Roberto Cipriani è ordinario senior di Sociologia e emerito nell’Università Roma Tre, dove ha diretto il Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Ha insegnato nelle Università di San Paolo del Brasile, Laval di Québec e Recife. È stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia e del Comitato di Ricerca di Sociologia della Religione nell’International Sociological Association, nonché Editor-in-Chief della rivista International Sociology . Ha fatto parte degli esecutivi dell’Association Internationale des Sociologues de Langue Française, dell’International Institute of Sociology e dell’International Society for the Sociology of Religion. Ha svolto indagini empiriche in Grecia, Messico, Spagna e Israele. Ha realizzato vari film-ricerca. È stato «Chancellor Dunning Trust Lecturer» nella Queen’s University di Kingston, Canada, nonché Directeur d’Étude s alla Maison des Sciences de l’Homme di Parigi e Presidente del Consiglio delle Associazioni Nazionali di Sociologia della European Sociological Association. È Advisory Editor di The Blackwell Encyclopedia of Sociology. È Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana Docenti Universitari. Tra le sue opere più significative: Il Cristo rosso. Riti e simboli, religione e politica nella cultura popolare, Ianua, 1985; La religione diffusa, Borla, 1988; La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, Sciascia ed., 1992; Sociologie del tempo, Euroma, 1997; El pueblo solidario. Nahuatzen: de la cultura purépecha a la modernización, El Colegio Mexiquense, 2009; Nuovo manuale di sociologia della religione , Borla, 2009 – tradotto in inglese, francese, spagnolo, portoghese e cinese –; Sociologia del pellegrinaggio, FrancoAngeli, 2012; Sociología cualitativa, Biblos, 2013; Diffused Religion. Beyond Secularization, 2017. Ha curato: La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life history, Euroma, 1987; Giubilanti del 2000. Percorsi di vita, FrancoAngeli, 2003; L’analisi qualitativa. Teorie, metodi, applicazioni, Armando, 2008 e il Nuovo manuale di sociologia , Maggioli, 2016.
Interview with Roberto Cipriani
Roberto Cipriani is one of the best known Italian sociologists and former President of the Italian Sociological Association. His national and international reputation is due both to his numerous high profile publications and his role in Italian and international sociological associations. The interview spans his formative years at the University of Rome La Sapienza – under Franco Ferrarotti – and then at the «Luigi Sturzo» Institute, where he had the opportunity to meet some of the most important figures in the sociological community; his study and research experience in Italy and abroad, in the USA, Mexico, Israel and many European countries, including Spain, Greece and France. Cipriani recalls his work in the Ais, raising the profile of sociology in Italy, and explores some of the key themes of his work in more depth, with a specific focus on the concept of «diffused religion» and the use of visual methods in sociological research
Parole chiave: Corradi, Consuelo, Roberto Cipriani, Diffused religion, Qualitative methodology, Sociology of religion
Ho conosciuto Roberto Cipriani nell’ottobre 1977, quando ero una matricola del corso di laurea in sociologia della Facoltà di Magistero dell’Università di Roma La Sapienza. La sua passione per la ricerca empirica, la generosità nel coinvolgere gli studenti nelle attività della cattedra, la serietà del suo impegno docente sono stati alcuni dei fattori che mi hanno fatto amare – molto presto nel mio percorso – l’attività accademica. In quegli anni, Roberto Cipriani era inserito in un contesto scientifico estremamente originale, che viene da lui stesso ben descritto in questa intervista. Senza percepirne appieno, giovane studentessa quale ero, tutte le potenzialità, fui attratta dal dialogo e dagli scambi culturali del gruppo di giovani sociologi che lavoravano con Franco Ferrarotti, gruppo in cui Roberto svolgeva un ruolo centrale, forse anche di leadership informale; in effetti, tra le qualità di Cipriani, vi sono anche la capacità organizzativa, la tenacia, la determinazione e, nel corso della sua lunga e fruttuosa carriera accademica, queste doti sono state sempre spese in favore di un’équipedi lavoro, di cui Roberto è stato perno e stimolo. Di rado egli ha lavorato nella splendida solitudine dell’intellettuale; al contrario, ha preferito alimentare la nascita di gruppi di ricerca di cui è stato guida e riferimento. Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 le ricerche sulle borgate di Roma, l’uso di metodi qualitativi di ricerca empirica, l’introduzione delle storie di vita come metodologia partecipante sono temi nascenti e forieri di innovazione anche teorica di ampio respiro. Accanto a questi, la sociologia della religione, le metodologie qualitative e visuali, la sociologia della conoscenza sono i temi di ricerca sui quali egli ha dato un contributo duraturo e che espone accuratamente in questa intervista. Ricostruire il percorso accademico, e in parte anche personale, di Roberto Cipriani significa non solo rendere omaggio a un sociologo italiano di respiro internazionale, ma anche scrivere una bella pagina della recente storia della sociologia italiana.
Innanzitutto vorrei chiederti: quando e come nasce il tuo interesse per la sociologia?
Già nel primo anno di università presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza. Ero iscritto al corso di laurea in lettere moderne. Nel mio piano individuale avevo inserito anche le scienze sociali: Sociologia, Antropologia Culturale, Civiltà indigene dell’America, Storia delle tradizioni popolari, Storia delle dottrine politiche. Anzi, in alcune di queste discipline scelsi di sostenere esami biennali.
