Roberto Cipriani
Premessa
Ha ancora un seguito la devozione popolare verso Gerardo Maiella, il laico redentorista nato nel 1726 e morto or sono due secoli e mezzo? Può una forma di religiosità popolare durare così a lungo dopo la fine dell’esistenza terrena di un personaggio che da vivo tanto aveva attratto per le sue doti di carità, per il suo messaggio di solidarietà, per la sua pietà semplice e didascalica, per la sua opera di costante misericordia verso i poveri, i diseredati, gli emarginati? Si sa che una volta estintasi la generazione di coloro che hanno vissuto da vicino un’esperienza singolare come quella della frequentazione di un uomo straordinario, ben difficilmente le generazioni che seguono mantengono poi altrettanto vivido il ricordo: manca loro la partecipazione diretta ad un rapporto interpersonale fondante, per cui quasi ogni legame sembra cadere, il filo del ricordo si affievolisce, la connessione con il passato tende ad interrompersi, nonostante la forza di qualche evento portentoso che confermi le doti taumaturgiche di un laico legittimato dalla stessa Chiesa cattolica come degno dell’onore degli altari.
Il fatto è che chi non è intervenuto nella fase ascendente che porta al riconoscimento di un santo non facilmente mostra lo stesso ardore, il medesimo impegno dei primi fedeli, dei testimoni oculari della vicenda umana di Gerardo Maiella. Il trapasso dalla prima alla seconda generazione segna spesso una cesura insanabile, non più recuperabile. C’è dunque da chiedersi perché, nonostante il trascorrere di tanti decenni, anche adesso si mantenga una memoria tanto diffusa del santo di Materdomini (così identificabile dal nome del luogo in cui il redentorista nato a Muro Lucano ebbe a morire).
I suoi ventinove anni di vita sono bastati a fare di lui un punto di riferimento essenziale per tanta parte della cultura religiosa popolare del meridione italiano. Da converso, in soli tre anni, dal 1752 al 1755, girò in lungo ed in largo soprattutto tra la Campania e le regioni limitrofe, sempre portando l’afflato della sua fede, la passione del suo amore per gli altri, la sua sete di riscatto per i poveri. Eppure non muoveva da un’approfondita preparazione culturale: forse anche per questo è apparso molto vicino al mondo contadino meridionale, portando la sua forte testimonianza attraverso un’intensa e semplice religiosità.
Ma come mai una figura così esemplata sul suo tempo riesce anche adesso a reggere l’impatto con la modernità avanzata? Oggi la situazione è ben diversa. Allora, invece, la mistica costituiva un punto di riferimento essenziale ed aveva i suoi campioni eccellenti in figure che si chiamavano Francesco de Geronimo ovvero di Girolamo (gesuita dotato di molte virtù, ricordato come “prefetto santo” per il suo ruolo di istitutore nel collegio napoletano dei nobili, missionario nei villaggi e predicatore popolare, sensibile alle necessità dei poveri, dedito alla catechesi dei più piccoli, diffusore della pratica della Via Crucis, giunto a portare la parola di Dio sin nei bassifondi e fra le donne più traviate, pacificatore indefesso, morto nel 1716) e Giovanni Giuseppe della Croce (ischitano di nascita, devoto del Santissimo Sacramento, amante dei poveri, entrato nell’ordine francescano dei minori riformati, non particolarmente istruito, assai dedito alla vita interiore e morto nel 1734 – e perciò da non confondere con Juan de la Cruz, che invece era nato in Spagna nel 1542 -); l’uno e l’altro sono ricordati puntualmente dallo storico Stanislao D’Aloe[1]: “nella nostra Chiesa fiorirono, a chiaro esempio di cristiane virtù, i santi Francesco di Girolamo gesuita, e Giovan Giuseppe della Croce frate alcantarino”. Si possono citare altresì Vincenzo Strambi (nato nel 1745, poi divenuto passionista con il carisma di grande predicatore sulle orme di San Paolo della Croce, e morto nel 1824) ed Egidio Maria di San Giuseppe (morto nel 1812). In campo femminile, poi, come non ricordare Teresa Margherita Redi (morta nel 1770), Veronica Giuliani (stigmatizzata dopo un triennio di vita a pane ed acqua, calunniata di essere una creatura diabolica, privata perciò della possibilità di ricevere l’eucarestia e morta nel 1727) e Maria Maddalena Martinengo (morta nel 1737)? Si tratta di figure di santi e beati la cui vita è stata esemplare per la perfezione ascetica attinta, per l’elevatezza di spirito religioso, per le doti personali, per la profonda interiorità, per i vertici raggiunti con la loro testimonianza di fede.
Per cogliere al meglio le atmosfere di quegli anni lontani non c’è di meglio che la lettura dei testi di Alfonso Prandi[2] e di Massimo Petrocchi (acuto storico, studioso della religiosità settecentesca)[3]. Ma soprattutto occorre riandare al “grande” intellettuale religioso del tempo che fu il nobile napoletano Alfonso Maria de’ Liguori con le sue celebri Opere ascetiche. Egli, con le sue qualità di specialista della predicazione al popolo e dell’insegnamento catechistico, si rivolse in primo luogo ai poveri. Cagionevole di salute, dovette patire anche gravi malattie.
