Roberto Cipriani
La religione come variabile indipendente
di Roberto Cipriani
1. Premessa
Per Achille Ardigò il riferimento alla religione è stato costante, ineludibile, comunque una sorta di variabile indipendente. Il peso della religione è stato in lui preminente, condizionante, ineliminabile. Quasi ogni sua decisione si ispirava ad un dettame religioso. Del che diceva in termini espliciti, inequivocabili. Tale sua ispirazione diventava anche oggetto di colloquio, confronto e pure di persuasione nei riguardi dei suoi interlocutori. Leggende metropolitane narrano di aspiranti a vincere un concorso che si facevano trovare nelle chiese da lui frequentate ogni mattina per avvalorare la loro affidabilità scientifica, grazie anche alla palese dimostrazione di condivisione della sua credenza e della sua pratica religiosa. Non c’è invece bisogno di ricorrere a leggende metropolitane, più o meno fondate su eventi reali, per testimoniare della sua propensione a giudicare scientificamente gli altri anche (se non esclusivamente) sulla base delle loro opzioni in campo religioso.
2. L’ispirazione personalista
Certamente l’appartenenza religiosa cattolica o meno era per lui un indicatore primario tanto che in ambito sociologico egli si è fatto promotore di una corrente, chiamiamola così, sociologica cattolica, che in un primo momento si chiamò degli “Amici di Ardigò” e successivamente di “Sociologia per la persona” con un chiaro rinvio soprattutto al personalismo comunitario di Mounier (ed a Maritain), ed in particolare ad una concezione della realtà in chiave cristiana e cattolica, avversa al collettivismo marxista ed all’individualismo esasperato. Il suo orientamento etico-politico, piuttosto pronunciato, faceva di Ardigò un campione, quasi ad ogni piè sospinto, di una concezione religiosa cristiana dell’uomo e della donna tutta volta a favore dei diritti della persona. Ma non è solo all’Emmanuel Mounier della rivista francese Esprit che si richiamava Ardigò ma anche a Jacques Maritain, protestante convertito al cattolicesimo e compagno di Raissa, altra esponente di spicco della rinascita del tomismo e del primato dello spirituale nei rapporti fra Chiesa e Stato. Del resto proprio come Maritain anche Ardigò prese parte attiva alla resistenza. Ed in fondo nel Nostro è sempre rimasta assai viva la dimensione antropocentrica che lo portava anche ad azioni eclatanti ma non visibili di generosità e di apertura all’altro come persona. Certamente come Maritain il sociologo bolognese, ma di origine friulana, mantenne costante la sua opposizione ad ogni forma di autoritarismo e di dominazione ideologica (ragione questa non ultima della sua progettualità in difesa dei sociologi d’ispirazione cattolica piuttosto in difficoltà nei riguardi di un laicismo diffuso).
Il rovesciamento dei valori in tal senso proposto da Ardigò (od almeno la difesa di quelli sostenuti dagli intellettuali di matrice cattolica) si coniugava agevolmente con il pensiero mounieriano sul cosiddetto umanesimo integrale e sulla sua rivoluzione personalista e comunitaria[1]. Anche Ardigò era un anticapitalista, contrario al profitto e favorevole alla decentralizzazione comunitaria (da lui propugnata esemplarmente nel caso del comune di Bologna). Ma al tempo stesso egli era antimarxista perché il marxismo avrebbe compromesso i valori spirituali e non avrebbe dato risposta alle domande escatologiche sul destino degli umani. In chiave mounieriana per lui – come ha osservato Conilh a proposito dello stesso Mounier – «origine e primo principio, la persona deve essere presente dall’inizio, e in ogni momento dell’itinerario, come l’esigenza assoluta, inalienabile, che ispira, comanda e regola la totalità come il dettaglio dell’impresa collettiva»[2].
3. L’impronta di Juan de la Cruz
Ma se Mounier ripropone l’opera di Agostino d’Ippona, Pascal, Kierkegaard e Péguy, il primo presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia rimandava ai Pensieri[3]di Juan de la Cruz, a quel San Giovanni della Croce della “notte oscura”, la cui lettura più volte ho sentita consigliare da lui a qualche giovane sociologo alla ricerca di riferimenti qualificanti.