L’impatto decisivo fu senz’altro quello dell’insegnamento di Franco Ferrarotti, o meglio del suo modo di fare lezione, passando dalle grandi letture socio-filosofiche della realtà alla concretezza dell’analisi sul campo e dei riferimenti all’attualità politica e culturale e segnatamente socio-economica, con particolare riguardo alla periferia romana.
Ricordo bene che ancora studente e prima di affrontare l’esame di Sociologia mi sono ritrovato a fare esperienza sul terreno, a Centocelle, mediante l’esercizio dell’osservazione partecipante relativa alla pratica religiosa, contabilizzando i «messalizzanti», ma anche prendendo nota dei loro atteggiamenti e comportamenti nel corso delle celebrazioni religiose.
In effetti, quello socio-religioso era un terreno che già conoscevo bene per la mia precedente appartenenza all’Azione Cattolica giovanile, a livello parrocchiale e diocesano, sia a Cerignola in provincia di Foggia che a Roma (dove avevo il ruolo di incaricato diocesano del Movimento Aspiranti, oggi divenuto ACR, Azione Cattolica dei Ragazzi). Fu quella una base importante per l’apertura al sociale attraverso le numerose attività organizzate, la conduzione di campi scuola estivi anche in tenda in varie parti d’Italia. Per non dire di un intenso impegno in campo sportivo, con la pratica di otto sport e l’attraversamento di diversi ruoli (dirigente, arbitro, allenatore, giocatore, cronometrista, ma soprattutto la responsabilità di Incaricato Nazionale Giovanissimi del Centro Sportivo Italiano, un’organizzazione che ora conta più di un milione di iscritti).
Ma, forse, l’influenza maggiore per un’attenzione rivolta alle problematiche sociali e politiche mi è venuta da uno zio, socialista e forse anarchico, che conosceva bene Giuseppe Di Vittorio, sindacalista di fama internazionale, e Adolfo Salminci, che fu anche vice-Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Entrambi erano nativi di Cerignola, dove ho vissuto per circa trent’anni, affidato dai miei genitori a una sorella paterna e a suo marito, appunto il socialista d’antan che dirigeva (per conto di un appaltatore) un’esattoria comunale ad Ortanova, in provincia di Foggia, ma non vessava i contribuenti contadini ed anzi trovava il modo di ridurre loro le tasse e talora li aiutava di persona.
Puoi descriverci gli anni della tua formazione di sociologo?
La trafila è stata lunga e articolata. Formalmente, ho conseguito diversi titoli di studio e redatto altrettante tesi, sempre di sociologia della religione. Dapprima per la laurea in lettere moderne nel mitico maggio del 1968 e poi, nel 1971, per quella in filosofia (dove mi difesi da solo, in assenza del relatore Ferrarotti, che era in palese ed insanabile contrasto con i colleghi filosofi: il risultato fu che pur «entrato» in discussione con una media di oltre 109 su 110 mi fu di fatto abbassato il voto finale a 109 su 110; peraltro la tesi discussa fu pubblicata subito dopo come libro, di cui lo stesso Ferrarotti fu co-autore aggiungendovi un capitolo). Venne quindi il perfezionamento in Sociologia presso la Libera Università Internazionale di Studi Sociali (nel 1971) e, infine, ci fu la specializzazione in Scienze morali e sociali presso la Sapienza di Roma (nel 1972).
Il quinquennio dal 1968 al 1972 fu davvero molto intenso di studi e ricerche. In particolare, fra il 1969 e il 1971 ci fu un’altra fondamentale fase formativa: quella di borsista presso l’Istituto «Luigi Sturzo» di Roma, dove ebbi come docenti Filippo Barbano e Franco Leonardi, Gino Germani e Achille Ardigò, Gabriele De Rosa e Tullio Tentori, per non dire di altri studiosi, anche di livello internazionale, che frequentavano l’Istituto e che vi tenevano conferenze e seminari. La maggior parte dei miei colleghi corsisti presso lo Sturzo ha poi seguito percorsi accademici, ministeriali e manageriali di alto livello.
Nel frattempo, avevo cominciato a insegnare nelle scuole statali, già nel 1968, appena a ridosso del conseguimento della laurea: italiano, latino, greco, storia, educazione civica e geografia nella quinta ginnasiale del Liceo Classico «Nicola Zingarelli» di Cerignola. Successivamente, insegnai materie letterarie anche negli Istituti Tecnici. Tra il martedì e il mercoledì, però, mi recavo regolarmente a Roma, così potevo continuare a studiare, ma anche ad insegnare. Viaggiavo in treno, di notte, con il capo appoggiato a un piccolo salvagente tascabile, che gonfiavo per lo scopo.
