LA FAMIGLIA FRA TRADIZIONE E CAMBIAMENTO

Roberto Cipriani


Premessa


         Il Nono Rapporto 2005 del Centro Internazionale Studi Famiglia dal titolo “Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie”[1] affronta fra l’altro i problemi legati alla necessità di conciliare lavoro e famiglia, alle politiche dei tempi lavorativi e dei tempi familiari, alla legislazione del lavoro in rapporto al sostegno delle famiglie. Sullo sfondo di tali questioni resta punto essenziale di riferimento la figura del bambino, che merita tutta l’attenzione possibile della società ed in particolare della famiglia di appartenenza. Ma proprio la costruzione della famiglia e di un certo tipo di famiglia è alla base della socializzazione primaria e dell’attività educativa. Oggi l’operazione del costruire la famiglia trova impedimenti di varia natura. Innanzitutto sono i giovani a dover rinunciare a mettere in piedi una famiglia, angustiati come sono dai problemi dell’occupazione, della sicurezza del lavoro, della casa e della sussistenza. Ed anche quando la famiglia viene costituita è in primo luogo la donna a pagare lo scotto della rinuncia alla maternità, perché non agevole a fronte di tutta una serie di interrogativi esistenziali: il rischio di perdita del lavoro, l’impossibilità di stare dietro agli impegni, alle necessità, ai tempi ed alle emergenze di lavoro, l’inconciliabilità dei ritmi di ufficio o fabbrica con quelli domestici, familiari e genitoriali. Alla fine il tempo a disposizione delle relazioni madre-figli, padre-figli, si riduce oltre ogni limite di accettabilità, tanto da costringere a decisioni drastiche quali l’abbandono della risorsa preziosa dell’occupazione.


         Il Nono Rapporto 2005 del CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia), di cui Pierpaolo Donati è co-autore principale con altri studiosi specialisti del settore, presenta due scenari: quello lavoristico e quello sussidiario. Il primo vede la famiglia tentare delle soluzioni di convivenza con il mercato del lavoro, attraverso facilitazioni adeguate e percorsi flessibili di cui lo Stato può essere il garante nei confronti del mercato. Il secondo considera la famiglia come un capitale sociale da valorizzare e da sostenere con misure appropriate, in grado di superare le contraddizioni ed i contrasti fra mondo familiare e mondo lavorativo, grazie anche al supporto dell’intera comunità. Insomma in un caso è lo Stato a farsi carico del problema ponendosi come mediatore rispetto al mercato del lavoro, nell’altro è l’insieme della comunità a provvedere alla risoluzione dei problemi di conflitto tra famiglia e lavoro.


Dalla socializzazione primaria alla socializzazione secondaria


         La famiglia appare come un’istituzione continuamente in crisi, per diversi motivi: di lavoro, di natura economica, di conflittualità interpersonale, di affettività, di coniugalità, o di altra origine talora incerta ed indecifrabile. Di tutto ciò risentono le generazioni più giovani: da quella infantile a quella adolescenziale, cioè nel periodo più delicato dell’esistenza allorquando comincia ad avere luogo l’inserimento nella società adulta. Proprio in questa lunga fase si è alla ricerca di una qualche sicurezza che abbia un carattere sia fisico che psicologico, quasi anticipando il momento successivo del reperimento di un posto di lavoro, a sua volta fonte di preoccupazioni a più livelli.


         L’ingresso in società con il passaggio all’adultità è pur sempre un evento tendenzialmente traumatico, da assorbire lentamente, con gradualità, dopo tutta una serie di esperienze negative e di desideri insoddisfatti che mettono alla prova le creature più giovani. Di fronte a situazioni irresolubili l’individuo non ancora del tutto socializzato può avere reazioni tra le più diverse: dal mettersi sotto accusa per la propria incapacità fino al rivolgere pesanti rimproveri alla famiglia di appartenenza, dal dubitare della società nel suo complesso sino al rinunciare ad ogni forma fiduciaria nei confronti di singoli individui. Sovente l’esito finale è quello di un adattamento forzato, di un ripiegamento su se stessi, di un’indifferenza nei riguardi dei problemi societari, di un auto-annientamento in forme solipsistiche auto-emarginanti.


         La persona ragazzo/ragazza si trova in balía tra la sua famiglia di origine e la comunità di appartenenza. Una sorta di bombardamento ha luogo nei suoi confronti, con la proposta sovente contrapposta di valori, di principi, di orientamenti, di modelli comportamentali. Le sue esplorazioni sono perciò lente, talora incaute, talora coraggiose, improvvise. Il suo processo di integrazione avanza per gradi, attraverso un “addomesticamento” mirato all’acquisizione dei sistemi di vita dominanti e delle prassi più diffuse.


         La socializzazione primaria avviene soprattutto (se non proprio esclusivamente) in famiglia, dunque da genitori a figli e figlie. I rapporti che la caratterizzano hanno un valore in sé, sono dati per scontati, appaiono di natura essenzialmente affettiva e personale ed approdano a relazioni quasi sempre solidaristiche e comprensive, cioè generose ed accoglienti.


         La socializzazione secondaria si sviluppa quasi sempre al di fuori della famiglia, per raggiungere alcuni scopi predeterminati, fissati consapevolmente dai soggetti interessati. Il tutto avviene mediante rapporti interpersonali indefiniti, impersonali e strumentali e perciò abbastanza concorrenziali e selettivi. Il che rappresenta una chiara contraddizione con la precedente socializzazione primaria.


         Quando chi non è ancora adulto affronta la problematica dell’interazione sociale tende ad entrare in angoscia, perché non conosce e non è in grado di prevedere ciò che gli sta per succedere. Grazie all’avanzamento della socializzazione secondaria si riesce tuttavia ad affrontare più facilmente i problemi che emergono di volta in volta.


         Nell’ambito della socializzazione secondaria istituzioni formali come la famiglia ed informali come la moda del momento sfociano in un unico andamento che conduce ad una sempre maggiore integrazione dell’individuo nella società.


         La natura delle istituzioni di socializzazione primaria (che, secondo alcuni, comprenderebbero – oltre la famiglia – anche la scuola e la chiesa) è tale che esse non possono essere considerate strumentali, utilitaristiche: gli stretti legami con le specifiche istituzioni lo impedirebbero. Invece nelle modalità di socializzazione secondaria appare più evidente la natura strumentale delle forme e dei rapporti di fatto.


Le dinamiche familiari


         La prima e fondamentale forma associativa resta la famiglia. Pertanto è su quest’ultima che si concentrano le potenzialità socializzatrici ed educative. Ovviamente i contenuti e l’incidenza dell’azione di avvio all’inserimento nel sociale variano sensibilmente da famiglia a famiglia, da classe sociale a classe sociale: un conto è l’agire di una famiglia operaia, un altro è quello di un nucleo familiare appartenente alla classe media oppure alla borghesia medio-alta. Gli esiti delle diverse azioni risultano evidenti dagli atteggiamenti e dai comportamenti che assumono poi in concreto ragazze e ragazzi.


         In questo quadro d’insieme la presenza del matrimonio monogamico sembra favorire dinamiche più stabili ed anche più prevedibili, in pratica senza particolari sussulti (salvo eccezioni). La saldezza e la costanza dei rapporti intrafamiliari assicura sviluppi più regolari ed orientabili da parte degli adulti. La permanenza poi in un medesimo ambiente non fa altro che facilitare la continuità e l’efficacia dell’azione socializzatrice.


         Ben diversa sarebbe la situazione di famiglie a tempo determinato, o di matrimoni ad experimentum cioè a titolo di prova, con legami precari, provvisori, non destinati – per definizione – a saldarsi in via definitiva.


         Sia le culture esogamiche, nelle quali la propensione è di cercare moglie (o marito) al di fuori della propria comunità, sia le culture endogamiche, in cui la ricerca del coniuge si muove entro il cerchio stesso del grande gruppo sociale di appartenenza, producono effetti similari per quanto concerne l’educazione dei figli ed il loro adattamento alla società adulta.


