PRETI E SOCIETÀ IN ITALIA

Roberto Cipriani


Premessa


                Non è facile immaginare la società italiana del tutto priva della presenza di sacerdoti cattolici. Essi costituiscono da tempo un carattere peculiare della cultura del nostro territorio tanto da essere oggetti e soggetti di molteplici espressioni artistiche (specialmente nel cinema e, soprattutto di recente, anche nella televisione) nonché di utilizzazioni pubblicitarie a tutto spiano. Il che, al di là di altre possibili considerazioni di ordine valutativo, è pur sempre un dato di fatto significativo ed inequivocabile, come segno di un certo apprezzamento, di una simpatia, tutto sommato di un prestigio che i preti godono tra la popolazione italiana.


                Tale atteggiamento tendenzialmente favorevole si tramuta in comportamenti concreti che vanno dalla sottoscrizione dell’otto per mille alla ricerca di interlocutori affidabili proprio nei sacerdoti. Ma questo non esclude altre attitudini non del tutto favorevoli, piuttosto critiche, persino avverse.


                Del resto il ruolo strategico dei preti nella società italiana ne fa degli elementi che si prestano a giudizi diversificati, non sempre in riferimento alla loro reale capacità pastorale, alla loro moralità pubblica e privata, al loro impegno sociale e solidaristico, ma talora con ampie quote di pregiudizi che troppo generalizzano e poco tengono conto della singolarità dei casi presi in esame.


La realtà dei dati


                Secondo l’Ufficio Statistico della Chiesa Cattolica risultano presenti in Italia 54.606 sacerdoti, fra diocesani (35.388) e religiosi (19.218) con una media dunque di 9,3 sacerdoti ogni 10.000 abitanti ovvero quasi un prete per ogni migliaio di persone. Ed ecco il quadro completo, suddiviso per regione:



Regione


Numero dei sacerdoti


Percentuale dei sacerdoti


Piemonte


4.679


  8,6


Lombardia


7.726


14,1


Triveneto


8.327


15,2


Liguria


2.094


  3,8


Emilia Romagna


3.795


  6,9


Toscana


3.313


  6,1


Marche


1.911


  3,5


Umbria


1.095


  2,0


Lazio


7.346


13,5


Abruzzo Molise


1.412


  2,6


Campania


3.690


  6,8


Puglia


2.708


  5,0


Basilicata


  427


  0,8


Calabria


1.359


  2,5


Sicilia


3.483


  6,4


Sardegna


1.241


  2,3


TOTALE ITALIA


                     54.606


                      100,0


Fonte: Ufficio Statistico della Chiesa Cattolica, 1995.


                    Ovviamente la condizione demografica di ciascuna regione influisce direttamente sul numero dei preti, fatta eccezione per il Lazio dove risulta preponderante il peso di Roma. Ecco perché Triveneto e Lombardia hanno un alto numero di ministri di culto cattolico, ma va precisato che il tasso di sacerdoti rispetto alla popolazione regionale risulta consistente (12,5 su 10.000 abitanti) solo nel caso del Triveneto ma è ben più contenuto in Lombardia (8,8) mentre è ancor più alto in Marche, Umbria e Lazio (13,2). I livelli più bassi si riscontrano in Campania (6,2), Calabria (6,4), Puglia (6,6), Basilicata e Sicilia (6,7). Contrariamente a quanto si è indotti a pensare di solito la maggiore presenza dei sacerdoti è dunque nel centro-nord piuttosto che nel sud.


                Come sottolinea Luca Diotallevi in una recente pubblicazione (Religione, chiesa e modernizzazione: il caso italiano, Borla, Roma, pagina 121), “alla sperequazione nella distribuzione – a vantaggio delle regioni settentrionali – va aggiunto un altro elemento. I molti sacerdoti del Nord sono attivi in poche diocesi mentre i pochi del Sud e del Centro in molte”. Insomma chi si trova nel settentrione partecipa ad una comunità diocesana di presbiteri in media tre volte più numerosa di quelle delle diocesi meridionali. Di conseguenza anche la “cura d’anime” è meno efficace al sud giacché i pastori devono preoccuparsi di quote molto più ampie di popolazione.


                Ecco dunque che “oggi, e non un secolo fa, vi è maggiore disponibilità di personale religioso nelle aree più modernizzate, più sviluppate e più ricche del paese”, per cui “il rapporto di forze tra Nord e Sud che regge ancora, ‘più personale religioso nelle aree più socialmente avanzate’, non è qualcosa che abbia semplicemente resistito all’ondata di modernizzazione che ha interessato il Paese seppur disomogeneamente. Al contrario, è una sperequazione a vantaggio delle aree più avanzate che proprio contemporaneamente al processo di modernizzazione si è andata affermando”.