Ma proprio in quel medesimo torno di anni non mancarono attacchi poderosi alla mistica da parte del quietismo (che non apprezzava le forme di penitenza e di acquisizione della perfezione) e del giansenismo (che preferiva insistere sul binomio grazia-predestinazione, abbastanza affine perciò alla prospettiva dell’etica protestante, rinvenibile fra calvinisti, pietisti, metodisti e battisti, in verità non del tutto privi di forme ascetiche). Però, ci fu anche chi ebbe a contrapporre ascetismo e misticismo: lo fece dapprima il Tempesti nel 1746 con il suo testo Maestro esimio di spirito, ovvero mistica teologia secondo lo spirito e le sentenze del santo (riferito a San Bonaventura), poi il gesuita Giovanni Battista Scaramelli con il Direttorio ascetico (1753) seguito dal Direttorio mistico (1754). Bernardo di Castelvetere (morto nel 1756) invece proponeva un unico approccio con il suo Direttorio ascetico-mistico per i confessori di terre e villaggi. E Gaetano da Bergamo (morto nel 1753) dal canto suo aveva dato ordine e organicità al suo manuale di spiritualità dal titolo Cappuccino ritirato (è appena il caso di ricordare che lo stesso Gerardo Maiella aveva dapprima scelto di entrare, senza riuscirvi, nell’ordine dei Cappuccini).
Il Settecento fu anche un momento fervido per la pubblicistica devozionale: c’era Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), predicatore popolare che dettava consigli a proposito Della devozione al Santissimo Sacramento o sulla santa messa, con il suo Tesoro nascosto; ma c’era pure il già ricordato fondatore dei redentoristi, Alfonso Maria de’ Liguori (morto 32 anni dopo Gerardo Maiella, ma certamente grande ispiratore dello spirito gerardino): poderosa fu la sua produzione. Da grande vescovo meridionale e campano fu un esempio straordinario per Gerardo nella sua attenzione ai poveri, nella predicazione, nella santità di vita. Il suo pensiero, espresso in opere come Massime eterne (1728), Visite al SS.mo Sacramento (1745), Glorie di Maria (1750), fu pure un forte antidoto nei riguardi del giansenismo, come ha ben evidenziato il Cacciatore in S. Alfonso e il giansenismo[4].
Ma Gerardo fu influenzato dal santo fondatore del suo ordine soprattutto per la devozione al Bambino Gesù, che secondo quanto si racconta gli appariva di frequente. A tale devozione si univano anche le altre due, di pretto stampo liguorino, a Gesù Sacramentato ed a Maria, evidenziate rispettivamente dai due contributi di Sant’Alfonso già citati (pubblicati nel 1745 e nel 1750). Quasi emulo di San Martino di Tours (vissuto nel IV secolo) anche il Maiella donò una sua veste ad un povero.
Il suo ingresso nella congregazione redentorista non fu agevole, dopo il diniego di quella francescana, perché egli era debilitato e malaticcio. E nondimeno si prestava ad ogni sorta di incombenza. Anzi mostrava anche grandi capacità nel trattare con le persone, nel comprenderne le ragioni più profonde, sino a riuscire efficace in qualche previsione (o profezia che dir si voglia).
Nonostante gravi accuse, che lo portarono sino alla proibizione di ricevere l’eucarestia, con la mortificazione e con la pazienza riuscì a superare anche i momenti più difficili, attraverso un impegno totale a favore dei più diseredati, dei più bisognosi, dei più desiderosi della parola di Dio. In tal modo si conformava alla passione stessa del Cristo, sulla scorta di una peculiare opzione, assai diffusa soprattutto nel Settecento, per la sofferenza della croce, secondo l’esempio emblematico di San Paolo detto appunto della Croce (morto nel 1772). In quest’ultimo si coniugavano – proprio come in Gerardo Maiella – mistica, “passionismo” e “nativitismo” – secondo lo studio di Brovetto dal titolo Morte mistica e divina natività nella spiritualità di San Paolo della Croce,[5].
Del resto mistica ed ascetica erano state anche le caratteristiche del papa Benedetto XIII, il domenicano Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento, salito al soglio pontificio nel 1724 e morto nel 1730: l’anno santo del 1725 da lui promosso non eccelse in celebrazioni e si mantenne entro i limiti dimessi di una pietà popolare non magniloquente, avversa ai fasti del mondo ed invece attenta ai gesti semplici, alla preghiera, ai malati, ai poveri. Fu lo stesso papa Orsini a proibire ai sacerdoti di portare parrucche, ai romani di celebrare il carnevale durante l’anno santo, a tutti di giocare al lotto. Il suo comportamento fu esemplare: lavava i piedi ai pellegrini, volle un Concilio romano per impartire nuove norme al clero, veniva considerato dal popolo come un papa santo.
La triangolazione di spiritualità, carità e dedizione a Dio ed al prossimo che si vede in Orsini, de’ Liguori e Maiella costituisce un parametro essenziale di riferimento per chi voglia usare un approccio storico e sociologico realmente comprendente, secondo l’idea di verstehen, cioè di capire appieno, immedesimandosi nella situazione e nello spirito delle persone e del loro tempo, in modo da avere una conoscenza adeguata anche sul piano scientifico, in quanto approfondita e ricca, veramente intesa nelle sue diverse sfaccettature di dati e di interpretazione dei dati. Non è un caso che uno studioso serio ed attento come Angelomichele De Spirito[6] abbia dedicato gran parte della sua vita a raccogliere ed a mettere a punto profili, contenuti e documenti relativi a questa sorta di “sacra triade cattolica” che ha connotato tanta parte della vita religiosa nel Settecento campano (l’Orsini era tanto attaccato ai luoghi del suo episcopato che restò arcivescovo di Benevento anche da papa).
Dei tre, ben due sono stati elevati agli altari, sant’Alfonso nel 1839 da Gregorio XVI e san Gerardo nel 1904 da Pio X. Ma un tratto accomuna comunque i tre soggetti: la loro dirittura morale. Invece il carattere taumaturgico riguarda ovviamente i due canonizzati, per la loro supposta capacità di operare miracoli, la cui tipologia risulta abbastanza affine per casistica (in relazione alla specializzazione del potere guaritivo) e per destinatari (con riferimento alle classi più emarginate). Entrambi inoltre sono stati molto apprezzati da vivi ed hanno visto le loro tombe essere oggetto di venerazione sino ai giorni nostri.
