IL SISTEMA CONOSCITIVO INTERPERSONALE A LIVELLO PERIFERICO E CENTRALE COME BASE DELL’IMPEGNO SOCIALE DI DON GUANELLA A ROMA

Roberto Cipriani


Premessa


            L’impegno sociale e religioso di don Luigi Guanella nella città di Roma è il frutto di una lunga gestazione portata avanti grazie a contatti, frequentazioni, letture e scritti, che hanno dato motivazione e contenuto all’agire solidaristico del Nostro.


            Ormai fiumi di inchiostro e di parole sono stati versati in campo storico, psicologico, psicologico-sociale, sociologico ed antropologico per sottolineare l’importanza della socializzazione ai fini degli sviluppi che può avere la vita di una persona. Ognuno di noi è condizionato dall’educazione ricevuta in famiglia (soprattutto dai propri genitori) particolarmente nel primo lustro di esistenza. Si aggiunge poi il reticolo delle esperienze formative scolastiche e di quelle vissute insieme con il gruppo dei pari in età.


            E però su un terreno già così predisposto intervengono ad un certo punto situazioni, circostante, contingenze ed  incontri che imprimono una svolta decisiva ad un ciclo di vita. Talvolta non è una sola persona a rappresentare il turning point, l’occasione maestra e l’arco di volta di un intero impianto biografico. Può capitare che siano più soggetti ad esercitare un’incidenza strategica, prevalente rispetto ad altre forme di influenza ideologica, etica e religiosa.


La “rete” di don Guanella


            Il futuro don Luigi Guanella è passato anche lui attraverso un processo che lo ha posto in relazione con altri, coetanei o di età maggiore della sua, grazie ai quali ha cercato la sua collocazione di ruolo, il suo spazio di inserimento nella comunità locale contingente (territoriale e/o associativa), il suo compito nella società in generale ed in quell’organismo assai peculiare che è la chiesa cattolica nel caso specifico.


            In assenza di una piena consapevolezza iniziale, avviene di solito che qualunque evento, ogni individuo e ciascuna istituzione possono intervenire ad aumentare stimoli, a favorire propensioni e ad esaltare propositi.


            Nel complesso gioco di azioni e reazioni, ed anche di retroazioni, si inseriscono elementi sia intenzionali che non intenzionali. Un fattore rilevante è dato dal livello di partecipazione alla società di appartenenza, alla classe sociale di riferimento, al sistema morale di ispirazione, ai valori di base che orientano il proprio atteggiamento ed il conseguente comportamento.


            Numerosi sono gli agenti di socializzazione che operano nel corso della vita di una persona. Alcuni vengono definiti primari perché fondano la personalità di base di un uomo o di una donna, altri hanno un carattere secondario, che si direbbe aggiuntivo ma che in realtà poi non risulta meno orientativo perché concorre all’attribuzione di una competenza di ruolo ed alla costruzione di una conoscenza della realtà pur sempre orientate allo scopo dell’agire.


            Ormai si tende ad evitare di soppesare il contributo effettivo dell’una o dell’altra agenzia di socializzazione. Ed anzi si preferisce parlare di un’azione di rete, quasi di una prospettiva “sinfonica”, “corale”, dovuta ai diversi processi di socializzazione messi in atto in contemporanea od in successione di tempo, ma sempre con effetti ben visibili, specialmente a lungo andare.


            Insomma, per dirla in breve ed in termini espliciti ed esemplificativi, la “costruzione sociale” di un protagonista della scena storica italiana tra fine Ottocento ed inizio Novecento quale è stato don Luigi Guanella non è il precipitato fortuito di una sola vicenda personale e/o interpersonale ma di un vero e proprio sistema di influssi ed accettazioni come pure di prese di distanza ed opposizioni, in definitiva con un equilibrio continuamente instabile fra conservazione ed innovazione.


            In tutto questo interagiscono differenti eppur convergenti dimensioni: umane, conoscitive, affettive, etiche, relazionali ed ideali.


            Appunto l’idealità è uno dei punti di attracco che si trasformano poi in base di partenza per ulteriori azioni dell’individuo nella società. La stessa propensione alla solidarietà è un esito il cui contenuto – non privo di una buona dose di utopia – deriva dalla concezione della società come un corpo unitario, in cui gli individui sono legati da rapporti solidali, reciproci ed utili sia al singolo che al consorzio sociale. Carità e solidarietà appaiono dunque in stretto rapporto fra loro.


            Tale discorso può valere anche per il concetto di beneficenza, attualmente deformato da pre-concezioni che ne svalutano il contenuto sussidiaristico, mettendo da parte come inefficaci o velleitari ogni agire altruistico e qualunque forma di aiuto concreto nei riguardi di chi si trovi in situazione di necessità.


            Invero la solidarietà può estrinsecarsi anche in forme più consolidate, organizzate, efficaci ed efficienti. Non a caso l’opera di don Guanella, come quella di don Bosco, di don Orione, di don Piamarta e di altri ancora, mirava a porre insieme vari soggetti che condividessero un medesimo ideale di aiuto, da porgere agli altri mediante iniziative opportunamente calibrate, magari anche scientificamente orientate, pastoralmente avvedute e comunitariamente condivise. L’obiettivo comune era la promozione umana e sociale di tutti gli esseri umani, al di là dei particolarismi ed in un’ottica universalistica, in chiave di giustizia, di pacificazione, di attenzione agli emarginati, di supporto agli svantaggiati, di ridistribuzione dei beni.


            In fondo, come ha sostenuto Pierpaolo Donati (1997), la stessa solidarietà sociale è un “mezzo simbolico generalizzato”, che ha connotazioni diverse, di tipo politico, economico, associativo ed intersoggettivo. Ma questo non è vero solo per la società post-moderna di oggi giacché trova conferma nell’azione medesima di un precursore come don Guanella che coniugava insieme i vari elementi, facendo della carità solidale un messaggio metapolitico di fatto – persino metaconfessionale si potrebbe sostenere -, nella misura in cui egli si caricava dei problemi della specifica porzione di umanità incontrata, indipendentemente dalle collocazioni personali e dalle preferenze ideologiche dei suoi interlocutori. Insomma il suo era un “fare il bene per il bene”.


            A seguito dei vari processi di socializzazione che un individuo sperimenta nel suo percorso biografico egli rende sempre più stabili le sue inclinazioni, le sue modalità tipiche di azione, i suoi sentimenti, le sue disposizioni d’animo ed i suoi pensieri. Le norme di comportamento vengono dunque interiorizzate e proposte anche agli altri, al fine di migliorare la solidarietà interpersonale.


            Non va però dimenticato che nel corso dei secoli, nel passaggio da una generazione all’altra, alcune caratteristiche culturali permangono abbastanza stabili e costellano l’agire di gruppi specifici, ivi compresi quelli di matrice religiosa. Non desta dunque meraviglia che anche don Luigi Guanella risponda – per certe sue prese di posizione e per certe opzioni di natura socio-politica – ai dettami tipici della sua formazione a livello conoscitivo, linguistico, etico, confessionale e socio-politico.


Solidarietà e carità


            Lo stesso valore della solidarietà se proviene in larga misura dall’esperienza familiare trova altresì conforto nel quadro della formazione religiosa cattolica e nel riferimento al mondo del lavoro, tanto caro al Nostro. In pratica pure don Guanella interiorizza i valori della sua classe sociale di appartenenza.


            In realtà però non va visto nulla di deterministico in tutto ciò, giacché rimane sovrana la volontà dell’individuo, con la sua capacità di adattamento, di flessibilità, di revisione e di riaggiustamento, che tiene conto delle istanze reali di volta in volta presenti. In questo anche don Guanella mostrava la sua autonomia operativa e decisionale, scegliendo in proprio, senza molte deleghe ad altri, specie nei momenti cruciali. Insomma prevaleva la soluzione del problema, rispetto a qualche resistenza dovuta ad abitudini contratte e giudizi previi. Non si spiega altrimenti la grande capacità del beato di immedesimarsi in situazioni anche tragiche, divenendo un esempio per altri, fra cui lo stesso don Luigi Orione (incontrato a Roma nel 1903 e beatificato nel 1980 da Giovanni Paolo II), in occasione del terremoto della Marsica, come documentato da Peloso (2003: 16): ““Il Signore mi ha dato grazia di molto patire su codesta terra: essa fu bagnata da tante lacrime, ma avevo allora avanti a me un vero santo, il servo di Dio Don Luigi Guanella, accorso anche lui benché settantenne, con l’attuale Vescovo Mg.r Bacciarini sui luoghi del disastro, che pure ebbero a patire, m’insegnarono nel patire con Cristo come si amino e si servano Gesù Cristo, la Chiesa””.