                Un altro aspetto di particolare interesse è quello delle ordinazioni sacerdotali, che ripercorrono lo stesso trend registrato sinora: tra il 1991 ed il 1995 si sono avuti 2.414 nuovi sacerdoti ordinati in Italia; di questi 1.126 nella parte settentrionale, 812 in quella meridionale, 476 nella parte centrale (compresa Roma con 165 ordinati).


Infine si può ricordare che, secondo il dato più recente in nostro possesso, al 30 giugno 1999 risultano iscritti nelle liste della CEI per il sostentamento del clero 32.953 sacerdoti secolari.         


L’immagine dei preti


                Se si parte dalla constatazione che la maggioranza degli italiani (il 64,8%) – secondo l’indagine nazionale su La religiosità in Italia (curata da Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, e pubblicata da Mondadori nel 1995) – crede molto o abbastanza che “la chiesa cattolica è un’organizzazione voluta e assistita da Dio”, è prevedibile che anche nei confronti del personale ecclesiastico si possa registrare un orientamento positivo.


                In particolare se in media solo il 10% degli italiani ritiene essere compito di un credente il “consigliarsi con dei sacerdoti” ed il 9,8% il “contribuire alle necessità economiche della chiesa o del proprio gruppo religioso” (ma va tenuto presente che si trattava di scegliere solo cinque azioni ritenute più importanti su un totale di quattordici), tuttavia il 27,7% partecipa a incontri, conferenze, dibattiti, iniziative organizzate dal parroco o da altri esponenti di gruppi o centri religiosi.


                L’impatto con i sacerdoti passa essenzialmente attraverso il momento dell’omelia domenicale, che crea qualche problema soprattutto per la sua lunghezza (come lamenta il 46,7% degli intervistati), per la sua impostazione polemica (fatta rilevare nel 23,6% dei casi), per l’essere per nulla o poco stimolante (giudicata così dal 49,6% dell’universo campionato), per la sua scarsa comprensibilità (sottolineata dal 14,8% del campione).


Il nodo principale che fa problema è però quello della confessione, cui non si accosta mai più di un quarto (25,7%) dell’intera popolazione italiana. Intanto però va registrato un 22,9% che vorrebbe “cambiare il modo di confessarsi previsto dalla chiesa”.


Ciò che non piace nella confessione è “il modo di confessare di alcuni preti” (lo dice il 18,6%), il doversi confidare con un sacerdote quando basterebbe invece pentirsi davanti a Dio (lo sostiene il 28,2%), il bisogno di raccontare ad un altro uomo le proprie colpe (lo pensa il 10,6%), il fatto che la chiesa consideri peccato ciò che a giudizio personale non appare come tale (lo ritiene il 5,3%). All’8,4% degli intervistati la questione non interessa o va inquadrata secondo prospettive diverse. Per il restante 28,9% non vi sono riserve di sorta.


                Un riflesso del disagio relativo alla confessione si rileva anche quando si parla in termini più generali. In effetti nel 28,8% dei casi si è propensi a ritenere che “non c’è bisogno dei preti e della chiesa; ognuno può intendersela da solo con Dio”.


A parte le offerte nel corso delle messe festive, il 50,5% dice di non aver mai dato del denaro alla parrocchia, ma ancora più cospicuo è il numero di soggetti (78,1%) che dichiara di non aver parlato direttamente con un sacerdote su problemi personali o familiari.


Nondimeno il 46,7% degli intervistati pensa che “in Italia la chiesa cattolica è l’unica autorità spirituale e morale degna di rispetto”. Semmai si rimprovera che “la chiesa cattolica predica bene, ma non mette in pratica quello che afferma” (come si esprime il 43,4%).


Un altro rilievo concerne lo scarso spazio lasciato ai laici, secondo quanto notato dal 64,4%.


Tra i compiti peculiari della chiesa vengono individuati l’aiuto a chi soffre (66,2%), l’educazione dei giovani (47,3%), l’annuncio cristiano ed evangelico (38,9%), la promozione della pace (33,5%). Seguono a distanza l’amministrazione dei sacramenti (19,2%), la lotta alla mafia ed alla criminalità (17,3%), l’azione missionaria (17,1%).


