“Dai valori all’utopia”, in Quarta (a cura), Per un manifesto della «Nuova Utopia», Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 105-31.

Roberto Cipriani


DAI VALORI ALL’UTOPIA


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


1. Valori ed azione sociale


I soggetti umani sono motivati nel loro agire da vari fattori. Fra questi rivestono un ruolo rilevante, anzi decisivo, i valori.


Per ogni individuo vi sono riferimenti fondamentali che orientano i suoi atteggiamenti ed i suoi comportamenti. Tali riferimenti hanno un carattere astratto, non materiale, anche se poi danno luogo a conseguenze empiricamente rilevabili, e perciò «oggettive».


Ciò che ha valore, giacché vale più di ogni altra cosa per un soggetto, è quanto egli considera preminente, non sostituibile, non commerciabile, massimamente desiderabile. Ecco perché in nome del valore in cui crede l’individuo è disposto a qualunque sacrificio, ad affrontare ogni tipo di difficoltà.


Dal valore massimo attribuito a qualcosa deriva poi la considerazione di ogni altro elemento, dunque anche la valutazione di ciò che è bene o di ciò che è male, di ciò che è giusto od ingiusto, legittimo o illegittimo, sempre sulla base di un discrimine operato dal soggetto stesso.


I valori possono però essere sia un punto di partenza sia un punto di arrivo, come traguardo da raggiungere, idea da realizzare, obiettivo da conseguire. Dunque si potrebbe dire che sia a monte sia a valle sono sempre i valori ad ispirare l’agire umano.


I valori, così intesi, possono altresì rappresentare un criterio normativo, un parametro di valutazione cui confarsi. Sono essi che orientano le scelte dei soggetti umani e dunque interagiscono con gli interessi e le abitudini preesistenti (e pertanto i valori non sono immuni a loro volta da quei condizionamenti che tendono a mettere in evidenza alcuni interessi specifici ed a consolidare talune abitudini peculiari, a preferenza di molte altre opzioni possibili sia a livello di interessi che di abitudini).


La distinzione fra valori come ideali (che orientano il vissuto individuale) e pratiche concrete (che sono finalizzate al perseguimento di un fine) va tuttavia mantenuta, se non altro per ragioni descrittive. In realtà gli uni e le altre sono rinvenibili empiricamente in un complesso intreccio di cui non è facile stabilire il prius ed il post. Insomma le une non si identificano del tutto con gli altri e viceversa. In particolare non ci si può limitare solo all’analisi di natura behavioristica. Occorre andare oltre, cioè investire su un’area conoscitiva più vasta, costituita dal reticolo di interazioni fra individui e società, fra soggettività e strutture sociali, fra atteggiamenti e comportamenti.


Oggi pertanto non appare più valida la suggestione di Thomas e Znaniecki (1918-1920), che amplificavano al massimo il concetto di valore, sino a concepirlo come qualcosa che fosse comunque carico di un qualche significato, per contrapporlo di fatto ad ogni tipo di atteggiamento. In tal modo i valori assumevano un carattere sociale, gli atteggiamenti erano invece ritenuti avere un connotato individuale, quand’anche in riferimento ad un set sociale rappresentato dai valori stessi.


Sembra ora invece più accreditabile il nesso fra valore ispiratore ed azione concreta, o meglio fra valore e scelta (o non scelta) dell’azione da compiere, delle modalità (tempi – cioè momenti e durate -, mezzi ed obiettivi dell’agire). In altri termini l’applicazione di un valore in chiave di comportamenti da preferire comporta nondimeno la necessità di discernere fra ciò che è auspicabile e ciò che è possibile soppesando le condizioni contingenti.


2. La dimensione cognitiva dei valori


Vari autori concordano sulla dimensione cognitiva dei valori. In primo luogo va citato il contributo di Kluckhohn (1951) che, oltre l’aspetto cognitivo (connesso al giudizio, positivo o meno, su dati di fatto e comportamenti), include quello affettivo (che riguarda l’accettazione o il rifiuto di quanti si conformano o meno ai valori) e quello selettivo (che segnala la notevole influenza dei valori sulle azioni umane). Quest’ultimo aspetto rimane ad un livello astratto, generale, proprio nel caso del riferimento ai valori, ma concerne una vera e propria normatività nel caso di azioni particolari, abbastanza contestualizzate (Sciolla 1998: 751).


All’ambito cognitivo può aggiungersi altresì quello etico-politico, più pertinente alle istituzioni, alle strutture, alle organizzazioni. Il che si rende necessario per rafforzare le posizioni individuali prevalenti di rinvio a valori condivisi, senza dovere ogni volta giustificare – a livello interpersonale –  condotte e preferenze, atteggiamenti e comportamenti, criteri e procedure. In effetti le istituzioni spesso non provvedono in modo sufficiente a liberare il soggetto da tali gravose incombenze, per cui alla fine il singolo attore sociale si incarica direttamente in prima persona del compito di spiegare, motivare, rendere ragione, giustificare talune sue valutazioni, affrontando un difficile confronto con una pluralità di valori espressi e posizioni assunte in modo assai diversificato. Emerge allora una chiara contrapposizione di punti di vista, di scelte operative, di opinioni di merito. E si rimette in discussione la stessa relazione fra soggetto e società, fra cittadino e stato, fra attore sociale e contesto socio-politico-economico.


Del resto è in tali frangenti che si giunge a parlare di «crisi dei valori», di «fine dei valori». Infatti si rileva una tendenza delle società a disgregarsi, a rinunciare alle proprie forme di coesione, a scegliere soluzioni di comodo anche non democratiche, in quanto non legittimate da un consenso sufficiente ed adeguato. Quando poi si completa il quadro del disagio con una forte massificazione dei processi di comunicazione e di delega socio-politica prevale, secondo la prospettiva habermasiana (Habermas 1986), un agire più strumentale che non comunicativo, per cui i valori risultano obliterati, perdendo ogni significato originario.


In definitiva l’individuo si trova ad operare in un vuoto di valori o comunque in un contesto di loro scarsa rilevanza, giacché i valori, anche se considerati condivisibili, devono poi tradursi in decisioni assai precise, non negoziabili. E stabilire dei criteri in proposito appare quanto mai arduo, perché essi rischiano di fornire ricette troppo generiche e pertanto inapplicabili ai casi concreti.


Ecco dunque che occorre districarsi fra molte strade possibili, provando or l’una or l’altra e correndo il rischio di effetti non voluti ed in netta contrapposizione con i valori ideali, desiderabili in partenza.


D’altro canto la modernità ed ancor più la postmodernità consentono anche questo: di poter ritornare sui propri passi e di ricominciare tutto daccapo.      


Che i valori abbiano un contenuto cognitivo, inoltre, è quasi dato per scontato dai sociologi, in particolare da quelli che praticano la sociologia della conoscenza. L’operazione, tipicamente weberiana messa in atto, è quella di attribuire significato a singoli aspetti della realtà. Dunque valore e significato quasi coincidono, si sovrappongono, in ogni caso mantengono una stretta corrispondenza fra loro.


Anche il carattere identitario è un Leitmotiv che accompagna la fenomenologia dei valori. Infatti proprio attraverso la dimensione valoriale ci si identifica con un movimento, una religione, un partito, una corrente ideologica. In pari tempo le dinamiche storico-sociologiche hanno fatto sì che venissero valorizzate al massimo le peculiarità individuali, in misura proporzionale con lo sviluppo delle libertà e delle autonomie individuali.


Infine un’ulteriore costante è insita nella capacità normativa delle strutture sociali, delle istituzioni giuridico-politiche e degli organismi collettivi  di fornire parametri di guida per gli attori sociali. Si verificano così processi di legittimazione e di identificazione, che consolidano le appartenenze motivandole sia razionalmente che affettivamente. Al centro di tali operazioni di consolidamento delle relazioni sociali sta quasi sempre il set dei valori di base, che contraddistinguono le specificità delle appartenenze.


Se la modernità e la postmodernità hanno eroso le presunte certezze del passato ed hanno aperto la strada a valori «altri», meno predittivi e più flessibili (quasi in contraddizione, rispetto alla solida tenuta dei valori di tipo tradizionale), pure hanno consentito inusitati tentativi di ricerca di certezze diverse, di valori alternativi, di verità da costruire e non più da accogliere supinamente.


