Roberto Cipriani
Premessa
Quando si discute sulle possibili definizioni della religione si distingue in linea di massima fra un approccio sostantivo ed un approccio funzionale. Sarebbe sostantivo quello di Durkheim (1912) che parla di “credenze e pratiche” come base costitutiva della “comunità morale” detta “chiesa”, sarebbe funzionale quello di Luckmann (1967) che si riferisce agli “universi simbolici” come “sistemi di significato socialmente oggettivati”, attraverso “processi sociali” – considerati “fondamentalmente religiosi” – “che conducono alla formazione dell’Io” ed alla “trascendenza della natura biologica”.
Ma a ben scavare nei testi durkheimiani ed in quelli luckmanniani ci si accorge che Durkheim è anche attento alla funzione (la religione serve per la solidarietà) e che Luckmann non bada solo alla funzione (la religione è una concezione del mondo costituita da contenuti specifici).
Dunque già coloro che vengono citati come campioni esemplari dell’una o dell’altra prospettiva definitoria in realtà poi risultano più possibilisti, aperti verso soluzioni meno rigide, polivalenti. Insomma contenuti e funzioni non sono separabili ed anzi vanno considerati come un unicum, il che consente l’implementazione di percorsi analitici ed interpretativi ben più complessi ed articolati.
Si potrebbe partire, per esempio, dall’idea che il riferimento metaempirico nell’attribuzione di significato all’esistenza umana sia un carattere peculiare della religione, ma in pari tempo è opportuno lasciare un varco aperto anche a soluzioni che non contemplino un esplicito rinvio alla dimensione della non verificabilità empirica e della impraticabilità dell’esperienza diretta. Insomma il riferimento metaempirico avrebbe solo un carattere meramente orientativo, “sensibilizzante” per dirla con Blumer (1954). “In tal modo non si ha un contrasto fra livello trascendente e livello reale. In sostanza è come se da due diversi punti di vista si guardasse ad un medesimo oggetto: l’innervamento di una presenza non umana nella realtà ed il radicamento di un significato esplicativo all’interno della stessa realtà. L’una delle due visioni non esclude l’altra, non vi si oppone, anzi vi può essere talora una convergenza che approdi al medesimo risultato: la comprensione-spiegazione della vita in chiave religiosa” (Cipriani 1997: 15).
Religione diffusa e valori
Indubbiamente la presenza di valori è una costante sia delle religioni storiche, più radicate a livello culturale, sia dei nuovi movimenti religiosi, ancora in fase di crescita ed assestamento. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.
Ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.
Detto altrimenti, ogni celebrazione di un rito svolge funzioni molteplici, ma soprattutto mette a fuoco l’insieme di valori che una certa religione promuove e diffonde (specialmente a livello familiare) attraverso i suoi membri, i quali più partecipano più si convincono della loro scelta come giusta.
Quest’ultimo effetto è di tale pregnanza che permane, seppur indebolito, anche in assenza di una successiva, ulteriore partecipazione continua. Dunque l’esperienza della pratica (e della credenza) religiosa induce di per sé un habitus ideale e valoriale che tende a persistere ben al di là di una religiosità visibile. Infatti anche chi non è più praticante e magari è anche sempre meno credente conserva una sorta di imprinting, non facilmente cancellabile, che lo vede come membro disaffezionato ma con legami ancora significativi con l’ex gruppo di riferimento.
Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare, particolarmente incisiva) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei peer groups). La lezione berger-luckmanniana (1966) in proposito rimane magistrale: in effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.
Ora però, invece di differenziare al massimo fra una religiosità tradizionale, legata alle strutture di chiesa ed abbastanza visibile nelle sue forme, da una parte ed una religiosità più individualizzata, privatizzata e dunque meno visibile, dall’altra, può essere più opportuno giocare su una disarticolazione interna alla fenomenologia religiosa in chiave di dinamiche più stratificate, dalle sfaccettature molteplici. In pratica non è detto che vi siano solo una religione di chiesa ed una religione invisibile alla Luckmann (1967), è ipotizzabile piuttosto un’altra soluzione che preveda categorie intermedie più o meno vicine ai due poli definiti in termini di visibilità/invisibilità.