         Anche la familia romana dell’epoca classica aveva caratteri specifici, a mezza strada fra una dimensione interna ed una esterna, quest’ultima ancora più accentuata che non nella famiglia greca della classicità. In effetti “a partire dalla civiltà greca, e poi in quella romana, la famiglia viene intesa come un aggregato naturale che coincide con la ‘casa’ (oikìa) quale doppia unione, di un uomo e una donna (con i loro figli) e tra padrone e schiavo (‘domestici’, da domus = casa, o ‘famigli’, da famuli = servi). La famiglia viene così caratterizzata come ‘la comunità costituita secondo natura per la vita di ogni giorno’ (Aristotele), come la sfera privata per eccellenza. Essa è la cellula del villaggio (o gens o tribù), il quale è retto dal più anziano dei capifamiglia; a loro volta, più villaggi, unendosi insieme, formano la città (polis). Le differenze fra la Grecia classica e Roma non sono di poco conto: nella prima la famiglia è sfera ‘privata’ (di minor valore) più di quanto non lo sia nella seconda; la cultura romana presenta una maggiore pubblicizzazione della famiglia (della famiglia Cicerone dice che è seminarium rei publicae). Ma in entrambi i casi l’autorità è patriarcale e la discendenza patrilineare (a differenza di altre popolazioni, per esempio italiche, che erano ad autorità patriarcale e discendenza patrilineare, e di cui tuttora persiste il ricordo nella sub-cultura della Grande Madre meridionale)”[2].


         Già nel Terzo Rapporto del CISF sulla famiglia[3] era emersa la centralità della famiglia sia in relazione alla natura degli affetti interpersonali sia in rapporto con la dimensione societaria e comunitaria. Il fatto è che lo Stato e la società non sostengono la famiglia, non offrono servizi socio-sanitari, non consentono agevolazioni fiscali adeguate. Insomma è come se la famiglia non avesse funzioni sociali significative, non svolgesse compiti di mediazione sociale, non fosse degna di alcuna cittadinanza sociale, non potesse godere di diritti specifici (pure già presenti nel diritto romano di molti secoli fa).


         La realtà attuale ha visto sorgere nuove e promettenti iniziative che hanno a che vedere con i tentativi di superare i contrasti fra Stato e mercato mediante l’intervento del cosiddetto terzo settore (in cui la presenza cattolica non è secondaria). Le stesse famiglie si sono spesso associate territorialmente per affrontare problemi comuni e suggerire soluzioni convincenti ed efficaci. A fronte di uno Stato incapace di gestire tutto e talora troppo sensibile ed attento a sovvenzionare frange minoritarie e clientelistiche, il movimento del volontariato ha cominciato a dire parole nuove, a superare il negativismo ad ogni costo e l’immobilismo costante.


         Non è un caso che proprio il volontariato stia supportando soprattutto le famiglie, nella convinzione che un ambiente familiare preparato ed efficiente sia in grado di garantire l’accesso dei fanciulli e delle fanciulle all’esterno del nido domestico, rassicurando i più impacciati per ragioni di età, fornendo riferimenti di valore, di stile di vita, di modalità comportamentale. Si evita così il rattrappirsi delle speranze e si entra maggiormente in sintonia con il presente.


         Le famiglie riescono a dotare i più piccoli di speranze per la vita, di progetti per l’avvenire, di obiettivi da raggiungere. L’aiuto genitoriale è fondamentale in questa fase. Qui la famiglia costruisce le basi delle nuove famiglie, trasmettendo i contenuti educativi essenziali. In fondo ogni familiare diventa un esperto, un competente, che pur nell’asimmetria dei rapporti (da adulto ad infante o adolescente) diviene indispensabile per promuovere atteggiamenti e comportamenti che non sono affatto negoziabili: comprensione, generosità, altruismo.


La costruzione della famiglia


         Oggi più che mai la famiglia rischia di essere decostruita dalle difficoltà che insorgono nel mantenere insieme esigenze di lavoro e necessità domestiche. La sinergia tra famiglia e lavoro appare difficile. In effetti non c’è una vera e propria politica sociale per la qualità dei tempi lavorativi e di quelli familiari, in quanto è arduo riuscire a mettere d’accordo gli uni con gli altri (e neppure l’organizzazione stessa della vita quotidiana lo consente).


         D’altro canto non è immaginabile che si possa fare a meno del lavoro, giacché in questo caso l’esito avrebbe conseguenze del tutto contrarie ad ogni ipotesi costruttiva della famiglia: chi è senza lavoro non si propone a cuor leggero di avviarsi lungo l’itinerario familiare ed ancor meno pensa a mettere al mondo figli. Così la famiglia non ha più spazio, il tasso demografico decresce, la società non si rinnova.


         La situazione più difficile è però quella della donna sola, magari non sposata o separata o divorziata o rimasta vedova, che è indotta a rinunciare alla maternità per ragioni contingenti e non certo solo a causa del lavoro. Vengono dunque meno le condizioni minimali per la costruzione di nuove famiglie.


         Nei casi in cui si riesce comunque a creare una famiglia è da considerare che ai fini di una crescita del senso di appartenenza ad essa diventano fondamentali i riti di passaggio, nella misura in cui vengano celebrati e solennizzati anche con cerimonie, anche di natura religiosa, che ne sottolineino il carattere fondante, altamente emblematico, ricco di significati vitali. In fondo è in queste occasioni che gli adulti “scoprono” l’infanzia, si rendono maggiormente conto del ruolo che attende le future generazioni, si chinano a guardare verso il mondo dei minori, evitando – per quanto possibile – ambiguità e fraintendimenti. In proposito è illuminante ed emblematico il caso esemplare proposto da Jean-Paul Sartre, che nel suo L’idiota della famiglia ci presenta una situazione (non infrequente) di un ragazzo del tutto incompreso dai suoi familiari ma poi capace di muoversi ai livelli più alti, per esempio in campo letterario, come appunto Gustave Flaubert.


         La famiglia peraltro se dipende dalla negoziazione fra mercato e lavoro rischia di rimanere schiacciata, debole com’è a fronte di impellenze di maggior peso. Solo un’azione di sussidiarietà comunitaria e societaria permette di valorizzare rapporti e ritmi lavorativi e familiari sino al punto da ottenere soluzioni soddisfacenti, grazie ad attori sociali impegnati e fattivi, magari legati in rete fra loro e capaci di incrementare al massimo il capitale sociale rappresentato dall’istituzione familiare.


La famiglia oggi


         Oggi la famiglia coniugale pare perdere importanza a favore di altre situazioni che sono unioni di fatto, oppure nuclei monopersonali (con un solo individuo), od ancora monogenitoriali (solo il padre o solo la madre, con figli), od invece ricostituiti dopo precedenti esperienze familiari di diverso tipo (di fatto, coniugale, monopersonale, monogenitoriale), in cui risulta prevalere la dimensione affettiva rispetto a quella della consanguineità.


         In altri contesti, più complessa ed articolata è la fenomenologia che riguarda un territorio molto ampio come quello cinese, dove si riscontrano famiglie estese e molteplici (ma invero tali caratteristiche stanno venendo sempre meno, anche come conseguenza della riduzione del tasso di fecondità, per imposizione governativa).


         Ben diversa è invece la condizione prevalente nel continente africano, dove non si registrano differenze peculiari rispetto al passato, giacché la famiglia coniugale è la modalità più presente, insieme con un alto tasso di fecondità che raggiunge la media di 6,2 figli per ogni donna. Il che è agevolato pure dalla poliginia (o poligamia), che vede un uomo avere più donne.