Si giunge dunque a prospettare una miriade di possibili esiti nella ricerca-acquisizione di valori non tradizionali, non più trasmessi verticalmente dalla generazioni precedenti grazie anche allo zoccolo duro delle consuetudini consolidate, vero e proprio baluardo per i valori precostituiti.


La sfida delle società contemporanee è del tutto originale, giacché si tratta di trovare vie convincenti, mediante ragionamenti fondati e motivazioni solide. In questo campo necessitano conoscenze raffinate ed esperienze adeguate. La diversificazione del sociale non permette scappatoie agevoli.


Gli stessi modi di agire del soggetto sociale sono sottoposti ad analisi conoscitive e producono nuovi termini di confronto per l’esercizio di una riflessività sempre più problematica, complessa, articolata, che a sua volta interagisce con i valori, le conoscenze e le pratiche sociali.   


3. Valori, interessi ed abitudini


Insieme con i valori, anche gli interessi e le abitudini hanno un peso rilevante per l’azione individuale e sociale. Ma i primi si trovano in una singolare condizione dal punto di vista delle dinamiche sociologiche che li promuovono e li fondano. Infatti sin dal suo ingresso fisico nella società l’individuo si trova dinanzi tutta una serie di elementi precostituiti: i suoi genitori (ma talora solo la madre), i suoi familiari (dalle sorelle e dai fratelli sino ai parenti più lontani), i suoi concittadini (di solito parlanti quasi tutti una medesima lingua o uno stesso dialetto), i suoi vicini di abitazione (in un condominio o in un gruppo di case o capanne). Tutti costoro quasi  accerchiano il neonato, non solo fisicamente ma soprattutto con il loro modo di fare, con le loro parole, con i loro gesti. Inizia così una prima e fondamentale comunicazione: il nuovo arrivato comincia a ricevere messaggi di vario tipo, non tutti omogenei fra loro, ma in qualche misura tendenzialmente convergenti, in quanto si rifanno ad un comune modello culturale, cioè ad una condivisa modalità di intendere l’esistenza, di affrontare la vita, di comportarsi con gli altri. Insomma ancora prima che la sua nascita venga registrata ufficialmente il nuovo soggetto sociale è di fatto un «oggetto»: di attenzioni e di cure, di affetti e di preoccupazioni, il tutto ben carico di contenuti da trasmettere, di emozioni da far trasparire e segnali da far capire.


Ma in verità anche coloro che si affannano attorno al nuovo venuto hanno sperimentato a loro volta la medesima situazione, allorquando in precedenza erano essi stessi dei neonati. È così che di generazione in generazione si inanellano idee e costumi, atteggiamenti e comportamenti, che vanno a costituire una catena senza soluzione di continuità (salvo rare eccezioni). Non si spiega altrimenti un dato di fatto inequivocabile, dato per scontato, ma poco considerato ai fini del mantenimento di un certo approccio alla realtà, dunque di una certa visione del mondo: insomma tutto appare naturale.


Dunque il mondo «naturalmente» dato si accetta, non fa problema, entra a fare parte del vissuto quotidiano, di ciò che è abituale e dunque quasi non discutibile. Del resto si dice che «si è sempre fatto così». E dunque le madri hanno allattato o comunque allevato la loro prole, i padri hanno pensato in prevalenza all’acquisizione dei beni materiali ed economici per la sopravvivenza, gli anziani hanno provveduto a garantire il legame con il passato, ovvero la continuità con l’esistente.        


Tuttavia è da tenere pure presente che i valori vanno a collocarsi in un quadro precostituito, in quanto la storia ha già fatto accumulare esperienze, ha visto sorgere organismi istituzionali, ha costruito un solido patrimonio di conoscenze. Il che rappresenta l’alveo entro cui il nuovo attore sociale va ad immettersi.


Come un’acqua sorgiva non può non seguire il corso già tracciato dal pregresso scorrere di altre acque allo stesso modo il socializzando si trova a seguire un tracciato già segnato, un percorso quasi obbligato, senza molte possibilità – soprattutto all’inizio – di derogare, di prescindere dall’alveo esistente. Solo più tardi, più a valle, sarà dato esondare in modo non regolamentato, non irreggimentato. Solo il raggiungimento della maturità, congiunta con l’autonomia di movimento, consente sentieri inusitati, vie originali, sbocchi non previsti.


La costituzione degli interessi precede peraltro ogni proposta di valori. L’interesse di un nuovo nato o di una nuova nata non sembra avere un carattere innato, al di là di alcuni bisogni primari, propri di ogni essere vivente: l’autoconservazione, la protezione, il sostentamento, la ricerca del piacere, l’attenzione nell’evitare ogni situazione spiacevole ed in primo luogo quella del dolore fisico (o affettivo, legato alla privazione di qualcosa di piacevole o sperimentato come necessario per la sopravvivenza). Anzi la stessa apparizione dei valori come contenuto eteroproposto fa leva su alcuni interessi già definiti o comunque ben noti per il soggetto destinatario.


Lo stesso discorso può valere per le abitudini radicate in una certa società. Esse diventano una sorta di habitus per qualunque soggetto, che per essere accettato dagli altri è portato a confarsi agli schemi esistenti, ad adeguarsi alle «ricette» usuali, ad utilizzare le soluzioni correnti.


In definitiva ancor prima che con i valori l’attore sociale si trova a trattare con le abitudini altrui, che diventano anche le sue, e con i suoi stessi interessi di base, che divengono decisivi al momento delle scelte da operare.


Secondo Ronald Inglehart, che da più decenni conduce indagini empiriche sistematiche sui valori in vari paesi in America ed in Europa, sarebbero invece le capacità e le strutture da considerare prioritariamente come variabili indipendenti che orientano il mutamento. A dire il vero Inglehart (1977: Introduction)quando parla di capacità pensa piuttosto alla propensione delle persone ad interessarsi di politica, a comprenderla e dunque a parteciparvi in chiave anti-élite, con attività «di sfida alle élites». Quando poi si riferisce alle strutture intende quelle economiche, sociali e politiche dei paesi interessati dal suo studio comparativo: le società francese, belga, olandese, tedesca, italiana, lussemburghese, danese, irlandese e britannica.


La medesima prospettiva è utilizzata da Inglehart (1997) anche nello studio successivo su 43 nazioni, in relazione ai processi di modernizzazione e post-modernizzazione, che hanno messo in evidenza una maggiore attenzione ai valori della qualità della vita e dell’autorealizzazione, insieme con l’individualizzazione. Il dato nuovo è quello di una riflessività che porta a prendere le distanze dai valori assoluti per incanalarli invece entro contesti più soggettivizzati, dunque basati sulle preferenze individuali.


Il tutto avverrebbe non senza incertezze, tentennamenti, disagi, attese, contraddizioni, delusioni. Ma l’esito finale, elaborato dal singolo soggetto, sarebbe quello di produrre nuove regole, una normativa più rispondente alla istanze degli attori sociali, soprattutto a livello giovanile.


In tal maniera la socializzazione primaria resta sullo sfondo, quella secondaria subentra in modo deciso e decisivo, privilegiando un andamento orizzontale, intragenerazionale, in sostituzione di quello precedente, più connotato da un profilo intergenerazionale (dalle generazioni adulte verso le generazioni più giovani).


Un precipitato sociologico di tale dinamica mutazionale è il sorgere di un politeismo non più solamente di valori ma di giustificazioni e motivazioni dei valori e dunque delle azioni che ne scaturiscono, come ha sottolineato Bontempi (2001).      


Pur nella differenza delle variabili considerate, vi è una sostanziale convergenza del discorso sociologico applicato ai valori, in quanto le risultanze empiriche non fanno che confermare lo schema interpretativo qui proposto. Semmai, mentre Inglehart enfatizza maggiormente il ruolo dell’istruzione, qui si suggerisce di privilegiare la fase che precede, più incisivamente, il periodo della socializzazione scolastica. Quest’ultima infatti è certamente secondaria rispetto a quella primaria dell’educazione familiare, che dal canto suo ha una sua durata non trascurabile ed un carattere introduttivo, quasi iniziatico si direbbe e dal quale è difficile prescindere.


4. Valori e diritti


I valori possono essere variabili indipendenti, cioè poste all’origine di interessi, abitudini, processi identitari e solidarietà sociali, ma pure variabili dipendenti, cioè derivanti da altri fattori sociali. Nell’uno come nell’altro caso rimane una sostanziale centralità dei valori, che in linea generale possono definirsi umani proprio perché connessi ai soggetti umani ed alle loro predisposizioni di fondo, alle loro credenze fondamentali ed alle loro valutazioni, volte poi ad assumere decisioni.


