Roberto Cipriani
Già da sola la prefazione di Sartre a L’Idiot de la famille hal’allure di un trattato di sociologia qualitativa, tanto è densa di premesse teoriche e metodologiche, di questioni scientifiche postulate, di intenzioni empiriche esplicitate. Sembra proprio di avere a che fare con un sociologo di formazione, tanto sono ben presenti in lui le problematiche principali dell’approccio sociologico.
Innanzitutto è evidente la sua consapevolezza metodologica, sin dall’inizio, quando esordisce rinviando, non a caso, al suo precedente lavoro Questions de méthode e domandandosi che cosa si possa sapere di un uomo (ma lo stesso potrebbe dirsi, ovviamente, anche di una donna). Egli, in modo immediatamente conseguente, passa ad esemplificare scegliendo il suo case study: lo scrittore Flaubert. Ma questi non è un contemporaneo di Sartre: non può essere intervistato. Vi è dunque la necessità di ricorrere ad altri documenti, quelli storici su Flaubert e quelli che il romanziere stesso ha lasciato come sua documentazione storica e dunque i suoi stessi scritti. Ma la vera sfida è un’altra: è possibile fare un’opera di generalizzazione a partire da un caso singolo? L’attività tipicamente scientifica della induzione cioè del passaggio dal singolare all’universale consente, in linea di principio, di assolutizzare ciò che è semplicemente relativo. Ma è poi possibile legittimare del tutto tale processo? Chi e che cosa autorizzano uno studioso a seguire un simile procedura ed a farne una proposta plausibile? E non sarebbe forse possibile fare altrettanto con l’andamento inverso, con la deduzione dal generale al particolare? E che dire della suggestione di Peirce (1888) sull’abduzione, cioè della soluzione intermedia, forse un po’ strabica, del guardare contemporaneamente all’induzione ed alla deduzione?
Sartre sembra aver scelto, almeno inizialmente, la strada dell’induzione dal singolare all’universale, ma quanto egli scrive poco oltre, nella medesima pagina di préface, fa ricredere su questo tipo di opzione, perché il suo “universel singulier” è poi di fatto ribaltato, perché egli parla di “universel par l’universalité singulière de l’histoire humaine, singulier par la singularité universalisante de ses projets, il réclame d’être étudié simultanément par les deux bouts”. Ancora, Sartre completa la sua dichiarazione di intenti precisando che occorrerà trovare un metodo appropriato, quello di fatto applicato nella sua biografia flaubertiana.
Opportunamente il filosofo dell’esistenzialismo tiene a distinguere fra dati di fatto inequivocabili, come ad esempio una data di nascita registrata all’anagrafe, e dati da interpretare, partendo da informazioni fornite dal soggetto stesso. L’interpretazione tuttavia può aver luogo – sostiene inoltre Sartre – solo dopo aver stabilito se la persona in questione, Gustave Flaubert, sia veritiera nel momento/documento preso in considerazione. Ma d’altro canto, anche una sua eventuale insincerità può essere soggetta ad una esegesi fondata ed accurata. Né va trascurata la possibilità di un’alternanza, imprevedibile, fra momenti di franchezza ed altri meno rispondenti al vero, sia come narrazione di eventi, sia come sentimento provato dal soggetto. Però proprio tale alternanza costituisce, comunque, la base essenziale di un discorso complessivo del soggetto a proposito di se stesso e del ricercatore–analista a proposito del suo caso di studio.
La propensione di Sartre è piuttosto per la raccolta di ogni genere di dato. L’ampiezza stessa della sua trattazione prova quanta acribia sia stata profusa nella disamina di ciò che ha portato Flaubert alla sua nevrosi.