Una prima interpretazione post-luckmanniana venne formulata nel 1983 ed applicata alla situazione italiana in occasione della Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione, tenutasi al Bedford College di Londra (Cipriani 1984: 32).
Il punto di partenza era rappresentato dall’influenza della religione cattolica sulla politica in Italia. Si trattava di un indicatore casuale ma rivelatosi assai illuminante in seguito, anche perché sempre più è stato possibile verificare che una simile influenza riguardava e riguarda ambiti ben più ampi. Anzi, oggi dopo più di un ventennio è dato constatare che il peso della religione si è ridotto nei riguardi delle decisioni di natura partitica e governativa ma è rimasto piuttosto saldo nei confronti della società in genere, grazie in particolare all’azione familiare. Nel contempo si è attenuato lo spirito antistituzionale, visto che la chiesa cattolica – secondo quanto mostrano in continuazione diverse indagini sul campo – è l’istituzione meno osteggiata dai cittadini italiani (Sciolla 2005), i quali peraltro le assegnano quote non trascurabili delle loro imposte (il cosiddetto “otto per mille”).
Venuta meno l’incidenza preponderante del cattolicesimo ufficiale non si sono sostituite ad esso altre confessioni religiose. Semmai solo l’ebraismo è riuscito in qualche occasione particolare ad ottenere rispetto per le proprie scadenze festive e per le proprie consuetudini. Del tutto trascurabile appare la capacità degli islamici, dei “Testimoni di Geova” e di altri di farsi ascoltare a livello politico.
Invece è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale attraverso la socializzazione familiare. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, dopo essere partiti dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, siamo poi approdati ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica in ambito familiare.
Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa nostra convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis). Peraltro la sua diversificazione rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico. Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale e familiare della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente e quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali. In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di modelli familiari e di chiesa ben attrezzati da tempo e particolarmente capaci di far ricorso ad un loro know how abbastanza efficace. Di tale efficacia la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto anche da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche. Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.
Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa. Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra (Cipriani 1997). Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei princìpi laici però vagamente ispirati od ispirabili a modelli ortoreligiosi. Sembra dunque che la religione diffusa sia destinata a restare inerte in balìa di altre confessioni. Ma il suo richiamo maggiore è nei confronti della socializzazione familiare pregressa.
A dire il vero sino alla fine degli anni ’80 non si disponeva ancora di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative sul piano statistico in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori (Cipriani 1992) alla grande indagine nazionale su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), a quella più recente a carattere internazionale con una comparazione a livello europeo (Garelli, Guizzardi, Pace 2003) su Religious and moral pluralism.
Soprattutto nel corso degli ultimi due decenni si è constatato che le relazioni fra chiesa cattolica e stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella più recente sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova della capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane. Una volta regolate – in forma solenne il 18 febbraio 1984 e poi con una legge il 20 maggio 1985 – le questioni maggiori sul piano diplomatico, mediante il rinnovo del Concordato del 1929 fra stato italiano e gerarchia vaticana, la cosiddetta “questione cattolica” sembra aver perduto mordente ed interesse. Anche il movimento definito come contestazione cattolica ha da molto tempo tirato i remi in barca e sembra ridursi ora a qualche sporadico tentativo di dissenso rispetto all’establishment.
In qualche misura proprio la religione diffusa rappresenta anche una sorta di sostituto funzionale della divergenza dalla struttura ecclesiastica. Tale differenziazione si manifesta attraverso altri modi di credere e praticare, sebbene la base di fondo rimanga cattolica grazie alla socializzazione primaria intrafamiliare.