Qualora la parrocchia venisse chiusa o soppressa, per mancanza di sacerdoti, in molti (43,2%) pensano che ne risentirebbe anche la vita di quartiere.


Il 58% “ritiene giusto il finanziamento delle chiese attraverso l’8 per mille delle tasse versate allo stato (IRPEF)”.


Molto dettagliata è poi la serie di motivazioni individuate come ostacolo alla scelta di una vita sacerdotale. Al primo posto è messo il non potersi sposare, avere figli (37,4%), c’è poi la rinuncia a molte cose (26,7%), seguita dalla irrevocabilità della scelta (23,8%) e dalla disponibilità di varie alternative per un impegno religioso (21,5%), nonché dalla solitudine connessa alla vita sacerdotale (20,2%).


La maggioranza relativa degli intervistati (il 45,1%) pensa inoltre che debba essere abolito il celibato obbligatorio per i preti cattolici. D’altra parte una quota consistente del campione (39,7%) darebbe senz’altro il sacerdozio anche alle donne.


Farsi prete


La vocazione al sacerdozio continua ad interessare migliaia di giovani, pur attratti e distratti da altre prospettive. La storia ci dimostra che ben altre e più consistenti sono state le crisi: due secoli fa (nell’ottocento, dopo la cosiddetta grande secolarizzazione, che portò alla chiusura di molti conventi ed altri luoghi di educazione religiosa) e poi soprattutto agli inizi del secolo scorso (nel novecento, che registrò – almeno nei primi due decenni – ampi vuoti nei seminari).


                La ripresa si è avuta a partire dagli anni venti, pur con alterne vicende, fra le quali vanno segnalate la stasi e talora la caduta vocazionale post-contestazione degli anni sessanta. Tuttavia guardando con una prospettiva a lunga gittata, senza dare rilevanza ad episodi contingenti, si può parlare di una sostanziale tenuta delle vocazioni – tenuto anche conto del calo demografico, che vede l’Italia particolarmente sfavorita.


                Il flusso vocazionale non si è dunque interrotto. Anzi si potrebbe supporre che proprio le difficoltà dell’oggi rendono ancora più consapevole e coerente la scelta sacerdotale. Mediamente si deve anche riconoscere che il livello qualitativo, spirituale e culturale, dei candidati al sacerdozio è andato migliorando, la didattica nei seminari e nelle facoltà teologiche si è aperta alle nuove scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia), la preparazione di base dei seminaristi è su un livello certamente più alto di quello dei loro predecessori di qualche decennio fa. Molti presbiteri contemporanei hanno conoscenze informatiche, linguistiche e manageriali nemmeno immaginabili nel passato.


                La modernizzazione non è indice di cedimento al materialismo, a tutto danno della dimensione spirituale. Anzi è dimostrato che un recupero vocazionale significativo si ottiene proprio in quei contesti in cui si è al passo con i tempi. Insomma se ieri un vescovo laureato in matematica costituiva un’eccezione come utente di un computer oggi non si riesce più ad operare in modo efficace in campo pastorale senza far ricorso a qualche strumento informatico. Dunque i ritrovati della modernità servono anche all’azione sacerdotale: per parlare, comunicare, rappresentare simbolicamente, trasmettere messaggi, fornire suggestioni forti e convincenti.


                L’informatica come la televisione non è una espressione diabolica. Perché soprattutto coloro che si avviano al sacerdozio ed i preti novelli non dovrebbero imparare a gestire dei mezzi così importanti e sempre più decisivi negli anni a venire?


                L’interesse alle nuove realtà mediatiche non è in conflitto con i percorsi educativi del clero in formazione. Anzi può rappresentare un utile punto di convergenza e di interazione proprio con quelle classi giovanili di età solitamente più refrattarie ad una frequentazione del personale di chiesa.


                In fondo anche la questione del celibato può apparire ai seminaristi ed ai giovani sacerdoti sotto altre vesti: come offerta di disponibilità nei riguardi degli altri, senza privilegiare rapporti di tipo familiare o coniugale. Per non dire della problematica di quanti affrontano la questione dell’omo-orientamento: la propria situazione di disagio può trovare alternative meno traumatiche, più consone, grazie ad una condivisione di esperienze incentrate su temi pratici, operativi, magari anche scientifici e tecnici.


                Appassionarsi al culturale, oltre che al cultuale, è certamente una via d’uscita dai meandri di un liturgismo fine a se stesso, di una cerimonialità affettata e poco partecipe. Del resto il confronto con l’esterno, con il mondo laico, con la cultura non strettamente religiosa, evita sia il rischio di una autoghettizzazione nel proprio quadro ecclesiastico di riferimento, sia quello di una esteriorità tutta di facciata, magari anche riverita ma di fatto poco apprezzata dagli altri.