         Indubbiamente, con l’introduzione della legge che consente, in vari Paesi, il divorzio, sono aumentate le famiglie ricostituite, nelle quali cioè uno dei due coniugi contrae un secondo matrimonio (si tratta di circa il 50% dei casi negli Stati Uniti; in Italia non si è lontani da tali livelli ma occorrerà verificare in futuro se ed in che misura un simile andamento prenderà piede anche da noi).


         Sovente il ricorso alla ricostituzione di una famiglia non deriva dalla morte di un coniuge bensì da altre ragioni e decisioni. I dati empirici mettono in evidenza che in linea di massima il secondo matrimonio tende ad essere più fragile del precedente, giacché presenta incertezza, ambiguità, indefinitezza. Incidono su tali difficoltà motivi vari: non si condivide la medesima abitazione, i cognomi dei soggetti minori che compongono la famiglia non sono i medesimi, non vi è consanguineità fra i membri del nucleo, i modelli educativi sono diversi, la socializzazione ricevuta è differenziata sino ad apparire contrastante e conflittuale. Inoltre i processi di legittimazione e di istituzionalizzazione familiare sono controversi e disomogenei, tanto da rischiare di divenire problematici al punto da sfociare in incomprensioni, mancanza di dialogo e rotture irreparabili. Per non dire degli scontri intergenerazionali, interculturali ed interconfessionali. Soprattutto tra i figli nati da matrimoni diversi scaturiscono divergenze di opinioni e comportamenti che producono esiti deleteri per il mantenimento dell’equilibrio intrafamiliare, già messo a dura prova per la sua stessa origine e composizione.


         In Italia, negli ultimi decenni la famiglia ha goduto di una maggiore stabilità nel periodo dal 1946 al 1965 ma in seguito l’andamento è stato altalenante, con perdite e recuperi in successione irregolare. Non si sono tuttavia avuti eventi eclatanti come quelli tipici degli Stati Uniti d’America che già nel 1955 vedevano la durata media della famiglia attestarsi intorno ai 31 anni e successivamente, sin dagli anni Settanta, presentavano un numero di matrimoni poi finiti a seguito di divorzio superiore a quelli terminati per ragioni di vedovanza di uno dei due coniugi.


         L’instabilità matrimoniale è pure da attribuirsi al venire meno dei vincoli di natura economica e patrimoniale, all’avanzare del processo di secolarizzazione delle società occidentali, al cospicuo ingresso delle donne nel mondo del lavoro (in precedenza tendenzialmente escluso dalle loro prospettive esistenziali ed occupazionali).


         Diversa è la situazione del mondo arabo, dove la formula del ripudio era ed è agevole in quanto è sufficiente proclamare per tre volte dinanzi a due testimoni la frase “io divorzio da te” per essere legittimati a contrarre nuovi legami. Dunque anche in tale contesto il ricorso al divorzio permane una prerogativa tipicamente maschile.


         In Europa, peraltro, il tasso dei divorzi è in aumento ed ha luogo in un quarto dei casi entro il quinto anno dalla celebrazione delle nozze.


         Non è poi trascurabile il dato che concerne l’immigrazione dai Paesi extraeuropei verso le nazioni europee: la catena familiare e parentale è certamente il fattore di maggior peso perché è in tal modo che hanno luogo scambi, forme di sostegno, azioni di protezione, iniziative di risposta ai bisogni primari della popolazione immigrata. Ogni scelta è informata soprattutto alle esigenze di carattere familiare: alloggio, alimentazione, divisione delle spese e delle risorse.


         Di solito la famiglia nucleare (padre, madre e figli) mantiene contatti e relazioni con le due famiglie di origine, cioè dei nonni (ovvero dei genitori rispettivamente del padre e della madre), in modo da utilizzare al meglio la rete delle conoscenze, il sistema delle segnalazioni (e raccomandazioni), l’insieme degli aiuti psico-affettivi e dei sostegni finanziari, l’offerta di regali e servizi (talora parte non trascurabile di un budget familiare: si pensi all’assistenza prestata gratuitamente nei confronti dei più piccoli o alla serie di piccoli e grandi doni che talora sovvengono ad una necessità impellente). Se poi la residenza delle famiglie di origine non dista molto da quella del nucleo familiare di procreazione, insomma se nonni, figlie e nipoti si vedono quasi quotidianamente, allora il quadro di interscambi è talmente cospicuo che quasi non c’è soluzione di continuità tra una famiglia e l’altra e tra una generazione e le altre.


         In verità, delle relazioni di tipo parentale (con cugini e procugini, zii e prozii, nipoti e pronipoti e così via) sono soprattutto le donne ad interessarsi, quasi per tacita divisione dei compiti. Infatti ad esse capita solitamente di provvedere ad organizzare incontri e cene, gite e feste, celebrazioni e ricorrenze, scambi di donativi e cortesie reciproche. Il tutto, del resto, può anche inserirsi in una logica a larga portata, che si connette a questioni economiche, professionali, lavorative e promozionali. Però vi sono differenze sostanziali a livello di classi sociali. Se nelle classi medio-alte i genitori sono più propensi a fornire un aiuto diretto ai figli (per esempio assicurando loro l’ereditarietà di una posizione privilegiata o la successione nella proprietà di un’azienda o di beni immobili), nel caso invece delle altre classi sociali si interviene a favore dei minori e dei più giovani garantendo più che altro servizi utili, a vario titolo.


         Infine “perché lo Stato non aiuta le famiglie nelle quali le madri, all’arrivo del figlio, lasciano il lavoro per far crescere il figlio? Quando il lavoro in famiglia sarà considerato anche un lavoro come un altro?”. Questi due interrogativi mi sono giunti per iscritto su un foglietto, al termine di un mio intervento sul tema “Costruire la famiglia”, in occasione di un recente convegno nazionale. Gli interrogativi posti sono largamente condivisibili. Troveranno soddisfazione solo quando la cultura legata alla famiglia ridurrà la componente economicistica ad una semplice variabile dipendente e non la considererà più del tutto indipendente, come lo è ora, visto che gran parte della nostra esistenza è costretta a legarsi ad esigenze di natura economica: occupazione, salario, tempi lavorativi. Ed intanto i tempi familiari continuano a non essere soppesati come meriterebbero.


Famiglia e figli


         Il nesso tra famiglia e figli è talmente intrinseco, scontato, che quasi non serve aggiungere alcuna considerazione in proposito. Basti considerare che la continuità demografica non avrebbe più alcun seguito senza la sua base costitutiva, cioè un legame significativo, stabile (almeno tendenzialmente), capace di assicurare non solo la trasmissione della vita ma pure l’azione socializzatrice che permette di preparare le nuove generazioni perché siano protagoniste del loro futuro come soggetti sociali consapevoli e adeguati alle sfide della vita.


         Ecco perché la presenza e la funzione del ruolo genitoriale-educativo diventano elementi preganti della famiglia. E dunque emerge la centralità della condizione che si può definire infantile e filiale al medesimo tempo. Non a caso proprio su questo punto ha centrato la sua attenzione, in un recente, documentato saggio, la sociologa della famiglia Gabriella Mangiarotti Frugiuele[4], che molto insiste sulla dimensione del ragazzo e della ragazza piuttosto come figlio e figlia, in una prospettiva che è chiaramente espressa: “nella relazione educativa attraverso l’esperire empatico si struttura il legame sociale, il quale mediante i processi di socializzazione, culturalmente connotati, si sviluppa nelle forme istituzionali e nei modelli informali della vita quotidiana, costituendo la condizione di sopravvivenza della stessa società”[5]


         Ancora più esplicito, se possibile, è quanto segue: “un processo di svalutazione ideologico-istituzionale della realtà familiare iniziata nel secondo dopoguerra, ha avuto il suo apice nella seconda metà del Novecento e si può considerare tuttora in corso, nonostante l’emergere evidente di dati scientifici e sociali ce ne rivelano la centralità e la vitalità. Esso ha contribuito alla formazione di atteggiamenti e comportamenti erosivi di quella dimensione dell’appartenenza indispensabile nella strutturazione dell’identità personale e della personalità. La famiglia costituisce infatti l’ambito primario di formazione della persona e della sua identità, dove si elabora quella sicurezza di base così cruciale per una corretta crescita e senza la quale anche l’esito socializzativo diviene incerto e forse incompleto”[6].