Di sicuro Ardigò ha avuto ben presente il pensiero n. 107 del grande Dottore della Chiesa che così scriveva: «I savi secondo Dio e quelli secondo gli uomini si stimano stolti a vicenda perché gli uni non possono capire la sapienza e la scienza di Dio e gli altri quella del mondo, essendo quella del mondo una ignoranza nei confronti di quella di Dio e viceversa»[4]. In tal senso è forse da intendere il forte intento ardigoano di mettere insieme i due tipi di savi dando vita alla forma associativa dei sociologi accademici italiani, affinché nessuno dei due gruppi ignorasse l’altro. Ma se è vero questo, come probabilmente lo è, è presumibile (attraverso una serie di episodi della biografia di Ardigò) che egli prestasse un’attenzione minore e dunque una relativa implementazione rispetto ad un altro pensiero di Juan de la Cruz, precisamente il n. 247 che recita: «La sapienza entra in noi per mezzo dell’amore, del silenzio e della mortificazione. Grande saggezza è il saper tacere senza guardare né alle parole né ai fatti né alla vita altrui»[5]. Se amore e mortificazione non gli sono mancati forse è la saggezza del silenzio che non sempre è stata esercitata, specialmente quando si è trattato di valutare opera scientifica ed atteggiamenti/comportamenti di qualche collega universitario, fosse pure della sua medesima appartenenza ideologica o della sua stessa “componente” accademica. In effetti non sono mancati giudizi di valore non leggeri, magari anche pregiudiziali rispetto alle reali capacità scientifiche del soggetto in esame. Ma va detto, ad onor del vero, che tale spirito critico non ha risparmiato neppure illustri uomini di Chiesa, a suo parere troppo poco spirituali e dediti a far politica dal pulpito o attraverso dichiarazioni e documenti ufficiali od interviste a larga diffusione. Il suo dissenso nei confronti del “Progetto culturale” voluto dal suo corregionale cardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, è stato reso palese più volte ed in forma vistosa[6].
4. Il valore dell’affrontement
Convinto sostenitore della libertà della persona umana il piccolo grande Achille non si peritava di sfidare il potente di turno e sperimentava sino in fondo quanto è insito appunto nel concetto mounieriano di affrontement, di confronto aperto, che si erge da un progetto educativo prima ancora che culturale (e politico). Valgono ancora una volta le parole del già citato Conilh che così designava l’idea di affrontement di Mounier: «questa bella parola evoca contemporaneamente un potere di rottura e di accoglienza, di affermazione di sé e di apertura, di lotta franca e di comprensione simpatica, di forza e di generosità»[7]. In questo contesto l’attacco ad un’idea coincide con il marcare una distanza rispetto alla persona che quell’idea – non condivisa da Ardigò – esprime.
In fondo il sociologo friulano-bolognese si presentava con una sua mistica della realtà che a volte si mescolava con un’attività contemplativa scientificamente orientata. L’ossimoro fra misticismo e scientificità veniva da lui risolto in chiave di profetismo religioso e sociologico, sovente palesato in momenti-chiave della società italiana del XX secolo. E talora il profetismo assumeva venature utopiche che investivano la politica e la religione, la sanità e l’educazione, la pubblica amministrazione e l’organizzazione religiosa.
5. Un metodo sui generis
Il metodo intellettuale di Ardigò non è facilmente catalogabile perché sfugge a facili etichette. Se sosteneva la necessità di una militanza religiosa pure in campo accademico nondimeno egli rifuggiva nel contempo dall’indagare scientificamente la fenomenologia religiosa, perché si rendeva abbastanza conto di quanto avrebbe pesato la sua equazione personale sui risultati finali dell’approccio. Faceva pertanto la scelta dell’epoché ed evitava un coinvolgimento diretto nel campo della sociologia della religione[8]. La sua stessa riflessione però era azione concreta, era invito all’azione, anche nella forma dell’organizzazione, cioè dell’azione organizzata, che non a caso dava vita ad una “componente” sociologica universitaria che idealmente si ispirava a principi di matrice cattolica anche se di fatto annoverava pure adesioni di altra provenienza. Alla nuova formazione di sociologi cattolici e non, sviluppatasi agli inizi degli anni Ottanta, Ardigò dava la sua impronta, infondeva le sue energie, forniva l’esempio di un modello di vita civile e politica che non prescindeva dall’afflato religioso.
Non si trattava di riproporre ancora una volta qualcosa di simile ad una presunta “civiltà cristiana” ma di trovare soluzioni diverse per un recupero di credibilità in ambito sociale, a favore di un riconoscimento pieno delle potenzialità di soggetti che avevano da dire la loro, in un’arena pubblica dominata da opzioni non solo diverse ma talora anche ostili più per una posizione di principio che non per valutazioni di merito.
Indubbiamente Ardigò, dal suo osservatorio privilegiato di studioso abbastanza addentro alle questioni religiose da conoscerne i meandri e le formule di facciata, ha offerto analisi lucide e tempestive, anzi persino in anticipo sui tempi. Il suo impegno di analista è stato attento e costante, il che lo portava a riflessioni amare sull’agire della Chiesa italiana. L’esito concreto di un tale atteggiamento non era però quello di un rinchiudersi nel suo studio dorato ed affrescato dell’università bolognese quanto invece quello di una difesa imperterrita della sua identità e di quella dei colleghi a lui vicini. Il suo essere cristiano e sociologo insieme era intriso di un’umanità ben profonda, frutto di macerazioni interiori, di scelte coraggiose, di decisioni ben maturate.
Il suo modo di pensare non era prono ad esorcizzare la morte. Anzi in più occasioni il pericolo massimo gli si era già affacciato, con crisi ed incidenti di varia natura, che non lo avevano prostrato quanto piuttosto corroborato nelle sue convinzioni di fede, forse non estranee alla sua ferrea volontà di dilatare il suo tempo di vita, immaginando di poter ancora contribuire ad irrorare i solchi che aveva tracciati ed aperti anche ad altri.