            Anche una prima, sommaria, perlustrazione storico-sociologica di documenti e pubblicazioni che parlano di don Guanella porta a rilevare significative presenze intellettuali che attraverso il filosofo-“sociologo” don Giacomo Sichirollo riconducono a Giuseppe Toniolo (Toniolo 1952-1953) ed attraverso don Giovanni Bonsignori riportano al professor Stanislao Solari ma anche a don Giovanni Piamarta. Per non dire delle influenze decisive esercitate da don Giovanni Bosco e da don Giovanni Battista Scalabrini. Una trattazione a parte meriterebbe poi la frequentazione di don Guanella con don Luigi Orione – vissuto dal 1872 al 1940 -, peraltro abbastanza nota e compulsata (Peloso 2003).


            Queste prime indicazioni fanno intuire già molto, ma ancor più fanno comprendere i dettagli di un sistema conoscitivo interpersonale di prim’ordine, sia a livello locale che centrale/romano. Tale impianto di natura reticolare si rafforza vieppiù con il passare del tempo e pone le premesse ideologiche e finanziarie per la costruzione di un’impresa caritativo-religiosa che ancora oggi, ad oltre cento anni dall’avvio dell’esperienza, produce frutti ben evidenti.


            Del resto la storia della carità in Italia non può prescindere dal cattolicesimo e dalla sua influenza decisiva a tal riguardo. Anzi appare singolare che sinora nessuno studio sistematico sia stato dedicato all’argomento, nonostante il fatto che già da lungo tempo vi siano state autorevoli sollecitazioni in proposito.


            Valga per tutti il contributo di Giuseppe Toniolo, che intervenendo al Troisième Congrès Scientifique International des Catholiques, tenutosi a Bruxelles dal 5 all’8 settembre 1894, diceva che “la carità presso di noi fu sempre… fortemente religiosa nelle sue fonti, nei suoi organi e nei suoi aiuti; e, per questo motivo, essa fu soprattutto ecclesiastica” (Toniolo 1895: 6). E poi aggiungeva: “ma questa beneficenza religiosa in Italia si esprime anche con un carattere eminentemente sociale” (Toniolo 1895: 8). In effetti “però, proprio per il suo carattere religioso e sociale, la carità ha avuto sempre, in Italia, una funzione educativa per eccellenza, cioè essa fu sempre per noi un fattore del progresso intellettuale della nazione” (Toniolo 1895: 12). Pertanto, in definitiva, “scrivere la storia della carità in Italia sarebbe un atto meritorio di religione” (Toniolo 1895: 16).


            L’obiettivo del proto-sociologo italiano era invero quello di riuscire a contrastare “la nuova invasione barbarica del socialismo” (Toniolo 1895: 17). Questo tuttavia era lo scotto che l’intellettuale pisano doveva pagare alla temperie contingente della sua epoca. Resta di fatto incontestabile la sua chiara visione della realtà, cioè del vissuto concreto di tanti italiani impegnati in azioni di carità, ispirate per lo più dalle loro specifiche credenze religiose.


Un intellettuale sui generis fra centro e periferia


            Dopo quanto premesso sinora dovrebbe risultare agevole comprendere da dove può nascere il forte impegno sociale profuso in particolare a Roma da don Luigi Guanella. Molto si deve al ruolo della socializzazione ricevuta, come esperienza continua ed incisiva, che lo conduce da ultimo ad essere una sorta di intellettuale della solidarietà e della carità, in pari tempo “periferico”, cioè attento ai bisogni del singolo contesto locale (da Pianello Lario nel Comense, sua prima fondazione, a Berbenno, sua ultima opera, nella provincia di Sondrio), ma anche “centrale” (ed organico, in senso gramsciano, alla chiesa cattolica), cioè preoccupato di altre situazioni non conosciute in precedenza (come nel caso specifico di Roma o della Marsica). In pratica il Nostro utilizza quasi uno strabismo intellettuale nella misura in cui guarda al suo particolare ma anche alle necessità di ordine generale. Il suo darsi da fare, non certo a caso, muove da presupposti ben soppesati, che gli consentono di mettere in piedi e di seguire qualcosa come novanta opere dal 1881 al 1915, in trentacinque anni, con una media dunque di tre iniziative per ogni anno. E nel frattempo i suoi Servi della Carità arrivano al numero di centodieci (di cui quarantacinque sono sacerdoti), mentre le Figlie di Santa Maria della Provvidenza toccano quota cinquecentoquindici. Questi risultati non si raggiungono facilmente se non vi è una progettualità orientata allo scopo e se non si operano le scelte opportune nei momenti e nei luoghi giusti. Il che è un chiaro indicatore di una capacità che si potrebbe definire, per le sue caratteristiche speciali, come quella di un intellettuale che si muove su due piani paralleli e di fatto convergenti: è un intellettuale “semi-periferico” in quanto non si limita a tenere d’occhio l’ambito localistico ma è pure un intellettuale “semi-centrale” in quanto guardando al centro della cattolicità non perde d’occhio la sua attività diffusa nei singoli contesti ed anzi si avvale della sua capacità di contatti a livello alto per potere poi farla fruttificare al meglio a tutto vantaggio delle sue iniziative sparse sul territorio.


            Questa duplice categoria della centralità e della perifericità è stata anche oggetto di un accurato schema teorico proposto qualche anno fa dal sociologo statunitense Edward Shils, conferenziere scientifico per Giovanni Paolo II a Castelgandolfo e vincitore di quello che è considerato il premio Nobel per le scienze sociali. Shils per esemplificare il suo approccio parlava degli strati della cipolla, come metafora del rapporto fra centro e periferia. Orbene la “cipollinità”, per così dire, sarebbe una caratteristica che lega i vari strati fra loro, per cui ciascuno di essi può essere al tempo stesso periferico rispetto al centro del bulbo ma a sua volta anche centro rispetto agli strati successivi.


            Le categorie shilsiane sono perfettamente applicabili al caso qui in esame. Il centro ha potere ed autorità mentre la periferia è, di solito, senza tali connotati ed anzi risulta destinataria del loro esercizio da parte del livello centrale. Ma in concreto anche la periferia può rivestirsi, almeno in parte, di panni non marginali ed usufruire dei benefici provenienti dalla centralità. Il che può avvenire anche per motivi che si legano al carisma personale ed alla forza della tradizione che si instaura e si mantiene anche attraverso forme strutturate. A loro volta le stesse strutture centrali rappresentano un elemento coesivo.


            Illuminante quanto mai è peraltro la definizione di Shils a proposito degli intellettuali: “vi sono delle persone dotate di una inconsueta sensibilità per il sacro e di una riflessività non comune intorno alla natura del loro universo e delle regole che governano la loro società. Esiste, in ogni società, una minoranza di persone che, più di quanto avviene nel giro ordinario dei loro simili, sono indagatrici e desiderose di sentirsi in frequente comunione con simboli che sono più generali delle immediate situazioni concrete della vita di ogni giorno e di riferimento più remoto quanto al tempo e allo spazio… Tale intima esigenza di penetrare al di là dello schermo dell’esperienza concreta ed immediata segna l’esistenza degli intellettuali in ogni società” (Shils 1984: 125-126).


            Inoltre “l’unità morale e intellettuale di una società, che per densità di popolazione ed ampiezza di territorio trascende ciò che ogni uomo singolo può conoscere per mezzo della sua esperienza media di prima mano e che lo porta in contatto con persone esterne al suo gruppo di parentela, deve fare assegnamento su certe istituzioni intellettuali come le scuole, le chiese, i giornali e altre strutture del genere. Per mezzo di esse, le persone comuni, nell’infanzia, nella giovinezza o nella loro maturità, si pongono in contatto, per quanto non stretto, con coloro che hanno maggior dimestichezza col corpo esistente dei valori culturali. Attraverso la predicazione, l’insegnamento e gli scritti, gli intellettuali infondono in quel settore della popolazione, che non sono intellettuali né per intima vocazione né per ruolo sociale, una percettività e un repertorio di immagini di cui sarebbero, altrimenti, del tutto prive” (Shils 1984: 128). Ma, per completezza di discorso, “non è soltanto attraverso la presentazione degli orientamenti verso i simboli generali che riaffermano, continuano, modificano o respingono l’eredità tradizionale di credenze e di standards della società che gli intellettali lasciano la propria impronta sulla società. Gli intellettuali non esauriscono la loro funzione con lo stabilire un contatto per il “laicato” con i valori sacri della loro società. Essi adempiono le loro funzioni autoritative e miranti all’esercizio del potere anche su azioni concrete” (Shils 1984: 131).