I fondamenti della devozione popolare gerardina
Per procedere ad una comparazione fra il passato ed il presente occorre fissare alcuni punti fermi relativi al contesto storico-socio-antropologico in cui si colloca l’origine stessa della odierna devozione popolare nei riguardi del santo venerato nel santuario di Materdomini.
Innanzitutto è da tracciare e tenere presente il profilo umano e spirituale di Gerardo Maiella, nato da modesta famiglia (“cucitore” ovvero sarto il padre, contadina la madre). Già questo primo dato di fatto torna utile per capire l’immediata e facile consonanza fra le classi popolari meridionali ed una figura a loro così vicina per affinità di situazione socio-economica e familiarità di attività lavorative conosciute da presso anche se non proprio praticate.
Occorre però completare il quadro aggiungendo che l’aspetto devozionale operante in Gerardo sin dall’età più tenera appare abituale in fanciulli che frequentino il mondo ecclesiastico. Si tratta di soggetti che sono portati a fantasticare sulle espressioni cultuali, creando altarini e processioni, cerimonie e pellegrinaggi, prendendo dunque ispirazione dalla pratiche di culto cui assistono o partecipano. Gerardo poi traeva linfa vitale dall’esperienza avuta in casa del vescovo di Lacedonia, monsignor Albini, al cui servizio si era posto.
Ma l’esperienza più significativa cominciò quando entrò come fratello coadiutore laico fra i redentoristi (dopo non essere stato accolto né dai francescani cappuccini, né dagli stessi liguorini o redentoristi, almeno in un primo momento). Fu qui che rifulse il suo spirito di dedizione al prossimo, insieme con una forte propensione a gesti di carità. In particolare si prodigò a favore degli altri in occasione della carestia del 1755, l’ultimo anno della sua vita a causa della tisi che lo porterà a morte.
Fu un uomo di penitenza, che praticò con intenso afflato religioso, ripercorrendo itinerari e modalità che erano stati tipici di secoli precedenti: cilizi, autoafflizioni, persino autoflagellazioni a sangue.
Tuttavia tali forme di ascetismo spinto, di imitazione della passione di Cristo e di identificazione con l’Uomo-Dio non gli impedirono di mostrarsi anche assai misericordioso (come testimoniano tanti episodi che si raccontano di lui prono sui mali del mondo, sino a compiere opere ritenute miracolose).
La sua era una pietà dalla duplice valenza, umana e cristiana, con impeti di solidarietà incondizionata che lo inducevano a vivere la carità in forma quasi mistica, tutta interiore negli intenti ma rivolta all’esterno nelle opere concrete di supporto.
Neppure la calunnia scalfiva il suo animo completamente votato ad un’osservanza quasi cieca della regola dell’ubbidienza ai superiori. Nonostante la proibizione comminatagli di non poter ricevere l’eucaristia egli riuscì a mantenere salda la sua fede ed a dar prove sublimi di credenza assoluta senza tentennamenti e con fiducia profondissima nel suo Dio, in Maria, in Gesù Bambino, nel Santissimo Sacramento. Peraltro le carenze del suo corpo continuamente prostrato non gli facevano ostacolo anzi sembravano accrescere le sue potenzialità di resistenza e di testimonianza ferma, immarcescibile.
A partire da un tale lievito di base si impasta tutto il magma multiforme della religiosità popolare legata alla figura di Gerardo Maiella, un santo giunto relativamente tardi all’onore della venerazione ufficiale della Chiesa ma di fatto rimasto ben vivo nella percezione diffusa dei suoi devoti per quasi un secolo e mezzo sino alla sua beatificazione dapprima (nel 1893) e canonizzazione qualche anno immediatamente dopo (nel 1904).
Certamente la religiosità che si lega al Maiella ha più i caratteri del popolare che non dell’elitario, in quanto nasce e si sviluppa nell’ambito della socializzazione primaria familiare e non tanto a livello istituzionale. Forse anche questo aspetto può aver allungato i tempi della santificazione del giovane laico redentorista. L’attenzione verso di lui si è mantenuta sostanzialmente costante nei ceti più umili della popolazione. Solo più tardi è ripresa o è iniziata ex novo una maggiore sensibilizzazione dell’establishment ecclesiastico. Nel frattempo la religiosità popolare ha seguito un suo percorso peculiare che ha rivisitato credenze e riti, ha messo fra parentesi le soluzioni più legate a fattori organizzativi e regolativi, ha conservato piuttosto norme etiche e sentimenti devozionali. Il livello popolare, sulla scorta del modello gerardino, non ha fatto leva su una educazione regolare e dottrinale ma ha preferito basarsi sulla tradizione orale (racconti della vita di Gerardo, dei suoi interventi “miracolosi”, delle sua azioni straordinarie), entrando anche in conflitto implicito con il modello della religione-di-chiesa. In tal modo la religiosità popolare che ha avuto come focus di interesse la devozione al santo laico redentorista rappresenta anche una sorta di religione come protesta, per usare i termini preferiti da Alberto M. Cirese[7] che rinvia al modello gramsciano della contrapposizione fra chiesa e popolo.
Una forma peculiare della religiosità popolare è quella che contempla un dialogo diretto con la divinità o con la santità come nel caso di Gerardo Maiella. Il che può avvenire nella forma abituale della preghiera, più o meno recitata secondo schemi liturgici approvati, o della interlocuzione personale e diretta con il destinatario soprannaturale per definizione (Dio stesso) o divenuto tale dopo l’esperienza naturale dell’esistenza umana (come nel caso di san Gerardo).
Così il dialogo si allaccia attraverso un pellegrinaggio, una visita al santuario, la partecipazione ad una messa, l’esecuzione di un canto, la promessa di un’azione specifica sotto forma di voto da sciogliere, l’invio di un’offerta, lo scrivere una lettera alla redazione di una rivista religiosa (come In cammino con san Gerardo). Tutti questi contenuti religiosi e popolari insieme fanno altresì ricorso ad un vocabolario specifico, ad una terminologia che di solito non è quella della chiesa ufficiale, anche perché si avvalgono spesso di una opzione linguistica (dialettale) ben diversa da quella dei documenti magisteriali della chiesa. Anche le aggettivazioni utilizzate non sono quelle abituali di gente colta, di personale ecclesiastico, bensì di uso comune fra le gente che condivide un medesimo vissuto religioso-popolare.