Il nucleo essenziale della religione diffusa è rinvenibile proprio in questo insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo, non interviene direttamente ma in modo mediato, cioè grazie alla sua precedente azione socializzatrice. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento. Appunto questo consente una collaborazione fra stato italiano e chiesa cattolica senza grandi turbative e con un’intesa anche formale e legittimata che dura ormai da più di settanta anni.
Come sottolineavano Calvaruso ed Abbruzzese (1985: 79), la religione diffusa appare quale antidoto al processo di secolarizzazione, di cui però è in pari tempo un’espressione significativa come presa di distanza dalla religione di chiesa (Calvaruso e Abbruzzese 1985: 80). Un esempio peculiare è fornito pure dai dati generali di un’indagine socio-religiosa condotta nella Sicilia centrale oltre un decennio fa (Cipriani 1992):
Religione di chiesa acritica 101 (14,0%)
Religione di chiesa critica 261 (36,3%)
Religione critica come divergenza 79 (11,0%)
Religione diffusa come condizione 190 (26,4%)
Religione critica come allontanamento 47 (6,5%)
Non religione 41 (5,8%)
TOTALE 719 (100%)
Sulla base di questi risultati abbiamo più volte sostenuto che la religione dei valori abbraccia le categorie centrali della tabella presentata sopra. In particolare l’ambito ascrivibile alla religione dei valori andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata con il nome di religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Risulterebbe così ben più ampio il quadro della religiosità non istituzionale, fondata su valori condivisi e rappresentati essenzialmente dalle scelte operate (fino ad un massimo di quattro risposte) dagli intervistati in termini di principi-guida della loro vita, a partire dall’educazione essenzialmente familiare (e familistica) ricevuta fino all’età di diciotto anni:
Valori particolaristici
Attaccamento alla famiglia 450 (62,6%)
Amore per i figli 232 (32,3%)
Buon uso del denaro 69 ( 9,6%)
Fare da soli 66 (9,2%)
Guadagnare molto 32 (4,5%)
Valori universalistici
Onestà, serietà 532 (74,0%)
Fede in Dio 386 (53,7%)
Rispetto degli altri 213 (29,6%)
Aver la coscienza a posto 131 (18,2%)
Attaccamento al lavoro 120 (16,7%)
Amicizia, solidarietà 105 (14,6%)
Accontentarsi del poco 99 (13,8%)
Generosità, carità 96 (13,4%)
Come è facile desumere dalle percentuali fatte segnare dai diversi elementi valoriali è plausibile sostenere che non solo siamo di fronte ad una vera e propria religione dei valori, cioè basata su valori largamente condivisi – perché diffusi grazie alla socializzazione soprattutto primaria/familiare e poi secondaria -, ma gli stessi valori possono essere considerati di per se stessi quasi una sorta di religione con venature laiche, profane, secolari. In definitiva si è passati da una religione di chiesa dominante ad una religione diffusa maggioritaria e quindi ad una religione articolata attraverso valori: la conclusione è che la religione può essere definita una modalità di trasmissione e diffusione dei valori, anzi che essa svolge peculiarmente tale compito funzionale e lo svolge in modo efficace.
Si risolve così anche la diatriba fra definizioni sostantive e definizioni funzionali: in chiave sostantiva gli elementi costituenti di una religione sono i valori che essa insegna e propala, mentre in chiave funzionale il compito della religione – specialmente quando essa appare come prevalente in un dato quadro storico-geografico – è quello di offrire punti nevralgici di aggancio per la vita comunitaria, per l’agire sociale, per le scelte “razionali” da compiere sulla scorta di linee-guida acquisite e da porre in essere nella vita quotidiana e nelle scelte esistenziali fondamentali.