            Ed infine non è da trascurare il fatto che “l’attività intellettuale scaturì da preoccupazioni religiose” (Shils 1984: 142). Peraltro “un’efficiente collaborazione fra gli intellettuali e le autorità che governano la società rappresenta un’esigenza per l’ordine e le continuità nella vita pubblica e dell’integrazione nella società delle più ampie sfere del “laicato” (Shils 1984: 149).


Figlio della chiesa e di molti intellettuali


            La figura di don Luigi Guanella, intellettuale “a mezzo servizio” fra centro e periferia del cattolicesimo italiano, è ben definibile come quella di un degno figlio della sua chiesa ma anche dei numerosi intellettuali che costellano, con contaminazioni varie, il suo reticolo di legami, amicizie, letture, pubblicazioni periodiche e non, libri di edificazione (a partire da quella spirituale, in vista però e/o a sostegno di quella più concreta, cioè un’opera stabile, un ricovero, un asilo, una casa, un oratorio, un ospizio, una chiesa, un istituto, una colonia, insomma una varietà multiforme di proposte e di iniziative mirate).


            Attorno a lui si crea un’atmosfera, un’aura, che fa risuonare in ogni sua azione l’eco or dell’una or dell’altra influenza recepita. Tutto ciò si deve al knowledge network, al reticolo conoscitivo, o meglio al sistema di riferimento conoscitivo a rete praticato dal beato don Luigi, non immemore degli insegnamenti ricevuti e delle suggestioni offerte dai suoi numerosi interlocutori, diretti od indiretti, intraecclesiali od extraecclesiali, dal procuratore redentorista della provincia romana e postulatore della causa di canonizzazione di san Gerardo Maiella, padre Claudio Benedetti (1841-1926) – a Roma, nel 1906 -, al minore francescano neo-tomista e fondatore dell’Università Cattolica di Milano, padre Agostino Gemelli (1878- 1959) – nel 1907, su indicazione di Pio X -, a don Romolo Murri (1870-1944), poi sospeso divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909.


            Per rintracciare i vari riecheggiamenti sparsi nelle pubblicazioni di don Guanella occorrerebbe condurne una meticolosa analisi del contenuto, per risalire alle fonti ispiratrici di questo o quel passaggio, di qualche espressione peculiare, di una bella immagine metaforica o di un richiamo teologico. Probabilmente da una disamina del genere emergerebbero altri elementi significativi e qualificanti, che si andrebbero ad aggiungere alle sue frasi ben note (come “pane e Signore”), alla sua sincera propensione per l’universalità, al suo amore per i santi più attenti alle classi umili come san Francesco (1181-1226) (Guanella 1924), san Rocco (1295-1327) e san Girolamo Emiliani (1486-1537) (Guanella 1930), alla sua gioia quale uomo di Dio – sul carattere salvifico del sorriso ha scritto acutamente qualche tempo fa pure il sociologo statunitense di origine mitteleuropea Peter Berger (1997, 1999)-.


            Sullo sfondo di questa intensa trama e di questo fitto ordito si pone come motivo ricorrente la cosiddetta questione sociale che il Nostro affronta da par suo con un’intraprendenza coraggiosa e non priva di enfasi retorica ed utopica, tenuta eventualmente a bada secondo le circostanze date e gli obiettivi da raggiungere. Forse anche per questo è possibile ipotizzare un don Guanella “mutante” a Roma, cioè indotto a tenere conto di convenienze ed usi, di protocolli e procedure, dunque a dismettere almeno in parte la sua abituale condotta pur senza contravvenire alle sue convinzioni di base.


            Roma è un luogo paradossale per un sacerdote (lo hanno detto anche alcuni santi): dovrebbe essere un posto ideale dove esercitare qualunque attività religiosa eppure fattori di varia natura creano ostacoli a dismisura e mettono a dura prova anche il pastore d’anime più tenace e convinto. Ebbene la scelta di don Guanella di interessarsi di inabili al lavoro, derelitte, “buone figlie” e “deficienti” non sembra trovare molti consensi. Anche la sua Opera non viene approvata subito a livello ecclesiastico. La Curia Romana oppone qualche resistenza che si estrinseca in rinvii a lungo termine. Le stesse Figlie di Santa Maria della Provvidenza vedono la loro approvazione solo nel 1909, quando sono giunte ad essere quattrocentoquarantuno.


            Neanche i politici del tempo appaiono molto disponibili nei confronti del fondatore dell’Opera, il quale se ne lamenta apertamente. Alcuni decenni dopo farà lo stesso un altro don Luigi, animatore instancabile della Caritas diocesana romana: più volte, infatti, don Di Liegro negli anni ottanta e novanta del secolo scorso ha tuonato contro l’insensibilità delle pubbliche amministrazioni.


            Guanella ha avuto un amore tutto particolare per la città di Roma, sin dalla sua prima visita avvenuta nel 1888, ma già undici anni prima ne aveva espresso il desiderio all’amico e confidente don Giovanni Bosco. Per don Luigi Roma era sempre “la nostra Roma, la Roma del nostro cuore, la nostra Gerusalemme, a cui si pensa e si sospira come al Cielo!”. Ecco perché diceva: “noi siamo venuti a Roma e ci sentiamo benedetti. A Roma, sotto lo sguardo del Padre comune tutte le opere di Dio fioriscono e prosperano. Sì, sì, noi siamo lieti di essere a Roma…”. Ed ancora affermava nel 1903: “noi siamo in Roma chiamativi dalla Divina Provvidenza, et hic manebimus optime”.


Lo sviluppo della rete conoscitiva


            La tela dei rapporti che don Guanella intesse dapprima fra Lombardia e Piemonte e più tardi fra Centro e Nord Italia si costruisce e si disfa senza soluzione di continuità giacché il Nostro difficilmente si ferma a lungo in una medesima località. Il suo continuo girovagare in Italia ma anche all’estero (Palestina e Stati Uniti) gli facilita le possibilità di espansione della sua Opera ma gli consente pure di confrontarsi con altri punti di vista, con altri vissuti, con esperienze diverse, in un tourbillon vorticoso, senza sosta.


            Quando nel 1859 e nel 1860 Luigi Guanella si trova nel Collegio Gallio di Como ha come suo superiore Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), successivamente vescovo di Piacenza nel 1876, incline alla risoluzione della “questione romana” senza infrangere l’unità italiana, favorevole alla partecipazione politica dei cattolici e soprattutto fondatore di missioni cattoliche e di opere di sostegno concreto per gli italiani emigrati all’estero. A queste prospettive universalistiche farà riferimento don Guanella quando andrà nel 1912 negli Stati Uniti e nel 1913 invierà delle suore missionarie a Chicago.


            Il primo contatto importante è con don Giovanni Bosco (1815-1888) a Torino, per un periodo di oltre tre anni (dal 1875 al 1878), relativamente lungo rispetto ad altre permanenze più ridotte. Il giovane Guanella è poco più che trentenne ed ancora alla ricerca della sua strada.


            La città di Torino, solo da qualche anno non più capitale d’Italia, è fortemente connotata dalla presenza di due Opere esemplari (e finitime anche per la localizzazione, a Valdocco), promosse in ordine di tempo da don Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) e da don Bosco. Don Luigi fa ricorso già da tempo proprio alla “Piccola Casa della Divina Provvidenza” del Cottolengo per farvi accogliere alcune persone in grave disagio. Appare opportuno segnalare che il nome stesso di quest’Opera torinese rifluirà anche nella dizione di un’analoga iniziativa guanelliana a Roma, la “Casa della Divina Provvidenza”, nonché della “Piccola Opera della Divina Provvidenza” fondata nel 1903 da don Luigi Orione (un altro discepolo di don Bosco), il quale affiderà alla sua congregazione femminile i “Piccoli Cottolengo”, per l’accoglienza delle situazioni più gravi, anche all’estero.


            A Como avrà inizio nel 1886, per iniziativa di don Guanella, l’“Opera della Divina Provvidenza”. Inoltre la stessa istituzione femminile guanelliana avrà come nome “Figlie di Santa Maria della Divina Provvidenza”, le cui costituzioni verranno approvate definitivamente nel 1917, dopo il decretum laudis del 1908 (il ramo maschile guanelliano, detto dei “Servi della Carità”, lo otterrà nel 1912, con approvazione definitiva nel 1928).


            Il capoluogo piemontese è per don Guanella come un rifugio, ma questo periodo di socializzazione soprattutto al metodo salesiano assume pure un’importanza fondamentale per il seguito della sua attività.


            Don Giovanni Bosco si fida molto di don Luigi, gli dà la direzione di un oratorio e di un collegio e nel 1876 riesce a fargli avere una benedizione autografa di Pio IX. Due anni dopo don Guanella si trasferisce in Valtellina, a Traona, ma mantiene contatti con don Bosco, cui invia un resoconto mensile delle sue attività, manifestando così il suo desiderio di rimanere legato al mondo dei salesiani.