6. L’impegno della presenza
Nei dibattiti che si sono sviluppati all’interno della corporazione accademica dei sociologi italiani l’apporto di Ardigò non è mai stato trascurabile. Il suo punto di vista, in larga misura religiosamente connotato, è stato non di rado un point de repère, sia in termini di condivisione che di dissenso. Insomma con le sue opinioni non si poteva non fare i conti. Ma soprattutto non era immaginabile che di lui si desse un giudizio di valore scientifico che lo estromettesse dal dibattito per carenza di suggestioni originali da parte sua. Avido lettore ed annotatore di opere d’oltre frontiera, egli soleva esordire nei suoi interventi riferendosi ora all’“ultimo Habermas” ora all’“ultimo Luhmann”, spiazzando di continuo i suoi interlocutori non sempre al corrente della letteratura più recente, specialmente quella non tradotta in Italia. In questo modo egli lasciava intendere che l’orizzonte di indagine non poteva limitarsi al ristretto hortus conclusus del nostro paese ma doveva aveva un respiro più ampio, universale (ovvero cattolico nel senso lato del termine).
Va detto poi che la sua militanza per qualche tempo nella Democrazia Cristiana non lo aveva portato a promuovere una modalità democratica di tipo confessionale, in questo mostrando una qualche affinità con il pensiero di Luigi Sturzo (che però non si iscrisse mai alla Democrazia Cristiana). Dunque l’opzione politica di Ardigò era piuttosto laica, nel senso di una scelta non corriva con le posizioni ufficiali del magistero ecclesiastico cattolico. Insomma la sua idea di politica era più umanistica che cristiana ed orientata al bene comune, quasi memore della lezione maritainiana impartita ne Il contadino della Garonna[9]. Ma anche Bergson è stato verosimilmente una fonte di ispirazione per Ardigò e per la sua concezione del rapporto fra religione e democrazia, in quanto è bergsoniano[10] l’orientamento a considerare il carattere intrinsecamente religioso dell’ideale democratico quale lo si ritrova nel sociologo nato a San Daniele del Friuli.
E poi il cristiano-cattolico Ardigò non seguiva il modello abituale dell’avversione religiosa nei riguardi della modernità. Anzi egli aveva sposato più volte ed in pieno le soluzioni tecnologicamente avanzate, esplorando le nuove frontiere della scienza informatica, sperimentando in prima persona i nuovi ritrovati, promuovendo iniziative di formazione all’innovazione. Talora il suo desiderio di conoscenza e di sperimentazione lo spingeva fin sulle frontiere più avanzate alla ricerca di nuovi segni dei tempi, premonitori di un futuro trend attitudinale e comportamentale.
7. La relazione con il sacro
È stato Ardigò stesso, a commento di un mio precedente intervento sulla sua religiosità estrinseca[11], a rilevare: «Cipriani mi ha colpito per la sottolineatura sia ad un mio saggio non sociologico del 1980 (Il feticcio del sacro) sia, soprattutto, all’impegnativa ricerca empirica (cui tengo molto) condotta nel 1988-89 insieme con F. Garelli, su Valori, scienza e trascendenza. Nell’opera suddetta, per la Fondazione Agnelli, il mio interesse conoscitivo anche empirico ha lasciato trapelare, come ha compreso Cipriani, pur attraverso il freddo uso di tecnologie di inferenza socio-statistica, uno sforzo conoscitivo non in orizzontale. In quella ricerca empirica mi sono mosso (anche per felice divisione di compiti con l’amico Garelli) a cercare di capire i nessi tra scienza e fede in scienziati per nulla banali collegando interrogativi culturali (anche in rapporto alla bioetica) ad interrogativi esistenziali e coscienziali dei soggetti intervistati. È stata mia convinzione che proprio in tema di scelte di fede e di morale personale, di religiosità, non si possa fare sociologia solo o tanto attraverso generalizzazioni empiriche, statistiche su aggregati collettivi. Occorre cercare di fare sociologia delle soggettività come tali. In proposito, sono stato lieto di trovare, in un’opera recente (A. Touraine, Critique de la modernité, Fayard, Paris, 1992) l’opzione esplicita per una sociologia ambivalente tra soggetto e macro-razionalità. Pur se da tempo da lui distinto per vari percorsi, non posso non segnalare quest’ultimo Touraine che postula una sociologia del rapporto collaborativo e insieme dialettico, direi: da doppia contingenza, tra il soggetto-persona e i contesti macro-sociali. Poiché la società attuale non può più essere definita solo o tanto come un insieme di istituzioni o di forze collettive, la sociologia deve interrogarsi, anche secondo l’ultimo Touraine, sulle voci del soggetto persona nel suo continuo rapportarsi, comunicativo e conflittuale con le strutture sociali. Ciò soprattutto là dove il soggetto-persona intende andare oltre l’utilitarismo e il conformismo, ponendosi problemi di responsabilità, di morale, di religione, di senso [Touraine 1992: 468-469]. Per chi come me ha impegnato tanti anni passati anche nell’azione partitica da cattolico democratico, l’apertura alle tematiche religiose e di chiesa si è tradotta in alcuni libri ed in altri scritti destinati al dibattito per la cultura politica. Sono andato sulle orme di Giuseppe Toniolo e più tardi di Luigi Sturzo, con intendimenti solo in parte di riflessione sociologica professionale»[12].