         Come immaginare infatti una società del tutto senza famiglia, una famiglia senza bambini, i bambini senza famiglia? Ognuna di queste tre situazioni appare problematica. Certamente vi possono essere condizioni legate a catastrofi naturali, ad impedimenti di natura genetica ostativi alla procreazione, ad eventi tragici, che diano luogo alla distruzione di interi nuclei familiari, alla mancanza di figli in una famiglia, all’assenza di genitori per una figliolanza, ma si tratta pur sempre di fatti fuori dell’ordinario, non della regola, giacché se tale fosse non si potrebbe far altro che pensare ad una fine della storia, non più alla Fukuyama, bensì in senso reale come fine dell’umanità stessa. Fuor di retorica ed al di là di ogni catastrofismo indebito è un dato inoppugnabile che l’esperienza familiare è largamente condivisa a livello universale, pur nel differenziarsi delle forme, che vedono prevalere nell’82,59% un modello poliginico (cioè uomo che si unisce con più donne), seguito – nel 15,89% delle società esaminate – dal modello monogamico (cioè uomo o donna che si unisce, rispettivamente, con una sola donna o con un solo uomo), mentre è quasi trascurabile, attestata allo 0,46%, la presenza del sistema poliandrico (cioè una donna che si unisce con più uomini). In quasi un migliaio di società censite nel mondo a livello etnografico la formula matrimoniale dà luogo a gruppi sociali ristretti composti da almeno due persone che hanno una medesima residenza, condividono le risorse economiche e provvedono alla procreazione e dunque alla riproduzione della specie umana. Forse il carattere più soggetto ad eccezioni è quello del luogo condiviso come abitazione, ma gli altri due elementi della compartecipazione e della generazione appaiono piuttosto indefettibili.


         In chiave di residenza, in particolare, domina la soluzione patrilocale (con residenza postmatrimoniale presso la casa paterna dello sposo) nel 68,53% delle società prese in esame nel mondo, mentre la matrilocale (con residenza dopo il matrimonio presso la casa di famiglia della sposa) riguarda il 13,05 dei casi. E tuttavia non vanno trascurate altre soluzioni che assommano al 18,41%, con residenza bilocale (cioè a periodi alternati tra patrilocalità e matrilocalità), neolocale (cioè con una nuova residenza che prescinde da patrilocalità e matrilocalità), avunculocale (cioè presso la casa dello zio materno dello sposo), duolocale (cioè allorquando sia lo sposo che la sposa continuano a vivere presso la rispettiva famiglia di origine).


         Da tutta questa varietà di tipi di matrimonio e di opzioni relative alla residenza familiare non possono non discendere conseguenze rilevanti per l’azione esercitata dai genitori nei riguardi dei loro figli: si assiste così ad una pluralità di interventi già a livello strettamente genitoriale in relazione al fatto che un padre introduca nel quadro familiare presenze femminili adulte plurime. La stessa residenza familiare presso i nonni paterni o quelli materni non può non incidere sulla socializzazione delle nuove generazioni.


Le nuove dinamiche: dal fidanzamento alla convivenza


         Una recente indagine dell’Istituto Centrale di Statistica su La vita di coppia, pubblicata nel 2006 e realizzata su un campione di 19.000 famiglie e 49.000 individui, mette in evidenza alcuni fatti nuovi rispetto al passato.


         Innanzitutto è da registrare una tendenza verso una maggiore durata del fidanzamento. Se prima del 1964 il periodo medio era di 3 anni e 4 mesi invece dopo il 1993 esso è giunto sino al quinquennio.


E sono cambiati anche i luoghi deputati per la conoscenza reciproca che porta poi al fidanzamento. In precedenza tutto si svolgeva piuttosto nell’ambito del vicinato o nelle case di amici e parenti o nelle feste paesane, dopo però si è passati a privilegiare le feste amicali, seguite – percentualmente – dalle occasioni di incontro in casa di amici e parenti, e poi, nell’ordine, da quelle in ambiente lavorativo, ricreativo o di studio. C’è dunque una prevalenza di contesti extrafamiliari, meno soggetti dunque al controllo della famiglia di provenienza.


         Anche dopo il matrimonio si cerca di evitare il riferimento al proprio quadro familiare di origine, nei cui riguardi si assume una certa distanza. La ricerca di autonomia si allarga a quasi tutti gli aspetti concernenti la nuova famiglia, in primo luogo quelli relativi alla procreazione ed all’educazione.


La propensione delle donne ad avere figli è in crescita, giacché in media ne desidererebbero un po’ più di due. Su questo c’è un buon accordo fra i coniugi, almeno in tre quarti dei casi. Nel Meridione e nelle Isole la scelta di fecondità è però maggiore: rispettivamente 2,3 e 2,2 figli in media per ogni donna, mentre nel Centro e nel Nord la percentuale è sul 2%. 


         Qualche disaccordo di coppia sembra sorgere sul modo di spendere il denaro a disposizione, mentre in anni pregressi emergeva sulle modalità educative da intrattenere con i figli. Invero le donne hanno acquisito una loro maggiore autonomia sul piano finanziario: il 18,8% di esse ha almeno un conto corrente personale ed il 48,8% ne ha uno co-intestato. Ma se si considerano quante vivono in coppia e non sono coniugate ufficialmente il possesso di un proprio conto postale o bancario arriva al 50,3%. Il che si riscontra principalmente nel Nord (87,4% in media), un po’ meno nel Centro (79,9%) e in misura più ridotta nel Sud (56,4%) e nelle Isole (56,7%).


Le donne, inoltre, in particolare divergono dai loro coniugi sul livello del dialogo all’interno della coppia, sull’utilizzo del tempo libero e sulle relazioni con i parenti. Non è da trascurare il dissidio che sorge sul lavoro domestico, specie quando la donna ha una sua occupazione, che non sia solo quella casalinga.


Anche sull’avere o non avere figli si discute, ma in genere è la donna che obietta, in relazione al peso del lavoro di ciascun coniuge. In proposito si hanno differenze tra le diverse aree geografiche del paese, ma non sono poi tanto marcate e dipendono, in qualche misura, da situazioni locali (come le discoteche quali luoghi di incontro, specie in Emilia-Romagna) e da modalità culturali abbastanza radicate (come il risiedere delle nuove coppie presso i genitori della sposa, soprattutto in Campania).


         Peraltro stanno crescendo le opzioni a favore della convivenza prematrimoniale: prima del 1974 si trattava di una minoranza, cioè appena l’1,4% dei matrimoni celebrati; nel 2003 si è raggiunta la quota del 25,1%, ma con valori più alti nel settentrione e ben più contenuti nell’Italia insulare. Sono in primo luogo coloro che già sono stati sposati a scegliere la formula della convivenza, la quale in genere ha una durata di circa quattro anni (questo è il dato rilevato fra quanti hanno contratto matrimonio nel decennio fra il 1993 ed il 2003). Questa tendenza appare in ulteriore incremento.


         In realtà le convivenze possono anche protrarsi per il semplice motivo che un coniuge è in attesa di divorzio. In parti tempo si può constatare che anche fra quanti hanno scelto la soluzione della coabitazione le intenzioni di matrimonio sono cospicue, sebbene in calo: si tratta del 49,7% (ma prima del 1974 erano al 70,4%). Anche qui sono da evidenziare alcune diversità di orientamento a livello territoriale: nel sud la prospettiva di matrimonio da parte dei conviventi è sostenuta dal 70,6% degli intervistati. Dunque la convivenza ha chiaramente un carattere di sperimentazione. Ma d’altra parte proprio la prova condotta convince a contrarre matrimonio – e nella misura del 60,5% – pure quelli che non ne avevano alcuna intenzione, almeno agli inizi.