            Nel 1881 don Luigi va via anche da Traona e viene destinato ad Olmo di Chiavenna, in montagna, per poi passare in novembre a Pianello Lario, dove eredita un ospizio fondato dal defunto don Carlo Coppini.


            Si reca poi a Como, dove inizia una fervida attività che lo porta nel 1890 anche a Milano, Qui nel 1894 apre una “Pia casa dei poveri” presso il convento di Sant’Ambrogio ad Nemus. Ma Milano è appena una tappa del cammino tormentato che alla fine lo fa pervenire a Roma, “capitale del mondo dalla quale parte ogni benedizione”. L’attività nell’urbe inizia ufficialmente nel 1903 e di fatto si protrae sino all’anno della morte, il 1915. In tutto questo turbinio di iniziative e di trasferimenti da un posto all’altro, don Guanella scrive vari volumetti e conduce esperimenti per migliorare le culture agricole. Interviene nella palude di Pian di Spagna presso Sondrio (Robbiati 1988: 173-216), tentando di bonificarla e di impiantarvi una colonia agricola (Nuova Olonio), nei primi anni del Novecento. Si interessa anche dell’impostazione neofisiocratica sviluppata da don Giovanni Bonsignori a Remedello, non lontano da Cremona.


            Non sempre il Nostro trova accoglienza e disponibilità. A fronte degli avversari, ecclesiastici e laici, confratelli ed amministratori pubblici, massoni e socialisti, egli usa – specie nei primi anni – un linguaggio non cordiale ma poi è in grado di assumere pure un atteggiamento meno severo negli scritti popolari, agiografici, spirituali, educativi. Anche questo è un aspetto peculiare della personalità guanelliana.


            Osteggiato da qualche superiore e considerato un tempo un “sorvegliato speciale” sarà poi stimato da personalità di rilievo (vescovi e cardinali) egli diventa un protagonista del cattolicesimo italiano di fine Ottocento e guarda anche lontano, verso la Svizzera e verso gli Stati Uniti, in chiave di “universalità” della chiesa.


            Messa a freno la generosa tendenza ad una “globalità” dei suoi interventi è costretto a ridurre la sfera delle sue azioni, ma agli inizi del Novecento non manca di preoccuparsi dei terremotati di Messina e di quelli della Marsica. Invero il suo cuore continua a battere in particolare per Roma, in modo sempre più continuativo e fattivo, fino alla morte.


            A monte della sua generosa presenza in tante parti d’Italia vi è tutta una serie di frequentazioni di ogni genere che lo mettono in contatto con tanti esponenti di chiesa e non, i quali lo sorreggono con le loro idee, i loro consigli, le loro spinte all’agire.


            Non è facile stabilire un ordine cronologico di questo sciame di influssi che orientano il dinamico Fondatore. In alcuni casi l’occasione è sporadica se non unica, in altri casi invece il  contatto permane a lungo, fino al compimento del percorso esistenziale di uno dei due interlocutori.


            Non va sottovalutato neanche il peso di un’influenza lontana, indiretta, magari senza alcuna conoscenza reciproca fra i soggetti in collegamento. Questo è il caso di un primo elemento di continuità che si viene a creare a Pianello Lario nel 1881, quando don Guanella succede a don Carlo Coppini (1827-1881), già volontario nella guerra di indipendenza del 1848 e segretario-scrivano di Giuseppe Mazzini a Lugano. Don Coppini muore il primo luglio 1881. La successione è difficile. Don Luigi riesce a fare di Pianello Lario (presso il lago di Como) un centro fondamentale della sua azione caritativa, ancora oggi attivo. Vi resta e non dimenticherà mai questa prima esperienza positiva, dopo le delusioni, le incomprensioni e le ostilità patite a Prosto, Savogno, Traona ed Olmo di Chiavenna.


            Un’amicizia solidale lega don Guanella a don Davide Albertario (1846-1902), propugnatore di un’azione organizzata dei cattolici italiani e di una particolare attenzione alle massi popolari rurali, arrestato nel 1898 come sovversivo e campione dell’intransigentismo cattolico contro lo stato italiano. Questo sacerdote-giornalista è direttore del quotidiano L’Osservatore Cattolico di Milano fondato nel 1864 da monsignor Carlo Caccia Dominioni, molto impegnato a favore dei colpiti dal colera nel 1836, direttore dell’Oratorio dell’Istituto Patellari per le figlie pericolanti, antirosminiano ed antigiobertiano, fautore della soppressione del giornale Il Conciliatore (Robbiati 1978) evescovo ausiliare di Milano dal 1853, nonché dal 1859 vicario episcopale sede vacante,costretto – dopo una tentata aggressione subita in Duomo – a rifugiarsi a Monza dove viene piantonato per le sue idee “con il Papa e per il Papa” (Ambrosoli 1972: 782-784).


            Don Albertario è un acceso polemista che abbandona le “affezioni liberalesche contratte a Pavia” in seminario e segue il dettame “né eletti né elettori”(1864) di don Giacomo Margotti (1823-1877) – a sua volta fautore di opere di carità, avverso a Cavour e vittima di un’aggressione (perdonata) nel 1856, eletto deputato nel 1857 ma dichiarato in eleggibile per “abuso di armi spirituali”, fondatore e direttore a Torino, dal 1848 al 1863, del quotidiano L’Armonia della religione con la civiltà,cui collabora Rosmini, e ridenominato nel 1863, per volontà di Pio IX e con un’impostazione più moderata, L’Unità Cattolica (pubblicato poi a Firenze dal 1870 fino all’ottobre del 1929)-.


            Don Davide sceglie in seguito la formula propugnata da L’Osservatore Romano della “preparazione nell’astensione” ed infine si schiera contro Leone XIII. Don Albertario è attaccato da vescovi e laici transigenti e si contrappone a Rosmini ed a padre Giovanni Semeria (1867-1931), più tardi fondatore dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno.


            Giova tuttavia ricordare che lo storico Leo Valiani apprezza don Davide se non per altro almeno per il fatto che non è contrario all’esistenza di associazioni socialiste. Del resto Albertario finisce in carcere a Milano insieme con noti esponenti socialisti, tra cui Filippo Turati. Un altro storico, Ernesto Ragionieri (1976: 1847), completa il quadro osservando come “fu già significativo che la persecuzione contro il movimento cattolico si indirizzasse esclusivamente contro la sua ala intransigente, quasi una pressione per convincerla della necessità di far parte del blocco antisocialista”. Di fatto i giornali aboliti o sospesi dal governo Di Rudiní risultano essere 62 socialisti e 25 cattolici.


            Ma intanto anche don Giacomo Sichirollo (1839-1911), filosofo neo-tomista (Sichirollo 1897) e quasi sociologo, storico ed apologista, fondatore – nel 1900 – del giornale diocesano “la Settimana” (pubblicato tuttora), attacca il padre Semeria(Sichirollo 1904), si lascia dapprima convincere dalle idee di don Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e poi lo combatte. Don Giacomo è grande amico e sapiente mentore di don Luigi Guanella e legatissimo a Giuseppe Toniolo (1845-1918) che lo considera una sorta di maestro nazionale, in quanto particolarmente sensibile fra l’altro alla questione sociale ed al tema della carità.


            Con don Sichirollo il professor Toniolo, docente di Economia Sociale nell’ateneo pisano, intesse una corrispondenza epistolare (Toniolo 1943; 1952-1953: I, 122-124, 178-180; II, 185, 330-332; III, 50-51, 73-77, 159-160), che in alcuni casi è diretta congiuntamente a monsignor Enrico Bonincontro, anch’egli di Rovigo. Ed ecco una testimonianza abbastanza eloquente della stima di Toniolo per Sichirollo, al quale scrive in data 11 gennaio 1989: “(e lo dico a gloria di Dio) il dono più grande è per me quello di aver stretta la sua relazione, da cui tanto mi resta da imparare soprattutto per ciò che fa la vera sapienza. Ma poiché dunque la sua dottrina penetra i campi anco della sociologia e delle scienze coordinate, non manchi anco per l’avvenire di confortare me e la nascente associazione dei suoi consigli e scritti” (Toniolo 1952-1953: I, 122); il riferimento alla “nascente associazione” concerne l’Unione Cattolica per gli Studi Sociali in Italia. L’anno successivo e precisamente il 10 settembre del 1890, invitandolo ad un incontro, arriva a dirgli: “qui in Pisa, io le offro la mia modesta ospitalità” (Toniolo 1952-1953: I, 179). E così il sociologo pisano definisce un’opera di Sichirollo: “bellissimo libro della democrazia” (Toniolo 1952-1953: II, 185).