Qui però l’ambito dello studio critico si limita, per ovvie ragioni, alla sola prima parte, quella definita “costitutiva” da Sartre medesimo (pag. 648), che parla di Flaubert per il periodo che va dalla nascita (nel 1821) sino a quando ha invece inizio la “personnalisation”. Vale la pena di notare che lo spunto di partenza, anzi la motivazione fondante dell’interesse sartriano per Flaubert, proviene da una lettura della Correspondance del romanziere autore di Madame Bovary. Quindi il tutto nasce appunto da uno strumento classico dell’indagine sociologica: l’analisi dei documenti personali (lettere, diari, autobiografie, appunti, note, ecc.). Si è dunque perfettamente in linea con l’origine e lo sviluppo classici della metodologia sociologica di stampo qualitativo in generale e biografico in particolare, che ha avuto in Thomas e Znaniecki il suo incipit straordinario e fondativo, con la poderosa opera in cinque volumi su Il contadino polacco in America e in Europa. Invero quel che più intriga l’esistenzialismo sartriano è il nesso tra Flaubert e la sua Madame. Insomma perché Gustave ha scritto quell’opera e perché l’ha scritta in quel modo? Che c’è di Flaubert in Bovary? Sartre assume quasi il ruolo di uno psicanalista, che scava nelle opere giovanili e nella corrispondenza epistolare flaubertiana. L’operazione non appare scorretta, neppure deontologicamente, perché, come sottolinea lo stesso Sartre, in fondo è Flaubert medesimo che si offre come soggetto da studiare, grazie alle numerose testimonianze che ha lasciato di sé. Quasi in linea con il provvedimento indiziario proposto dallo storico italiano Carlo Ginzburg, Sartre coglie un dettaglio, un indizio nella “mélancolie native” di Flaubert, nella sua “plaie profonde toujours cachée”. Ecco dunque le origini primigenie da approfondire, la “protohistoire” che va conosciuta. E non si può non partire dall’infanzia. Ancora una volta, come ha sostenuto Piaget, si dimostra che i primi anni di vita sono decisivi per l’esistenza di ogni essere umano. È lì che si ha – per dirla con Peter Berger e Thomas Luckmann – la basilare costruzione sociale della realtà, la creazione della visione del mondo, della Weltanschauung che connota poi tutta un’esistenza.
Si tratta di un’esistenza, quella di Flaubert, indagata da Sartre in ogni suo aspetto, ma continuamente in relazione con l’ambiente familiare, dapprima il padre, poi la madre, in seguito il fratello maggiore, per poi riprendere il discorso nel rapporto fra padre e figli. Il tutto è attraversato da quel metodo regressivo–progressivo che è peculiare dell’analisi sartriana. Basta leggere le prime pagine de L’Idiot de la famille per rendersi subito conto del proposito di Sartre: scoprire come mai il grande letterato autore di Madame Bovary fosse stato tacciato di idiozia sin dai primi anni di vita. Il suo metodo, per risalire alle origini della mistificazione che ha colpito Gustave, è puntiglioso, quasi poliziesco, ma coglie nel segno, scopre contraddizioni, confronta i dati incontrovertibili, soprattutto date ed età. Ne risulta, dopo appena quattro pagine, un quadro abbastanza chiaro, inequivocabile: forzature, interessi personali, stigmatizzazioni indebite e falsità evidenti hanno creato l’immagine dell’idiota di famiglia, il quale però è divenuto poi un Idiota con la lettera iniziale maiuscola, dunque meritevole del massimo rispetto anche attraverso quella forma grafica, la scrittura, che proprio il piccolo Gustave sembrava rifiutare di apprendere, salvo poi mostrarsi un quasi letterato, in uno scritto risalente al periodo in cui aveva solo nove anni di età.
Appunto sul tema dell’imparare a leggere, l’indagine sartriana appare incomparabilmente attenta, incapace di lasciarsi sfuggire alcun particolare per quanto minimo. Egli ricostruisce sapientemente le circostanze, le ragioni, le intenzioni, che hanno portato Caroline Commanville a descrivere Gustave Flaubert come incapace di saper leggere (e scrivere, presumibilmente).
Innanzitutto Sartre osserva, giustamente, che nulla si sa di difficoltà da parte del piccolo Gustave, né nel camminare, né nel parlare, o meglio nell’apprendere l’una e/o l’altra cosa. La testimonianza di Madame Caroline si sofferma invece sulla sola alfabetizzazione e per di più a confronto tra Gustave ed una sorella più piccola (ma troppo piccola per poter imparare a dodici o tredici mesi, dunque quand’era ancora in culla). Insomma la descrizione della Commanville è palesemente artefatta, non corrispondente al vero. Il suo scopo è di esaltare sua madre, la sorellina di Gustave capace di apprendere la lettura “en se jouant”, come osserva ironicamente Sartre. Viene poi richiamata la lettera indirizzata da Gustave a Ernest Chevalier il 31 dicembre 1830, per dimostrare che ad appena nove anni il biografato era già capace di cogliere la differenza fra lo scrivere come semplice atto di giustapporre lettere dell’alfabeto e lo scrivere come composizione, atto ben più consapevole e complesso. Pertanto il racconto della Commanville si mostra del tutto inverosimile.
Questa ricostruzione sartriana così minuziosa è un prologo efficace quanto un’ouverture verdiana, che racchiude in pochi attimi, in tocchi rapidi, tutto il pathos di una azione drammatica, di una narrazione tragica, di uno sviluppo ancora di là a venire.