Certamente i sei anni passati nelle scuole mi sono serviti molto sul piano delle competenze didattiche, che invero sperimentavo a largo raggio. Un giorno la mia preside del Liceo Classico mi rimproverò dicendo: «Professore, Lei deve insegnare la storia e non far vedere i film». Non tenni conto della «raccomandazione». Non solo continuai ma allargai pure la prospettiva ad altre soluzioni, sino a rifare con una piccola telecamera, insieme con gli allievi (di un’altra scuola però), una scena famosa di un film storico, sulla resistenza opposta dai partigiani ai nazisti. Ci fu anche un esperimento di tipo teatrale, con studenti di un istituto agrario, coinvolti nel rappresentare una pièce dal titolo I mali del mondo, i cui personaggi principali erano una donna brasiliana, due prigionieri, un maestro, un operatore d’immagini, Gandhi, Malcolm X, Lumumba e, soprattutto, un sociologo che interveniva per degli «inserti» di tipo socio-statistico sulle realtà rappresentate: vi era coinvolta un’intera classe, per cui ognuno/a aveva un compito (attore o musicista, speaker o datore di luci). L’attenzione alla realtà quotidiana, all’attualità era massima: per esempio, si parlava dell’attentato a Monaco di Baviera, durante le Olimpiadi del 1972.
Vi sono personalità che riconosci come «maestri» nella tua formazione di sociologo?
Come già detto, devo molto a Franco Ferrarotti. Come tanti altri sociologi italiani devono a lui: miei compagni di studi e ricerche presso la sua cattedra, anzi il vecchio istituto monocattedra di Sociologia, collocato a due passi dal Magistero di piazza Esedra e precisamente nella Galleria Esedra, al terzo piano di via Vittorio Emanuele Orlando numero 75, di fronte alla Pasticceria Dagnino, tuttora in esercizio. Per decenni è stato il punto di passaggio di quasi tutta la sociologia italiana. Lì si facevano i concorsi per ottenere la libera docenza in Sociologia. Lì si sono tenuti incontri ed anche scontri memorabili: di Franco Ferrarotti con Gianni Statera, di Vittorio Lanternari con Luigi Maria Lombardi Satriani. Era un luogo privilegiato, una sorta di osservatorio che ti permetteva di vedere alla prova i vari maestri delle scienze sociali. Soprattutto era Ferrarotti che coglieva l’occasione di qualche sociologo straniero di passaggio per Roma per chiedergli di presentare i risultati delle ultime ricerche sia teoriche che empiriche.
Ciò consentiva di avere una visione prospettica molto allargata all’intera sociologia internazionale. Non mancavano però scambi di informazioni, suggerimenti, anche fra noi giovani ricercatori. Devo riconoscere all’amicizia e alla dimestichezza con colleghi, fra tanti altri, come Enrico Pozzi e Orlando Lentini (un altro borsista dello Sturzo) l’aver potuto usufruire di utili suggerimenti soprattutto bibliografici. In particolare, debbo ad Orlando Lentini la segnalazione, agli inizi degli anni Settanta, dell’opera congiunta di Berger e Luckmann su La costruzione sociale della realtà (pubblicata nel 1966 e tradotta in italiano nel 1969). I due autori mi erano già noti come dei classici contemporanei in materia di sociologia della religione ma ancora non ne avevo apprezzato il contributo fondamentale a una «nuova» sociologia della conoscenza. Per ragioni contingenti, è stato Thomas Luckmann il mio punto di riferimento, più che Peter Berger. Il primo, dopo il soggiorno statunitense a Palo Alto, dove l’avevo incontrato per la prima volta, era rientrato in Europa, per cui mi è stato anche più facile riprendere i contatti con lui e mantenere una certa affiliazione teoretica, continuamente messa alla prova in convegni internazionali, in particolare in Svizzera e in Germania (visto che il sociologo, scomparso qualche mese fa, abitava nei pressi del lago di Costanza).
Come nel caso di Ferrarotti, anche in Luckmann non c’è mai stata una tendenziale identificazione, anzi alcune mie tesi risultano diametralmente opposte alle sue, come appunto se si mette a confronto l’idea di religione invisibile (invero un’invenzione editoriale, mai sostenuta pubblicamente né in forma scritta né oralmente dal suo autore) con quella di religione diffusa: insomma, da una parte c’è l’ipotesi di una progressiva scomparsa della religione, dall’altra quella di un ulteriore allargamento delle influenze religiose.
Lo stesso dicasi per Sabino Acquaviva, di cui ho letto davvero tutto (romanzi compresi), ma piuttosto per criticarlo che non per approvarlo. Qualcosa di simile è avvenuto per Claude Lévi-Strauss (una decina di migliaia di pagine che ribadiscono continuamente la triade natura, cultura, struttura), che mi ha onorato di una bellissima lettera di apprezzamento-riconoscimento pur nella diversità dei nostri approcci. Vorrei dire lo stesso di Robert Bellah, condivisibile in larga misura nel suo studio sull’Evoluzione religiosa (1964) e in quello interdisciplinare su Le abitudini del cuore (1985), ma indifendibile nella sua lettura de Le cinque religioni dell’Italia moderna (1974), dove si arriva sino alla manipolazione di un medesimo scritto che nelle due versioni, italiana e inglese, presenta una sostanziale differenza legata alla presenza o meno di un pesante giudizio di valore sulla cultura religiosa italiana.
Un discorso a parte andrebbe fatto per altri due possibili maestri: Silvano Burgalassi, pioniere della sociologia della religione in Italia e restio a soluzioni metodologiche innovative, e Achille Ardigò, ondivago nelle preferenze bibliografiche e segnatamente legato ad una concezione militante della sociologia.
Quali sono le tappe o le fasi della tua carriera accademica?