Alcuni, sbrigativamente e con un approccio privo di scientificità, bollano come magico-superstiziose talune manifestazioni, senza prima andare a fondo di ciascuna di esse per raccoglierne ed accoglierne i contenuti principali, per poi leggerli alla luce della metodologia storico-socio-antropologica più accreditata, dunque ben al di là di giudizi estemporanei. Per far questo occorre un’adeguata preparazione di base per poter svolgere adeguate indagini sul campo, non orientate da spirito aprioristicamente critico, valutativo, persino denigratorio.
I contenuti della religiosità popolare
Studiare la religiosità popolare è affare di non poco momento, anzi è questione complessa ed imprevedibile nei suoi sviluppi. Non si può affrontare il fenomeno del culto a san Gerardo avendo in mente pre-considerazioni di natura teologica o ideologica. Altrimenti si rischia di avere risposte ed interpretazioni pre-costituite che rendono inutile la stessa ricerca scientifica, visto che i suoi risultati sono largamente scontati ed in linea solo con il punto di vista di chi effettua lo studio del caso.
Non si può trascurare il fatto che la devozione popolare è parte della cultura, cioè della maniera in cui le persone considerano la vita e se stesse, costruendo la loro concezione del mondo anche sulla base della socializzazione e dell’educazione ricevute.
Va poi considerato che esistono diverse subculture, all’interno di una cultura generale più vasta, sia essa meridionale o campana o pugliese o lucana o calabrese o laziale (per rimanere nell’ambito delle provenienze più frequenti tra i pellegrini che si recano a Materdomini). Ogni subcultura conserva e trasmette le proprie modalità di approccio: rituali, organizzative, emozionali.
Nonostante varie differenze, alcuni tratti restano comuni: l’organizzarsi in forme associate, magari temporanee; il rispettare i sacerdoti; l’assecondare gli organizzatori dei pellegrinaggi; l’evitare forme esplicite di anticlericalismo; l’accettare i valori religiosi; il trasmettere lo spirito religioso alle generazioni più giovani; il creare motivazioni favorevoli alla religione; il fornire soluzioni comportamentali alle difficoltà esistenziali.
Il sentimento religioso popolare si fonda essenzialmente sulla vicinanza al santo, che è visto come intercessore presso la divinità e che per questo è pregato con insistenza perché sia di supporto nelle situazioni della vita meno favorevoli. Ma non mancano altre forme rituali, sopratutto nell’ambito dei cosiddetti “sacramentali”, cioè cerimonie volte ad offrire esiti spirituali mediante benedizioni, esorcismi, consacrazioni, atti benefici, uso di oggetti sacri (statue, immaginette, rosari, acqua benedetta), frequentazioni di luoghi consacrati, ricorsi a simboli religiosi ed a formule tradizionali più o meno codificate (ivi comprese quelle contenute nei benedizionali, ovvero nelle raccolte di benedizioni per ogni tipo di circostanza).
Un carattere emerge fra tutti gli altri: coloro che praticano la religiosità popolare sono portati a considerare il santo come qualcosa di assolutamente vivo. Per questo gli si parla, gli si rivolgono discorsi, lo si invoca, lo si ritiene un compagno di vita, lo si tratta amichevolmente, lo si compiace con feste ed omaggi vari, lo si fa destinatario di promesse e di voti. A sua volta lo stesso santo è ritenuto interagire concedendo miracoli e favori, intercessioni ed aiuti, ma anche comminando qualche “punizione” o diniego. Il rapporto è talora privatizzato al punto che il santo diventa interlocutore privilegiato se non esclusivo specialmente se il devoto ne porta il nome o ne cura il culto in ogni sua espressione (dall’organizzazione di pellegrinaggi alla celebrazione di messe in suo onore, dalla raccolte di offerte per il santuario alla predisposizione dei festeggiamenti in occasione della ricorrenza annuale secondo il calendario liturgico).
La fiducia verso l’oggetto della devozione è totale. Il santo è venerato da una medesima famiglia nell’arco di più generazioni. Egli diviene quasi un membro del consorzio familiare, tanto che lo si chiama per nome, fraternamente, od anche con un soprannome, tanto è spinta la dimestichezza con lui, sino a porlo sullo stesso piano di chi lo invoca. Non è un caso che la presenza del santo è ben visibile in una casa, giacché la sua immagine è presente quasi in ogni stanza, su ogni parete (sia una foto, un dipinto, od un souvenir del suo santuario, oppure un calendario che ne narra i portenti o una piccola acquasantiera con la sua immagine, od anche un “abitino” simile a quello usato per la statua del santo od altro ancora).
Solitamente si ritiene che la religiosità popolare comporti che il santo provveda a compiere miracoli straordinari. In realtà il devoto o la devota non si aspetta molto: basta anche ottenere semplicemente qualcosa che vada oltre le possibilità materiali del richiedente. E tutto quel che succede e succederà dopo la richiesta di “grazia” sarà interpretato alla luce della sola prospettiva religiosa, indipendentemente dal fatto che un intervento medico od un farmaco adeguato abbia prodotto l’esito desiderato. Insomma la realtà è letta ad un altro livello: Dio ed il santo operano in modo naturale, non fanno alcuno sforzo speciale per intervenire sulla realtà. Tutto è spiegato dunque in chiave religiosa.