La varietà dei valori umani è però quanto mai ampia, quasi onnicomprensiva, tanto da abbracciare vari ambiti: da quello conoscitivo a quello comunicativo, da quello giuridico a quello etico-morale, da quello politico a quello economico, da quello educativo a quello medico-sanitario, da quello religioso a quello secolare, dalla vita quotidiana al vissuto di genere.


Una distinzione ricorrente riguarda la differenza che intercorre tra valori applicati e valori finalistici (Rokeach 1973), dunque fra valori che riguardano pratiche individuali e sociali e valori che rappresentano delle vere e proprie finalità da raggiungere.


Un’altra distinzione piuttosto diffusa è quella fra valori universali e valori particolari. Ma su quali siano i valori da annoverare come universali la discussione è quanto mai aperta. In particolare il dibattito tende a scivolare verso una sovrapposizione fra valori universali e diritti universali, quindi fra valori umani e diritti umani.


Nell’ultimo secolo peraltro lo sviluppo dei diritti umani è andato di pari passo con il processo di «scientizzazione», che ha visto un forte incremento della rilevanza sociale e pratica degli studi scientifici ed accademici. Soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale l’autorità e l’autorevolezza della ricerca scientifica sono state prese in maggiore considerazione (Drori, Meyer, Ramirez, Schofer 2003), segnatamente in campo medico, economico e manageriale.


Invece le dinamiche di democratizzazione, pur in crescita, non hanno raggiunto i tassi fatti segnare dai diritti umani, collocati al vertice della scala perché sono passati da un interessamento di pochissime nazioni ed organizzazioni agli inizi del Novecento sino a giungere ad oltre trecento organizzazioni e nazioni coinvolte direttamente alla fine del secolo. In proposito determinante è apparso il ruolo della cosiddetta alta educazione (Schofer, Meyer 2005).


Si può dire inoltre che l’espansione dei diritti umani è divenuto un fenomeno mondiale, costituendo perciò una modalità significativa nei più recenti processi di globalizzazione. I problemi dell’uguaglianza e dell’esclusione, per esempio, sono ormai un tema costante, quasi d’obbligo nell’agenda socio-politica internazionale. Ormai la mancata partecipazione di alcuni gruppi – soprattutto minoritari, rurali e di basso status socio-economico – ai livelli più alti in campo educativo costituisce un punto di forte richiamo di attenzione e di sensibilità per i governi e le organizzazioni internazionali.


Una forte spinta in favore dei valori dell’uguaglianza degli individui e della partecipazione democratica è operante da lungo tempo, grazie altresì alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani promulgata dalle Nazioni Unite. Ma c’è da chiedersi se non vi siano anche altri valori umani universali o presunti tali.


Il fatto è che non appare facile giungere ad un accordo generalizzato da parte di tutti sui valori da considerare universali. Non c’è in merito alcuna intesa possibile fra le nazioni. Al massimo resta valida la citata proclamazione dell’ONU, che però non è stata debitamente sottoscritta ed implementata da tutte le nazioni del mondo.


In mancanza di consenso sociologico sull’esistenza o meno di valori universali ci si limita di solito a rilevare empiricamente la presenza di valori maggiormente diffusi in ciascuna cultura o contesto socio-geografico-politico. Solo un’ampia, metodologicamente corretta e significativa indagine a livello mondiale ed in chiave comparata sarebbe in grado di fornire qualche indicazione di massima sulla presenza di metavalori largamente rintracciabili (sia pure con modalità differenziate) in varie realtà sociali e perciò suscettibili di essere riconosciuti, grazie alla loro  evidenza empirica, come universali.


Detto altrimenti, non è affatto scontato che valori come libertà, democrazia, rispetto della persona, «sacralità» della vita, uguaglianza fra gli individui ed altri valori ancora siano da considerarsi universali solo perché una certa parte dell’universo li considera preminenti. Esistono situazioni e condizioni, di varia natura, che sembrano sconfessare l’universalità dei suddetti valori, che risultano pertanto maggiormente conclamati e sostenuti solo in una data parte del mondo.


5. I valori universali


La questione dell’universalità dei valori non è di secondo momento: da essa dipende la necessità o meno, per talune organizzazioni e nazioni, di diffondere anche altrove i propri valori di riferimento. Per esempio c’è da domandarsi se sia corretto deontologicamente esportare il valore della libertà o della democrazia facendo ricorso ad uno strumento come la guerra che di per sé è già una negazione e della libertà e della democrazia.


D’altra parte se in un particolare contesto vige come valore un orientamento diverso (o valutato come superiore) rispetto a quello del rispetto della vita umana non è certo possibile immaginare di annoverare la «sacralità» della vita tra i valori universali.


Come si vede, non è facile sciogliere la questione relativa a quali siano i valori universali. Ogni affermazione in proposito rischia di essere destituita di fondamento empirico. In effetti sono i singoli e le strutture cui essi appartengono che giudicano della «bontà» di un valore facendovi ricorso nelle loro azioni sia quotidiane sia a più lunga gittata.


Solo in via ipotetica è possibile pensare a valori universali, di largo riconoscimento nelle diverse culture attive in tutto il pianeta. E l’ipotesi eventualmente formulata è pur sempre destinata ad essere confutata non appena si presenti un’evidenza empirica in senso contrario.


In termini provocatori (ma produttivi sul piano della conoscenza scientifica applicata alle dinamiche valoriali) si potrebbe dunque partire con il sostenere che la soppressione di una vita umana sia un valore ed andare poi a verificare se questo punto di vista sia o non sia rilevabile in ciascuna delle realtà sociali esistenti nel mondo. E così si scoprirebbe, ad esempio, che il sacrificio della propria vita risulta particolarmente apprezzato in determinati ambiti, alla luce di credenze culturali, ideologiche o religiose, che privilegiano una finalità diversa rispetto a quella che prevede un giudizio del tutto negativo sulla fine voluta o procurata di un’esistenza.


Per di più, in una medesima realtà sociale si può riscontrare una netta contrapposizione fra i valori della maggioranza e quelli della minoranza: è il caso tipico dei gruppi devianti o marginali, che seguono logiche valoriali assai diverse da quelle della maggioranza, ma senza che vi sia una sostanziale differenza per quanto riguarda l’influenza esercitata dai valori prescelti: la lealtà di gruppo in una banda criminale può essere ben maggiore di quella in atto in un team aziendale.


Forse una soluzione praticabile potrebbe essere quella di parlare di valori quasi-universali o para-universali, intendendo così che la classificazione suggerita non ha alcuna pretesa di esaustività e di generalizzabilità. In fondo conviene evitare posizioni assolute, autoreferenziali, apodittiche. I valori in effetti non dipendono solo dalla capacità di un gruppo dominante di imporli anche ad altri individui e gruppi sociali.


Peraltro la capacità dei valori di essere rispettati o meno si lega a numerose variabili, non facilmente prevedibili e soppesabili. Soprattutto nel campo dei valori molte previsioni sono destinate al fallimento, tale e tanta è la mole dei fattori in gioco, a volte convergenti a volte divergenti, talora fortemente contrastanti fra loro talora più disponibili, cioè meno belligeranti verso i «controvalori».


La variabilità dei soggetti umani è anche variabilità di tenuta dei valori. Quest’ultima dipende altresì dal tasso di importanza che ciascun valore ha per il singolo e/o per il gruppo. Non a caso le decisioni più problematiche sono quelle che contemplano la messa in discussione di più valori, ugualmente presenti nel bagaglio culturale e personale, secondo una classificazione più o meno consapevole ma che diventa esplicita allorquando è in gioco una scelta da fare.


Tuttavia se anche uno specifico valore ha la meglio e fa pendere il piatto della bilancia in un senso non è detto che in una successiva occasione sia sempre il medesimo valore a prevalere. Insomma le circostanze, i condizionamenti contingenti ed altri fattori, anche affettivi, possono pesare in modo decisivo, anche indipendentemente da quella che è la scala di valori idealmente sostenuta dal singolo soggetto sociale.                     


6. Valori e mutamento sociale


In generale non è dato verificare che un singolo valore possa cambiare da solo, senza che vi siano altri cambiamenti di rilievo, in particolare di altri valori. Si pensi al valore della libertà: una sua trasformazione non può non accompagnarsi ad una diversa percezione del senso dello Stato, nonché della partecipazione democratica alle vicende di una nazione.