Non è facile stabilire tappe e differenze perché in sostanza il mio è stato un percorso pluri-parallelo su diversi fronti: dalla sociologia della religione alla sociologia qualitativa, dalle proposte teoriche alle ricerche empiriche, dalla manualistica italiana e plurilingue alle traduzioni italiane di opere classiche.
Certamente, vi è una prima fase tutta legata all’analisi sociologica della religione, a partire dal fenomeno della religiosità popolare, che vede nella ricerca sul Cristo rosso (1985) di Cerignola un punto di approdo rilevante, corredato da una straordinaria lettura introduttiva di Émile Poulat, che vi coglie il destro per parlare del Cristo nero africano, in una panoramica storico-culturale che non esiterei a definire una perla preziosa della letteratura socio-storico-antropologica applicata alla religione.
Dalla vicenda referendaria degli anni Ottanta sull’aborto e sul divorzio prende avvio la formulazione di una teoria della religione diffusa, dapprima presentata quasi timidamente e con reazioni di sorpresa nella Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione tenutasi a Londra, al Bedford College, nel 1983, e poi ripresa con un’indagine in Sicilia che segna il passaggio verso una trasformazione della medesima prospettiva in una teoria de La religione dei valori (1992) e successivamente in una teoria della religione dei valori diffusi (2009), per sfociare da ultimo in una visione comparativa interreligiosa ed interculturale con Diffused Religion. Beyond Secularization (2017).
Nel contempo, ho riproposto in lingua italiana la Scuola di Francoforte su La teoria critica della religione (1986) e tutti gli scritti di Simmel sulla religione, raccolti in Saggi di sociologia della religione (1992).
A metà degli anni Ottanta, è iniziata da Orune, in Sardegna, la trilogia di ricerche sui rapporti fra comunità e solidarietà, che ha portato alla pubblicazione di tre opere: la prima su La lunga catena. Comunità e conflitto in Barbagia (con A. De Spirito, V. Cotesta, J. Fraser, M. Mansi, S. Di Riso: 1988, 1989 e 1996), la seconda su Episkepsi: il villaggio armonioso. Tradizione, modernità, solidarietà e conflitto in una comunità greca (con V. Cotesta, N. Kokosalakis, R. van Boeschoten: 1999 e 2002) e la terza in Messico su Il pueblo solidale. Nahuatzen: dalla cultura purépecha alla modernizzazione (2005).
Avevo altresì proseguito una ricerca sulla borgata romana di Valle Aurelia, avviata negli anni Settanta, e avevo pubblicato, con altri studiosi, i volumi La comunità fittizia. Differenziazione e integrazione nella borgata romana di Valle Aurelia (con C. Corradi, S. Di Riso, F. Landi, E. Pozzi, 1988 e 1992) e Sentieri della religiosità. Un’indagine a Roma (con C. Corradi, C. Costa, D. Schiattone, 1993).
Nel biennio 1994-1995, veniva realizzata la prima indagine su La religiosità in Italia (con V. Cesareo, F. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, 1995), l’unica statisticamente rappresentativa dell’intera popolazione italiana. Sono seguiti approfondimenti locali su La religiosità a Roma (1997) e su La religiosità fra tradizione e modernità. Ricerca socio-religiosa nella diocesi di Cerignola-Ascoli Satriano (con M. Pacucci, V. Orlando, 1996).
Per una maggiore diffusione delle conoscenze di base della sociologia, ho redatto un Manuale di sociologia della religione (1997), tradotto in inglese (2000), francese (2004), spagnolo (2004), cinese (2004-2005) e portoghese (2007). Ma ho poi voluto dare più spazio al contributo degli autori italiani nel Nuovo manuale di sociologia della religione (2009).
Un tema che mi appassiona molto è quello del tempo per cui ho scritto Sociologie del tempo. Tra crónos e kairós (1997), testo esaurito da tempo, mentre è disponibile un altro contributo sul tema che ha avuto una certa eco: «The Many Faces of Social Time: A Sociological Approach», Time & Society, 22, 1st March 2013, pp. 5-30.
Ho quindi ripreso gli studi sulla religiosità popolare con Il viaggio. Pellegrinaggio e culto del Crocifisso nella Sicilia centrale: lu Signuri di Bilìci (con C.C. Canta, A. Turchini, 1999). E con l’anno santo del 2000 è iniziata una lunga serie di ricerche sui pellegrinaggi e sull’analisi qualitativa anche computer-assistita (tuttora in via di completamento sul Giubileo della Misericordia): dopo un primo lavoro quantitativo su Pellegrini del Giubileo (curato con C. Cipolla, 2002), ci sono stati vari approcci qualitativi con le curatele di Giubilanti del 2000. Percorsi di vita (2003), L’approccio qualitativo. Dai dati alla teoria nell’analisi sociologica (2006), L’analisi qualitativa. Teorie, metodi, applicazioni (2008) e Dai dati alla teoria sociale. Analisi di un evento collettivo (con G. Losito, 2008). Per concludere, poi, con Sociologia del pellegrinaggio (2012) ed in lingua spagnola con Sociología cualitativa (2013).
Ho inteso infine offrire un approccio sistematico tipicamente italiano mettendo insieme i contributi dei maggiori specialisti su ciascuno dei temi trattati nel Nuovo manuale di sociologia (2016).