Peraltro non è tanto importante ottenere un miracolo quanto essere rassicurati e riappacificati con se stessi da parte del santo. Una benedizione, un intingere le dita nell’acqua santa ed il portare con sé un’immagine del santo in fondo non sono altro che una manifestazione di fiducia, un’attribuzione di credito alla figura del patrono implorato. Persino un esito negativo, nonostante le preghiere indirizzate al santo, può costituire un rafforzamento della fede verso il rappresentante celeste. In effetti la sanzione è valutata comunque quale prova di attenzione del santo e per di più suscita ulteriori rapporti, più saldi legami, finalizzati ad acquisire la benevolenza dall’alto.
Né va dimenticato il carattere socio-integrativo della devozione: ci si sente parte di una comunità di fedeli, si condivide un’esperienza comune di parrocchia o di paese, si esterna agli altri il proprio bisogno materiale o spirituale, si mettono insieme le risorse per sollecitare l’attenzione del santo, dedicandogli celebrazioni, omaggi, offerte, atti devozionali, privazioni materiali, percorsi compiuti a piedi od in ginocchio, cappelline o nicchie (edicole) lungo le strade, statue e quadri che lo raffigurano (da porre in casa o nelle chiese).
L’origine di tutto ciò è in genere un episodio eccezionale, più o meno fondato storicamente ma raccontato con ricchezza di dettagli per renderlo comunque vero od almeno verosimile. Di solito il contesto riferito è quello di una situazione critica, se non addirittura drammatica, che viene risolta dall’intervento straordinario del santo: di Gerardo Maiella, ad esempio, si raccontano vari episodi che i suoi devoti chiamano impropriamente “miracoli” e che sono rappresentati nel suo santuario.
Sullo sfondo del legame tra il devoto ed il santo si staglia sempre la dimensione esistenziale del fedele che dalla nascita al matrimonio, dalla procreazione alla morte, attraversa di continuo fasi cruciali della sua vita, in pericolo o comunque non agevole in quanto ricca di imprevisti. A queste situazioni critiche si aggiungono sovente le condizioni materiali ovvero socio-economiche, non sempre floride o sufficienti. Appunto per questo la relazione con il santo diviene una sorta di palliativo sul piano emozionale. In pari tempo manca del tutto un inquadramento teologico-dottrinale di tipo confessionale che possa spiegare le situazioni vissute. E manca per di più un soddisfacente livello di consapevolezza critica che dia il giusto peso a persone e circostanze della vita. Per dirla con de Martino, il negativo viene destorificato, non se ne individuano le ragioni reali, ogni spiegazione è rinviata alla volontà superiore, della divinità e/o del santo. Così la mitologizzazione prevale sulla visione storica, l’impianto religioso espunge altre letture, il rito contribuisce a celare il tracciato reale dei fatti e delle loro conseguenze.
Tali dinamiche non sono del tutto esenti da un mix con elementi magico-superstiziosi, dato che la contiguità fra le pratiche popolari di diversa natura non è facilmente risolvibile, onde poter giungere ad una “purificazione” totale quale quella desiderata dal magistero cattolico. Talune manifestazioni di religiosità popolare possono perciò apparire non certo ortodosse eppure non perdono, per tale ragione, la loro valenza di pratica religiosa consolidata, radicata nel tempo e pertanto legittimata dalla prassi della tradizione.
La presenza dei devoti nella rivista In cammino con San Gerardo
Come si articola in particolare l’odierna religiosità popolare che ha come centro ispiratore il culto gerardino? I percorsi di studio praticabili possono essere vari ed intersecarsi fra loro. Tentativi in proposito non mancano[8]. Ma c’è un luogo indiziario particolarmente significativo che conviene compulsare per trarne qualche spunto interpretativo non usuale e scontato. Si tratta di uno strumento di comunicazione sempre più utilizzato ed enfatizzato, ancor più oggi grazie al networking telematico che consente anche ad un remoto simpatizzante del santo di Materdomini di collegarsi con la struttura editoriale e cultuale del santuario di Caposele, al limite dei Monti Picentini.
In effetti la rubrica “La voce dei devoti” curata mensilmente da padre Luciano Panella, rettore del santuario di Materdomini, sulla rivista In cammino con San Gerardo, offre il destro per un’analisi che contempli insieme le istanze dei devoti e le risposte di un qualificato missionario redentorista. Il mensile si autodefinisce “di cultura e formazione cristiana”. E tale di fatto esso appare. Ma non è difficile immaginare che le pagine più lette siano quelle che rientrano sotto l’etichetta abbastanza ampia di “Echi dal Santuario”, che include non solo “La voce dei devoti” ma pure “Piazza Santuario”, “Cronaca del Santuario”, nonché “I nostri defunti”, “Sorrisi”, “Gli amici di San Gerardo”, “Fiori d’arancio”, “Storie di fede gerardina”, “San Gerardo nella vita quotidiana”, eccetera. Solitamente queste parti, non sempre tutte presenti e piuttosto discontinue, sono collocate quasi alla fine del giornale, ma non per questo appaiono di minor rilievo. D’altra parte la ricchezza stessa dell’apparato iconico, dato soprattutto dalla presenza di molte foto (fino a 14 tutte insieme, come nel numero di ottobre del 2004 a pagina 41), ne sottolinea il carattere segnatamente comunicativo ed attrattivo, con un forte appeal nei riguardi dei lettori, che così hanno poco da leggere e molto da guardare.
Un’altra didascalia in forma di titolo, che si trova di solito sulla medesima pagina de “La voce dei devoti”, recita “Fatti, testimonianze e curiosità dei devoti di San Gerardo”, anche se talora la scelta dei messaggi sembra finalizzata piuttosto a dare informazioni sul santuario che non a ricevere istanze e sollecitazioni da parte dei fedeli. Naturalmente c’è anche da chiedersi quale sia la consistenza delle missive inviate dai devoti, in termini di numero e di frequenza nell’arco temporale di quattro settimane o di un intero anno. Per non dire delle ristrettezze, note e solite, che impediscono di pubblicare i testi delle lettere per intero e che comportano comunque una cernita di contenuti da parte di chi confeziona il prodotto giornalistico.