                Lo stesso contesto familiare dei presbiteri merita una particolare cura in termini di presa di distanza e di necessaria separatezza, onde uscire da un invischiamento fatto di legami assai stretti, spesso coinvolgenti e perciò talora soffocanti. 


La provenienza dei sacerdoti


Ancora Luca Diotallevi nel suo studio sulla modernizzazione della chiesa in Italia, già citato sopra, ci ricorda (alle  pag. 126-127) che “un’altra struttura fondamentale della organizzazione ecclesiastica cattolica, ovvero quella addetta alla selezione ed alla formazione della principale figura di operatore religioso (il sacerdote) è il seminario”. In effetti è qui che nasce la classe dei presbiteri, si forma la loro “costruzione sociale della realtà religiosa”, con tutte le conseguenze che ne derivano.


                La vita in seminario è una seconda socializzazione, anzi si potrebbe dirla una sorta di “chiesizzazione”, cioè di ingresso nella chiesa come società umana. In questi anni decisivi si gettano le basi del futuro ministro di Dio e di mediatore religioso fra gli uomini. Ecco perché la scelta dei docenti, dei padri spirituali, dei rettori e loro collaboratori, è la chiave di volta che regge la struttura seminariale. Molto faranno poi anche le amicizie e le solidarietà giovanili ed intergenerazionali. Ma tutto ruota attorno al nucleo di idee, alla “politica” degli istituti di formazione, alla loro “poetica” per così dire, cioè all’arte ed alle regole dell’educazione dei nuovi preti.


                I seminari sono la spina dorsale della chiesa. Da essi si diramano forze nuove, linfa vitale per la continuità. Si tratta di una realtà cospicua: “trascurando il fenomeno dei seminari minori, quelli dedicati ai giovani che al massimo frequentino studi medi superiori, in Italia si hanno (sempre al 1995) 92 seminari maggiori – una sorta di università del personale ecclesiastico – destinati alla formazione filosofica e teologica del clero diocesano, e 155 seminari maggiori per la formazione del clero religioso. I seminari maggiori per il clero secolare sono 51 al Nord, 23 al Sud, 18 nell’Italia Centrale. Quasi il 40% di quelli per il clero regolare è concentrato a Roma.


                Nella valutazione di questo dato non si trascuri che il seminario è, seppur in gradi diversi – non infatti in tutti vengono svolti la ricerca e l’insegnamento -, un luogo di studi teologici e filosofici. Il dato appena riportato significa dunque anche una maggiore concentrazione di questi centri di studio e di diffusione della cultura religiosa e teologica al Nord.


                Per altro, anche università e facoltà di studi ecclesiastici sono più diffuse al Nord che al sud, mentre il massimo della loro concentrazione è a Roma. Complementare a questo è un dato che può essere interpretato come parziale misura di autonomia teologico-culturale dai centri di studio romani. Dei sacerdoti diocesani italiani già ordinati che proseguono gli studi in ambito romano (non dunque in assoluto) il 46,3% viene da diocesi delle regioni meridionali, mentre solo il 31,5% da diocesi settentrionali”.


                Dunque la preparazione a livello locale, specialmente nelle regioni settentrionali ha la meglio sui centri romani d’istruzione religiosa. Questo distacco da Roma non pare improduttivo o controproducente se poi sono le diocesi del Nord quelle più impegnate nella modernizzazione della pastorale (ne sono un indicatore significativo il numero di sinodi diocesani celebrati di recente). Ma non mancano diocesi delle altre regioni che risultano piuttosto attive nella loro azione apostolica.


                I risultati si vedono anche attraverso il numero delle ordinazioni sacerdotali. Va però considerato un ulteriore dato (L. Diotallevi, opera citata, pag. 138): “ben altre dimensioni ha il fenomeno delle importazioni di seminaristi da aree ricche di vocazioni ad aree povere, i quali poi in queste ultime vengono ordinati sacerdoti. Nel passato questo fenomeno veniva contenuto entro i confini nazionali, oggi si sta internazionalizzando (con diocesi soprattutto dell’Italia centrale che reclutano giovani prevalentemente nell’Europa dell’Est ed in paesi africani)”.