Ma a volte le combinazioni fra i valori, in un loro processo evolutivo, sono difficili da individuare e persino da ipotizzare. Talora anche valori in contraddizione fra loro possono convivere e connotare una trasformazione sociale primaria. Non si può dimenticare, invero, che la volontà del singolo soggetto è sovrana e spesso imperscrutabile nelle sue intenzionalità, nelle sue ragioni fondamentali, nelle sue scelte procedurali.


Anche quelli che sembrano i valori più accreditati a livello locale e globale sono sottoposti a modifiche, rivisitazioni, adattamenti. La stessa idea di democrazia o quella di libertà è interpretabile diversamente secondo i differenti quadri culturali di riferimento e/o le prospettive ideologico-politiche di partenza: quando per esempio di dice «Cuba libre», ovvero Cuba libera, l’interpretazione può essere duplice, sia in relazione all’istanza di liberare il paese dal governo di matrice castrista, definito perciò dittatoriale, sia in rapporto con la volontà di sottrarre Cuba al potere economico-militare capitalista e statunitense.


Tale situazione dicotomica fa intravedere una tendenza a contrapporre valori e controvalori, dunque ciò che sarebbe massimamente auspicato da una parte ma non dall’altra e viceversa. L’opzione effettuata è frutto di decisioni operate a favore di un approccio affettivo oppure neutrale, individualistico oppure collettivistico, particolaristico oppure universalistico, specifico o diffuso, ascritto o acquisito (Parsons 1951).


In realtà la selezione dei valori non segue tutta la serie delle alternative ma si concentra su alcuni temi e problemi. Qui entra in gioco la variabile rappresentata dalla società e dalla cultura che la attraversa. In chiave durkheimiana si arriva a stabilire una sorta di morale collettiva (Durkheim 1925), che ha la sua base fondante nella società stessa, nella comune appartenenza dei singolo ad un insieme condiviso, la cui utilità appare direttamente proporzionale al rispetto che il consorzio sociale gode fra i suoi membri. Non si tratta qui di corrispondere acriticamente alla troppo vaga idea di Durkheim che propone la sua «coscienza collettiva», carattere tipico di una sorta di società sacralizzata. Il rispetto verso la società si esplica mediante l’applicazione delle norme morali da essa dettate e comunque di fatto praticate senza alcuna sortita critica nei suoi riguardi. Un effetto immediato è pure il rispetto per l’individuo, ma questo per Durkheim è un fatto che emerge in subordine. E, soprattutto, in tale prospettiva l’apporto del singolo è minimo, quasi inesistente, perché in esso e con esso si rende omaggio alla sola collettività genericamente ed astrattamente intesa, priva di qualsiasi contributo individuale alla costruzione di una morale collettiva non particolarmente autoritaria forse ma certo non costruita consensualmente.          


Non mancano invero studi e proposte interpretative che prospettano altre letture, che pongono in relazione i valori e gli atteggiamenti (per un approccio funzionale: Brewster Smith 2006) o che insistono segnatamente sui valori morali (Hartmann 2002) e sulla loro educabilità, oggetto di attenzione da parte di riviste internazionali come Journal of Beliefs & ValuesJournal of Moral EducationIssues in Religious Education, o di centri di ricerca dedicati come il Centre of Beliefs and Values con sede presso l’University of Wales.


7. Valori e morale


Di recente è stato notato un accentuato affermarsi dell’etica pubblica, che attiene al comportamento visibile dei singoli a livello collettivo ed in relazione agli interessi di carattere comune a livello amministrativo, gestionale, politico, sindacale, economico. L’opinione pubblica ed i mezzi di comunicazione di massa tendono ad enfatizzare episodi ed eventi che anche in misura minima vanno a ledere quelle che sono le attese diffuse a livello di cittadinanza, di nazionalità, di appartenenza.


Ma il campo politico e quello economico appaiono i più proclivi ad emanciparsi da controlli esercitati da soggetti individuali ed organismi di rappresentanza. Effettivamente reperire un fondamento etico nella politica e nell’economia è impresa irta di difficoltà.


Le prospettive neocontrattualiste e neoutilitariste che significativamente si sono affacciate alla ribalta mondiale insieme con le nuove ondate di conservatorismo etichettate come neocon (neoconservatoriste) hanno ridotto la questione etica alla sola correttezza dell’applicazione delle regole, senza porsi alcun problema a monte, in chiave di giustificazione.


Anche la suggestiva proposta di Niklas Luhmann imperniata su una visione proceduralista della società, tutta gestita da algoritmi cibernetici e pratiche regolative, rientra in tale insieme paraburocratico che pensa a governare la società come se fosse un’immensa macchina priva di consapevolezza e quindi anche di coscienza individuale e sociale.


I tentativi avviati ed implementati non hanno prodotto risultati soddisfacenti ed anzi hanno incrementato il tasso di non partecipazione degli attori sociali alla gestione diretta delle società cui appartengono. Insomma né il contrattualismo, né l’utilitarismo, né il funzionalismo, per quanto rivisitati ed imbellettati, sono riusciti nelle loro formule rinnovate a favorire il radicamento (o, al contrario, il cambiamento) di valori condivisi dagli individui nelle loro reti sociali.


Nemmeno il disincantamento weberiano del mondo ha dato una svolta decisiva ed anzi con la sua proposta di lettura relativa alla constatazione di un politeismo dei valori pare aver creato complicazioni ancora maggiori, non risolvendo affatto il problema di un fondamento etico per la società, giacché avere molti fondamenti equivale di fatto a non averne. Ed intanto continuamente il soggetto sociale è chiamato a risolvere questioni ineludibili, a fare scelte improcrastinabili. Lo stesso sviluppo umano e sociale ne risente in quanto una problematica come quella della sostenibilità ovvero del cosiddetto sviluppo sostenibile non può essere esaminata e risolta rinunciando a qualunque ipotesi di criteri etici orientativi in merito alle azioni da compiere.      


8. Valori  morali ed approccio scientifico


Non è esente da critiche la stessa Wertfreiheit ovvero avalutatività weberiana che facendo leva sulla sostanziale distinzione fra fatti e valori comporta per lo scienziato sociale una netta distanza dai valori e quindi una totale rinuncia ad esprimere giudizi di valore a proposito di un oggetto di ricerca scientifica, limitando dunque l’analisi conoscitiva alla rilevazione dei fatti ed alla loro interpretazione.


L’obiezione che si muove al riguardo riguarda la non neutralità dell’approccio scientifico ed in fondo la presunzione di neutralità di qualunque teoria della conoscenza. Si sostiene infatti che dietro la parvenza di neutralità agirebbe invece un qualche riferimento valoriale, un fondamento etico, magari inconsapevole eppure attivo ed influente.


In pratica anche a monte dell’esperienza di ricerca metodologicamente corretta ed autoproclamantesi neutra ci sarebbe un insieme di valori, che proprio perché diversi, polimorfi, provano l’esistenza di un pluralismo di valori già all’origine, in nuce, ancor prima di rivolgere lo sguardo all’universo di indagine.


Del resto l’idea kantiana di un’etica universale da cui far discendere tutti i valori comuni per l’umanità e per l’armonia del mondo non trova più molti fautori. Il sociologo contemporaneo non può non osservare che c’è qualcosa di più (o di meno, secondo i vari punti di vista) del «cielo stellato sopra di noi» e della «coscienza morale che è dentro di noi».


Invocare poi la razionalità non fa che aggiungere problematicità: quale razionalità si dovrebbe usare? Forse quella di matrice laica, illuminista, di origine francofona e settecentesca? La storia europea (e non solo) ne ha mostrato appieno i limiti, le idiosincrasie, le conseguenze talora drammatiche. Ed in particolare ha fatto intendere che il pensiero, pur accorto, di una piccola élite non garantisce molto in termini di efficacia e di salvaguardia dei diritti di tutti.


Conviene dunque lasciar perdere una ricerca – che risulterebbe vana – per individuare un’etica condivisa? O non è forse praticabile l’idea di un’indagine comparata fra i vari sistemi etici per definire quelli che sono gli orientamenti più accettabili anche perché maggiormente ricorrenti?


Habermas ha avanzato la sua proposta di un’etica del discorso, di una comunicazione aperta, a due vie, fra soggetti pari, fiduciosi gli uni verso gli altri, disponibili nei riguardi dei rilievi critici, non latori di alcuna verità assoluta, ricettivi nei confronti dell’altrui posizione, orientati alla ricerca continua del bene comune, dell’interesse della comunità.