Il caso di Roma
Emblematico è il caso di Roma, chiamata città sacra per eccellenza eppure fortemente secolarizzata. La capitale mondiale del cattolicesimo, luogo di convergenza universale per milioni di pellegrini in occasione del giubileo del 2000, presentava livelli piuttosto bassi di pratica religiosa: quella dichiarata come regolare, cioè una volta per settimana, era del 23,3% (Cipriani 1997) mentre il 22,1% non andava mai a messa; ma era consistente il tasso di coloro che pregavano, in quanto si trattava del 71,5% degli intervistati, i quali si dedicavano alla preghiera magari anche solo qualche volta in un anno (14,9%) o ben più spesso, come faceva il 32%, cioè una o più volte ogni giorno. Dunque si registrava nel contempo uno scarso attaccamento alla pratica ma altresì un ampio interesse per la preghiera.
Tutto ciò significa che la ritualità non è tutto nella religione e che anzi il legame più frequente con la divinità passa attraverso l’orazione, cioè un colloquio diretto, a livello interpersonale. Si potrebbe a tal proposito sostenere che mentre la pratica della messa festiva è più legata ad una religione di chiesa quella del ricorso alla preghiera ha un carattere più spontaneo, libero, sottratto al controllo sociale, ma comunque indicatore, rivelatore di una credenza, di un legame, di una sensibilità a livello religioso.
In pratica, se Roma non appariva certo una città di tanti praticanti non lo era neppure di molti atei, agnostici o indifferenti sul piano religioso (va tuttavia tenuto presente che il 21,3% dei soggetti intervistati – il tasso più alto in assoluto di tutto il paese – non mostrava alcun segnale di religiosità). La capitale italiana presentava, accentuate, alcune caratteristiche rilevate nel campione nazionale della ricerca svolta nel 1994-95 sulla religiosità in Italia: per esempio, in un anno appena il 7,6% aveva partecipato a pellegrinaggi ed il 13,6% aveva fatto o soddisfatto un voto.
In definitiva la religiosità dei romani sembrava bifronte: per un verso si mostrava come pervasa da una crisi drammatica, per un altro appariva anche piuttosto vitale (sebbene a debita distanza dalle consuetudini della chiesa ufficiale). Il futuro religioso della città eterna sembrava destinato a procedere lungo queste due direttrici in apparenza divergenti ma anche tendenzialmente parallele.
Lo stesso può dirsi in linea di massima per l’Italia, sia pure con qualche differenza sostanziale: la religione di maggioranza si innervava nella coscienza individuale guidata dalla legge di Dio secondo il 40,4% degli intervistati su un campione ponderato di 4500 individui (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 180), nella sola coscienza individuale per il 36% dell’universo campionato ed esclusivamente nella legge di Dio per il 22,1%. Sul piano dei valori vissuti con soddisfazione si trovava al primo posto la famiglia su cui contare (nel 73% del campione), seguita dal lavorare con onestà ed impegno (secondo il 68% degli intervistati), dall’avere amici (per il 38% degli interrogati in proposito), dall’avere un buon rapporto affettivo (nel 35% dei casi), dall’essere sicuri del posto di lavoro (a detta del 34% dell’universo d’indagine). Più contenuti apparivano il dedicarsi agli altri (25%) e l’impegnarsi per modificare la società (22%).
Il quadro complessivo che ne risultava era variegato ma consolidava l’immagine di una religiosità diffusa nonostante fosse frattalica, frastagliata, con profili eterogenei. Secondo gli esiti della cluster analysis erano classificabili come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.