         A livello comportamentale le coppie coniugate e con prole restano più spesso in casa e giocano con i figli (40,2% dei casi), ma non disdegnano di uscire con loro (nella misura del 35,7%). D’altro canto i coniugi che non hanno formalizzato la loro unione preferiscono ampiamente stare insieme fuori casa per pranzare o cenare (il 70,9%) o per passare il fine settimana (il 38,9%).


         Un’ultima e significativa constatazione attiene la pratica religiosa: è rilevabile particolarmente presso le donne più anziane, specie se coniugate (il 54,6%). Invece le coppie non coniugate partecipano ai riti religiosi nella misura del 27,4%.   


La situazione di fatto: i dati di base sui matrimoni


         Non si può affrontare un discorso scientificamente corretto in merito alle trasformazioni in atto nella famiglia contemporanea senza fare riferimento alle informazioni essenziali sulle dinamiche in atto. Sono in aumento i matrimoni? Sono in aumento i divorzi? Comparativamente qual è la situazione italiana al confronto con quella di altri paesi europei?


         Conviene partire dalle statistiche più recenti (per quanto possibile). Oltre i dati provenienti dal censimento del 2001, ulteriori informazioni provengono dalle stime per il 2003 sui matrimoni e dai risultati accertati per il 2002 sulle separazioni e sui divorzi. Le differenze regionali sono talora particolarmente marcate e vanno dunque considerate con particolare attenzione.


         La situazione non appare mutata di molto rispetto ad un recente passato. Le linee di tendenza sono evidenti ma il loro andamento non appare particolarmente accentuato. Separazioni e divorzi in Italia hanno un certo peso ma rappresentano più l’eccezione che la norma, anche se la loro portata non è del tutto trascurabile. In effetti può colpire subito il dato di 79642 separazioni cui si aggiungono 41835 divorzi per un totale di 121477 casi che evidenziano una crisi del matrimonio a fronte di 258580 nuove nozze celebrate in un anno. Ma in realtà va tenuto presente che non si è di fronte ad un rapporto di 1 a 2 fra crisi accertate e nuovi matrimoni, giacché più correttamente occorre stabilire il rapporto non con il dato dei matrimoni contratti nell’anno ma con il totale di tutti i matrimoni in essere e che si sono cumulati in tutti gli anni precedenti. Pertanto se in Italia vi erano nel 2003 ben 57888000 soggetti registrati anagraficamente (ma erano ancor meno nel 1991, cioè 56778031) e nel censimento del 1991 risultavano 19766000 famiglie censite (probabilmente aumentate di poco nel 2003) il dato finale del rapporto fra matrimoni ancora in vigore e numero complessivo annuale di separazioni e divorzi è ben al di sotto dell’1%.


Matrimoni (stima per il 2003), separazioni e divorzi (dati accertati per il 2002)



Regioni


Matrimoni


% matrimoni civili


Separazioni


Divorzi


Piemonte


16666


36,6


  8214


5065


Valle d’Aosta


    423


43,5


    254


  171


Lombardia


36520


35,0


14768


8085


Trentino/Alto Adige


  3832


47,5


  1285


  760


Veneto


19576


35,0


  5906


3548


Friuli/Venezia Giulia


  4693


52,7


  2054


1358


Liguria


  6024


43,9


  2750


1656


Emilia Romagna


14358


40,1


  6415


3800


Toscana


14580


40,8


  5855


3006


Umbria


  3731


26,9


  1131


  514


Marche


  5896


26,2


  1805


  957


Lazio


27818


28,6


10636


4706


Abruzzo


  4867


21,5


  1376


  714


Molise


  1217


14,3


    256


  122


Campania


32471


19,0


  5215


2181


Puglia


20550


13,4


  3510


1388


Basilicata


  2692


11,6


    189


  149


Calabria


  9422


12,8


  1286


  568


Sicilia


26150


18,6


  4819


2334


Sardegna


  7094


31,0


  1918


  753


Totale


     258580


28,5


         79642


        41835


         Vanno poi considerati i quozienti di nuzialità, separazionalità e divorzialità, in modo da vedere quali siano le tendenze in atto nell’arco di un decennio dal 1993 al 2003.


Matrimoni, separazioni e divorzi nel 1993[7]



Regioni


Matrimoni


% matrimoni civili


Separazioni


Divorzi


Piemonte


21109


21,0


  5014


2675


Valle d’Aosta


    567


28,7


    214


    96


Lombardia


42121


19,8


  9025


5119


Trentino/Alto Adige


  4680


30,9


   870


  540


Veneto


21981


17,2


  2983


1633


Friuli/Venezia Giulia


  5311


29,4


  1574


  651


Liguria


  7896


28,3


  1993


1359


Emilia Romagna


17161


24,6


  4579


2569


Toscana


16094


24,4


  3067


1754


Umbria


  4094


16,6


    419


  349


Marche


  6755


13,7


    944


  452


Lazio


25341


24,1


  7480


1642


Abruzzo


  5998


10,8


    379


  228


Molise


  1630


  7,9


      87


    37


Campania


35940


16,3


  3362


1438


Puglia


24840


  8,3


  2063


1112


Basilicata


  3337


  6,1


    130


    68


Calabria


11155


  7,7


    572


  369


Sicilia


28370


12,4


  2402


1337


Sardegna


  8252


22,1


  1041


  453


Totale


     292632


18,1


         48198


        23863


         Come è facile desumere attraverso la comparazione fra il 1993 ed il 2003, nella tabella successiva, quasi ovunque appaiono in crescita i matrimoni celebrati civilmente, le separazioni ed i divorzi ma, eccezion fatta per Piemonte, Valle d’Aosta, Umbria, Toscana, Marche, Molise, Basilicata e Sicilia, aumentano anche gli stessi matrimoni (probabilmente a seguito del leggero incremento demografico registratosi nel corso del decennio). Invece il calo dei matrimoni in otto regioni su venti trova forse una spiegazione demografica legata al decremento della popolazione, almeno in Piemonte, Valle d’Aosta, Molise e Basilicata ma non in altri quattro ambiti regionali, cioè Umbria, Toscana, Marche e Sicilia, in cui presumibilmente sono prevalse ragioni di ordine socio-culturale ed economico che hanno impedito la celebrazione delle nozze.


Quozienti di nuzialità, separazionalità e divorzialità su 1000 abitanti (1993 e 2003)



Regioni


Nuzialità 1993


Nuzialità 2003


Separazionalità 1993


Separazionalità 2003


Divorzialità 1993


Divorzialità 2003


Piemonte


4,9


3,9


1,1


1,9


0,6


1,2


Valle d’Aosta


4,8


3,5


1,8


2,1


0,8


1,4


Lombardia


4,7


4,0


1,0


1,6


0,5


0,9


Trentino/

Alto Adige


5,2


4,0


0,9


1,4


0,6


0,8


Veneto


5,0


4,3


0,6


1,3


0,3


0,8


Friuli/

Venezia Giulia


4,4


3,9


1,3


1,7


0,5


1,1


Liguria


4,7


3,8


1,2


1,7


0,8


1,1


Emilia Romagna


4,4


3,5


1,1


1,6


0,6


0,9


Toscana


4,6


4,1


0,8


1,7


0,5


0,9


Umbria


5,0


4,4


0,5


1,4


0,4


0,6


Marche


4,7


3,9


0,6


1,2


0,3


0,6


Lazio


4,9


5,4


1,4


2,1


0,3


0,9


Abruzzo


4,8


3,8


0,3


1,1


0,1


0,6


Molise


4,9


3,8


0,2


0,8


0,1


0,4


Campania


6,3


5,7


0,5


0,9


0,2


0,4


Puglia


6,1


5,1


0,5


0,9


0,2


0,3


Basilicata


5,5


4,5


0,2


0,3


0,1


0,3


Calabria


5,4


4,7


0,2


0,6


0,1


0,3


Sicilia


5,7


5,2


0,4


1,0


0,2


0,5


Sardegna


5,0


4,3


0,6


1,2


0,2


0,5


Totale


      5,1


4,5


0,8


1,4


0,4


0,7


         Se si eccettua il Lazio, il quoziente di nuzialità è in diminuzione quasi dappertutto, mentre sono in aumento sia i quozienti di separazionalità che quelli di divorzialità. Invero in alcune regioni gli incrementi sono contenuti, specialmente in quei contesti regionali in cui il quoziente registrato nel 1993 era piuttosto basso già in partenza. Nondimeno è evidente la crescita della propensione sia a non contrarre matrimonio che a scioglierlo. Il quoziente di separazionalità, in particolare, tocca di rado il 2%, invece è piuttosto ridotto quello di divorzialità, che solo in quattro regioni supera l’1%.