9. Valori morali ed ideologie


A questo punto appare evidente tutta la debolezza delle ideologie, negate ad ogni soluzione da etica del discorso. Tale annotazione critica concerne sia la prospettiva religiosa che quella laica, entrambe impaniate nelle loro convinzioni di fondo. Il duplice fondamentalismo, religioso e laico, non si addice ad un agire comunicativo, alla ricerca di soluzioni soddisfacenti per un numero adeguato di soggetti sociali. In tale prospettiva non è da immaginare una soluzione immediata, da consacrare con il suggello del consenso esplicito della maggioranza. In realtà una soluzione utile quasi a tutti può nascere anche come posizione minoritaria. L’importante è che non venga imposta con la forza della costrizione, con il ricatto giuridico, militare, affettivo o di altro tipo. Un traguardo raggiunto subito ed agevolmente non promette bene per il futuro. Solo una prassi consolidata, divenuta tradizione, abitudine, ma rispettosa degli interessi degli attori sociali, riesce ad affermarsi come parametro di larga validità.


In ogni caso il punto più delicato è il peso degli interessi individuali che divenuti di fatto una tradizione, un’abitudine ben radicata, difficilmente vengono accantonati in favore di una prospettiva sociale. Sembra che sia comunque indispensabile una regolamentazione delle istanze soggettive, affinché non ledano le aspettative della collettività.


Oggi si constata sempre più un progresso evidente del rispetto dei diritti dei singoli, che in qualche misura risultano separati dal contesto sociale e non si combinano facilmente con motivi solidaristici. Il ricorso all’idea di attore sociale è perciò un tentativo di collocare in un quadro più relazionale il singolo individuo, sottolineando il suo carattere di essere umano propenso alla socializzazione, alla condivisione, al dialogo, al confronto, al discorso sui valori, non più in chiave utilitaristica, strumentale, funzionale.


Le dinamiche migratorie, di natura multiculturale, multireligiosa, multilinguistica, non fanno che accentuare il bisogno della ricerca di valori comuni, di principi etici adeguati e soddisfacenti, in grado di risolvere fraintendimenti e conflitti, lotte e contrasti. Appare utopico ipotizzare la definizione di valori morali accettati sempre e comunque da gruppi etnici diversi, da soggetti sociali appartenenti a fedi religiose differenziate, a visioni del mondo talora polarizzate lungo l’asse di ciò che è bene e di ciò che è male senza alcuna possibilità di interlocuzione, mediazione, discussione, al fine di trovare soluzioni non confliggenti.


Pure la dimensione trascendente di una religione non è sempre in grado di far accettare regole e comportamenti consoni e coerenti, accettabili da tutti. Ecco perché in tema di valori etici può giovare ancora una volta richiamarsi a Weber, ma questa volta accogliendone la proposta, in termini di etica della responsabilità, che tiene massimamente conto delle contingenze del momento, dell’urgenza del problema da risolvere senza danneggiare alcuno, se non in misura minore e comunque utile a lui stesso come a tutta la comunità. L’elemento da prendere in considerazione potrebbe essere per esempio la valutazione delle conseguenze di un atto, degli effetti di un certo tipo di azione. Da qui la problematicità delle scelte da effettuare sempre in bilico fra il bene massimo possibile per tutti, da una parte, e ciò che è davvero realizzabile, dall’altra.                


10. I valori religiosi


Le cosiddette religioni universali, da quelle dette del libro (ebraismo, cristianesimo ed islam) a quelle di matrice orientale (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, scintoismo), presentano tutte dei contenuti valoriali, che ruotano attorno ad una specifica concezione del mondo, del significato dell’esistenza, del destino umano.


Un tentativo sommario di sincretismo incentrato sui valori potrebbe vedere una certa convergenza fra la religione ebraica, quella cristiana e quella islamica, nonostante vari eventi della storia passata e contemporanea facciano escludere la praticabilità di tale esperienza comune. Ma tentativi non sono mancati, anche in forma ufficiale ed organizzata. Né mancheranno, probabilmente, anche in futuro.


Nel campo delle religioni cinesi ed orientali si deve registrare l’esperienza del Ju-Fu-Tao, che mette insieme confucianesimo, buddismo e taoismo, come se si trattasse di una medesima religione, praticata soprattutto dai cinesi moderni.


Altrove, in Giappone, si va oltre: non solo si hanno culti e riferimenti valoriali che pertengono a più religioni asiatiche (soprattutto scintoismo e buddismo) ma che inglobano pure talune sortite in campo cristiano, dando luogo ad un misto di valori e pratiche spesso in alternanza fra loro, secondo i momenti del vissuto personale dei soggetti, delle loro famiglie e delle comunità di appartenenza. Non a caso nei primi decenni del secolo scorso si è avuto un tentativo di unificare scintoismo, buddismo e cristianesimo.   


Tra i contenuti valoriali più diffusi in ambito orientale è da segnalare senz’altro la venerazione per le passate generazioni, che si estrinseca in un vero e proprio culto per gli antenati. Ne fa parte il valore massimo attribuito alla pietà filiale, che si allarga sino al rispetto dovuto ad ogni altro essere umano. In alcuni casi l’attenzione alle persone precede lo stesso amore verso la divinità, cosicché i grandi uomini, chiamati maestri, divengono più importanti degli esseri divini.


Rispetto al carattere etico-sociale del confucianesimo il buddismo sviluppa ancor più il valore della spiritualità di vita. Ma va anche detto che con la proclamazione della repubblica in Cina, agli inizi del secolo scorso, comincia a diffondersi il sistema proposto da Sun Yat-Sen, che si fonda su tre nuovi valori: nazionalismo, democrazia e socialismo. Quest’ultimo assume poi un carattere meno idealistico e più militare con l’avvento del maoismo.


Induismo e buddismo, dal canto loro, continuano invece ad apparire più sensibili alla questione escatologica, in particolare al destino degli esseri viventi una volta giunti al termine del loro ciclo esistenziale. Infatti i valori centrali degli induisti e dei buddisti sono connessi alla dinamica della trasmigrazione delle anime, in virtù della quale vengono enfatizzati gli aspetti spiritualistici.


Nell’ambito dell’induismo, però, la divisione in caste produce vari contraccolpi, con tentativi di rigetto che si concretizzano nella nascita di una nuova religione, il sikhismo, ad opera di Nanak, già cinque secoli fa. Quasi coevo è il tentativo di Kabir di superare il ritualismo e l’idolatria, propugnando la fusione di induismo ed islam, poi riproposta in chiave politica dall’imperatore indiano Akbar, musulmano. Alla fine è l’islam che riesce ad aver la meglio, anche per ragioni di natura militare imposte dal sovrano mogol Shah Jahan.


L’induismo torna in auge a seguito di una svolta ancor più spiritualista (derivante dal brahamanesimo), che crea le premesse per la predicazione del valore della bontà, sostenuto da Devendranath Tagore, padre del famoso poeta, a sua volta anch’egli punto di riferimento fondamentale per la cultura induista.


Ulteriori spinte verso l’unione fra religioni diverse si presentano di tanto in tanto: dapprima con Ram Mohan Roy, fautore di un induismo definito unitario e favorevole al riformismo britannico in India; poi con Keshab, che prova ad incorporare il cristianesimo nell’induismo unitario; più tardi con Ramakrishna, che auspica un sincretismo totale fra le religioni.


La vivacità delle dinamiche interne all’induismo è confermata altresì dall’esaltazione del valore di una vita vegetariana, predicata da Dayananda Sgravati, attivo anche negli Stati Uniti ed in Europa. Vi è infine Mahatma Gandhi che predica i valori della non violenza, della  resistenza passiva, della purezza e della verità. E più avanti si farà strada anche il valore della tolleranza religiosa.


Il buddismo, dal canto suo, ha insistito nel corso dei secoli sul valore dell’assenza del desiderio, connesso al controllo del proprio corpo ed al principio dell’auto-aiuto.


Non è estranea a questi filoni plurisecolari delle religioni orientali la nascita stessa della società teosofica, che si basa sia sul buddismo che sull’induismo.


