stretta relazione. Ed il genere fa spesso da spartiacque nell’esercizio del potere stesso anche in campo religioso e spirituale, indipendentemente dalle buone intenzioni dei soggetti coinvolti. Di conseguenza la costruzione storico-sociale del misticismo è un’operazione di tipo patriarcale, di cui le donne diffidano. Di fatto sarebbe avvenuta un’appropriazione indebita da parte degli ecclesiastici e degli accademici i quali si sarebbero impossessati strumentalmente della mistica e della spiritualità «conservando ad esse il potere ma assoggettandole ad un tornaconto maschile, oppure privandole del potere e perciò addomesticandole e femminilizzandole» (31). In tal modo tutto resta tranquillo, senza cambiamenti in campo pubblico, nella politica, cioè dove si esercita il potere reale.
Il definitiva il misticismo femminile è frutto delle contingenze storiche legate ai rapporti di genere e di potere e quindi rimane il precipitato ultimo di una costruzione sociale che va smontata punto per punto al fine di ricostruire, consapevolmente, i vari passaggi che hanno portato alla situazione presente. Per Grace M. Jantzen, in fondo, proprio il decostruire il misticismo è oggi «il compito mistico» per eccellenza (32).
Per secoli la donna ha subito mortificazioni di natura spirituale e corporale. In qualche modo le è stata negata la possibilità di esprimersi al meglio delle sue potenzialità senza sottostare a limiti imposti dall’altro e dall’alto. Ora si assiste anche ad una singolare «rivincita»: proprio le donne, a lungo tenute lontane dall’altare e dalle decisioni più importanti, si stanno riappropriando di uno spazio che è loro dovuto nella Chiesa. Ed ecco che sposando inaspettatamente anima e corpo propongono una mirabile simbiosi fra spirituale e materiale giusto in un ambito non facilmente soggetto a restrizioni di sorta, quello della preghiera. Appare dunque singolare e straordinaria insieme la «provocazione» di cinque teologhe spagnole che hanno scritto altrettanti saggi sulle possibilità offerte dal pregare con i cinque sensi del corpo, cioè udito, vista, tatto, olfatto e gusto. La felice coniugazione di elementi ascetico-contemplativi e fisico-corporali praticabili dall’orante attraverso orecchi, occhi, dita, naso e palato rende più partecipata, unica, non ripetitiva l’esperienza della preghiera. Così l’udito serve per ascoltare la parola di Dio, ma anche se stessi; l’olfatto converte la preghiera in sensazione divina e dà l’idea del profumo di Cristo nell’esistenza umana (Mt 26, 7 e Mc 14, 3); la vista richiama alla mente il valore dello sguardo femminile, di quello divino e della stessa Maria; il gusto si accompagna al vissuto della convivialità eucaristica; il tatto mette in campo le medesime sensazioni provate dalla figlia di Giario (presa per mano da Gesù ed alzatasi dal letto di morte) e dall’emorroissa che aveva toccato il Figlio dell’uomo con viva fede – dopo essere rimasta a lungo senza sperimentare alcun contatto umano, reietta com’era per il suo stato di impurità – (33).
Come si vede non solo sono delle teologhe a scrivere di questo ma anche le fenomenologie esemplarmente citate hanno come protagoniste delle donne, che dunque recuperano in pieno la loro dignità e restano degne di memoria, sulla scorta di quanto avvenuto alla donna di Betania che infranse un vaso prezioso per versarne il profumo sul corpo del Signore, il quale nonostante lo sdegno di taluni così testimoniò il suo apprezzamento verso di lei: «in verità vi dico: ovunque sarà predicato il Vangelo nel mondo intero, si parlerà pure di quello che ella ha fatto, in memoria di lei» (Mc 14, 9).
Note
1 – Cf C. TADDEI FERRETTI, Donne e religioni: un rapporto poliedrico, in «Prospettiva Persona», n. 31 (2000), 43-47, passim.
2 – Cf C. RICCI, Maria di Magdala e le molte altre, D’Auria, Napoli 1995.