Queste annotazioni di Ardigò chiariscono ancor meglio il suo punto di vista sulla problematica religiosa. Innanzitutto egli definisce “non sociologico” un suo saggio solo perché – si potrebbe inferire – dedicato al tema del sacro. In effetti si constata pure qui una certa sua remora a trattare sociologicamente l’argomento. Ma poi non ha disdegnato di esaminare con acume e passione l’orientamento religioso o meno degli scienziati italiani, andando dunque ben oltre il taglio solo “orizzontale” e volgendo lo sguardo lungo una prospettiva in “verticale”, rivolta cioè alla trascendenza. E proprio a questo proposito viene evidenziata in forma incontestabile una decisa capacità previsionale del sociologo, in grado di fiutare la mainstream in arrivo, in via di emersione. Non può certo sfuggire la valenza futuribile del discorso sulla bioetica, avviato con decenni di anticipo sulle diatribe contemporanee. Non si tratta di un’intuizione generica: è invece abbastanza circostanziata in quanto già si erano individuati “interrogativi esistenziali e coscienziali” relativi a soggetti individuali.
Subito dopo si ripropone la vexata quaestio del rapporto fra Ardigò e la sociologia della religione, della quale egli non intendeva interessarsi per ragioni di “scelte di fede e di morale personale”. Invece non c’è esitazione nel sovrapporre, diciamo pure con qualche forzatura, il concetto di persona a quello di soggetto, cercando in qualche modo di fare andare d’accordo Mounier e Maritain con Touraine. L’impresa può sembrare disperata ma egli l’affronta comunque e cerca di tirare al suo mulino l’acqua touraineana. Ed ancora una volta cita appunto un autore straniero, gli aggiunge l’attributo di “ultimo” con riferimento implicito ad un nuovo punto di arrivo o di svolta, lo ripropone all’attenzione dei sociologi italiani, il tutto in una chiave personalista il cui obiettivo palese è il recupero della dimensione individuale in alternativa a prospettive più collettivizzanti di tipo macro-sociale. Dunque egli coglie la felice e propizia occasione dell’opera di Touraine per rilanciare l’idea di un ritorno al soggetto[13].
Un tale richiamo alla centralità del soggetto-persona rinvia al problema della responsabilità morale e dunque anche alla dimensione religiosa, che nel caso specifico della militanza politica viene declinata dallo stesso Ardigò in chiave di appartenenza non democristiana bensì da “cattolico democratico” (qui torna d’obbligo richiamare l’esperienza della “Lega Democratica” specialmente nel 1981-1982). Peraltro l’attenzione a religione e Chiesa non si traduce in opere scientifiche ma in lavori “destinati al dibattito per la cultura politica”.
In fondo il Nostro ha preferito la «cautela, con effetti di riserbo, a svolgere riflessioni e ricerche empiriche proprio su tali temi. Pur con tutta la laicità di ascendenze sturziane e maritainiane, e le condivisioni dossettiane e morotee, debbo riconoscere che i temi in cui la vita sociale e politica tocca dimensioni e problemi della Trascendenza non mi lasciano neutrale, non mi fanno corrivo ad interloquire»[14]. Dunque la scelta di non intervenire sociologicamente con analisi scientifiche sulla religione è consapevole e meditata. La lettera iniziale maiuscola da lui usata per indicare la trascendenza non è casuale ed anzi risulta in questo contesto un chiaro indicatore del suo modo di pensare, teso a scindere la tensione scientifica ma anche a sottolineare la passione della fede, che lo aveva visto aderire dapprima alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana e poi al Movimento Laureati di Azione Cattolica (di cui è stato vice presidente nazionale).