Nel frattempo numerose letture filosofico-religiose costellano la storia dell’umanità: dall’arabo Averroè all’ebreo Maimonide ed al cristiano Tommaso d’Aquino. In campo letterario Chaucer esalta i valori della vita comune dell’umanità e della fratellanza sociale nei suoi Racconti di Canterbury. Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro parlano del valore della semplicità di vita. Rousseau insiste sulla libertà del pensiero. I filosofi Lessing ed Herder vedono le capacità di sviluppo dell’uomo in ogni genere di religione. Wordsworth nota il carattere spirituale della vita in comune. Felix Adler fonda la Società Etica di New York e Stanton Colt la Società Etica Inglese. Horace Bridges poi ha a che fare con la Società Etica di Chicago. Tolstoi e Kropotkin propugnano i valori della giustizia sociale e della fratellanza umana. Rauschenbush è da ricordare per il suo «vangelo sociale», John Dewey per Una fede comune e J. Middleton Murry per il «socialismo religioso». Anche Albert Einstein è da menzionare per il suo rispetto dei valori insiti nella vita umana e nell’etica. Martin Buber infine dà grande rilievo al valore della dimensione individuale. Poste tali premesse non giunge inattesa l’idea di realizzare, nella seconda metà del secolo scorso, il primo congresso internazionale sull’umanesimo e la cultura etica.                


Hans Küng, che ha completato di recente la pubblicazione della sua trilogia sulle tre religioni del libro, evidenziandone i numerosi punti di contatto, ha ribadito altresì che «c’è una base comune: non uccidere, non torturare, non violare; non rubare, non corrompere, non tradire; non mentire, non dare falsa testimonianza; non abusare sessualmente. Questi sono principi che si trovano in tutte le religioni. In generale i cattolici sono assolutamente d’accordo. Il problema sorge quando si incomincia  ad identificare il rispetto per la vita con la condanna degli anticoncezionali, se si ha una posizione rigida sull’aborto, se si ha un atteggiamento discriminatorio verso l’omosessualità e se non si capiscono i problemi associati all’eutanasia».  E poi conclude: «abbiamo bisogno di un fondamento morale. Ma questo non può essere il laicismo, né può essere il clericalismo, non può essere la restaurazione di un’Europa cristiana come la vedeva papa Wojtyla, e neanche può essere la restaurazione di uno Stato ateo come dopo la Rivoluzione francese. Abbiamo bisogno di un fondamento etico, ossia l’accettazione di norme etiche di base, sostenute da tutte le religioni importanti e dalle tradizioni filosofiche, che possono accettare anche i non credenti».     


12. Oltre i valori religiosi


I valori religiosi per il loro essere innervati all’interno di un apparato necessariamente ideologico, inteso come insieme di idee fondanti ed irrinunciabili, vengono spesso a fungere da veicoli per condanne, precetti, proibizioni. Questa loro caratteristica non impedisce tuttavia che possano rientrare in un novero di accettabilità sufficientemente condivisa. Talora capita che in nome di una religione confessata e praticata si intenda proporre il proprio orientamento di valore, chiedendone pure il riconoscimento giuridico a livello costituzionale, nella normativa corrente e nella regolamentazione dei culti, con estensioni sino a comprendere aspetti lontani da quelli peculiari di una credenza religiosa.


Specialmente a fronte di una conclamata crisi dei valori, si invoca talora il ripristino di quelli religiosi come soluzione vincente e rimedio ineludibile. Ma le conoscenze fornite dagli studi sociologici dicono chiaramente che nessun valore, religioso o laico (o secolare) che sia, è in grado da solo di soddisfare in toto quanto necessario per la convivenza sociale. Lo stesso dicasi per ogni insieme di valori religiosi appartenenti ad una specifica confessione religiosa. Il diritto, l’organizzazione statale e le procedure hanno una tale complessità che non può essere risolta da un solo quadro di riferimento valoriale. Va considerato principalmente il fatto che le situazioni evolvono, si presentano in modo imprevedibile, offrono articolazioni complicate ed inestricabili. Informare una legislazione ad un gruppo di valori religiosi specifici e conformare ad essi tutto l’ambito dell’agire sociale non paiono opzioni adeguate ad affrontare le differenze insite nel sociale, a risolvere a monte ogni contrasto, a prevedere ogni sviluppo delle dinamiche democratiche, a prefigurare scelte politiche di ogni tipo.


E peraltro i valori, religiosi o meno, non esauriscono la loro funzione e la loro influenza, in un particolare ordinamento normativo. Essi vanno ben oltre e perciò comportano un riferimento più ampio, un fondamento più saldo, dato dagli stessi attori sociali, al di là di semplificazioni scontate e con un forte esercizio critico nei riguardi delle scelte da operare.


I valori non sembrano di fatto una ricetta applicabile ad ogni evenienza. La loro messa in pratica richiede di solito un’accorta analisi della realtà sociale. Per di più i valori rappresentano un orientamento di massima e non riescono a sostituire l’azione riflessiva dell’individuo, privandolo completamente della sua libertà di azione. I valori, inoltre, più che una difesa appaiono come un viatico, un accompagnamento per agire nel mondo, con accortezza ma senza paure predeterminate. In pratica i valori sembrano avere una certa somiglianza con le teorie scientifiche: sono di guida ma non tendono ad obbligare, lasciano certamente autonomia ma non a dismisura, usano la «trascendenza» non nel senso strettamente religioso bensì in chiave di superamento di una base esclusiva, immutabile, indefettibile. Insomma anche i valori mutano, si adattano, fanno i conti con la realtà sociale.


Non si tratta tuttavia di una sorta di relativismo diffuso da utilizzare ad ogni costo, quanto piuttosto di un approccio attento ed accurato, che in effetti si fa carico pure del pluralismo ma nel contempo risulta consapevole della relatività delle diverse posizioni esistenti e praticabili.


Si giunge dunque a postulare, da parte dell’attore sociale, non tanto una flessibilità dei valori quanto invece una loro debolezza di partenza perché destinati comunque a scontrarsi con i dati del reale sociale e con il loro divenire.


Non a caso anche la legge fondamentale di uno stato, la costituzione appunto, per quanto considerata «sacra», fondamentale, pure necessita di aggiornamenti, revisioni, anche in ragione della ricerca di valori tendenzialmente universali, cioè abbastanza consensuali in merito a quanto è ritenuto imprescindibile al momento e per una comunità ben individuata.


Per questo ogni tentativo di religione di stato, di patto fra religione e stato, mostra poi la corda perché gli individui sociali sono abbastanza abituati e propensi a rielaborare a livello personale quanto è codificato, dunque a fornirne una propria interpretazione e, soprattutto, un’applicazione misurata, critica e mirata. Le pattuizioni fra chiese ed amministrazioni pubbliche, se anche portano a risultati concreti, con vantaggi ed agevolazioni a favore delle organizzazioni religiose, però nel medesimo tempo costituiscono una remora per l’accettazione incondizionata da parte dei cittadini, che si riprendono i loro diritti individuali esercitandoli a prescindere dalla normativa concordata fra i vertici religiosi e quelli politici: la religione perde allora il suo carattere di contenitore di valori disponibili per tutti, viene percepita essenzialmente come ideologia e come potere e viene appaiata a forme non partecipate aventi un carattere impositivo. Di conseguenza vengono giudicati meno credibili i suoi aneliti valoriali per il rispetto dei diritti umani e civili, per l’affermazione della libertà, per la lotta alla schiavitù e per il rifiuto di ogni totalitarismo.    


12. I valori secolari


Non è sempre possibile discernere nettamente i valori secolari (o laici) da quelli religiosi. Su alcuni valori religiosi c’è anche l’accordo di coloro che si dicono piuttosto laici nei loro orientamenti. E viceversa ci sono dei valori tipicamente secolari sui quali si manifesta pure il gradimento di soggetti che si ispirano a principi religiosi.


La questione principale riguarda il depositario dei valori religiosi e secolari o laici. Se per quelli religiosi si può presumere che siano le chiese, le denominazioni, le organizzazioni confessionali, per quelli non religiosi solitamente si pensa allo Stato come principale interprete valoriale. Ma in quest’ultimo caso è preferibile usare un altro aggettivo: si tratta infatti di valori secolaristi o laicisti, piuttosto che secolari o laici i quali in genere hanno la loro base morale nella coscienza individuale, ovvero nella libera ed autonoma capacità di scelta del singolo individuo.