Lo studio scientifico della religione e l’uso di metodi qualitativi nella ricerca sociale: sono forse questi i temi che contraddistinguono, tra i tanti altri, il tuo lavoro. Sei d’accordo? Riguardando oggi il tuo contributo scientifico su ciascuno di essi, che bilancio ti senti di fare?
In linea di massima sono d’accordo, ma non trascurerei il tema della comunità nella sua dimensione solidaristica, che costituisce il fil rouge delle ricerche sulla periferia romana, ad Orune, Episkepsi, Nahuatzen ed Haifa (dove ho collaborato ad una video-ricerca diretta da Emanuela Del Re e disponibile su Youtube con il titolo La risposta di Haifa).
Inoltre, non lascerei da parte l’attività di sociologia visuale che conta ormai diversi contributi, alcuni dei quali di valore storico-documentaristico, come talune pellicole in super8 millimetri: Guardiasanframondi (riti settennali di autoflagellazione a sangue, 1975), Barile. Venerdì Santo 16 aprile 1976 (via Crucis con personaggi viventi, 1976), Nahuatzen 1982 (festa di san Luís Rey, 1982), Sevilla España (settimana santa, 1984).
Hanno invece un carattere più professionale e un supporto audio-video di maggiore qualità tecnica: Rossocontinuo (settimana santa del 1989 a Cerignola), Cerignola sullo schermo (raccolta di brani cinematografici e videografici, a partire dagli anni Quaranta), Las fiestas de San Luís Rey (a Nahuatzen nel 1996), Il viaggio (pellegrinaggio al santuario siciliano di Bilìci nel 1997), Semana Santa en Sevilla (nel 2008), Fuego en fiesta (festa di san Giuseppe a Valencia nel 2009), Ripalta dell’Ofanto (pellegrinaggio di ritorno dal santuario di Ripalta: 2011), Semana santa en Valladolid (nel 2013).
Se vogliamo restare ai temi sviluppati maggiormente, cioè sociologia della religione e sociologia qualitativa, devo dire che non spetta a me fare un bilancio. Di solito, sono le generazioni successive che valutano la fortuna di un’opera e di un autore. Risulta ben difficile invece per chi è coinvolto in prima persona.
Semmai posso dire che avrei potuto dare di più didatticamente sul piano dello sviluppo di una disciplina come la sociologia della religione che, in Italia, per quella che chiamo una «doppia congiura», ha avuto contrarie sia l’università statale che l’istituzione ecclesiastica.
Quando ero alla Sapienza di Roma, sono stato il primo ad avere un insegnamento ufficiale denominato Sociologia della religione. Ma fu solo per un anno. Poi passai alla Sociologia della conoscenza.
Al mio posto subentrò Maria Immacolata Macioti, che ha tenuto a lungo l’insegnamento e che ha il merito di aver preservato la disciplina da colonizzazioni esterne, riuscendo con fermezza a far istituire una sezione autonoma di Sociologia della religione, nell’ambito dell’Associazione Italiana di Sociologia, resistendo a ogni forma di ricatto.
Ancora oggi la sezione di religione è attiva e operosa. Ho dato man forte sempre e comunque, ma non vi ho mai avuto il ruolo apicale.
D’altro canto, nel resto di tutta la carriera accademica ho insegnato la Sociologia della religione solo nel triennio di permanenza nell’Università di Chieti.
Sul versante dell’approccio qualitativo, ancora una volta in una posizione di controtendenza, ritengo di avere fatto il possibile per porre le premesse in vista di una sua rivalutazione pleno jure, sia perché avevo mostrato disponibilità e competenza nella metodologia quantitativa sia perché ho proposto soluzioni di mixed methods che oggi sono fra le più promettenti.
La realizzazione di PRIN pluriennali sul qualitativo, l’offerta costante di corsi di formazione sul software NVivo, la diffusione della grounded theory (attraverso la traduzione italiana dell’opera di riferimento di Glaser e Strauss), l’organizzazione annuale di un Forum Nazionale Analisi Qualitativa (FNAQ), l’esperimento in corso di un’indagine qualitativa nazionale sulla religiosità in Italia (ma in connessione con un approccio quantitativo mediante questionari) e la riproposta per il quinto anno consecutivo di un VisualFest internazionale dedicato all’analisi scientifica visuale sono tutti elementi che fanno ben sperare, anche perché non restano imbalsamati nei loro formats precedenti, ma evolvono secondo necessità e fantasia.
Se infine si vuole una segnalazione precisa, posso immaginare che l’opera di maggiore spinta per la riscoperta del qualitativo sia stata quella dal titolo provocatorio di Metodologia delle storie di vita con le sue tre edizioni (1987, 1992, 1995).
Sul versante della sociologia della religione, invece, auspico piuttosto un recupero di terreno, grazie a un ampliamento della teoria della religione diffusa che mi porto dietro dal 1983 e che ora, in combinazione con la secolarizzazione diffusa, potrebbe creare nuovi spazi di dibattito, specialmente a livello internazionale.
Sei stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia dal 2004 al 2007. In precedenza, avevi ricoperto la carica di Segretario e Vice-Presidente. Come ricordi quegli anni?
Il ricordo è in pari tempo piacevole, ma pure cagione di rimpianto per quanto si sarebbe potuto fare e invece non si è fatto per idiosincrasie personali, più che «componenziali».