            Toniolo quando non scrive direttamente a Sichirollo ma a monsignor Bonincontro non manca di riferirsi pure a don Giacomo, come nella lettera del 7 agosto 1906, che comincia con queste parole: “Illustre professore, Ritorno a ringraziarla, insieme all’inseparabile amico Sichirollo (di cui vorrei notizie) e a tutti i buoni amici laici, in testa il Merlin, dei conforti che mi dettero, attuando ciò che era nei miei voti per la ripresa della propaganda in pro dell’Unione popolare, la quale deve oggi più che mai rialzare il vessillo di un programma ampiamente sociale, e fedelmente cattolico papale”. Aggiunge poi, invitando alla prudenza fra le opposte posizioni dei cattolici dell’epoca: “camminiamo tra due fuochi” (Toniolo 1952-1953: III, 78). La lettera prosegue con affermazioni, idee e proposte che non sono particolarmente lontane dagli ideali di don Guanella in chiave di impegno sociale e di obbedienza al pontefice.


            Ancora in uno scritto a monsignor Enrico Bonincontro, datato come giorno di Pentecoste del 1905, il professor Toniolo si riferisce a Sichirollo: “ha veduto il mio volume Problema sociologico odierno? Gradirei che ella e il Sichirollo me ne dicessero il parere” (Toniolo 1952-1953: III, 41). Lo stesso dicasi a proposito di un’altra lettera a Bonincontro, successiva di qualche mese, “riservatissima” e datata 19 novembre 1905. Lo spunto proviene dall’apprezzamento rivolto dal cardinale Merry del Val ai partecipanti al III Convegno Giovanile Diocesano di Rovigo (29 ottobre 1905, sotto la guida di Paolo Pericoli, presidente nazionale della Gioventù Cattolica), durante il quale non sono state accolte le posizioni del Murri: “avrà già letto nei giornali la lettera del card. Merry del Val. Sarebbe superfluo che io mi congratulassi con loro (intendo in modo speciale di lei e del prof. Sichirollo) del ben meritato onore e conforto” (Toniolo 1952-1953: III, 55). Il riferimento a don Giacomo ritorna anche nella conclusione: “i consigli di lei e del Sichirollo mi torneranno preziosi. E più ancora le preci!” (Toniolo 1952-1953: III, 56).


            Dello stesso epistolario fanno parte alcune missive a don Albertario per uno “sfogo dell’animo” (Toniolo 1952-1953: II, 317) e pure a don Romolo Murri, specialmente fra il 1897 ed il 1903, ma un numero maggiore di lettere concerne il conte Stanislao Medolago Albani.


            Sichirollo è come don Luigi sia un antesignano che un fondatore (Romanato 1991). Vive ed insegna nel seminario di Rovigo. Nel marzo 1883 istituisce a Padova la Società Cattolica Universitaria (nel medesimo anno a Roma vi provvede Paolo Pericoli). Svolge un’intensa attività di conferenziere (Sichirollo 1903; 1915) e polemista agguerrito, specie in difesa di istituti ed insegnanti privati nonché di preti (Sichirollo 1892a; 1892b). Pubblica Conferenze sulla Democrazia Cristiana (Sichirollo 1898). Cultore di lettere classiche e di studi umanistici detta l’epigrafe per l’Ospizio romano di San Pancrazio, dedicato da don Guanella a Pio X. Don Giacomo è assistito sul letto di morte dal Nostro, che non può intervenire ai funerali ma solo al trigesimo. Nell’elogio funebre per commemorare l’anniversario della morte di Sichirollo non vi è tuttavia alcun accenno a don Guanella (Rosa 1912). Dal testo del discorso si evincono comunque alcuni elementi significativi. Innanzitutto Sichirollo ha un approccio pedagogico simile a quello di Vittorino da Feltre, dunque in chiave di “Accademia giocosa” (Rosa 1912: 7). Appresso viene ricordata la polemica con il professor Tullio Tentori, autore di due articoli sul giornale Adriatico in data 27 e 28 settembre 1892 (Rosa 1912: 8), nonché quella con il padre Semeria (Rosa 1912: 9). Viene infine sottolineata la “devozione verso il Pontefice” (Rosa 1912: 14), tratto quest’ultimo che accomuna molto Sichirollo e don Guanella. Ma forse la citazione che merita maggiormente di essere qui ripresa è quella contenuta nelle Conferenze sulla Democrazia Cristiana (Sichirollo 1898: 166-167), che parla di un profondo sentimento verso i poveri: “non mi vergogno, o fratelli, così Mons. Sichirollo, di farvi qui in pubblico una confessione. Certo tutti noi c’incontriamo sempre in poveretti che ci fan compassione, e ci fan sentire al cuore un bisogno imperioso di dar quel che possiamo a loro sollievo. Ma non è da molto ch’io ho avvertito una cosa, che avrei dovuto avvertire molto prima. Lì, nella svolta della contrada che ci sta di fronte, ogni mattina si mette, come pietosa statua, sdrucito, gramo e quasi cieco, un povero vecchio. Ogni volta che gli faccio la carità, son portato irresistibilmente a stringergli la mano. Quella stretta mi fa sentire un dolce tremito, che mi discende fino all’intimo del cuore, onde mi sorge, subitaneo più che il lampo, un movimento di venerazione per quel vecchio; un bisogno, non di stringergli soltanto la mano, ma di baciargliela teneramente, d’inchinarmi dinanzi a lui in un’attitudine di divozione. E domando a me stesso, perché tal sentimento non avessi provato io mai nello stringere la mano di persone ricche, per quanto fossero degne e care, la voce mi rispondea: – perché sotto i cenci di quel poverello la ragione ti fa vedere le dignità umane non coperte di fittizie spoglie; la ragione insieme e la fede ti fan vedere e sentire il fratello, la fede poi sola, ma con una potenza sovrumana, ti fa vedere in quel poverello, come in persona, il Dio dell’universo -. E conchiude: Fratelli, se mi sentite commosso nel leggervi questa pagina, non vi meravigliate: ho pianto quando la scrissi” (Rosa 1912: 14). Qui la vis polemica del conferenziere si stempera in un atto dolcissimo, umile, di grande rispetto verso l’indigente, il sofferente, il senescente. Del resto “lo conoscevano i bisognosi ed i poveri cui egli segretamente dava quanto più potea, accompagnando la sua carità con le più tenere e delicate espressioni” (Rosa 1912: 13). Don Guanella, appartenente ad una famiglia molto numerosa (14 persone) e studente in collegio solo grazie ad una borsa di studio, non può non tenere conto di un modello così alto e convincente qual è il Sichirollo (Ciavarini 1936) che nella dedica delle Conferenze sulla Democrazia Cristiana (Sichirollo 1898) dice: “godo di sentirmi scorrere nelle vene il sangue d’un operaio” (Rosa 1912: 15). Anche oggi il Sichirollo viene ricordato con riconoscenza, in particolare a Rovigo dove l’Accademia dei Concordi gli ha dedicato un apposito convegno il 20 ed il 21 novembre 1989, a centocinquant’anni dalla nascita.


            Il tema della carità sociale è un motivo ricorrente nel pensiero e nell’azione di Giuseppe Toniolo che in una lettera da Pisa il 14 aprile 1890 così scrive a monsignor Giuseppe Callegari (Toniolo 1952-1953: I, 158): “ma non è conveniente, che i cattolici, modestamente ma francamente, anche a casa nostra, in nome della fede, e della salute sociale, e ad onor della patria, formino il loro programma, che non può essere che quello della carità?”. Cita poi le opere meritorie di don Bosco, del Cottolengo, di padre Leonardo da Casoria, cioè Arcangelo Palmenteri (1814-1855), fondatore dei Frati della Carità (detti Bigi) e di ospizi a Napoli, Roma ed altrove (Capecelatro 1887). Qualche giorno più tardi, alla vigilia della grande novità rappresentata dalla prima celebrazione pubblica della festa del lavoro il primo maggio 1890, scrive allo stesso Callegari per parlare di “carità nell’ordine sociale” (Toniolo 1952-1953, I, 160).


            Ancora il Toniolo (1952-1952: I, 161) sostiene: “sta bene si affermi che la carità ha la sua funzione nella vita sociale, rigorosamente dimostrata dalla scienza: guai chi la disconoscesse, o la mutila e sopprime! che le leggi non varranno senza l’ufficio coordinato e completivo della carità, che infine di fronte alla crisi sociale, che minaccia prorompere, spetta alla Chiesa la parte suprema nello scioglimento di essa, e ciò principalmente pel ministero della carità”. Il 21 maggio 1890 il sociologo pisano scrive al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, parlando ancora una volta di “carità nella vita sociale” (Toniolo 1952-1953: I, 168).