Sia “La voce dei devoti” che “Fatti, testimonianze e curiosità dei devoti di San Gerardo” sono “pezzi” sempre presenti sul mensile. Invero non si nota una particolare differenza fra l’una e l’altra rubrica, se non nel fatto che nel primo caso vengono pubblicate lettere (o meglio brevi brani) di corrispondenti “gerardini” senza che vi sia alcuna replica da parte del giornale, che invece si ritrova nel secondo caso con l’interlocuzione di domande e risposte (affidate quest’ultime a padre Luciano Panella).
Per avere un punto di riferimento sufficientemente preciso e relativamente diluito nel tempo si è pensato all’intera durata di un anno liturgico, in particolare dal mese di novembre a quello di ottobre dell’anno successivo e dunque dal 2003 al 2004. Sono undici numeri di In cammino con San Gerardo in quanto si deve tenere conto del fatto che in luglio ed agosto viene pubblicato un unico numero, per la concomitanza con le vacanze estive.
Va detto che “La voce dei devoti” non occupa mai più di una pagina per ogni mese. Ma catalogare ed analizzare i vari items rintracciabili nella corrispondenza pubblicata su In cammino con San Gerardo non è agevole. La definizione di apposite categorie di analisi rischia di appiattire troppo i contenuti entro gabbie definitorie precostituite e d’altro canto può lasciare fuori alcuni aspetti rilevanti della devozione popolare che si esprime nei riguardi di san Maiella. Conviene dunque riferire – numero per numero del mensile – quali siano i temi affrontati, le richieste avanzate, le risposte fornite. In tal modo si ottiene una sorta di silloge che rende conto di quanto emerge nelle pagine prese in considerazione.
L’universo in esame non è certo cospicuo dal punto di vista numerico e nondimeno appare sufficiente per suggerire talune riflessioni di merito, anche perché l’arco di tempo delle unità di analisi abbraccia un intero anno e dunque concede poco alla casualità della scelta ed alla contingenza dei vari momenti.
Per quanto ininfluente ai fini dell’indagine, si intende seguire l’ordine cronologico, secondo la sequenza calendariale relativa alla data di pubblicazione dei singoli numeri della rivista, partendo dunque dal numero 11 del novembre 2003 e giungendo sino al numero 10 dell’ottobre 2004.
Un anno della rivista gerardina
Nel numero 11 del 2003 si chiedono informazioni sulle messe “perpetue” per i defunti (una serie di 20 celebrazioni eucaristiche per ogni mese “in favore di tutti gli iscritti”), sull’episodio del fazzoletto di san Gerardo ritenuto portentoso, sulla dedica del santuario con la sua intitolazione di “Materdomini”. Altri ringraziano il santo o ricordano l’importanza di Muro Lucano come luogo natio di Gerardo. A 3 domande vengono fornite altrettante risposte, il tutto in forma assai breve. Nella rubrica “La voce dei devoti” invece non risultano risposte.
Nel successivo numero di dicembre 2003 le domande restano 3 e ricevono altrettante repliche che hanno un carattere sostanzialmente informativo: su una grata deformata sita nel santuario, su un miracolo “gerardino” a Napoli con salvataggio di una barca in pericolo, sulle processioni di san Gerardo (quest’ultima risposta è data ad un lettore tedesco di Colonia). Sono invece 4 le missive senza replica, che provengono – tra l’altro – dalla Repubblica Slovacca (con una richiesta concernente la novena di san Gerardo), dal Brasile (e specificamente da un parroco che segnala un sito “gerardino”) e da Potenza (per manifestare l’intenzione di proseguire un’adozione a distanza).
Il nuovo anno 2004 presenta ancora 3 lettere e relative risposte. La prima riguarda le immagini delle “Litanie Lauretane” pubblicate dal santuario, la seconda di provenienza argentina domanda l’invio di materiali religiosi e souvenirs, la terza attiene alla possibilità di celebrazioni nuziali nel santuario. Altre 2 lettere non ricevono risposta giacché sono essenzialmente dei ringraziamenti al santo.
Nel febbraio 2004 sono ben 5 le corrispondenze de “La voce dei devoti”, di cui una da Buenos Aires ed una in forma di poesia dedicata al santo. Le altre sono dei ringraziamneti in forma varia. Da segnalare è soprattutto quanto scrive una lettrice, Gerardina, che si dice “molto triste” e che aggiunge: “un giorno vi racconterò la mia storia”. Le risposte alle 3 domande solite (tali almeno per il numero di quelle pubblicate) vanno dal consiglio di non includere denaro in busta alla chiarificazione sugli oggetti di argento posti nel santuario, che in realtà sono degli ex voto. Nel terzo caso è fornito un indirizzo elettronico per le adozioni a distanza.
Si riducono a 2 le domande del marzo 2004. Un lettore di nome Gerardo si vuole informare in merito alla pubblicazione di una foto nella rubrica “I nostri defunti”, un altro chiede il perché dell’appellativo di “pazzerello” dato a san Gerardo. Sono invece 4 le lettere de “La voce dei devoti”, tutte dall’estero (dal Benin, dalla Germania e 2 dagli Stati Uniti): si invoca il santo per due gravidanze, si offre materiale religioso ai devoti di san Gerardo e si parla di una chiesa dedicata a st. Gerard Majella a New York.
Sono ancora 2 le domande nel numero di aprile del 2004. Gerardina, una devota, vuol sapere delle cresime in agosto presso il santuario. Ad Andrea, portatore di handicap, si assicura che l’accesso al santuario è agevolato con rampe ed ascensori. Da Palermo e dalla Filippine scrivono rispettivamente per chiedere preghiere e per segnalare l’esistenza di un Centro San Gerardo di accoglienza e consulenza familiare.