                Non è questo l’unico dato da tenere presente. Notevole è anche il contributo del clero regolare. Si è riusciti a rallentare pure il decremento del clero secolare, ma – come scrive lo stesso Diotallevi (pagg. 144-145) – “è grazie alla diversificazione dell’offerta religiosa, grazie ai grandi risultati in termini di reclutamento ottenuti da ordini, congregazioni ed istituti in Italia tra gli inizi del secolo e gli anni ’50 che la densità di personale ecclesiastico – e sacerdotale in ispecie – è stata tenuta a livelli decisamente alti (rispetto al contesto europeo), e comunque ha visto decisamente arginato il suo decremento nella seconda metà degli ultimi 100 anni”.


Quale futuro?


                Certamente esiste e continuerà ad esistere un problema di ricambio generazionale dei preti italiani. Si sa che una delle caratteristiche principali del clero italiano è l’età media piuttosto elevata (in effetti i sacerdoti diocesani nati in Italia e al di sotto di 40 anni di età sono appena 4.372, secondo i dati del giugno 1997), ma questo è anche il risultato di un allungamento della durata media della vita.


                All’orizzonte comunque non si intravede un crollo catastrofico del numero e della qualità delle vocazioni. I seminari sono meno pieni del passato. C’è stato forse in proposito qualche errore di calcolo previsionale (la costruzione di strutture faraoniche in assenza di informazioni e conoscenze adeguate sul trend vocazionale) ma con adeguati riassetti (accorpamenti, ridistribuzioni, razionalizzazioni) non è difficile immaginare che quella che Lorenzo Del Zanna chiamava alcuni decenni fa la “fabbrica dei preti” (Editrice Fiorentina, Firenze, 1968) continuerà a funzionare, a “produrre” nuovi soggetti, preparati all’esercizio ministeriale e sempre più dotati di strumenti adeguati all’azione pastorale.


                Va anche considerato che così come cresce la differenziazione funzionale all’interno della società tutta (nuove professioni, nuove competenze, nuovi settori operativi, nuove modalità di comunicazione) altrettanto si può immaginare stia avvenendo per la professionalità degli operatori religiosi a tempo pieno che sono i ministri di Dio.


                Indubbiamente non sta venendo meno la figura tradizionale del pastore d’anime, del parroco in particolare, ma accanto a questi profili tradizionali ne stanno emergendo altri con caratteristiche più adatte ai “segni dei tempi”: per esempio i comunicatori massmediatici (attraverso la stampa, la radio, la comunicazione televisiva e multimediale, informatica e telematica, ivi compreso il vastissimo, inarrestabile mondo di Internet, la nuova frontiera del millennio che comincia: una sfida non trascurabile nel panorama delle offerte di relazioni interpersonali sempre meno prevedibili e sempre più incontrollabili).


                La “nuova evangelizzazione” ed il “progetto culturale” devono fare i conti con queste nuove realtà, non facilmente però gestibili in proprio dal personale ecclesiastico, che deve abituarsi dunque ad affidarsi ancor più ai laici, ai diversi specialisti dei singoli settori di intervento.


                La sfida è oggi (e lo sarà sempre più) sul piano del confronto sulla qualità e sull’efficacia dei messaggi. L’annuncio evangelico se non adeguatamente mediato attraverso soluzioni interessanti e convincenti rischia di finire con l’essere una stanca ripetizione di formule vuote, che non dicono nulla. Il contenuto di tante omelie, poco pensate, sovente improvvisate, infarcite di luoghi comuni e di esempi poco credibili, non regge il confronto con la comunicazione globale delle reti televisive, delle immagini planetarie, delle nuove retoriche legate ad eventi spettacolari.


                Non si pensa tuttavia ad una rincorsa del nuovo ad ogni costo ma i sacerdoti del ventunesimo secolo sono chiamati, sono “vocati” appunto ad utilizzare un diverso taglio prospettico per la loro proposta religiosa, pur senza mutarne i valori di fondo, i principi evangelici di riferimento. Detto altrimenti la situazione è tale da non ammettere (e da non “perdonare”) l’ignoranza in campo informatico, l’obsolescenza cioè l’invecchiamento degli strumenti comunicativi, la superficialità della relazione interpersonale.


                Anzi l’obiettivo che sembra più pertinente per i sacerdoti di oggi e di domani è quello di trovare una felice congiunzione risolutiva fra la spersonalizzazione della società globale post-industriale ed il recupero della dimensione sia soggettiva che interindividuale: insomma occorre rimettere in sintonia uomo e società, nonostante le interferenze che rendono poco comprensibile, perché “disturbato”, il messaggio religioso.