3 – GREGORIO DI NISSA, La vita di Santa Macrina, Fabbri Editori, Milano 1997, 132.
4 – E. GIANNARELLI in GREGORIO DI NISSA, op. cit., 13-14.
5 – E. GIANNARELLI in GREGORIO DI NISSA, op. cit., 36-37.
6 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, Le donne in Europa. 1. Nei campi e nelle chiese, Editori Laterza, Roma-Bari 1992, 129; ed. or., Harper and Row, New York 1988.
7 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, op. cit., 113.
8 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, op. cit., 138.
9 – G. DUBY, I peccati delle donne nel Medioevo, Editori Laterza, Roma-Bari 1997, 140-141; ed. or., Gallimard, Paris 1996.
10 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, op. cit., 301; Cf pure E. E. GREEN, Lacrime amare. Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2000.
11 – G. DUBY, op. cit., 81-82.
12 – DONIZONE, Vita di Matilde di Canossa, Jaca Book, Milano 1984.
13 – G. DUBY, Donne nello specchio del Medioevo, Editori Laterza, Roma-Bari 1995, 102; ed. or., Gallimard, Paris 1995.
14 – G. DUBY, I peccati delle donne nel Medioevo, op. cit., 28-29.
15 – G. M. JANTZEN, Power, Gender and Christian Mysticism, Cambridge University Press, Cambridge 1995/1997, 216-223.
16 – Cf G. ANODAL, Santa Caterina de’ Ricci. Una maestra di vita per la donna d’oggi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995.
17 – Cf E. PASZTOR, Donne e sante. Studi sulla religiosità femminile nel Medio Evo, Studium, Roma 2001.
18 – G. M. JANTZEN, op. cit., 242-277.
19 – Cf G. ZARRI, Recinti, il Mulino, Bologna 2000.
20 – AA. VV., Una Visita Apostolica a Cerignola alla fine del XVI secolo, Centro Ricerche di Storia ed Arte “Nicola Zingarelli”, Cerignola 2000, 32.
21 – F. TOMIZZA, La finzione di Maria, Rizzoli, Milano 1981; Narrativa Club, Milano 1982, 215.
22 – R. VEGETTI, Il genio femminile: una storia mancata. Donne cattoliche del ‘900, in «Orientamenti Sociali Sardi», n. 1 (2000), 183-184. Cf pure AA. VV., Una memoria mancata. Donne cattoliche nel ‘900 italiano, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», n. 2 (1998).
23 – R. VEGETTI, op. cit., 185.
24 – Cf L. M. LOMBARDI SATRIANI (a cura di), Santi, streghe & diavoli. Il patrimonio delle tradizioni popolari nella società meridionale e in Sardegna, Sansoni, Firenze 1971. Cf pure C. TULLIO ALTAN (a cura di), La sagra degli ossessi. Il patrimonio delle tradizioni popolari italiane nella società settentrionale, Sansoni, Firenze 1972.
25 – Cf P. RODRÍGUEZ, Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione divina, Editori Riuniti, Roma 2001.
26 – F. MERINO ESCALERA, La vocazione della donna e il femminismo di Edith Stein, in «Nuovo Sviluppo. Rivista semestrale di Scienze Umane», n. 1 (2000), 26.
27 – F. MERINO ESCALERA, op. cit., 26-29.
28 – Cf AA. VV., La religiosità in Italia, Mondadori, Milano 1995.
29 – Cf G. M. JANTZEN, op. cit., 76.
30 – G. M. JANTZEN, op. cit., 341.
31 – G. M. JANTZEN, op. cit., 347.
32 – G. M. JANTZEN, op. cit., 353.
33 – Cf I. GÓMEZ-ACEBO (a cura di), A. FUERTES TUYA, M. ZUBÍA GUINEA, M. NAVARRO PUERTO, T. LEÓN MARTÍN, Pregare con i sensi. L’esperienza di cinque teologhe, Paoline, Milano 2000; ed. or., Desclée de Brouwer, 1997.