A maggio 2004 le lettere tornano ad essere 3. Si vuol sapere se dopo il terremoto esiste ancora l’antica soffitta dove il santo si sottoponeva a penitenza, se c’è un limite di età per diventare redentorista e se è possibile svolgere attività di volontariato presso il santuario. Per “La voce dei devoti”, oltre una poesia, vi sono 3 missive tutte riguardanti questioni di maternità, anche in relazione alla richiesta di ottenere per san Gerardo il titolo di “Patrono delle mamme e dei bambini”.
Nessuna risposta è presente a pagina 31 della rivista datata giugno 2004. Come “Fatti, testimonianze e curiosità dei devoti di San Gerardo” sono pubblicate una lettera di una famiglia che si affida al santo e quella di una donna che spera di divenire madre. Ne “La voce dei devoti” si parla dapprima di un parto ormai prossimo e poi di un forte desiderio di gravidanza. Una terza richiesta è di preghiere, in particolare per una figlia, perché abbia sempre buoni sentimenti religiosi.
Prima delle ferie estive esce il numero doppio 7/8 di luglio/agosto 2004, con un saluto di un devoto che è emigrato da Tropea, in provincia di Catanzaro, a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. Il resto della pagina delle corrispondenze è tutto dedicato a “La voce dei devoti”, che scrivono dagli Stati Uniti, da Nuoro e da Monaco. La prima lettera parla della protezione del santo per la nascita di un bambino, la seconda domanda preghiere perché venga esaudito il desiderio di avere un figlio, la terza racconta dell’ascolto frequente di Radio Maria.
Alla ripresa autunnale, nel numero 9 di settembre 2004, c’è una sola domanda con relativa risposta: si chiedono preghiere e si suggerisce di inserire il commento al Vangelo per tutte le domeniche del mese. “La voce dei devoti” è dedicata a 4 brevi interventi. Nell’ordine, si ringrazia il santo (dall’Argentina), si affidano a san Gerardo le figlie (una delle quali è stata riconosciuta innocente dopo un’ingiusta accusa), si riconosce all’intercessione “gerardina” il bon esito di una gravidanza e si ringrazia per la guarigione di una bambina.
Infine nell’ultimo numero della serie esaminata, quello dell’ottobre 2004, la posta dei lettori è ridotta ad appena 2 colonne (su 3 disponibili nella medesima pagina). A scrivere sono un salesiano dell’Uruguay (che parla di una cappella a san Gerardo nei pressi di Montevideo), un fedele di Sarno in provincia di Salerno (che apprezza il modo di conduzione del santuario) e, dal Benin, Seton Rita Adjagba (che ringrazia per un parto ben riuscito).
Conclusioni
Prima di procedere con le considerazioni sociologiche sulla devozionalità che emerge dalla lettura delle corrispondenze dei lettori e con i lettori di In cammino con San Gerardo, è bene puntualizzare che una metodologia più corretta avrebbe dovuto comportare una analisi complessiva e dettagliata sull’intera collezione di lettere giunte al santuario nel dodici mesi scelti come campione indicativo. Si è dunque consapevoli di un tale limite di rappresentatività, rispetto al dato reale del flusso postale (sia cartaceo che elettronico). Nondimeno la disamina condotta fornisce indizi e suggestioni di non scarso momento.
Innanzitutto si nota una forte presenza del livello di riconoscenza che intercorre fra i devoti ed il santo. I ringraziamenti sono una costante che difficilmente manca. Ma vengono evidenziati quelli che maggiormente rispondono a certi requisiti o meglio a certe peculiarità taumaturgiche del santo. In altri termini più di frequente i fedeli sembrano gratificati da san Gerardo perché li ha aiutati per una gravidanza difficile, per un parto desiderato, per un figlio nato. Non a caso è l’elemento femminile ad essere dominantemente presente in simili frangenti. Tale emergenza della datità neonatale risponde perfettamente alle istanze che anche la congregazione redentorista sembra favorire, quella cioè di far sì che il Maiella sia proclamato protettore delle mamme e dei bimbi.
Una simile evidenza ben si coniuga con la narrazione tradizionale che fa di san Gerardo un fervido appassionato della figura del Cristo nella sua fattispecie di bambino di Betlemme, appunto Gesù Bambino. Già si è detto che in questo il Maiella segue da presso un input (come si direbbe oggi) che gli viene da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, anch’egli aficionado del divino fanciullo nato in Palestina. Insomma il “nativitismo” di Gerardo che contempla, venera ed adora la diade Madre/Figlio costituirebbe di fatto il fondamento che mira a legittimare il suo patronato sulle mamme e sulla loro prole.
Si colloca entro la medesima prospettiva pure la diffusione delle adozioni a distanza, in quanto rappresentano una metafora del rapporto genitoriale/filiale quale si riscontra in Maria e nel suo figlio-Dio.
Non è difficile scorgere nel taglio degli interventi di risposta ai lettori della rivista mensile un chiaro modello didascalico, catechetico quasi, che mira ad ammaestrare, ad illuminare, ad istruire sulla base del modello esistenziale “gerardino”. A tale scopo torna più volte il racconto della biografia di Gerardo, ricca di episodi in apparenza inspiegabili eppure semplici nel loro svolgimento concreto. Da qui deriva la “mitologizzazione” che fa del santo lucano un prediletto dall’alto, come manifestato esplicitamente dalle numerose apparizioni di Gesù Bambino, che lo avrebbe onorato del suo discorrere con lui.
A ben considerare quanto emerso, nel mensile, dai testi epistolari a contenuto devozionale, quasi nulla sembra scaturire in merito all’aiuto prestato dal Maiella ai poveri, agli emarginati, ai diseredati. Questo tratto risulta in subordine, se non anche del tutto trascurato. Non ne parlerebbero i lettori del mensile, ma neppure chi è addetto alle risposte si premura di richiamare alla memoria tale contenuto specifico dell’azione terrena del santo.