8. La militanza intellettuale come religione
Ardigò ha, nel corso della sua vita, perseguito un modello di impegno intellettuale a largo raggio che è andato dall’insegnamento universitario al management sanitario, dalla pubblicistica scientifica a quella divulgativa, dalla militanza partitica a quella associativa di matrice religiosa, dalla pianificazione amministrativa a quella territoriale. Come ha ricordato Roberto Beretta, in forma sintetica eppure precisa, egli era «convinto che la politica fosse pensabile solo se illuminata dalla trascendenza ma contemporaneamente vissuta con autonomia da laici»[15]. Le posizioni ardigoane non hanno mancato di creare difficoltà ai fautori di una religione-di-chiesa tutta dedita alla conservazione dello status quo. Egli non intendeva dismettere mai l’abito di cattolico ma in pari tempo non assumeva posizioni integraliste. Anzi la sua stessa dinamicità come promotore di varie iniziative culturali era tutta improntata ad uno spirito non fazioso, anche se poi assumeva posizioni nette nei riguardi di orientamenti piuttosto pregiudiziali e poco aperti a considerare l’alterità. Insomma temeva e contrastava gli oltranzismi di ogni natura, di qualunque provenienza, anche interna alla Chiesa stessa. Nota, per esempio, era la sua strenua difesa della famiglia secondo un’ottica tipicamente cattolica ma altrettanto lo era il suo atteggiamento critico nei confronti di un episcopato poco propenso a dare spazio al laicato. Nel contempo segnalava ulteriori orizzonti di dedizione alle persone: le nuove forme di volontariato, le esperienze nazionali ed internazionali di solidarietà, le forme di partecipazione politica diretta dei cittadini alla cosa pubblica, le opportunità offerte dal cosiddetto terzo settore e dalle sfere intermedie dell’agire sociale. Tutto ciò era decifrabile, anche da parte di un osservatore poco attento, come un insieme di indicatori evidenti di una sottesa visione religiosa della vita, che faceva di Ardigò un profeta moderno, dapprima indagatore della realtà sociale e poi elemento propulsore di iniziative ad hoc volte a sperimentare cambiamenti e riforme che fossero utili nell’interesse dei soggetti umani. Fu questa la logica che spinse Ardigò, nel convegno tenuto dalla Democrazia Cristiana a San Pellegrino nel 1961, a porre le basi per un apertura politica a sinistra, sulla scorta di una lettura puntuale dell’enciclica roncalliana Mater et Magistra.
9. Etica e religione
L’ispirazione religiosa del Nostro è una sorta di variabile indipendente del suo percorso di vita, attraversato da esperienze plurime, ognuna delle quali riconducibile ad un medesimo spirito di fede cristiana che pervade indicazioni e scelte, letture ed interpretazioni. Valga per tutti il caso esemplare della sanità. Assunto alla massima responsabilità dell’Istituto Rizzoli di Bologna, all’avanguardia sul piano scientifico, sperimentale ed organizzativo, Ardigò si ritrovava a gestire la riforma sanitaria voluta da Rosy Bindi nel 1999. Dopo aver rilevato che la maggioranza dei medici ospedalieri aveva aderito all’innovazione legislativa (dedicandosi esclusivamente all’attività in ospedale) e che si erano firmati diversi contratti di primaria rilevanza nel settore (dalla dirigenza sanitaria ai medici di base ed agli specialisti ambulatoriali), egli guardava in anticipo al trasferimento della gestione del Fondo Sanitario Nazionale alle Regioni ed alle difficoltà di applicazione del decreto legislativo n.o 229 del 1999, specie in relazione all’opzione da esercitare fra le attività ospedaliere intra moenia ed extra moenia. Dopo tante riforme sanitarie, le numerose denunce di cattiva sanità, le istanze consumistiche di molti utenti del servizio sanitario ed i condizionamenti delle multinazionali sui medici per la prescrizione e vendita di vari prodotti farmaceutici, l’istanza di Ardigò era volta ad un recupero della questione etica pure in campo medico. Ed in effetti così si esprimeva in proposito: «se il mondo degli operatori e dei volontari della sanità italiana non vuole continuare ad essere schiacciato o peggio incline a farsi dominare dagli interessi più egoistici, è doveroso riaprire e rinvigorire la coscienza morale di quanti operano nel mondo delle cure e della salute. Ciò, anzitutto per distinguere l’appello alla retta coscienza: dal soggettivismo consumistico, non capace di condizionare le pulsioni istintuali, e dal fissismo della tradizione là dove esso provoca esiti solo difensivi e di chiusura pregiudiziale al nuovo»[16]. E subito dopo emergeva la dimensione etico-religiosa: «occorrono, invece, coscienze personali ed interpersonali che si interrogano in tema di bene e male, di giusto e ingiusto, sia con richiamo a quella legge morale interna alla persona, iscritta – come dice san Paolo – nel cuore di ognuno (Romani, 2, 14-15)»[17].
Il riferimento al testo paolino non era affatto fuori luogo perché richiamava il fatto che anche i non cristiani, i non credenti (ovvero i pagani, secondo il linguaggio di Paolo di Tarso), pur non avendo a loro disposizione la legge divina, si rifanno ad una legge propria, naturale, secondo la quale c’è una coscienza, un foro interiore che «volta per volta accusa o difende». Di conseguenza, proseguiva Ardigò, «questo richiamo al rinvigorimento dell’etica personale non può essere dissociato dal fatto che dare risposte in coscienza alle problematiche anche più inusitate nascenti dalla macro scienza bio-medica e dal soggettivismo consumistico di certi utenti, significa prepararsi alla complessità dei contesti, a decidere nell’ambivalenza. Perciò la bio-etica non ha da fermarsi all’approccio naturalistico o farmacologico. Perché occorre far maturare coscienze personali anche al rischio insito nel cercare di risolverli. In questi nuovi cambi delle tecnoscienze bio-mediche si richiedono responsabilità personali in cui la tradizione può orientare ma non pretendere di produrre ricette semplificate»[18]. Lo stesso Ardigò non proponeva dal canto suo facili e sbrigative ricette ma era aperto alla problematicità, pur ancorato com’era alla sua prospettiva di credenza religiosa. Sta di fatto però che con evidente lungimiranza egli sollevava questioni in via di ulteriore sviluppo, come le diatribe contemporanee sul cosiddetto testamento biologico o sul fine vita.