         Un’analisi dettagliata relativa agli anni che vanno dal 1994 al 2003 mette in evidenza la netta escalation sia delle separazioni che dei divorzi, in misura abbastanza omogenea poiché in genere le separazioni concesse sono quasi il doppio dei divorzi. Infatti nel 1994 le separazioni erano state 51445 ed i divorzi 27510 e nel 2003 le separazioni sono cresciute fino a 81744 ed i divorzi sino a 43856. La crescita di entrambi i fenomeni è documentata dalla tabella che segue.


Separazioni e divorzi dal 1994 al 2003



Anni


Separazioni


Divorzi


1994


51445


27510


1995


52323


27038


1996


57538


32717


1997


60281


33342


1998


62737


33510


1999


64915


34341


2000


71969


37573


2001


75890


40051


2002


79642


41835


2003


81744


43856


         Ci si potrebbe chiedere a questo punto se il caso italiano per quanto concerne nuzialità e divorzialità sia eccentrico o no rispetto al comportamento riscontrabile negli altri paesi europei. Il quoziente di nuzialità invero non diverge particolarmente dagli andamenti nella cosiddetta Europa dei quindici. Quel che emerge nettamente in chiave di divorzialità è che Irlanda ed Italia sembrano i paesi in cui minore è la propensione a divorziare.


Quozienti di nuzialità e divorzialità nell’Unione Europea nel 2003 (e nel 1993)



Paesi


Nuzialità su 1000 abitanti


Divorzialità su 1000 abitanti


Belgio


4,0 (5,4)


3,0 (2,1)


Danimarca


6,5 (5,9)


2,9 (2,4)


Germania


4,6 (5,4)


2,5 (1,7)


Grecia


5,1 (5,9)


1,0 (0,7)


Spagna


4,9 (5,2)


1,0 (0,7)


Francia


4,6 (4,4)


2,1 (0,9)


Irlanda


5,1 (4,5)


0,7 (0,0)


Italia


4,5 (5,1)


0,7 (0,4)


Lussemburgo


4,4 (6,0)


2,3 (1,8)


Olanda


5,0 (5,8)


2,0 (2,0)


Austria


4,6


2,3


Portogallo


5,1 (6,9)


2,1 (1,2)


Finlandia


5,0


2,6


Svezia


4,4


2,4


Gran Bretagna


(6,1)


2,7 (3,0)


Unione Europea


4,7 (5,3)


2,0 (1,6)


         La divorzialità è piuttosto alta in Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Finlandia, Germania e Svezia (seguite da Lussemburgo ed Austria). Alcuni dati della tabella europea di nuzialità e divorzialità, in realtà, sono provvisori, stimati o relativi all’anno precedente. Nondimeno offrono un quadro indicativo dei trends in atto e mostrano chiaramente un certo iato fra due paesi a prevalenza cattolica (come l’Irlanda e l’Italia) ed il resto dell’Europa a prevalenza protestante (fatta eccezione per il Belgio, il Lussemburgo e l’Austria).


         Tra il 1993 ed il 2003 in alcune nazioni la nuzialità è decresciuta, in poche altre è salita, ma in genere appare in calo. La divorzialità è invece andata aumentando quasi ovunque, fuorché in Gran Bretagna. Pertanto il caso italiano rispecchia in linea di massima quello che è l’orientamento vigente in Europa, sia pure con un minor favore verso il percorso divorzista.


Matrimoni religiosi e matrimoni civili


         I dati più recenti resi disponibili attraverso la rilevazione comunale mensile degli eventi di stato civile forniscono ulteriori conferme degli andamenti in atto.


Matrimoni (dati provvisori del 2004) suddivisi per rito civile/religioso e per regione



Regioni


Matrimoni


Rito civile


% rito civile


Rito religioso


% rito religioso


Piemonte


16385


  6709


40,9


  9676


59,1


Valle d’Aosta


    457


    210


46,0


    247


54,0


Lombardia


34957


13568


38,8


21389


61,2


Trentino/Alto Adige


  3715


  1841


49,6


  1874


50,4


Veneto


19009


  7218


38,0


11791


62,0


Friuli/Venezia Giulia


  4383


  2318


52,9


  2065


47,1


Liguria


  6191


  3062


49,5


  3129


50,5


Emilia Romagna


14204


  6349


44,7


  7855


55,3


Toscana


14657


  6517


44,5


  8140


55,5


Umbria


  3739


  1162


31,1


  2577


68,9


Marche


  5637


  1662


29,5


  3975


70,5


Lazio


27600


  8275


30,0


19325


70,0


Abruzzo


  4508


  1112


24,7


  3396


75,3


Molise


  1335


    266


19,9


  1069


80,1


Campania


31465


  6420


20,4


25045


79,6


Puglia


19066


  2841


14,9


16225


85,1


Basilicata


  2548


    288


11,3


  2260


88,7


Calabria


  9222


  1336


14,5


  7886


85,5


Sicilia


24744


  4889


19,8


19885


80,4


Sardegna


  6942


  2121


30,6


  4821


69,4


Totale


  250764


        78164


31,2


     172600


68,8


         I dati del 2004 rispetto a quelli del 2003 presentano un aumento di matrimoni in alcune regioni ed invece un calo in altre. In Friuli-Venezia Giulia prevalgono i matrimoni civili su quelli religiosi. Ma in Basilicata il rito civile è appena al livello dell’11,3%. Gli abitanti delle regioni Trentino/Alto Adige e Liguria sono orientati più o meno a metà tra rito civile e religioso. Valle d’Aosta, Emilia Romagna e Toscana appaiono più “secolarizzate” di altre regioni. Per il resto d’Italia le dinamiche in corso risultano frastagliate regione per regione con percentuali alte di rito religioso in Calabria, Puglia, Sicilia e Molise, più contenute in Campania, Abruzzo, Marche, Lazio, Sardegna ed Umbria, ma tendenti sempre più verso l’opzione per il civile in Lombardia e Veneto.


         Nel complesso va considerato che in un anno ci sono circa ottomila matrimoni in meno. Infatti i dati complessivi stimati per il 2003 davano un insieme di 258580 celebrazioni matrimoniali (però poi i dati provvisori dello stato civile hanno ridotto a 257662 il risultato finale), passato nel 2004 a 250764, di cui 172600 con rito religioso e 78164 con rito civile. Nell’anno precedente i matrimoni religiosi erano 183678, quelli civili 73984, dunque i primi tendono a diminuire passando dal 71,3% al 68,8%, i secondi ad aumentare, dal 28,7% al 31,2%. Il che significa di fatto che quasi un matrimonio su tre ha un rito non religioso. L’andamento è abbastanza evidente secondo la tabella che segue.