Quello che viene enfatizzato è ben altro: la connotazione internazionale del culto per san Gerardo, insieme con la qualità del santuario e della sua capacità di accoglienza. Anche nel riprendere gli episodi della vita “gerardina” non vengono preferiti quelli che riguardano le sue opere di carità, bensi azioni di carattere miracolistico o considerate tali (in modo allusivo).
Più che nelle risposte ai devoti, si ha la percezione che l’intento reale di chi interloquisce con loro sia impegnato nelle esigenze informative e “pubblicitarie” del santuario e delle attività ad esso connesse. Lo stesso rinvio ad Internet ed alle sue molteplici potenzialità d’uso altro non è che una modalità aggiornata ed efficace di promozione religioso-cultuale-culturale. Ed anche in questo contesto prevalgono attenzioni di tipo operativo rispetto ad altre di matrice più spirituale: come nel caso dell’invito a non porre denaro nelle buste da spedire per via postale.
Il format del colloquio con i lettori si presenta abbastanza standardizzato, poco mutevole. Tutto rientra in una norma implicita di base e di fondo. Insomma il tono e l’atmosfera complessiva della pagina dedicata ai devoti sembrano più a servizio del santuario che non degli interlocutori postali e/o informatici. Qualche incidente di percorso (titoli non corrispondenti ai contenuti e testi ripetuti o comunque ripetitivi nella sostanza) non aiuta certo a sgombrare il campo da dubbi e perplessità sulla conduzione delle rubriche esaminate.
Sia pure nel breve torno di un anno un’attenta lettura comporta la constatazione di una certa staticità sia di forme che di contenuti. I temi sono ricorrenti, qualche volta prevedibili e scontati. Alcune note informative paiono prefabbricate e comunque quasi cucite addosso al lettore interpellante. Una diversa collocazione, magari formalizzata a mo’ di annuncio di date ed orari, ridarebbe respiro al dialogo tra i religiosi del santuario ed i devoti di san Gerardo, mettendo probabilmente in evidenza più articolati dinamismi di religiosità popolare “gerardina”.
Un altro aspetto non trascurabile è che sia data voce a più di un religioso come interlocutore privilegiato, in una rubrica che di per sé si qualificherebbe come meno “intra-istituzionale”. In realtà il discorso rimane fra addetti ai lavori, escludendo di fatto i laici quali protagonisti principali dell’esperienza devozionale popolare.
Sul piano tecnico non è chiaro poi se le lettere arrivino alla redazione in forma epistolare cartacea (con busta ed indirizzo postale) oppure informatica (attraverso computer, mediante l’uso di indirizzi contenenti il simbolo @). L’una e/o l’altra soluzione già da sole costituirebbero un indicatore di prim’ordine per l’analisi sociologica. In linea ipotetica si può presumere che i messaggi più numerosi siano quelli inviati in modo tradizionale (con busta affrancata).
Ma un punto resta fermo: l’andamento registrato nel periodo dal novembre 2003 all’ottobre 2004 porta sostanzialmente ad una saturazione di problematiche e di notizie, di temi ed avvisi. Si riesce difficilmente ad immaginare qualcosa di diverso nei mesi successivi. Una conferma in tal senso viene “navigando” sul sito web (www.sangerardo.it) che ricalca da vicino l’impostazione della rivista mensile, salvo qualche dettaglio tecnico, di per sé innovativo. In realtà il sito web non pretende essere un luogo di confronto con i suoi utenti-visitatori. Rimane una sorta di interfaccia facilmente accessibile ad un pubblico piuttosto ampio e non necessariamente devoto, magari solo curioso.
Forse però un segnale diverso giunge da una più verosimile ed affidabile rubrica con i lettori, quella tenuta mensilmente da padre Fiore (padrefiore@sangerardo.it). In tal caso il discorso è di carattere più generale e dunque meno “gerardino” nei contenuti. Domande e risposte hanno uno spazio maggiore, anche se non adeguato alla difficoltà delle problematiche trattate. L’orizzonte prospettato appare ben più ampio.
Se si fa un confronto diretto nel numero di maggio del 2005, “La voce dei devoti” risulta curata in modo anonimo; difatti i messaggi vengono inviati genericamente a santuario@sangerardo.it. Inoltre su 5 testi pubblicati ben quattro sono firmati da religiosi. Se ne potrebbe desumere – stando ancorati al dato che appare in calce alle lettere – che i devoti siano quasi solo dei religiosi, magari redentoristi. E che pensare infine quando poi si constata – nel numero di giugno del 2005 – che “La voce dei devoti” non è più presente?
Ma la devozione “gerardina” di oggi come di ieri non è probabilmente tutta qui.
[1] Cfr. la sua opera in cinque volumi dal titolo Storia della Chiesa di Napoli provata con monumenti (edita a Napoli nel 1861, presso lo Stabilimento Tipografico sito in Strada Banchi-nuovi, 13), pag. 611.
[2] Cfr. specialmente il capitolo su “Spiritualità e sensibilità” nel volume Sensibilità e razionalità nel Settecento, pubblicato a Firenze nel 1967.
[3] Cfr. il saggio “La spiritualità nel Settecento italiano”, che si legge nel numero 27, pp. 68-83, e nel numero 28, pp. 88-98, di Scuola e cultura del 1968.
[4] Il saggio è stato pubblicato a Firenze nel 1944.
[5] L’opera è stata pubblicata a Roma in tre volumi tra il 1962 ed il 1968.
[6] Cfr. fra l’altro “Gerardo Maiella e la religiosità popolare del suo tempo”, Specilegium Historicum, XLII, fascicolo I, 1994, pp. 65-88.
[7] Cfr. Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino, 1976.
[8] Cfr. Luigi Martella, Pellegrini a San Gerardo. Ricerca socio-antropologica, Valsele Tipografica, Napoli, 1984, pp. 284.