Roberto Cipriani
Domenica Denti, Mauro Ferrari, Fabio Perocco (a cura di), I Sikh. Storia e immigrazione (Sikhs. History and Immigration), FrancoAngeli, Milano, 2005, pp. 208. Questo libro riveste un interesse del tutto particolare. Innanzitutto riguarda una minoranza etnica e religiosa impiantata in un contesto che non è quello suo proprio. In secondo luogo è la prima pubblicazione organica e di largo respiro sulla presenza sikh in Italia. In terzo luogo fornisce i primi risultati a carattere empirico sulla situazione dei sikh in Italia, con particolare riferimento alle regioni Lombardia, Emilia, Friuli e Veneto. Si dice che gli indiani in Italia sarebbero 47.000 ma quanti siano i sikh fra di loro non è dato sapere. E questo è forse un primo difetto a carattere informativo. Un censimento puntuale e dettagliato non è certo agevole ma forse qualche stima poteva essere proposta. Vi è poi da dire che l’analisi si concentra essenzialmente su alcune zone del settentrione italiano, trascurando altre importanti e significative allocazioni, per esempio nel Lazio ed in particolare nell’agro pontino, in provincia di Latina, importante centro di accoglienza e raccolta degli immigrati in Italia. L’operazione condotta con questo volume è senz’altro meritoria perché permette di conoscere una realtà altrimenti poco nota e sfuggente nell’insieme delle variegate correnti migratorie che hanno l’Italia come meta o come zona di passaggio verso altre destinazioni europee o transcontinentali. Il sikhismo inoltre è una delle componenti religiose del nostro pianeta meno indagate sul piano sociologico-religioso. Gli studi specialistici scarseggiano e soprattutto latitano le informazioni statistiche di base. In pratica non si dispone di un’indagine sociologica a tutto campo in grado di dirci quali siano oggi le dinamiche in atto nella realtà sikh, nel Panjab (regione di origine e di massima diffusione) come altrove nel mondo. La presente opera risulta strenuamente voluta e vigorosamente sostenuta da un ente pubblico ed in particolare dalla Provincia italiana di Cremona, che attraverso due suoi funzionari, co-curatori della pubblicazione (Domenica Denti e Mauro Ferrari), ha promosso un’approfondita conoscenza del sikhismo in Italia. L’inchiesta prende spunto da alcuni luoghi comuni sulla bontà dei membri della comunità sikh, sulla loro remissività, sul loro atteggiamento di grande disponibilità, sulla loro quasi “invisibilità”, ritirati come sono nelle campagne, lontani dai grandi centri urbani. Il punto di vista dei curatori è che gli immigrati indiani in Italia di fede sikh come gli immigrati cinesi, in Italia ma pure altrove, “non sono “specializzati in” qualche attività, non si “concentrano in” qualche settore economico, bensì sono stati “specializzati da” le forze del mercato, “concentrati in” questo o quel settore economico (ma anche abitativo) dai meccanismi spontanei del mercato, e quindi, dal mercato del lavoro” (pag. 9). Questa proposta di lettura sociologica della realtà risente di un’impostazione quasi monorientata che vede prevalentemente nel fattore economico di mercato l’origine di molte fenomenologie sociali. Orbene se una certa etnia possiede il know how in un certo settore questo dato di fatto non è solo il precipitato storico di “forze del mercato” ma almeno altrettanto (e comunque pure) della specifica cultura di provenienza. Così era nell’antica Roma per gli abitanti della suburra, cioè residenti sub urbe, sotto la città, ovvero sotto le mura della città senza poterne fare parte in quanto non cives, non cittadini e dunque burini (termine usato tutt’oggi per i non originari di Roma). Ma questi forestieri esercitavano appunto i mestieri che conoscevano e che dunque permettevano loro di sopravvivere. E non vi era certo il mercato quale noi oggi lo conosciamo con le sue leggi costrittive. Se dunque i sikh che giungono in Italia sono addetti ai lavori agricoli e soprattutto all’allevamento del bestiame questo è frutto anche della loro cultura di appartenenza cui si aggiunge l’insieme delle imposizioni derivanti dal mercato del lavoro. Indubbiamente è vero che in precedenza c’erano braccianti e mandriani italiani a svolgere il medesimo lavoro ed in una condizione di forte subalternità sociale ed economica. Vi è stata dunque una sostituzione di forze lavoro, secondo un ciclo che non è del tutto nuovo nei processi storici dell’umanità. Che oggi ad immigrare in Italia per svolgere tali lavori non siano i bovari texani o i pastori masai dipende da circostanze storiche contingenti, in cui il mercato ha il suo peso ma non è l’unica variabile indipendente. Al di là di questa riserva ermeneutica e metodologica insieme, non si può non apprezzare il carattere di originalità dell’intero lavoro, che si presenta ben congegnato nelle sue diverse parti: storica (con i saggi di Tomasini sul Panjab, di Peca Conti sul sikhismo e di Restelli sul sikhismo indiano contemporaneo), sociologica (con le indagini di Compiani e Galloni, Bertolani ed ancora Tomasini in diversi ambiti regionali) ed informativa (con i contributi di Restelli sul sikhismo in Internet e sui sihk italiani e di Peca Conti sui termini-chiave del sikhismo). Un piccolo corredo fotografico accompagna le presentazioni empiriche ed illustra soprattutto il lavoro del bergamino, il mungitore. L’apparato metodologico della ricerca sul campo non è molto articolato ma almeno raggiunge lo scopo di una prima attività conoscitiva di sfondo, utile per ulteriori e più organiche “discese sul campo”. I dati raccolti provengono sia da elaborazioni statistiche che da interviste, entrambe meritevoli di approcci più ampi e teoricamente fondati. Ad una simile esigenza di messa a punto teoretico-problematica risponde abbastanza bene il documentato, aggiornato e meditato saggio di Enzo Pace che sconfessa l’ipotesi di un sikhismo a carattere ascetico intramondano per sostenere invece una linea – più convincente – di misticismo intramondano, che diversifica il sikhismo sia dall’induismo che dall’islam e ne fa un caso a parte, con la sua lunga storia secolare, che contribuisce a dare un significato religioso alle azioni del fedele sikh. La disamina condotta da Pace persuade abbastanza il lettore ma forse un’adeguata precisazione iniziale utile a distinguere fra ascetismo e misticismo avrebbe meglio aiutato lo sviluppo del discorso proposto, costellato di eventi storici, differenziazioni sul ruolo del maestro, dell’”illuminato”, con osservazioni acute sul rapporto fra guida e devoto, fra “apripista” e seguace. Di particolare rilevanza è tutta una serie di affermazioni di Pace, che vede nel sikhismo una religione che “non chiude le porte”, si adatta all’ambiente, è frutto di una scelta individuale non inserita in un contesto istituzionale, tenta di superare il sistema delle caste ma non vi riesce, propone un modo autonomo di credenza, accetta altre tradizioni religiose, valorizza l’individuo, riesce a stabilire “una positiva correlazione con lo sviluppo dell’economia di mercato e dell’impresa” (pag. 129), quasi ribaltando dunque la proposta dei curatori del volume: non sarebbero le forze del mercato a condizionare le azioni dei sikh ma piuttosto i sikh stessi a cogliere le opportunità offerte dal mercato e dall’industria.