Ma c’è qui, in queste pagine iniziali de l’Idiot de la famille, già una prima prova di regressione–progressione, della metodica di Sartre cioè, tutta tesa alla ricostruzione per poi giungere a delineare in progress un quadro più verosimile, meno approssimativo, più fondato empiricamente, con un’operazione quindi tipicamente sociologica.
Pure sociologica e storica insieme è la prospettiva utilizzata ampiamente per introdurre la figura del padre del piccolo Gustave, cioè Achille-Cléophas, chirurgo e scienziato, anticlericale, liberale al tempo della Restaurazione, simpatizzante dei repubblicani, persino indagato sotto la monarchia, ritornata al potere dopo il periodo napoleonico. Tutte queste precisazioni accompagnano una contestualizzazione che l’autore conduce con ricchezza di riferimenti e con rinvii puntuali e documentati.
In verità Jean-Paul dedica molta più cura ai singoli personaggi della famiglia Flaubert. La sua disamina è una continua operazione chirurgica sui soggetti trattati, in particolare Achille-Cléophas Flaubert e Achille Flaubert suo figlio, entrambi chirurghi.
È appena il caso di notare che quando più avanti Sartre parla del “regard chirurgical du médecin philosophe” (pag. 406) riferito a Gustave che si fa saltare la testa, in qualche modo allude a se stesso. Ma certamente l’acme è raggiunta nella delineazione dei rapporti tra padre e figli, che occupano ben duecentosettantadue pagine della prima parte dell’opera.
In questo voluminoso frame viene applicata al meglio la soluzione sartriana della “analyse régressive”, cioè del cammino alla rovescia, teso ad interpretare il presente alla luce dell’avvenire. Flaubert medesimo offre il destro per un andamento esegetico di questo genere: egli percepisce la sua vita come un andamento proteso verso la totalizzazione (pag. 182). In lui c’è una sorta di “antériorité prophétique” che presenta, già nelle opere giovanili, gli stessi temi che caratterizzano la produzione successiva: “noia, dolore, cattiveria, risentimento, misantropia, vecchiaia, morte”. Ma in realtà ciascuno di questi temi è adattato alla situazione data, che è sempre “antérieure à elle même”, anticipo del futuro, quasi una premonizione. Non a caso Flaubert, per esempio, si sentiva già vecchio “fossile”, ad appena ventisette–ventotto anni (pag. 183).
L’analisi regressiva è utilizzata in forma ancora più esplicita, se possibile, nei personaggi di Madame Bovary.
Non meraviglia dunque il collegamento autoevidente fra il dottor Lariviére, medico di prestigio non dotato di bontà ma di “débonnaireté”, ed il padre stesso di Flaubert, anch’egli medico. In effetti, in tal modo Gustave ha voluto dipingere (come dice letteralmente Sartre, a pag. 455) lo stesso suo padre Achille-Cléophas. Ma non è solo Larivriére il singolare che rappresenta l’universale medico. Con lui ci sono altri: Canivet, Bovary, Homais (pag. 473), che ammazzano, lasciano morire, fuggono dinanzi alla malattia. Ed il Flaubert padre non è fuori della lista, anzi vi rientra appieno: questa è palesemente l’intenzione di Gustave.
L’intenzione di Sartre è perfettamente in linea con quella di Flaubert, che, scrivendo da quindicenne ad Ernest (pag. 489) non certo casualmente faceva quasi un tutt’uno fra analisi psicologica e dissezione chirurgica. Detto altrimenti la stessa operazione sartriana condotta ne L’Idiote de la famille è “l’application <<au coeur humain>> de la méthode analytique” ed è pure “ni plus ni moins qu’une intervention chirurgicale” nonché, in modo quanto mai esplicito ed allusivo, “une action réelle dont le modèle est donné par le regard glacial du médecin-chef entrant dans l’âme de son fils et la travaillant au scalpel ”. Dunque tutti i conti tornano: in pratica Flaubert padre seziona il figlio con gli occhi, Flaubert figlio disseziona il padre con i suoi scritti e Jean-Paul Sartre, filosofo–chirurgo, completa l’opera andando più a fondo di entrambi, con la sua ottica regressiva–progressiva. Ben più modestamente, anche il presente tentativo è sulla medesima lunghezza d’onda. In fondo la regressione– progressione pare funzionare ancora una volta, per di più con una proprietà transizionale che investe dapprima Flaubert padre e Flaubert figlio e poi Sartre e chi utilizza qui l’approccio sociologico, per risalire ai contenuti del rapporto singolare–universale insito embleticamente nella diade Flaubert–Sartre.