Sono e sarò sempre molto grato ad Alessandro Cavalli per aver accettato di essere con me nella sua qualità di vice-Presidente. Si andava molto d’accordo. Si era creato un clima di compartecipazione. Un giorno, in un lodge sudafricano, si cominciò anche a parlare di formule per il superamento di alcune gabbie rigide create dalle correnti o meglio dalle componenti. Si studiò anche qualche formula per sparigliare la rigida divisione in tre di tutte le posizioni di vertice nell’Associazione Italiana di Sociologia.
Si tentò pure di fare lobby in favore della sociologia sia in Senato che alla Camera, grazie alla pertinace volontà di Franca Bimbi, all’epoca in veste di parlamentare. Ma il turn over continuo dei nostri interlocutori impedì di raccogliere frutti. E, nondimeno, si erano create sinergie interdisciplinari inimmaginabili in sede universitaria.
A un certo punto, si propose anche la creazione di una fondazione sociologica italiana, promossa dall’Ais. Venne consultato un avvocato esperto in materia. Fu predisposto uno statuto. Un professore associato di sociologia, già alto funzionario presso il Senato della Repubblica, offrì l’intera somma (piuttosto notevole: 50.000 euro) necessaria per la costituzione della fondazione. Si cominciarono a delineare gli scenari relativi alla presenza delle componenti nel direttivo della fondazione. Si prefigurò una maggioranza della minoranza, per fugare sospetti sulle reali intenzioni dei proponenti. Si pensò di sacrificare al massimo, sino ai minimi termini (cioè un solo membro), una delle tre componenti. Ma non se ne fece nulla.
Il clima del Direttivo fu sempre abbastanza cordiale, persino conviviale, come in una riunione tenuta a Sabaudia nel 2006 in piena estate. Ci si sentiva come in famiglia, nonostante le diversità di opinione.
Ci fu persino il coraggio di organizzare il Congresso di fine mandato presso l’Università di Urbino, località non facile da raggiungere e che faceva temere un insuccesso di partecipazione. Ebbene intervennero più di mille persone. Tutta la macchina organizzativa entrò in fibrillazione. Si cercarono e trovarono rimedi, grazie alla straordinaria disponibilità della segreteria organizzativa retta da Renato Fontana e ai preziosissimi supporti del colleghi urbinati, Valli, Mazzoli, Boccia Artieri, Bartoletti, Olgiati, Maggioni, Kazepov e forse dimentico qualche altro.
Sul piano internazionale si fece ogni sforzo per aumentare la visibilità della sociologia italiana. Si organizzò a Roma un convegno internazionale italo-statunitense, cui partecipò lo stesso presidente dell’American Sociological Association, Troy Duster, ma i risultati non furono evidenti. I partecipanti italiani furono pochi.
Riuscì invece abbastanza bene l’iniziativa di rinforzo di una rete delle associazioni sociologiche dell’Europa del Sud: Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Francia. Fu organizzato un seminario nell’isola di Capri, con vari incontri piuttosto vivaci sul piano scientifico e comunque forieri di future ed efficaci collaborazioni, specialmente in seno alla European Sociological Association, dove Consuelo Corradi è divenuta vice-Presidente e Carmen Leccardi è stata eletta Presidente.
Di recente, hai curato un manuale di sociologia che raccoglie esclusivamente contributi di sociologi e sociologhe italiane. Quali sono i maggiori punti di forza e di debolezza della sociologia italiana oggi?
Penso che i punti di forza siano di gran lunga superiori alle carenze. Non a caso Alberto Martinelli ha raggiunto il vertice dell’International Sociological Association, da lui presieduta dal 1998 al 2002. E, ben più modestamente, a me hanno offerto di essere candidato alla stessa carica.
Dunque, la nostra presenza internazionale non va annoverata fra i punti deboli, a dispetto della barriera linguistica che non permette agevolmente di far conoscere i risultati dei nostri studi all’estero.
Mentre si continua a citare il solito Pareto come esponente di rilievo della nostra sociologia, per cognizione di causa posso dire che la nostra produzione scientifica non è da meno di quella statunitense o francese o britannica o tedesca o altra ancora. C’è quasi solo un problema serio di comunicazione scientifica, cui occorre ovviare il più presto possibile per evitare di perdere ancora terreno solo per un dettaglio minore.
Occorre abituarsi a una concorrenza ampia e agguerrita per riuscire, per esempio, a pubblicare su riviste prestigiose e bisogna essere ben predisposti a fronteggiare le procedure di selezione, che comportano a volte passaggi ardui ed anche scoraggianti, ripetuti e apparentemente inutili, di fatto selettivi.
I suggerimenti di modifiche vanno accolti moderatamente, con equilibrio, magari resistendo se si ritiene di essere nel giusto. In generale, però, ogni articolo, ogni libro può essere migliorato, sul piano linguistico o metodologico o contenutistico o espositivo.
Tuttavia. la questione della lingua è la base di partenza. Se si pubblica in inglese, che non è la nostra lingua madre, è indispensabile fare ricorso all’ausilio di chi da sempre si esprime con quella grammatica e con quella sintassi.
Conosco fior di ordinari in lingua e letteratura inglese che si fanno tradurre i loro testi dall’italiano in inglese e da esperti del settore disciplinare che siano anche madrelingua. Questo discorso non vale solo per l’idioma. Va applicato anche ad altri aspetti.