Matrimoni con rito religioso/civile negli anni 2000-2004



Anni


Matrimoni con rito religioso


Matrimoni con rito civile


Totale


2000


214255


70155


284410


2001


192558


71468


264026


2002


192006


78007


270013


2003


183678


73984


257662


2004


172600


78164


250764


         La differenza più marcata tra matrimoni con rito religioso e quelli con rito solo civile si è avuta tra l’anno 2000 ed il 2001, però va notato altresì che nel medesimo periodo è sceso il numero di matrimoni (quasi ventimila in meno). Tra il 2001 ed il 2002 vi è stata una sostanziale tenuta dei matrimoni religiosi ma nel frattempo sono aumentati sia i matrimoni in generale che quelli civili in particolare. La tendenza si è invertita nell’anno successivo e dunque entrambi i tipi di matrimonio sono andati in diminuzione. Nel 2004, pur a fronte di una riduzione del numero totale dei matrimoni, solo quelli con rito civile sono aumentati. In definitiva vi sono anno per anno variazioni non facilmente prevedibili. Comunque il rito civile conserva un suo andamento favorevole, cioè piuttosto in accrescimento numerico.


         Il cambiamento assume connotazioni ben più macroscopiche in chiave diacronica a partire dal 1961, allorquando solo l’1,6% dei matrimoni aveva avuto un rito civile, a fronte del 31,2% rilevato nel 2004. I dati anno per anno sono quanto mai eloquenti.


Matrimoni, matrimoni con rito civile e matrimoni con almeno un coniuge straniero


negli anni 1961-2003



Anni


Numero matrimoni


Numero matrimoni su 1000 abitanti


% matrimoni con rito civile


Con almeno un coniuge straniero


1961


397461


7,9


  1,6




1971


404464


7,5


  3,9




1981


316953


5,6


12,7




1991


312061


5,5


17,5




1995


290009


5,1


20,0


4,3


1997


277738


4,8


20,7


5,0


1999


280330


4,9


23,0


5,9


2001


264026


4,6


27,1


8,1


2003


257662


4,5


28,7



         Può avere un certo interesse verificare se il tipo di rito, religioso o civile, con cui è stato celebrato il matrimonio può avere una sua incidenza sulla divorzialità. Ebbene nel 2002 su 41835 divorzi erano 33812 quelli provenienti da matrimoni con rito religioso e 8023 quelli riferibili a matrimoni civili. In termini percentuali i primi sono l’80,8% del totale delle sentenze di divorzio, i secondi rappresentano il 19,2%. Orbene nel periodo dal 1995 al 2003 la percentuale dei matrimoni con rito civile è andata aumentando dal 20,0% al 28,7%. Se si considera che solo dopo una prima fase di separazione, che può durare qualche anno, è possibile arrivare a chiedere il divorzio si deve concludere che i matrimoni contratti nel 1995 possono aver dato luogo a sentenze di divorzio solo dopo alcuni anni (almeno tre, di norma). Pertanto poiché la percentuale di matrimoni con rito civile era nel 1995 al venti per cento il dato sui divorzi nel 2003 non sembra derivare essenzialmente dal tipo di rito con cui si era celebrato il matrimonio. Ovviamente questa pare la dinamica ricorrente, da cui risulterebbe che il tipo di rito nuziale è ininfluente sul verificarsi di crisi matrimoniali. Tuttavia non è detto che in effetti ciò sia sempre riscontrabile e che la differenza fra le due celebrazioni matrimoniali non possa favorire (o meno) l’esito divorziale.


La composizione del nucleo familiare


         Non è senza conseguenze anche il cambiamento in atto nella composizione stessa del nucleo familiare che ha visto incrementare le quote di famiglie con un solo componente o due, in generale, mentre la composizione a tre o quattro soggetti ha subito un leggero cedimento. In effetti mentre nel 1961 le famiglie con un solo componente erano il 10,6% sono invece passate nel 2001 al 24,9%, dunque ad un quarto dell’intera popolazione. Di poco superiore è il tasso delle famiglie con due componenti giunto al 27,1% nel 2001, dopo essersi attestate sul 19,6% nel 1961. Vi è stato dunque un parallelo ascendere delle quote percentuali di famiglie con uno o due persone ed un andamento inverso, in riduzione, delle famiglie con tre soggetti. Più altalenante è la situazione delle famiglie composte di quattro membri: dapprima in ascesa, percentualmente, fino al 1981 e poi in perdita fra il 1981 ed il 2001. Insomma in un quarantennio le famiglie si sono diversificate sensibilmente, a tutto vantaggio dei percentili riguardanti i singoli individui che costituiscono famiglia di per se stessi, nonché delle coppie che non hanno figli o che vivono senza figli. Emblematica è poi la drastica contrazione dell’insieme delle famiglie numerose: più che dimezzate quelle con cinque persone, sostanzialmente decimate quelle con sei o più membri. Se nel 1961 la famiglia aveva un numero medio di 3,6 componenti invece nel 2001 ne ha in media uno in meno, è composta cioè da 2,6 componenti.


Composizione percentuale delle famiglie per numero di componenti dal 1961 al 2001



Componenti


1961


1971


1981


1991


2001


Uno


10,6


12,9


17,9


20,6


24,9


Due


19,6


22,0


23,6


24,7


27,1


Tre


22,4


22,4


22,1


22,2


21,6


Quattro


20,4


21,2


21,5


21,2


19,0


Cinque


12,6


11,8


  9,5


  7,9


  5,8


Sei o più


14,4


  9,7


  5,4


  3,4


  1,7


Numero medio


  3,6


  3,3


  3,0


  2,8


  2,6


Totale famiglie*


13747000


15981000


18632000


19909000


21811000


* Cifre totali arrotondate.


         Si ha così una situazione che parrebbe contraddittoria se non fosse spiegata dalla tendenza ormai accentuata alla famiglia mononucleare (ovvero costituita da una sola persona). Infatti nel 1961 la popolazione italiana era di 50624000 persone e nel 2001 è aumentata sino a 56996000, con 6372000 individui in più; in pari tempo l’aumento delle famiglie è stato di 8064000. Insomma è cresciuto più il numero delle famiglie che non quello dei singoli soggetti!


         Nel 2003 la famiglia italiana per circa il 40% era rappresentata da coppie con figli, per il 26% da persone sole, per il 20% da coppie senza figli, per l’8% da un genitore rimasto solo con figli e per il 6% da altre situazioni di vario tipo.


         D’altra parte nel 1961 il numero medio di figli per donna era di 2,41, poi sceso a 1,60 nel 1981, a 1,35 nel 1991, a 1,25 nel 2001, a 1,29 nel 2002 e nel 2003 (dato provvisorio), poi risalito – ma di poco – a 1,33 (dato stimato) nel 2004. Va inoltre tenuto presente che sempre più viene rinviato il primo parto: nel 1961 la madre primipara aveva in media 25 anni e 7 mesi, nel 2001 aveva una media di 30 anni e 8 mesi.


         Anche le interruzioni volontarie della gravidanza contribuiscono al saldo negativo a livello demografico in Italia. La pratica dell’aborto sfugge anche alle statistiche più accurate, né è facile procedere per stime al fine di fornire informazioni attendibili. Tuttavia alcuni dati ufficiali, sebbene incompleti, aiutano a comprendere l’entità del fenomeno.


Interruzioni volontarie della gravidanza per intervento ed area territoriale nel 2003



Area


Raschiamento


Metodo Karman


Altra isterosuzione


Altro


Totale


n


%


n


%


n


%


n


%


n


Nord


  7026


11,68


37773


62,77


14335


23,82


1040


1,73


  60174


Centro


  1485


  5,26


22309


78,95


  3981


14,09


  481


1,70


  28256


Sud


  9349


26,20


20496


57,43


  5281


14,80


  562


1,57


  35688


Italia


17860


14,39


80578


64,92


 23597


19,01


2083


1,68


124118


         L’aspirazione uterina (isterosuzione) è la pratica più frequente (83,93%) nelle prime settimane di gravidanza, soprattutto con il metodo Karman, ma non manca neppure il ricorso al raschiamento. Il totale documentato statisticamente è però ben lungi dal numero effettivo delle interruzioni volute della gestazione. Un’estensione delle pratiche abortive non può non incidere, ovviamente, anche sulla numerosità dei membri delle famiglie.