Si comprende a questo punto che c’è un parallelismo nell’atteggiamento e nel comportamento individuale nei riguardi sia della religione che della politica, di una chiesa come di uno stato. Insomma gli assolutismi valoriali non sono sociologicamente dominanti anche perché diversi e multiformi sono i valori e gli scopi etici, non riconducibili ad un unico e medesimo sistema religioso e/o politico che sia.


C’è altresì da considerare che una supposta unità di valori religiosi non significa che ad essa debba necessariamente corrispondere una sola formula politica. Viceversa una soluzione politica condivisa non vuol dire che ad essa dia luogo un’unica base valoriale. Detto altrimenti il politeismo weberiano dei valori vale sia per l’ambito religioso che per quello statale.


Ogni istituzione del resto si fonda comunque su un certo grado di condivisione di taluni valori e dunque non è affatto neutrale, avalutativa. Una visione laica o secolare è essa stessa intrisa di valori. Ad esempio uno Stato che presuma di essere etico diventa la fonte principale per i valori dei suoi cittadini, che però ricorrono alla loro libertà individuale, si richiamano alla loro coscienza personale e di conseguenza fanno uso della loro libertà di azione.


Se però lo Stato si fonda su principi etici e mira a salvaguardarli tra i propri cittadini è esso stesso un ulteriore garante della libertà di coscienza ed azione, specialmente se il valore della libertà è un suo elemento qualificante, in relazione soprattutto al diritto individuale sul proprio corpo («il corpo è mio e me lo gestisco io») ed al diritto di proprietà su quanto è immateriale («il pensiero è mio e lo uso come meglio credo»).


Anche una visione «cibernetica» della realtà sociale, alla maniera del neofunzionalismo luhmanniano, è connotabile come fondata sui valori laico-secolari del buon funzionamentodell’ordine, dell’equilibrio sociale, della regolazione sistemica. L’esperienza storica e sociologica ci dice che una simile impostazione non è autosufficiente e si trova comunque a fare i conti con l’autonomia dell’individuo e con le sue libere scelte. Se non c’è corrispondenza fra impostazione valoriale dello Stato e propensioni dei cittadini la società entra in crisi, si hanno conflitti di valori, aumentano comportamenti anomici.


Solo se la struttura statale in tutte le sue articolazioni non è estranea, nei suoi valori di base, all’orientamento dei soggetti sociali il suo funzionamento è assicurato, giacché è sostenuto dai valori diffusi: gli individui non sono «stranieri morali», come direbbe H. Tristram Enghelardt.


Sullo sfondo di questi scenari secolari e laici resta un carattere essenziale: il valore della libertà di coscienza che nessuno Stato riesce ad esautorare. Appunto per questo lo Stato, sia esso laico o laicista, secolare o secolarista, non è in grado di prescindere del tutto sia dall’autonomia etica delle religioni sia da quella degli attori sociali. Il che non implica una dipendenza della politica dalla religione, però l’una e l’altra non possono non richiamarsi al valore della ragione, il cui carattere laico-secolare è certo frutto dell’Illuminismo francese ma non è del tutto ignoto alla tradizione delle religioni universali e non.


È difficile contestare che i valori secolari e laici non abbiano qualche radice nelle credenze metafisiche. La storia della filosofia è ricca di esempi a tal proposito, nella misura in cui vari filosofi hanno contribuito a consolidare taluni valori dando loro un carattere sacrale, non lontano da una connotazione metafisica.


Non meraviglia dunque il dato di fatto che vi sia una certa connessione fra valori secolari e religiosi. Ne è prova altresì la constatazione che per capire il mutamento dei valori occorre riandare ad una ricomprensione degli aspetti fondanti dei medesimi valori: va dunque ripercorsa la tradizione, va rifatto all’indietro il tragitto che ha portato alla situazione attuale. Si scopre così che una parte cospicua dei valori contemporanei ha origini antiche e non esenti da un afflato religioso.


Da un punto di vista della sociologia della conoscenza si può dire che la durata maggiore delle istituzioni religiose e delle loro élites intellettuali ha potuto influenzare ancor più le dinamiche sociali che non la tenuta piuttosto effimera delle compagini politiche e statali, pur senza sottovalutare l’effetto duraturo delle normative, dei modelli amministrativi, degli stili di vita, delle abitudini sociali di un popolo, delle stesse valenze linguistiche che, definendo e distinguendo fenomeni, persone, eventi, oggetti ed altro ancora, di fatto riconoscono, legittimano e consolidano, anche e soprattutto nel campo dei valori.


Nel contempo se le religioni perdono forza e capacità di orientamento i loro valori tipici ne risentono, indebolendosi a livello diffuso, così come capita per i principi valoriali sostenuti da un movimento politico, sindacale, o di altra natura, che venga a perdere terreno nella sfera pubblica. Uno dei primi indicatori di tale forma di indebolimento è l’avvento di un pluralismo di nuovi valori, più o meno alternativi, accompagnato da un’instabilità dei valori preesistenti, che vengono difesi ad oltranza dai gruppi più militanti e perciò più inclini al fondamentalismo.                             


13. Valori globali e locali


L’accresciuta mobilità delle persone attraverso il mondo sta incrementando sempre più le occasioni di incontro ma anche di scontro che si incentrano essenzialmente sui valori. Per questo, in particolare a livello politico-statale, si assiste quasi ad una sorta di gara nella messa a punto di costituzioni, leggi, regolamenti, procedure, al fine di salvaguardare i principi basilari autoctoni in vista di presenze vieppiù numerose di soggetti provenienti da altri contesti culturali. In pari tempo si studiano le soluzioni più adatte per affrontare il nuovo impatto.


Già negli Stati Uniti si sono avute le modalità del melting pot dapprima, con il tentativo di mescolare insieme le varie caratteristiche sino a farle quasi scomparire, e del salad bowl dopo, con la prova di mettere insieme le diversità senza intaccarle. Entrambe le proposte non hanno dato esiti positivi. 


Ora la strada seguita in Europa, ma anche altrove, è quella di legiferare sulla base di valori ritenuti peculiari del territorio di appartenenza ma lasciando poi alle singole nazioni la possibilità di fare ulteriori adattamenti, senza tuttavia negare il comune richiamo a valori continentali europei. In pratica si usa la prospettiva più globale con pochi, qualificanti valori di base, e poi quella locale, che acquisisce alcuni valori aggiuntivi, non in contrasto con quelli europei.


In generale tra i valori di maggiore riconoscimento emergono: l’uguaglianza di genere, il diritto di parola, la libertà di educazione, il ripudio della guerra come metodo di soluzione delle controversie, la convivenza pacifica fra gli appartenenti a culture diverse, l’abolizione della pena di morte, la non discriminazione razziale, l’integrazione scolastica, il pluralismo ideologico e religioso e non ultima la libertà di coscienza.


In proposito esistono già varie dichiarazioni ufficiali e documenti sottoscritti da più parti in causa. La stessa denominazione delle parti è un indicatore eloquente della volontà di dichiararsi sia credenti e praticanti di una religione sia membri di uno stato nazionale. In Italia, ad esempio, sia la comunità ebraica che quella islamica tengono molto a specificare la loro appartenenza nazionale oltre che confessionale.


Questo è anche il risultato di una lunga traiettoria storica che ha in una prima fase fatto dipendere tutto dalla volontà di Dio (anche i sovrani erano tali per volere divino), in una seconda fase ha affidato alla decisione del popolo e dei suoi rappresentanti democraticamente eletti la possibilità di eleggere governanti cui delegare il compito di fare le leggi per tutta la comunità.


In passato c’erano i peccati contro Dio, oggi ci sono i reati contro l’individuo e la società. A fronte di tale modifica, una parte non secondaria tra le religioni universali, quella rappresentata dalla chiesa cattolica, ha innovato il suo linguaggio definendo peccati sociali alcuni reati: la frode al fisco, lo scarso impegno nell’attività lavorativa, il commercio di droghe, l’azzardo nel gioco, la mistificazione della verità attraverso la modifica dei contenuti della comunicazione a livello pubblico, ed altri comportamenti «antisociali».


Invero neppure in questo caso i valori predicati trovano riscontro positivo: il danno alla collettività non entra facilmente nell’orizzonte valoriale degli individui. Semmai restano solo alcuni punti fissi condivisi, cioè alcune condanne costanti che concernono l’omicidio, il furto, la violenza sessuale e poco altro.       