Tra le eccellenze della nostra sociologia va annoverata la compagine dei sociologi dell’economia, del lavoro e dell’organizzazione, più spesso abituati a muoversi tra i dati quantitativi, le procedure informatiche, i calcoli raffinati, la modellistica d’avanguardia, le convergenze interdisciplinari. Sono proprio questi nostri colleghi che trovano una migliore accoglienza all’estero, sostanzialmente alla pari con altri studiosi delle medesime discipline. La loro presenza in riviste di prestigio è nient’affatto trascurabile.
La parte in maggiore sofferenza, a mio avviso, è la cosiddetta sociologia della sociologia ovvero la sociologia della conoscenza che pure ha conosciuto nel nostro paese momenti di maggiore fulgore. Ne sono ben consapevole per averla insegnata per un quindicennio quando ero alla Sapienza.
Negli anni del costruzionismo, prima e del decostruzionismo, dopo, le diatribe sono state numerose e di qualità, ma alla fine si sono rivelate sterili ed hanno fatto perdere credibilità e forza ad un settore che lavorava sulle ideologie e sulle utopie, sul ruolo degli intellettuali e sulle procedure logiche, sul potere e sul carisma, sui processi di consenso e sulle modalità di contestazione e rivoluzione.
Tutti temi questi non certo assenti nelle problematiche sociologiche contemporanee, ma assunti da altri disciplinaristi di matrice culturale, comunicazionista, politica, giuridica, così che alla fine la sociologia della conoscenza invece di crescere nell’interesse dei sociologi si è lasciata andare in studi e ricerche collaterali, sino quasi a cedere del tutto il campo suo proprio.
Oggi sono pochissimi coloro che professano la sociologia della conoscenza come loro insegnamento specifico, frutto questo anche dei continui aggiustamenti nei corsi di laurea per esigenze di requisiti necessari e crediti formativi universitari, che hanno richiesto accorpamenti pletorici, aggettivazioni ripetute sino all’insignificanza e dunque alla sparizione.
Per quanto concerne teoria e metodologia la situazione è certo migliore, ma non riesce ad avere il debito riconoscimento oltre i confini di casa. Eppure non mancano suggestioni innovative, teoresi singolari e intriganti, procedimenti metodologici non abituali, commistioni insolite fra teoria e ricerca. Ma riesce difficile esportare tutto ciò.
Alle grandi case editrici internazionali hanno accesso soprattutto coloro che già sono inseriti, hanno i canali giusti, conoscono le persone-chiave. Se qualche sociologo italiano riesce a trovare maggiore spazio è perché parte da una collocazione che non è nel nostro paese o che non lo è più: si tratta di espatriati volontari, di soggetti che hanno rischiato e scommesso sull’estero, raggiungendo traguardi che agli altri rimasti a casa riescono irraggiungibili.
Un’ultima considerazione riguarda il successo avuto dalla sociologia della comunicazione almeno fino a qualche anno fa. Il forte incremento di iscrizioni ai rispettivi corsi di laurea alla fine si è rivelato ed ha agito come un boomerang in quanto il mancato sbocco professionale per migliaia di persone ha significato un discredito per la disciplina come creatrice di disoccupazione. Il che, in qualche misura, ha creato un effetto a catena anche per le altre discipline sociologiche.
Mentre altrove sembrano aver attecchito molto i cultural studies, qui da noi la minaccia per le sociologie culturali non c’è stata, per assenza di materia del contendere. Insomma, una volta tanto il prevalente isolazionismo della sociologia italiana ha funzionato a suo vantaggio, preservandola da una colonizzazione ulteriore.
L’invasione (per così dire) dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, è avvenuta soprattutto nel settore della manualistica, con una larga diffusione di esposizioni molto didascaliche, talora anche banali, accompagnate da esercitazioni semplicistiche, da applicazioni improbabili rispetto alla complessità e piene di immagini che invece di aiutare impediscono in realtà una riflessione critica e matura.
In questo senso, il mio è invece un Nuovo manuale di sociologia, nuovo perché tutto, esclusivamente, italiano e di italiani per gli italiani (senza cadere nell’autarchismo indebito), nuovo perché né troppo astratto né troppo semplificato, nuovo perché incentrato sulla metodologia come pilastro essenziale (e dunque situata al centro stesso del libro, non in appendice), nuovo perché mette insieme autori che in buona misura non si sono mai confrontati direttamente prima, nuovo perché rivolto anche al grande pubblico attraverso una distribuzione effettuata da una casa editrice che arriva a utenti non abituati alla frequentazione del mondo scientifico.
I colleghi ti considerano come uno dei sociologi italiani che più ha frequentato ambienti scientifici internazionali. Qual è il contributo originale che una frequentazione internazionale dà al sociologo oggi?
In primo luogo è da considerare una formidabile modalità di conoscenza. Ancora adesso mi domando come abbiano fatto tanti nostri illustri colleghi del passato, che non hanno varcato quasi mai le frontiere per cercare spunti di riflessione altrove, accontentandosi solo di quello che passava il convento di qualche biblioteca universitaria o di qualche libreria specializzata.
Adesso c’è Internet si potrebbe obiettare. Ci sono i motori di ricerca si potrebbe aggiungere. Credo, però, che nessun espediente informatico riuscirà a superare la fertilità di un incontro personale, le tante possibilità di scambio e di approfondimento attraverso una discussione face-to-face, le mille soluzioni prospettabili in una interlocuzione diretta.