            Giuseppe Toniolo non evita le questioni più problematiche, che affronta direttamente: “non trattasi di negare o sminuire le sofferenze delle classi inferiori specialmente campagnole anche fra noi. I cattolici anzi devono essere i primi a riconoscerle e a reclamare provvedimenti non solo a titolo di carità ma anco di giustizia”. Ciò scrive a don Giuseppe De Bonis il 29 ottobre 1893, da Pisa (Toniolo 1952-1953: I, 313).


            Lo stesso don Guanella ha uno spirito da umile lavoratore, da contadino. Egli comprende la rilevanza dell’agricoltura sia in quanto fatto economico sia in quanto strumento di riscatto sociale od anche in quanto occupazione quotidiana che possa dare senso ad esistenze altrimenti prive di scopi e di interessi, come nel caso dei disoccupati e dei soggetti considerati “derelitti” per molteplici ragioni (economiche, fisiche, sanitarie, mentali, culturali).


            Non meraviglia affatto l’attenzione che il Nostro dedica ai neo-fisiocratici ed alle loro dottrine ed applicazioni pratiche. L’impostazione di questa corrente di pensiero, che rappresenta una ripresa di teorie economiche sviluppatesi nella seconda metà del Settecento, è fondata sulla convinzione che la natura ha un suo ordine che va seguito per ottenere i migliori risultati possibili. Segnatamente l’agricoltura garantisce la possibilità di creare ricchezza attraverso la produttività della terra. Per questo, ad esempio, sarebbe sufficiente aggiungere sali minerali nella coltivazione delle leguminose ed azoto per le altre piante al fine di raggiungere esiti ottimali.


            Di ciò è profondamente convinto un sacerdote orginario della provincia di Brescia, don Giovanni Bonsignori (1846-1914), contemporaneo di don Guanella ed autore di volumi teorici di polemica socio-politica (Bonsignori 1905) e di testi pratici di agricoltura (Bonsignori 1898). L’invito rivolto da don Giovanni è di non emigrare negli Stati Uniti ma di fermarsi in Italia a coltivare i propri terreni, migliorandone la redditività con le tecniche innovative proposte dai neo-fisiocratici.


            Bonsignori dal 1881 è anche parroco a Pompiano (Brescia), dove dà buona prova di imprenditorialità agricola, usando una macchina per lavorare tra i filari di granoturco, rendendo disponibili gli essiccatoi pubblici ed impiantando un caseificio. Nel 1898 passa a Remedello, ancora in provincia di Brescia, ed inizia l’esperienza più importante, quella di una colonia agricola, che diventerà un modello esemplare da seguire, sia da parte di don Guanella che di altri.


            Bonsignori non si muove da solo lungo questi nuovi sentieri di attività agricola e religioso-pastorale insieme. Suoi riferimenti essenziali sono don Giovanni Piamarta (1841-1913) e l’agronomo genovese Stanislao Solari (1829-1906), il quale è fautore di una coltivazione razionale e va a visitare Remedello.


            Bonsignori crede molto nelle “cattedre ambulanti di agricoltura”, si reca fino in Sicilia ed ottiene vari riconoscimenti per le sue realizzazioni: una medaglia d’argento dal Ministero dei Lavori Publici nel 1905, la nomina a Cavaliere del Lavoro nel 1906, mille lire nel 1915 ed una medaglia d’oro a Como nel 1915 per benemerenze filantropiche.


            Un neo-fisiocratico è un altro salesiano, don Carlo Maria Baratta (1861-1910), autore di un saggio su Solari (Baratta 1909), di una pubblicazione sul canto gregoriano (Baratta 1905a) e di un altra sul tema della solidarietà (1905b).


            Non molto dissimile è l’azione condotta dal Piamarta, grande organizzatore di attività giovanili e particolarmente sensibile alle esigenze della formazione professionale. La sua opera più nota è l’“Istituto Artigianelli” di Brescia che fornisce maestranze ben preparate all’industria. Ma si occupa pure di agricoltura e contribuisce, insieme con don Bonsignori, all’acquisto di un terreno a Remedello, poi sede dell’“Istituto Bonsignori”. I risultati non mancano, dopo il difficile inizio nel 1886 con quattro ragazzi presi dalla strada ed allocati in due casupole. A don Giovanni Piamarta sono dedicate due documentate biografie che ne illustrano ampiamente vita ed opere (Felici 1951; Fossati 1973).


            Ma c’è ancora un’altra figura bresciana da aggiungere alla schiera dei neo-fisiocratici. Si tratta di monsignor Pietro Capretti (1842-1890), polemista (Anonimo s. d.), amico di penna del vescovo di Cremona monsignor Geremia Bonomelli (1831-1914) (Fappani s. d.) e co-fondatore, insieme col Piamarta, di un’opera per i chierici poveri.


            Per molteplici motivi uno snodo principale del sistema di riferimento conoscitivo a rete praticato da don Guanella è senza dubbio monsignor Giacomo Maria de’ Radini Tedeschi (1857-1914), vescovo di Bergamo, il cui segretario Angelo Giuseppe Roncalli (in seguito papa Giovanni XXIII) ne ha tracciato un’appassionata biografia (Roncalli 1916). Radini Tedeschi si lascia coinvolgere nelle questioni sociali e politiche del suo tempo, diventa vice presidente dell’Opera dei Congessi (Casella 1970) e prende posizione in modo chiaro, esprimendo il suo punto di vista sull’azione pastorale della chiesa (Radini Tedeschi 1897). Nel 1902 promuove e presiede un pellegrinaggio in Palestina (Radini Tedeschi 1904a; 1904b), in occasione del quale incontra don Guanella, cui nella basilica di san Pietro, nel maggio del 1903, offre di prendere possesso della colonia agricola di “San Giuseppe degli stracciaroli”, già tenuta da don Luigi Orione e colpita da un incendio il 16 febbraio 1903.


            Radini Tedeschi non è digiuno di studi sociologici, è un noto “conciliatorista”, stima molto sia il Toniolo che Stanislao Medolago Albani (1852-1921). Quest’ultimo rappresenta l’Italia all’Unione Cattolica di Studi Sociali di Friburgo, che di fatto prepara la Rerum Novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, . Dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X il 30 luglio 1904, Medolago Albani condivide con Toniolo e con il bergamasco Nicolò Rezzara l’esperienza dell’Unione economico-sociale (che raccoglie 2432 cooperative e società di mutuo soccorso e diviene in effetti la continuazione della seconda sezione – chiamata dapprima “carità ed economia cattoliche” e poi “economia sociale cristiana” – dell’Opera dei Congressi, fondata nel 1875). Pure con Toniolo ed insieme con il presidente della Gioventù Cattolica Paolo Pericoli (1859-1943), romano, Medolago Albani cura l’organizzazione dell’Unione popolare, in vista dell’ingresso dei cattolici nella vita politica.


            Si discute, fra gli storici, sul contributo reale offerto dalla riflessione dei cattolici italiani alla preparazione dell’enciclica leonina (alcuni studiosi invero la considerano molto più attenta all’apporto franco-belga). Nondimeno è evidente che la Rerum Novarum dà una nuova rotta al cattolicesimo italiano, specialmente con il superamento di vecchie formule per l’azione caritativa e con l’invito rivolto ai lavoratori agricoli a contribuire al miglioramento dei terreni. Don Guanella non può non risentirne, attento com’è alla voce del papa. D’altra parte neanche la lezione del Toniolo, sensibile alle condizioni delle classi popolari, può sfuggirgli. Il sociologo trevigiano di origine e pisano di adozione resta un intransigente eppure spinge per un approccio più sociale. Lo fa proprio attraverso l’Unione Cattolica per gli Studi Sociali in Italia, fondata a Padova nel 1889 insieme con Medolago Albani, presidente della già citata seconda sezione (la più dinamica) dell’Opera dei Congressi ed “uno dei maggiori propugnatori, allora, dell’apertura internazionale e dell’impegno sociale dei cattolici italiani” (Ragionieri 1976: 1790).


            Medolago Albani è particolarmente intraprendente e crea  nel 1910 una Scuola sociale cattolica a Bergamo, per offrire una solida formazione dottrinale e professionale ai militanti, ivi compresi gli assistenti ecclesiastici dell’Azione Cattolica.