         Le proiezioni all’anno 2050 fanno prevedere che la popolazione italiana conterà alcuni milioni di persone in meno rispetto ad oggi. Una cifra probabile è quella di circa 52000000 di residenti ma secondo altri calcoli più accurati si arriverebbe – con la tendenza attualmente in corso – a 55936140 individui.


         Intanto in Italia gli uomini diventano padri per la prima volta all’età di 33 anni, in media, per cui si allungano i loro tempi di permanenza nella famiglia di origine, dando luogo a quella che ormai si suole definire la famiglia “lunghissima”. Inoltre si allungano anche i tempi di ricerca di un primo lavoro. Pertanto la transizione all’età adulta in senso pieno è ritardata essa pure. Ma sembra che ciò comporti un esito orientativamente positivo in termini di tempo dedicato ai figli. Infatti i padri in Italia si dedicherebbero un po’ più che nel passato ai propri figli, facendo registrare circa ventuno minuti in più ogni giorno, rispetto a quanto avveniva un quarto di secolo fa. Nel contempo, tuttavia, quasi tre quarti di tutto il lavoro domestico continua a gravare sulle donne.


Consumi e valori della famiglia italiana


         Nel 2004 la spesa media mensile di una famiglia italiana è stata di 2381 euro, ma con differenze notevoli fra nord e sud. Nelle regioni settentrionali la spesa media è stata di 2689 euro, in quelle meridionali di 1915 euro. Il dettaglio delle spese mensili dice molto sugli orientamenti dei consumi (e dunque anche sui valori) degli italiani.


Spesa media mensile (euro) per composizione di famiglie e per tipo di spesa nel 2004



Composizione

ed età


Alimentari

%


Vestiti

%


Casa

%


Trasporti

%


Loisir

%


Altro

%


Spesa (euro)


1 persona con meno di 35 anni


15,8


6,5


33,1


16,3


6,6


21,7


1771


1 persona di 35-64 anni


15,9


6,1


35,2


15,5


5,4


21,9


1812


1 persona di 65 o più anni


21,8


3,7


45,3


  6,4


3,6


19,2


1246


Coppia senza figli con persona di riferimento di 34 anni


13,9


7,9


25,3


20,8


6,1


26,0


2795


Coppia senza figli con persona di riferimento di 35-64 anni


16,8


6,5


31,5


17,1


5,0


23,1


2642


Coppia senza figli con persona di riferimento di 65 o più anni


22,5


4,7


36,8


12,4


3,9


19,7


1954


Coppia e 1 figlio


18,1


7,0


27,6


18,2


6,3


22,8


2926


Coppia e 2 figli


19,1


7,8


25,2


18,2


7,4


22,3


3037


Coppia e 3 o più figli


22,2


8,3


23,6


17,4


8,0


20,5


3066


Monogenitore


18,9


6,6


29,7


16,8


6,5


21,5


2352


Altre tipologie


20,5


5,9


28,7


17,1


6,1


21,7


2575


Totale famiglie


19,0


6,6


30,1


16,3


6,0


22,0


2381


         Come prevedibile la famiglia più numerosa spende più delle altre, in media 3066 euro mensili. La quota più bassa appartiene alle persone sole e maggiori di 65 anni di età: spendono in media 1246 euro mensili. In generale è il costo dell’abitazione (fitto o mutuo) che pesa maggiormente sulla spesa media mensile di tutti i tipi di composizione familiare. Da rilevare è la quota parte per l’acquisto di generi alimentari nel caso di famiglia con 3 o più figli: il totale ascende al 22,2% di tutta la spesa media mensile e quasi eguaglia il costo per l’abitazione. Subito dopo gli alimentari, tra le spese maggiori rientrano quelle per i trasporti. Segue, nella media mensile di spesa per nucleo familiare, quanto necessario per l’acquisto dell’abbigliamento. Ma anche l’uso del tempo libero (loisir) occupa una certa parte del budget mensile medio, quasi alla pari con gli impegni economici per il vestiario. Ed infine non è trascurabile la voce “altro” che riguarda altri consumi, più o meno necessari. Per esempio, sempre nel 2004 si sono spesi annualmente in media 1251 euro per il condizionamento dell’aria, ma anche 880 euro per il personal computer. Né va trascurato il costo per l’acquisto della lavastoviglie e/o del televisore.




Spesa media mensile (in euro) per numero di componenti familiari e tipo di consumo Anno 2003



Categorie

 di consumo


Totale Italia


Numero dei componenti del nucleo familiare


1


2


3


4


5 e più


Pane e cereali


  75,61


  44,89


  67,45


  86,19


101,15


 113,64


Carne


101,72


  57,09


  93,12


118,57


133,48


 155,69


Pesce


  37,91


  20,22


  34,99


  44,53


  50,35


   57,98


Latte, formaggi, uova


  62,55


  38,57


  56,90


  70,95


  81,31


   92,57


Oli e grassi


  16,54


  11,90


  16,15


  17,93


  19,39


   22,65


Patate, frutta, ortaggi


  81,99


  54,55


  79,96


  91,03


  99,49


 112,65


Zucchero, drogheria, caffè


  31,52


  20,79


  29,14


  34,95


  40,19


   44,63


Bevande


  43,24


  26,31


  40,91


  50,48


  54,50


   59,80


Tabacchi


  19,53


  10,87


  15,63


  23,93


  26,57


   32,57


Calzature, abbigliamento


155,41


  76,75


123,54


196,26


226,05


 236,91


Abitazione (principale e secondaria)


575,45


479,25


595,31


634,29


608,77


 575,69


Combustibili, energia


108,43


  78,30


106,97


120,74


124,81


 140,04


Elettrodomestici, mobili e servizi per la casa


144,42


  89,12


138,27


180,08


173,66


 177,53


Sanità


  87,31


  55,26


  97,05


  98,85


  98,41


 100,43


Trasporti


323,65


142,02


286,13


422,30


454,58


 453,39


Comunicazioni


  49,02


  32,29


  43,64


  56,42


  62,79


   68,65


Istruzione


  27,98


    3,45


    7,20


  34,43


  63,27


   75,89


Tempo libero, cultura e giochi


111,27


  63,95


  95,86


136,68


151,20


 150,65


Altri beni e servizi


259,45


153,37


234,97


320,53


341,43


 317,77


Spesa media mensile


2.313,00


1.458,95


2.163,19


2.739,14


2.911,40


2.989,13

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Fonte:Elaborazione su dati ISTAT tratti dal volume I consumi delle famiglie. Anno 2003, Istituto Nazionale di Statistica, Roma, 2005, pp. 59-60


         In definitiva si può dire che la famiglia italiana, nonostante qualche difficoltà di adattamento alle nuove situazioni della modernità, alle dinamiche del vissuto matrimoniale, ai mutamenti dei rapporti intergenerazionali ed alle problematiche di gestione del bilancio familiare, mostra una sua sostanziale tenuta che la pone in grado di rifarsi alla tradizione ma anche di “navigare” nella contemporaneità.



[1] P. Donati (a cura), Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie (Nono Rapporto CISF sulla famiglia in Italia), Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2005.


[2] P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1998, pag. 13.


[3] P. Donati (a cura), Terzo rapporto sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1993.


[4] G. Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, Mlano, Vita e Pensiero, 2005.


[5] G. Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, cit., pag. 163.


[6] G. Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, cit., pag. 41.


[7] P. Donati (a cura), Quarto rapporto CISF sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, pag. 420.