Ma non era solo la sanità a preoccupare Ardigò, giacché vi erano problematiche di ancor più ampio respiro con risonanze e conseguenze sul piano internazionale, come nel caso dell’incontro speciale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization) tenutosi a Seattle (sede di importanti industrie aeronautiche ed elettroniche negli Stati Uniti) tra novembre e dicembre del 1999, nonché di un’altra riunione internazionale organizzata a Davos (località per gli sports invernali, in Svizzera), tra gennaio e febbraio del 2000, dal Forum Economico Mondiale (World Economic Forum). In occasione del turning point fra due millenni non erano mancate contestazioni della globalizzazione in atto che procedeva con una marcia quasi senza ostacoli. Dalla cosiddetta battaglia di Seattle, che aveva visto esprimere numerosi e vasti dissensi nei confronti delle politiche di liberalizzazione dei commerci mondiali, e dalla più contenuta dimostrazione di volontari a Davos giungevano ad Ardigò sollecitazioni che egli raccoglieva immediatamente, condividendo «la richiesta di regole certe per frenare la globalizzazione commerciale con competizione selvaggia, e per avviare una globalizzazione dal volto umano contro la distruzione delle culture e identità e gli stili di vita tradizionali locali, contro la distruzione degli ambienti, contro la regressione delle condizioni di vita in larghe parti del mondo»[19]. Ancora una volta il sociologo dell’Università di Bologna metteva in campo un testo ecclesiale. In questo caso cercava sostegno nel Pontifico Consiglio della Giustizia e della Pace (Pontificium Consilium de Iustitia et Pace), del quale citava un dettagliato documento sui problemi incontrati dai paesi in via di sviluppo nel reggere la concorrenza della globalizzazione commerciale. Ardigò sottolineava che esso «ha denunciato le manipolazioni dei grandi poteri economici globalizzanti a squilibrare i rapporti commerciali a danno dei paesi poveri. I quali ultimi, avendo subito forti riduzioni nel valore delle monete nazionali, si sono trovati a subire pesanti tracolli nella vendita all’estero dei pochi prodotti nazionali diversi dal petrolio. La nota del Pontificio Consiglio ha anche denunciato l’aggravio di barriere tecniche imposte dai Paesi sviluppati ai Paesi in via di sviluppo e la mancanza o scarsità di aiuti dati al Terzo mondo per il trasferimento di tecnologie, di informazioni, di fondi e di personale esperto, risorse tutte necessarie per specializzare produzioni da esportare. Il documento si chiude con una proposta pregevole, che dopo la “battaglia di Seattle” è sperabile trovi orecchie meno chiuse che in passato. “Sarebbe importante – conclude il documento – che il WTO realizzasse un dialogo più sistematico e costruttivo con i gruppi rappresentativi della società civile per un accreditamento e una regolare consultazione”. Saggio consiglio. Ma ancora troppo blando rispetto agli accadimenti feroci delle multinazionali le quali, per proteggere i loro investimenti, sono state e sono capaci di distruggere risorse naturali, finanziare dittatori spietati, manipolare pesantemente il commercio internazionale»[20]. Ecco, era appunto questo l’Ardigò pugnace che mentre apprezzava lo sforzo coraggioso di un organo ecclesiale ne lamentava i limiti operativi e la portata sociale. Egli chiedeva ancora di più ed allora gli faceva maggiormente gioco un altro approccio, quello della «denuncia di Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis: “Il sistema internazionale di commercio oggi discrimina frequentemente i prodotti delle industrie incipienti dei Paesi in via di sviluppo, mentre scoraggia i produttori di materie prime” (Sollicitudo rei socialis, n.o 43). Per fortuna, una parte dei Paesi in via di sviluppo è ben decollata dagli anni Ottanta. Ma un’altra parte ha subito e sta subendo regressioni imprevedibili. Dunque, non affidiamoci solo o tanto alla buona volontà del WTO»[21]. Insomma il realismo sociologico di Ardigò metteva in guardia da facili esaltazioni, sia di marca socio-politica che ecclesiale, e domandava un forte impegno anche mediante «internet, la comunicazione e la presenza internazionale contro la globalizzazione selvaggia e per una globalizzazione sostenibile»[22]. Qui la sociologia invero cedeva il posto alla deontologia, ma si trattava di una conseguenza che non poteva non derivare dall’opzione etico-religiosa di fondo di Ardigò, che parlava appassionatamente di «vocazione internazionale del volontariato», di «appello e speranza», di «pace» e di «politica comunitaria ed internazionale», convinto com’era che le sommatorie delle buone volontà del volontariato e della società civile non erano sufficienti se non sono sorrette da scelte politiche mirate ed in controtendenza.