Mi ha appena scritto José Casanova per dirmi che, inaspettatamente, per Natale è andato da lui Charles Taylor. Avrei voluto essere presente. Avrei appreso moltissimo e di sicuro avrei a mia volta sollevato questioni ai due studiosi che so essere sempre molto disponibili al dibattito.
Ecco: questa è la caratteristica che manca a molti di noi. Quante volte si va in visita da un altro sociologo per sapere su che cosa sta lavorando, o per presentare a nostra volta un interrogativo teorico, metodologico, procedurale?
Sono sostanzialmente due le occasioni da non mancare in un viaggio all’estero, oltre naturalmente tutto il programma ufficiale del convegno cui si partecipa: in primo luogo, ma solo per ordine cronologico, va fatta una visita accuratissima, meglio se ripetuta, stand per stand a tutta la mostra dei libri e delle riviste allestita per l’occasione, cercando anche di essere presenti quando gli stessi autori presentano e firmano le loro opere, formidabile momento di verifica diretta del carattere e della qualità scientifica di uno studioso; in secondo luogo, ma sempre prioritariamente nella lista delle attività convegnistiche, occorre cercare appuntamenti conviviali con soggetti significativi, di precipuo interesse, da vedere a colazione, a pranzo o meglio a cena (allorquando i limiti di tempo sono più ampi). Se si mettono insieme tali opportunità, alla fine ci si accorge facilmente che è comunque valsa la pena e che il costo del viaggio è più che ripagato, indipendentemente dalla qualità dei papers presentati nel congresso. Anzi, se non ci fosse stato possibile seguirne qualcuno, c’è sempre la possibilità di recuperare l’indirizzo di posta elettronica dell’autore che, compiaciuto della richiesta che gli perviene, in genere sarà ben disposto all’invio del suo testo.
Quali consigli ti senti di dare alla nuova generazione di sociologi italiani?
In primo luogo, non arrendersi mai. Nemmeno di fronte a ciò che appare evidente. Del resto, un bravo sociologo sa bene che l’evidenza non è detto sia la verità (ammesso che si creda nella sua esistenza). Il dato non è mai dato una volta per tutte, è solo un punto di avvio di una lunga disamina a 360 gradi, in qualunque direzione, soprattutto se contraddice qualche nostra ipotesi iniziale.
La conoscenza delle lingue è fondamentale. Segna la differenza. Conoscerne più di una è un vantaggio enorme, incalcolabile. L’apprendimento può avvenire in qualunque età. Gli esiti migliori provengono dalla frequentazione sul posto. Dopo un paio di settimane, c’è già una prima base di conoscenze utili a sbrigarsela da soli anche in situazioni di disagio. Ma occorre mantenere un collegamento costante con quanto appreso, esercitandosi tutte le volte che è possibile.
In particolare, per la lingua inglese suggerisco la soluzione di soggiorni mensili estivi di piena immersione in Inghilterra (meglio se a Londra e dintorni), magari programmando di seguire corsi mensili per tre anni consecutivi (base minima essenziale per una comprensione sufficientemente avanzata, mentre per la scrittura converrà quasi sempre rivolgersi ad un madrelingua che abbia buone cognizioni sul linguaggio proprio delle scienze sociali).
A livello di contenuti, ritengo quanto mai opportuna la circolarità di letture ed esperienze tra teoria e ricerca empirica. L’una e l’altra si sostengono a vicenda e offrono occasioni risolutive, specialmente se vi è un costante rimando fra i due approcci.
A livello metodologico, consiglio vivamente di acquisire competenze sia quantitative che qualitative, almeno fino a raggiungere una soglia sufficientemente alta di know how che sia in grado di riconoscere errori e manipolazioni, ma anche di gestire protocolli procedurali, diagrammi di flusso delle fasi di ricerca, strumenti e programmi informatici specificamente dedicati rispetto agli obiettivi delle indagini.
A fronte di una diffusa carenza di finanziamenti, la storia delle scienze sociali documenta (oltre ogni possibile previsione) che buona parte delle ricerche che hanno lasciato traccia nella storia del pensiero sociologico non aveva alcun contributo economico su cui contare. Lo stesso ricercatore ha escogitato soluzioni non onerose, vie d’uscita vincenti, economie di scala, risorse inattese, non economiche. Insomma, se un certo tema interessa, il sociologo può essere comunque in grado di raccogliere informazioni, svolgere indagini di sfondo, arrivare a qualche interpretazione del fenomeno preso in considerazione.
Un altro suggerimento utile è di cercare collaborazioni, numerose ed interdisciplinari, magari anche diversamente orientate sul piano teorico e metodologico e persino ideologico. Il confronto interpersonale è un ottimo antidoto alle interferenze soggettive, al pensiero carico di desiderio, alla fiducia assoluta nelle prassi consolidate. Specialmente quando si va sul campo, conviene avere punti di vista diversificati, più ottiche di osservazione, prospettive plurime di lettura delle situazioni.
Infine, vorrei raccomandare di non autoghettizzarsi nello studio di un unico medesimo problema nel corso della propria esperienza scientifica. Provare a interessarsi di altro aiuta anche a capire meglio quello che è il proprio ambito preferito