            Il clima dell’epoca favorisce entusiasmi e coinvolgimenti straordinari, le cui origini sono “innanzitutto le doti personali di dedizione e di abnegazione al servizio di ciò che loro appariva come la causa di Dio, perché il movimento cattolico, prima di essere un movimento d’ispirazione politica, fu un movimento religioso, il quale dimostrò che, nonostante il carattere superficiale della religione di molti italiani e l’indifferentismo scettico assai diffuso nel mondo intellettuale, c’erano ancora, in particolare nel Nord, delle solide riserve di vitalità cristiana… Ma bisogna anche ascrivere a merito degli animatori del movimento cattolico il loro senso dell’organizzazione sul piano locale, che ne fece in Italia dei precursori, la consapevolezza che avevano dell’importanza dei corpi intermedi tra l’individuo e lo Stato centralizzatore, il loro interesse per la stampa popolare e soprattutto la preoccupazione di una parte di loro di opporre alla “legge di ferro” dell’economia liberale una sociologia cattolica, che guardasse alle esigenze della morale e dei diritti della persona umana, come pure la preoccupazione correlativa di non compromettere, agli occhi delle classi lavoratrici, la Chiesa con la borghesia al potere” (Aubert 1977: 117). A questo punto Aubert, storico belga dell’Università di Lovanio, cita il caso esemplare di don Albertario, ma nulla impedisce di poter applicare i contenuti di questa citazione al caso don Guanella, tanto sono puntuali i riferimenti utilizzabili ai fini della disamina che qui stiamo conducendo.


            A dire il vero, però, l’azione di don Luigi ha più un carattere religioso e sociale che non politico, differenziandosi in questo dal suo amico don Albertario. In altri termini i suoi modi ed i suoi obiettivi non confliggono mai apertamente con le istituzioni. Le rimostranze sono tenute a freno, di solito. Non può essere altrimenti per uno che pensa al bene per il bene in sé. Qualche eccesso nella sua espressività riguarda più il male che intende attaccare e non invece la persona.


            I tempi in cui vive don Guanella non sono certo facili sia per le divaricazioni fra chiesa e stato, sia per le conflittualità interne alla chiesa stessa ed ai cattolici italiani. Gli capita dunque di prendere contatto con i soggetti più diversi, intransigenti come lui oppure conciliatoristi, cioè transigenti. E tratta con gli e con gli altri senza particolari difficoltà, si chiamino monsignor Radini Tedeschi o don Albertario.


            A livello locale, a Como o a Milano, a Pianello Lario come a Roma, i suoi tentativi mirano ad un unico traguardo: “pane e Signore”, in pratica benessere materiale e spirituale insieme. Ma non tutto procede come vorrebbe. Perciò deve muoversi tra ostacoli e differenze, fra ostilità e resistenze.


            Al momento della sua ordinazione sacerdotale, la diocesi di Como non ha un vescovo, dopo la morte di monsignor Giuseppe Marzorati nel 1865. Don Guanella viene ordinato da monsignor Bernardino Maria Frascolla (1811-1869), vescovo di Foggia, messo agli arresti nel castello di Como e posto successivamente sotto sorveglianza nel seminario teologico della stessa città, perché accusato di aver tramato contro l’unità d’Italia. Il vescovo pugliese in esilio stima molto don Guanella e lo ordina diacono nel febbraio del 1866 e sacerdote nel maggio dello stesso anno. Monsignor Frascolla è persona assai pia e trasmette a don Luigi un insegnamento esemplare di rettitudine e di rigore sacerdotale. Amnistiato prima della fine del 1866, torna dapprima nella natia Andria in provincia di Bari ed infine a Roma, dove muore appena tre anni dopo.


            Intanto la diocesi di Como è ancora senza il suo vescovo, che giunge solo nel 1872, nella persona di monsignor Pietro Carsana (1814-1887), bergamasco, intransigente, che ottiene l’exequatur del re solo quattro anni dopo, nel 1876. Nel frattempo è costretto a rimanere nel seminario teologico senza mai prendere possesso del suo episcopio. Due anni dopo la regolarizzazione della sua posizione, monsignor Carsana richiama don Guanella in diocesi.


            Sotto l’ordinariato di monsignor Carsana, il Nostro si reca in un primo momento a Traona, in provincia di Sondrio. A seguito di avversioni politiche locali, don Guanella deve trasferirsi, per ordinanza vescovile, ad Olmo di Chiavenna nel 1881. Ma proprio nel 1881, come già ricordato, muore a Pianello Lario don Coppini e don Guanella lo va a sostituire. Nel 1887 monsignor Carsana muore e gli succede, nel 1888, il milanese monsignor Luigi Nicora, che si spegne nel 1890 senza aver ricevuto il regio exequatur.


            Una svolta importante nella vita di don Guanella è la visita che rende, a Castiglione delle Stiviere, nel giugno del 1891 al nuovo vescovo eletto di Como, monsignor Andrea Ferrari (1850-1921). In tale occasione incontra pure il vescovo di Mantova, monsignor Giuseppe Sarto (1835-1914), successivamente patriarca di Venezia ed infine papa Pio X (1903-1914). Questa occasione ha un carattere davvero cruciale perché mette insieme tre figure eminenti dell’epoca. Nasce in questa data la profonda amicizia fra il futuro papa Sarto ed il Nostro. L’ingresso a Como come vescovo di monsignor Andrea Ferrari ha luogo alla fine del 1891. Si è nell’anno della Rerum Novarum. Tre anni dopo, nel 1894, il Ferrari è arcivescovo di Milano.


            Nel 1902 l’arcivescovo di Milano va in pellegrinaggio in Terrasanta. Vi partecipa anche don Guanella. Questa pure è un’occasione propizia per don Luigi non solo per riprendere i rapporti con il cardinal Ferrari ma altresì per incontrare monsignor Radini Tedeschi, che poi nel 1903 gli affiderà la colonia agricola di San Giuseppe a Roma.


            La consonanza fra don Guanella ed il Ferrari si deve, fra l’altro, alla particolarità che l’arcivescovo di Milano è egli pure un uomo la cui carità è a tutta prova. E lo dimostra con l’accoglienza offerta alle opere guanelliane nella diocesi milanese. Un altro aspetto che lo mette in relazione con don Guanella è la sua dedizione all’annuncio della parola di Dio, alla predicazione.


            Un capitolo a parte è quello delle relazioni di don Guanella con i pontefici, anche attraverso le lettere inviate e ricevute. Nel 1876 egli chiede a Pio IX (1792-1846-1878) di benedirlo “più di tutto in quello che il Signore vorrà da me”. La benedizione autografa gli giunge, grazie anche a don Bosco, come già ricordato. Con il successore, Leone XIII (1810-1878-1903), non vi è la possibilità di un approccio a faccia a faccia, ma don Guanella va a Roma per videre Petrum in cinque diverse occasioni, rispettivamente nel 1888, nel 1890, nel 1893, nel 1902 e nel 1903 (nel venticinquesimo di pontificato); di papa Pecci in particolare apprezza l’attenzione alle classi umili, il forte senso di giustizia e la generosità nel fare donazioni di carità; e naturalmente non passa inosservata l’enciclica Rerum Novarum.


            Con Pio X, papa Sarto, il feeling è ampio ed incondizionato: gli parla di persona oltre una quarantina di volte; ha una grande dimestichezza con lui, anzi si potrebbe parlare di una vera e propria confidenza; accoglie Agostino Gemelli, inviatogli proprio dal papa; riceve incoraggiamenti vari ed a più riprese; ottiene una lettera commendatizia papale per recarsi negli Stati Uniti nel 1912; al suo arrivo a Roma nel 1903 don Guanella è aiutato molto dal pontefice in persona per poter avviare le sue opere; in particolare nell’udienza del 13 gennaio 1908 ottiene di poter costruire oltre Porta Trionfale la chiesa dedicata a san Giuseppe (un chiaro omaggio al nome del papa). Nell’archivio particolare di Pio X si trovano ventuno documenti riguardanti don Guanella (Dieguez 2003) ma se ne trovano pure altri, in collocazioni diverse


            La frequentazione con Benedetto XV (1854-1914-1922) è minore, ma non certo da trascurare per l’impatto che ha sul Nostro. Il successore di Pio X dice apertamente che intende incontrare don Guanella e poi gli abbuona il debito che aveva con il suo predecessore, Pio X. Sono tre le udienze pontificie che hanno luogo tra il 1914 ed il 1915. Vi è anche qualche documento, reperito da Alejandro Dieguez, nella corrispondenza relativa alla Segreteria di Stato, in particolare in data 23 febbraio 1915 (SdS, a. 1915, rub. 36, fasc. 9, prot. 4258, foglio 172 verso) ed in data 27 febbraio 1915 (SdS, a. 1915, rub. 36, fasc. 9, prot. 4258, foglio 174 recto verso): si parla dell’accoglienza per gli anziani terremotati della Marsica ed il pontefice elogia e benedice l’iniziativa di don Guanella. Avuta poi notizia della malattia che colpisce don Luigi il papa Benedetto XV vuole esserne informato almeno due volte ogni giorno. Alla morte di don Guanella, il 24 ottobre 1915, esclama: “è morto un santo”.