10. Uno sguardo escatologico
Un momento particolarmente significativo per comprendere la personalità ma anche lo spirito religioso dell’intellettuale Ardigò è offerto da alcune sue riflessioni sul passaggio di secolo e di millennio nel 2000[23]: «non a caso l’evento è stato iscritto dalla Chiesa in un Giubileo che, forse, sarà ricordato a lungo, almeno come lo fu, per la mia generazione, il Giubileo del 1950 dedicato al dogma dell’assunzione al cielo di Maria». Il testo è stato scritto ancor prima che la celebrazione giubilare avesse inizio nella notte di Natale del 1999. Esso risentiva di qualche timore in relazione all’evento, che però il cattedratico dell’Università di Bologna tendeva a fugare, anche se «non pochi avvertono l’evento con paura, o almeno con la sottile angoscia di fronte alla catena di gravissime catastrofi artificiali e naturali che rendono quasi ogni giorno carica di sofferenze la vista e l’ascolto dei telegiornali, per giunta all’ora dei pasti»[24]. Queste considerazioni andavano sviluppandosi in un quadro contingente che ancora non aveva visto l’11 settembre del 2001 a New York, allorquando in diretta televisiva in orario appunto prandiale si sarebbe assistito al tragico crollo delle due torri gemelle di Manhattan.
E comunque anche alla fine del 1999 appariva chiaro che ci fosse una certa «stanchezza con cui, persino nella Chiesa, reagiamo alla tumultuosità dei disordinati cambiamenti e innovazioni e non solo dei disastri che rendono il mondo sempre meno leggibile»[25].
C’era un certo pessimismo, quasi presago di quanto sarebbe successo in seguito (dalla guerra in Irak alle tensioni etnico-religiose in Afghanistan). Ma soprattutto si aveva la sensazione di un cristianesimo in difficoltà, testimoniata da Ardigò attraverso le parole pronunciate nel monastero di Camaldoli dal vescovo Walter Kasper: «“il cristianesimo si trova in una fase di debolezza. Nonostante tutti i fermenti buoni, positivi e ricchi di speranza che incontestabilmente esistono, la chiesa soffre di una stanchezza interna”. Malgrado la continua profezia, specie dopo la caduta del muro di Berlino, di Giovanni Paolo II, la Chiesa è contaminata, aggiungo io, dalla caduta della cultura umanistica, anche laica, nell’età post-moderna. Una cultura che – continua Kasper – “non riconosce più alcun valore, alcuna idea e alcun ideale generalmente e universalmente vincolanti; non osa più elaborare grandi progetti e visioni. (…) È tramontato … l’entusiasmo per i grandi obiettivi e le grandi speranze”»[26]. Finite le illusioni, accantonate le attese legate alla primavera conciliare del Vaticano II, sembrava prevalere lo sconforto. Ardigò se ne faceva interprete e si lasciava andare ad amare prese d’atto, salvo poi soggiungere: «ma non abbandoniamoci a speranze degne dell’inizio di un nuovo millennio se prima non facciamo qualcosa per scongiurare il rischio della continuità solo difensiva di molti di noi cristiani. Possiamo essere interpellati dall’evento del passaggio d’epoca solo se rimuoviamo i segni della stanchezza e se ci sforziamo di rispondere con discernimento creativo alla comprensione dei segni dei tempi e alle sfide operative conseguenti»[27].
La conclusione ardigoana era un ulteriore invito al darsi da fare, per cui «occorre disporre anche di spiritualità, personale e di Chiesa, che sia sentiero per rischiare nella innovazione senza sponde e norme pre-definite. Questa spiritualità non ci viene dall’interno delle tecnologie e delle loro prassi»[28]. E peraltro il mondo degli scienziati, tempestivamente indagato da Ardigò in precedenza[29], sempre più appariva ed appare connotato da drammatici dilemmi su decisioni da assumere specie in relazione alla vita degli esseri umani. Non a caso la persistenza della religione era stata indicata da Business Week, in data 23-30 agosto 1999, citato dallo stesso Ardigò, come una delle 21 idee per il nuovo secolo: «“scienza e religione troveranno qualche base comune. Gli scienziati si interrogheranno sulle maggiori questioni circa l’origine e i modelli di vita sulla terra e i fedeli accoglieranno i discernimenti materialistici dentro le loro esperienze dell’estasi spirituale, della preghiera e delle guarigioni”»[30]. La replica di Ardigò giungeva immediata: «è proprio per rimuovere questo pericolo di ulteriore omologazione materialistica (anche nelle risposte umane al bisogno religioso che cresce) che dobbiamo svegliarci al passaggio di secolo, reagire alla stanchezza che penetra anche nella Chiesa»[31].