Ciononostante la società conserva un suo carattere sacro, superiore, quasi metafisico. I valori sociali suonano come qualcosa di voluto da un’autorità che obbliga senza che vi siano molte possibilità di non ottemperare a quanto richiesto. Ciò avviene quando i valori sono stati introiettati, interiorizzati profondamente nell’individuo.


I valori di tipo globale possono entrare in conflitto con quelli locali, specie se vi è una diversificazione di ruoli svolti dallo stesso individuo. Qui segnatamente intervengono interessi ed abitudini, per cui si scontrano le scelte orientate al valore contro quelle orientate allo scopo, il bene comune contro i bisogni di tipo personalistico e/o familistico. Altri fattori possono entrare in gioco: le relazioni interpersonali, i rapporti di classe (una dimensione che non si elimina facilmente, ben al di là degli esiti delle dottrine marxiste), la consapevolezza del ruolo personale rivestito in una data società.


Intanto è ben chiaro che alcuni valori ritenuti universali (oggi si direbbero globali) altro non sarebbero che un’espressione interessata di una sola classe sociale, la borghesia. Detto altrimenti, la triade rivoluzionaria francese dei valori di libertà, fraternità ed uguaglianza è ora sottoposta ad una rivisitazione ampia e scrupolosa.


In ultima analisi, l’attore sociale è anche investito da problematiche che lo portano a fare i suoi calcoli sulla convenienza o meno dell’accettazione di alcuni valori a discapito di altri: la sua può essere una «scelta razionale» (come sostiene una delle più citate correnti sociologiche contemporanee).


Non è infine da escludere un’opzione individuale a favore di ciò che «dice» qualcosa all’agente sociale e che abbia significato per lui perché è convincente, accattivante anche se non razionalmente utile.


Un’ultima lettura individuale dei valori non va dimenticata: essi si riducono a qualcosa privo di significato, aperto ad ogni tipo di lettura ed implementazione.


Sullo sfondo resta tuttavia uno scenario di insieme, con individui tesi all’autorealizzazione ed all’autonomia, valori definiti postmaterialisti da Ronald Inglehart (1977).


Intanto però non appare sostenibile l’idea di una totale scomparsa dei valori. Non v’è chi non veda quale e quanta parte essi abbiano ancora nel mondo contemporaneo     


14. Valori e sviluppo


Nel quadro delle vicende internazionali e nazionali il richiamo ai valori, che ha fatto sorgere organismi come l’ONU, l’UNESCO e la FAO, si è qualche volta estrinsecato in soluzioni impegnative a livello formale ma anche sostanziale. Basti pensare ai vari codici deontologici stilati dalle corporazioni professionali. In essi è rintracciabile un vero e proprio sistema di valori, che individua ciò che è accettabile e ciò che non lo è e diventa altresì una forma di controllo sull’osservanza delle norme dettate, soprattutto se il rapporto professionale coinvolge direttamente altri soggetti umani, posti in primo piano.


Quando certi valori vengono acquisiti così indelebilmente da risultare scontati e quasi connaturati sorge tuttavia il problema della prospettiva da cui si muove per entrare in relazione con gli altri. Sintomatico è il caso che ha come fulcro il cosiddetto sviluppo sostenibile. Già è arduo passare dall’idea di uno sviluppo sostenibile relativo alle società occidentali, tecnologicamente avanzate, a quello di una trasformazione praticabile ed accettabile che vada ad investire le società del cosiddetto terzo mondo o, meglio, altro mondo rispetto a quello dominante economicamente, politicamente e scientificamente. Pensare ad uno sviluppo sostenibile in situazioni extra-europee ed extra-statunitensi comporta uno sforzo non comune per la riformulazione delle problematiche attinenti a situazioni non sufficientemente conosciute. 


Pertanto torna opportuno, per un discorso rigoroso sui valori e lo sviluppo sostenibile, non certo prescindere dal primo e dal secondo mondo ma conglobarli in una prospettiva plurima in modo da vedere i nessi tra le diverse realtà, contestualizzando al massimo valori tradizionali e valori innovativi presenti nelle varie situazioni ed evitando astrazioni preconcette ed universalizzazioni indebite dei propri valori di riferimento.


Come si sa, gli aspetti valoriali vengono di continuo ridefiniti dai soggetti umani in interazioni senza soluzione di continuità. Tuttavia anche le discontinuità sono da annoverare tra le possibilità concrete. Ve ne sono in un medesimo paese come pure nell’ambito di una medesima confessione religiosa. Ogni generalizzazione eccessiva rischia di obnubilare lo sguardo sociologico e di far intravedere andamenti privi di consistenza empirica.


D’altra parte è bene ricordare che ogni relazione è in sostanza un rapporto di potere, che viene esercitato non sempre in un solo senso: chi ha potere può non esercitarlo e con questo in effetti lo usa indirettamente; chi non ha potere ha dalla sua uno svantaggio di massima ma altresì il vantaggio non secondario di non poter far ricorso ad alcuna azione coattiva. Ed in talune condizioni non è agevole stabilire quale delle due sia la condizione preferibile.


Nel caso delle problematiche connesse allo sviluppo sostenibile ci si può trovare di fronte ad una situazione non gradevole: dover rinunciare ai propri valori primari per mancanza di possibilità concrete di azione che siano in linea con l’orientamento personale di riferimento oppure per contrasto con altri soggetti più favorevoli a soluzioni meno concordate, basate su valori opposti a quelli di partecipazione, di rispetto della persona, di gradualità dell’intervento. Per non dire poi dei destinatari stessi di un’iniziativa nel campo dello sviluppo sostenibile: se essi non condividono le linee valoriali dei proponenti e sono mossi da altre istanze perché hanno valori di base diversi dai loro interlocutori venuti dall’esterno ogni tappa del percorso che mena ad un obiettivo di sviluppo sostenibile sarà irta di difficoltà.


Per questo anche nel capo dello sviluppo sostenibile non giova offrire soluzioni che gratifichino solo chi detiene il potere economico (per esempio di finanziare un’iniziativa) ma non contemplino vie di uscita, per i destinatari, dalla situazione di dipendenza.


Gli stessi valori, sebbene abbiano una lunga vita, non si mantengono inalterati nel tempo, senza mostrare la corda in termini di contraddittorietà, inapplicabilità, incomprensibilità. Non tutti hanno capacità, conoscenze, esperienze e soluzioni per superare il momento critico di una decisione da assumere, magari scegliendo tra valori tradizionali locali e valori innovativi globali.      


Sempre in materia di sviluppo sostenibile occorre precisare che la crescita tecnologica e quella economica non sono classificabili come sviluppi di per sé dannosi. Quando lo fossero i valori dell’umanità sarebbero in grado di arrestarne l’andamento, per impedire il verificarsi di conseguenze negative.


Lo stesso mutamento dei valori è comunque non del tutto avulso dalle trasformazioni tecniche e finanziarie. Dunque sarebbe possibile immaginare una notevole dose di capacità dei valori del momento nel poter arrestare uno sviluppo ritenuto non più sostenibile.


L’obiezione ovvia che si può avanzare in merito è di fatto un interrogativo: può il sistema di valori in atto spingere a fare previsioni sugli effetti futuri dello sviluppo? La risposta è positiva, in quanto l’umanità difficilmente arriverebbe al punto di non rendersi conto della strada intrapresa e della sua destinazione più o meno immediata.


Infatti la razionalità di uno sviluppo sostenibile è supportata proprio da una base valoriale, non importa se materialista o postmaterialista alla maniera di Inglehart (1977), che non impedisce in linea di massima il ricorso a nuove soluzioni, a nuovi apparati, a nuove energie, a nuove risorse.


Ipotesi pessimistiche sullo sviluppo sostenibile, invero, non ipotizzano che in futuro ci possano essere nuovi ritrovati, nuove cure, nuovi sistemi, nuove procedure, nuove scoperte, nuove applicazioni. E soprattutto non sono in grado di stabilire quali reazioni potranno avere le prossime generazioni in merito alle novità che si renderanno disponibili.


Ancora una volta è abbastanza probabile che l’umanità sarà in grado di affrontare con una sufficiente dose di saggezza i problemi che si porranno. Ciò non significa che sempre e comunque la soluzione adottata sarà quella giusta, razionale, vincente. Ci saranno ancora inconvenienti, sconfitte, ripensamenti. Ma difficilmente gli attori sociali coltiveranno il desiderio dell’autoannientamento. In fondo il valore a cui – salvo eccezioni – è abbastanza difficile rinunciare è appunto quello della propria esistenza.       


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