            Due giorni prima, il 22 ottobre, don Luigi Orione si è recato a Como al capezzale del suo amato confratello, suggellando con questo atto un’amicizia ed una condivisione di intenti che lungi dal creare forme di concorrenza o di gelosia diventano una testimonianza alta di reciproco apprezzamento, legittimato in seguito pure dalla chiesa stessa con la beatificazione di entrambi. Ma in verità quando don Guanella è in vita sono numerose le incomprensioni con la curia romana e con la sua rigida burocrazia.


            Prima di concludere sulla rete di conoscenze e di frequentazioni di don Guanella ci rimane un dubbio, relativo ad un personaggio romano meritevole di particolare menzione e del resto già citato: Paolo Pericoli. Costui è da ritenere senz’altro un protagonista nel panorama romano dell’epoca. Possibile che don Guanella non lo abbia incontrato? Che non abbiano mai discusso dei rapporti fra chiesa e strutture pubbliche? Che non abbiano mai avuto modo di conoscersi di persona? Eppure fra i due sono non pochi i punti di contatto.


            Innanzitutto Paolo Pericoli gode della fiducia dei papi, è un pioniere dell’Azione Cattolica ed in particolare della Gioventù Cattolica (di cui è presidente generale dal 1900 al 1922), entra a far parte dell’Amministrazione della Santa Sede, opera nel Circolo di San Pietro, fonda l’Opera della diffusione dei vangeli nonché l’Opera dell’assistenza religiosa e civile nell’agro romano, presiede il Tribunale della Città del Vaticano ed il Circolo di San Pietro. Già nel 1883 è segretario romano del Circolo Universitario Cattolico. Dopo i fatti di Milano del 1898 evita di contribuire alla crescita della conflittualità e propone una “doverosa sottomissione all’autorità”. Preoccupato delle tristi condizioni dei contadini, istituisce l’Opera dell’Assistenza Religiosa e Civile nell’Agro Romano. Nel 1901 propone la costruzione di un faro in onore di Alessandro Volta, che non è stato un anticlericale. Nel 1902 decide di partecipare da cattolico alla vita politica, viene eletto consigliere comunale di Roma, si dichiara contrario al divorzio ed esprime timori in merito al socialismo. Nel 1905, su nomina decisa da Pio X, entra a far parte del triumvirato per la messa a punto dello statuto dell’Azione Cattolica Italiana, insieme con Toniolo e Medolago Albani. Sposa la causa di un aperturismo moderato verso la Democrazia Cristiana. Come don Guanella, interviene a favore dei terremotati di Sicilia e Calabria nel 1908 e della Marsica nel 1915. Dopo il disastro della prima guerra mondiale fonda l’Unione Nazionale Reduci. Nel 1919 si dice d’accordo con Luigi Sturzo sull’aconfessionalità del Partito Popolare. Tiene inoltre a distinguere i ruoli della Società della Gioventù Cattolica Italiana e del Partito Popolare. Attraverso la Società della Gioventù Cattolica Italiana fonda nel 1906 la FASCI, Federazione delle Attività Sportive Cattoliche Italiane (il cui vero promotore è Fra’ Biagio delle Scuole Cristiane), nel 1910 la FATE, Federazione delle Associazioni Teatro Educativo (FATE) e nel 1916 l’ASCI, Associazione Scoutistica Cattolica Italiana; queste ultime due vengono poi sciolte dal fascismo rispettivamente nel 1926 e nel 1927. Istituisce Segretariati del popolo ed Unioni professionali. Decisa è la sua presa di posizione contro il fascismo, sin dal 1921. In particolare il 19 novembre 1921 come presidente della Gioventù Cattolica propone il “divieto assoluto ai soci di appartenere ai fasci e ai gruppi nazionalisti”. L’anno dopo è nominato presidente perpetuo della Gioventù Cattolica. Durante la seconda guerra mondiale si prodiga nell’assistenza a favore dei civili e dei militari.


Conclusione


            Il nostro excursus piuttosto sommario, sul sistema di riferimento conoscitivo a rete e sul sistema di rete a due livelli (locale/romano) praticati da don Luigi Guanella, non consente in questa sede di motivare e circostanziare in modo più approfondito la natura ed i contenuti di tanti legami del futuro beato con i suoi contemporanei e con i suoi confratelli religiosi di altri istituti (su quest’ultimo punto si veda il contributo di Alejandro Dieguez, che si ringrazia per l’attenta lettura del presente testo e per i preziosi suggerimenti forniti).


            Almeno un aspetto, però, preme sottolineare: quelle che sembrano contraddizioni, aporie, cioè incertezze fra posizioni opposte del Nostro, a ben guardare risulterebbero invece momenti diversi ma convergenti di una medesima linea comportamentale (Dieguez 2003). Detto altrimenti, quello che a noi oggi può apparire in netto contrasto pareva invece ragionevole a don Luigi, di volta in volta, caso per caso, fatti salvi alcuni suoi principi di base (fra cui l’obbedienza al pontefice e l’aura  sacrale di Roma).


            L’inesplicabile diventa allora esplicabile (e comprensibile) e soprattutto fa trasparire la dimensione umana e umanitaria del Fondatore dell’Opera don Guanella, che sulla questione sociale e sulla metodologia pedagogica ha non pochi dubbi e dunque si muove con cautela, cerca lumi, si aggiorna, si informa, si lascia ispirare, assume posizioni anche diversificate ma tutte orientate – almeno nelle intenzioni di base – a fare il bene degli altri, delle persone.


            Coglie dunque nel segno Michela Carrozzino (che ben conosce la vicenda biografica e spirituale di don Guanella) allorquando scrive, a ragion veduta, che “sullo sfondo del suo pensiero sta la “sollecitudine pastorale”, per la salus animarum, inculcatagli in seminario e appresa dalla prassi di tanti sacerdoti da lui conosciuti. Essa si esprime in tensione fra tradizione-iniziativa-adattamento e modernità” (Carrozzino 2003: 10). Pertanto da un lato c’è l’esperienza del pastore e dall’altra una serie di esempi (più o meno illustri) da seguire. L’una e l’altra conducono ad un mix sapiente e prudente che alterna tradizione e modernità, adattamento ed iniziativa, dunque statu quo ma altresì cambiamento.


            E se non bastassero queste valutazioni espresse da chi ha studiato adeguatamente il caso a posteriori, valgano comunque le stesse affermazioni di don Guanella a proposito dei problemi creati dai mutamenti in atto ai suoi tempi. “Ha poi quelli che si lagnano e dicono: che le macchine e le invenzioni arrecano disturbi e disagi. Certo che producono rivoluzione ma nella rivoluzione bisogna addarsi e questa rivoluzione avviene a poco a poco, convien tenerle dietro e regolarsene. Rivoluzione avviene in tutte le cose e appo tutti gli uomini. Non è una rivoluzione continua questa della terra materiale e della terra morale? Si dà rivoluzione sinché uopo è che nella chiesa il campo del combattimento sia aperto sempre. Ma intanto beato l’uomo che soffre e che combatte perché egli riceverà la corona di gloria, come il premio di virtù guadagnarsi maggiormente da chi ha maggior virtù di fede e fondamento più saldo di umiltà cristiana” (Guanella s.d.). Occorre dunque confarsi a ciò che cambia, seguire il corso del mutamento, convenire con la stessa rivoluzione in atto. Lungi dal rassegnarsi al vento del momento, l’azione migliore appare quella di seguirne il corso e di cogliere il destro al momento opportuno. Ritirarsi dall’agone non serve. Del resto la chiesa è sempre stata in campo contro avversari d’ogni genere. Ricordando il motto latino secondo cui la fortuna aiuta gli audaci don Guanella lo utilizza per spronare all’ardimento, non esente da sofferenze ma sorretto dalla fede e fondato sull’umiltà. Il linguaggio usato è un po’ paludato, talora pure ricercato, ma è tipico del tempo. Nondimeno proprio queste propensioni per una cultura del passato ma nel contempo questi slanci verso un futuro reso diverso dalle rivoluzioni del presente rendono don Guanella un personaggio da comprendere in tutte le sue sfaccettature, mettendo in guardia da luoghi comuni che ne hanno fatto un conservatore ad ogni costo, un guerriero del papa, un antistatalista, in definitiva un intransigente assoluto.


            In fondo la sua è una profezia applicabile anche a se stesso: “beato l’uomo che soffre e che combatte”. E, soprattutto, ancora una volta si dimostra, con il caso don Guanella, che gli opposti (o meglio quegli aspetti che vengono ritenuti tali) più che coincidere convivono. Appunto in questo è il limite ma anche la potenzialità del Nostro.


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