11. Conclusione
Molte altre potrebbero essere le citazioni, i riferimenti, i rinvii, le tracce e le radici di una visione religiosa della realtà che ha accompagnato il lungo percorso esistenziale di Achille Ardigò. Di lui si potrebbe dire quello che è stato osservato anche per il suo antenato famoso, il filosofo Roberto Ardigò, uno dei maggiori esponenti del positivismo italiano. Infatti «per lui il problema prevalente non è la filosofia, bensì la religione: questa personifica in senso oltremondano la giustizia, negando – di fatto – l’evoluzione umana voluta dall’uomo e chiudendo la scienza in un vicolo cieco. Sono appunto i termini di questa negazione che per Ardigò vanno affrontati sociologicamente. Egli è il primo positivista in Italia che cerca di dotare la teoria sociologica delle attitudini indispensabili per far procedere il sapere scientifico sulla strada della revisione delle tradizionali concezioni metafisiche e teologiche, anche se questa rivisitazione della morale fa assumere alla Sociologia le “sembianze originarie” di una “scienza ideale” o di un “ideale pedagogico”»[32].
C’è però un altro versante che dimostra in pieno quanto profonda e convinta fosse in Achille Ardigò la concezione religiosa della persona, dell’altro, del prossimo – per dirla in chiave prettamente cristiana e cattolica –. Egli, già cattedratico di fama e caposcuola riconosciuto della sociologia cattolica, non disdegnava di mettersi letteralmente a correggere, rivedere, commentare, parola per parola, le prime prove di giovani studiosi, magari appena laureati. In tali occasioni si mostrava prodigo di consigli, suggerimenti, sia grammaticali che sintattici, sia scientifici che editoriali.
Così al giovane sociologo della religione che scriveva «a nostro avviso non è possibile dare, in chiave sociologica, una definizione universalmente valida di religione, giacché essa deve nascere dallo specifico dell’ambito al quale si intende applicarla, per non correre il rischio di classificare come religioso o non religioso un fenomeno che casualmente non dovesse rientrare in una serie di parametri classificatori prestabiliti a priori o con una superficiale analisi fenomenologico-comparativa»[33] Ardigò aggiungeva di proprio pugno, a matita: «ma questo è relativismo della peggior specie!». Se poi l’ardimentoso autore si spingeva sino a sostenere che «la soluzione ideale, proposta da Milanesi, è che “una definizione dell’oggetto della sociologia della religione può dunque essere data solo a posteriori, dopo lo sforzo di comprensione dei fenomeni che si presumono essere religiosi”» subito, perentoria, giungeva la sconfessione da parte di Ardigò che sbottava in un «è falso! epistemologicamente infondato». Una simile presa di posizione è troppo netta, però, per potersi riferire solo al giovane studioso e non invece, più verosimilmente all’altro e più maturo studioso citato, cioè a Giancarlo Milanesi[34], allora esponente di spicco di una schiera di studiosi salesiani specialisti in sociologia della religione.
Molte osservazioni critiche di Ardigò in campo religioso più che indirizzarsi ad avversari ideologici o a controparti intellettuali sono piuttosto rivolte ad esponenti interni alla sua Chiesa di appartenenza, che a suo giudizio non operano secondo canoni di correttezza comportamentale e neppure appaiono consapevoli, fino in fondo, delle valenze e delle ripercussioni del loro agire. Invece la linea propositiva di Ardigò è indirizzata ben diversamente, cioè verso una militanza consapevole, maturata attraverso esperienze molteplici e fattasi asse portante di un’intellettualità rigorosa ed eticamente orientata.
Riferimenti bibliografici
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[1] Cfr. Mounier [1932].
[2] Cfr. Conilh [1996: 41].
[3] Cfr. San Giovanni della Croce [1991].
[4] San Giovanni della Croce [1991: 44].
[5] San Giovanni della Croce [1991:79].
[6] Cfr. Ardigò [1998].
[7] Conilh [1966: 51-52].
[8] Cfr. Cipriani [1997: 116-120].
[9] Cfr. Maritain [1966].
[10] Cfr. Bergson [1963].
[11] Cfr. Cipriani [1997].
[12] Ardigò [1997: 351-352].
[13] Izzo [1990].
[14] Ardigò [1997: 350-351].
[15] Beretta [2008].
[16] Ardigò [2000b: 10].
[17] Ardigò [2000b: 10].
[18] Ardigò [2000b: 10].
[19] Ardigò [2000a: 8].
[20] Ardigò [2000a: 9].
[21] Ardigò [2000a: 9].
[22] Ardigò [2000a: 9].
[23] Ardigò [1999: 35].
[24] Ardigò [1999: 35].
[25] Ardigò [1999: 35].
[26] Ardigò [1999: 35].
[27] Ardigò [1999: 36].
[28] Ardigò [1999: 36].
[29] Ardigò, Garelli [1989].
[30] Ardigò [1999: 36].
[31] Ardigò [1999: 36).
[32] Rinzivillo [1991: 29].
[33] Testo dattiloscritto in possesso dell’autore..
[34] Milanesi [1973].