Nel dettaglio l’articolazione della religiosità italiana mostrava la seguente tipologia:
1) Religione di chiesa orientata (eterodiretta) 9,4%
2) Religione di chiesa riflessiva (autodiretta) 22,6%
Totale della religione di chiesa (1+2) 32,0%
3) Religione modale (diffusa) primaria 16,5%
4) Religione modale (diffusa) intermedia 21,6%
5) Religione modale (diffusa) perimetrale 21,0%
Totale della religione modale
o diffusa (3+4+5) 59,1%
Totale della religione continua
(1+2+3+4+5) 91,1%
6) Non religione 8,9%
Totale generale (1+2+3+4+5+6) 100,0%
Come si vede dalla consistenza percentuale delle sei classi attitudinali e comportamentali, la religione in senso lato (sia di chiesa che modale o diffusa) era largamente preponderante ed era ovviamente quasi tutta di matrice cattolica. Percentualmente era minoritaria la religione di chiesa e maggioritaria quella diffusa (chiamata modale perché statisticamente era in pratica la moda, cioè il carattere al quale corrispondeva la massima frequenza). Ma tra minoranza e maggioranza non c’era frattura, anzi spesso era difficile stabilire il discrimine fra l’una e l’altra, in particolare poi fra religione di chiesa riflessiva (più autonoma, più individualizzata, meno propensa ad accogliere le direttive del magistero ufficiale ecclesiastico) e religione modale o diffusa primaria (più diversificata rispetto all’appartenenza di chiesa). Infatti religione di chiesa e religione modale o diffusa erano in stretta relazione fra loro, anzi la seconda scaturiva dalla prima, per cui si poteva parlare di una vera e propria religione continua che concerneva il 91,1% degli intervistati, senza soluzioni, senza interruzioni del discorso religioso e dei suoi contenuti, specialmente in campo valoriale.
Ancora più convincente, se possibile, è quanto emerso di recente dalla già citata indagine comparata europea su Religious and moral pluralism, che in Italia ha visto impegnate le università di Torino, Padova, Trieste, Bologna e Roma. Il campionamento italiano è stato messo a punto dalla Doxa ed ha riguardato 2149 interviste (1032 maschi e 1117 femmine, a partire dai diciottenni ed oltre), realizzate per 742 casi in comuni capoluoghi e per altri 1407 in centri non capoluoghi.
Il 97,5% si è dichiarato cattolico, il 31,2% si è detto molto vicino alla chiesa ed il 45,5% si è proclamato vicino ad essa. Il 51,1% ha ricordato che all’età di dodici anni andava in chiesa almeno una volta per settimana, ma c’è pure il 21,7% che ha parlato di più di una volta per settimana ed il 6,7% di una partecipazione quotidiana alle funzioni religiose.
Conferme significative sul gradimento della religione provengono dalla valutazione se essa sia più o meno importante rispetto a venti anni prima: il 29,6% ha sostenuto che essa è ugualmente importante, il 22,2% che lo è un po’ di più, mentre il 12,8% ha ritenuto che lo è molto di più.
Quanto poi al rapporto fra educazione e religione, è dato per scontato un nesso assai stretto soprattutto se si tien conto che il 35,9% degli intervistati appare molto influenzato dall’educazione ricevuta, soprattuto a livello familiare.
Va poi considerato che ben l’81,2% dell’universo indagato ha ammesso esplicitamente di appartenere ad una chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa.
Infine l’86,4% ha detto di dedicarsi alla preghiera, sia pure con diversificazioni sia quantitative (una o più volte) che temporali (ogni giorno o durante l’anno).
In definitiva sembrano abbastanza provate due caratteristiche:
1) i contenuti essenziali della religione e dell’educazione familiare sono i valori, ancor più dei riti e delle credenze;
2) la funzione della religione risulta essere proprio la diffusione dei valori (cui non è certo estranea la matrice familiare).
Pertanto la famiglia e la religione possono essere intese sostanzialmente come agenti diffusori di valori.
Conclusione
Il concetto di religione diffusa in oltre un ventennio è stato più volte adoperato per sperimentarne l’efficacia euristica. A partire da un’originaria applicabilità al caso italiano si è passati anche a proporlo in altri contesti in cui fossero caratteristiche la centralità e la numerosità di una specifica confessione religiosa. I risultati probanti non mancano. Ma forse l’esito più significativo è la verifica della centralità dei valori come base portante di ogni espressione religiosa. Al di là della partecipazione socializzante e consolatoria alle cerimonie ed al di là della credenza-fiducia in qualcosa che, in termini sociologici, sfugge ad ogni analisi empirica, proprio i valori sembrano fungere da chiave di volta dell’impianto religioso.
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