LA RELIGIOSITÀ DEI ROMANI

Roberto Cipriani

Premessa

Questa è un’occasione che colgo con grande piacere, anche perché della realtà romana ormai da più decenni conosco diverse dinamiche. Vorrei anche ricordare che da molti anni, quasi un trentennio, non si aveva una mappa precisa della religiosità romana, cioè sin dai tempi in cui il gesuita Emile Jean Pin, docente nella Pontificia Università Gregoriana, condusse una ricerca i cui risultati vennero poi pubblicati in un volume dal titolo La religiosità dei romani, edito dalle Dehoniane di Bologna nel 1975.

Ora finalmente si ha a disposizione quanto risulta dall’indagine nazionale sulla religiosità in Italia, finanziata anche dalla Conferenza Episcopale Italiana (fatto importante questo ed innovativo rispetto ad un passato di scarsa attenzione se non di sospetto nei riguardi delle scienze della società).

L’inchiesta, predisposta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e fortemente sostenuta dal suo rettore Adriano Bausola, ha interessato oltre settemila soggetti in tutte le regioni italiane. A Roma, in particolare, invece delle sole 250 interviste previste se ne sono effettuate più di 700, utilizzando un campione del tutto rappresentativo sul piano statistico, non solo perché triplicato rispetto a quanto già previsto in partenza ma anche perché ci ottengono riscontri puntuali fra i dati rilevati dall’indagine e la realtà di fatto (si pensi all’otto per mille, ad esempio).

I nominativi dei soggetti da intervistare sono stati estratti casualmente dalle liste elettorali maschili e femminili. Non si è quindi ripetuto l’errore di qualche studio precedente, condotto intervistando le persone all’uscita dalle chiese dopo la messa domenicale.

Nell’ambito, dunque, dell’indagine nazionale sulla religiosità in Italia (cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, Mondadori, Milano, 1995) l’approfondimento condotto a Roma su 730 soggetti (di cui 30 stranieri) ha messo in luce caratteristiche più accentuate che nel resto d’Italia con particolare riferimento alla ridotta partecipazione alla pratica festiva (quella regolare settimanale nella città di Roma è dichiarata al 23,3% mentre la media italiana è al 31,1%). Solitamente si calcola – come suggeriscono alcuni studi appositi in materia – che vi sia una differenza attorno al 5% fra la dichiarazione di pratica religiosa ed il comportamento reale al medesimo riguardo. Dunque i praticanti romani regolari si attesterebbero sul 18% circa. Il che rappresenta un dato più alto di qualche punto rispetto a quanto registrato in diocesi come Siena e Genova, che presentano dati al di sotto del 15%.

Il 22,1% dei romani non va mai a messa. Il 29,6% non si accosta mai alla comunione. Il 38,1% non si confessa. E quasi il 10% dei capitolini sembrerebbe accostarsi alla comunione senza confessarsi. Tuttavia Roma non è certo la città meno praticante d’Italia.

A ben considerare anche altri dati rilevati nell’indagine romana, emergono alcuni indizi significativi di religiosità che indurrebbero a verificare l’ipotesi sociologica di una più “diffusa” (almeno numericamente) attenzione al sacro vissuta all’esterno delle espressioni ufficiali di chiesa che non all’interno dell’esperienza ecclesiale tradizionale, che comunque rimane fonte ed ispirazione della “religione dello scenario” (cfr. Franco Garelli, La religione dello scenario. La persistenza della religione tra i lavoratori, il Mulino, Bologna, 1986), della “religione implicita” (cfr. Arnaldo Nesti, Il religioso implicito, Ianua, Roma, 1985), della “religione comune” (cfr. Robert Towler, Homo religiosus: sociological problems in the study of religion, Constable, London, 1974).

Selvadagi nel suo intervento ha sottolineato il ruolo-chiave della cosiddetta religione diffusa (cfr. Roberto Cipriani, La religione diffusa. Teoria e prassi, Borla, Roma, 1988). In fondo appare legittimo sostenere che proprio la religione diffusa è la modalità religiosa maggioritaria a Roma (e non solo). Di tale religiosità, quasi sempre al di fuori della cosiddetta religione di chiesa, è larga traccia attraverso la presenza della preghiera, rilevabile in quasi il 70% degli intervistati romani. Certamente vi sono differenze notevoli all’interno di questo dato, che comprende sia chi si dedica all’orazione anche più volte ogni giorno sia chi invece lo fa solo una volta in un intero anno. Ma la realtà inoppugnabile è appunto data da questo ricorso al dialogo con la divinità, in una situazione che si presume libera dai condizionamenti ambientali, dal controllo sociale e familiare, dalle possibili sanzioni psicologiche ed affettive di tipo relazionale.

In passato non si era colta debitamente la valenza di tale religione diffusa, che era stata catalogata genericamente come indifferenza religiosa, con una percentuale di circa il 55% sul totale (cfr. Silvano Burgalassi, Le cristianità nascoste, Dehoniane, Bologna, 1970)

Per meglio conoscere le dinamiche interne di una religiosità così composita torna utile soffermarsi su quattro indicatori strategici:

1 – la tipologia religiosa dei romani;

2 – la presenza della chiesa a Roma;

3 – il ruolo della parrocchia nel contesto romano;

4 – il personale religioso nella realtà romana.

1 – La tipologia religiosa dei romani

Sulla base di indicatori quali l’andare a messa, confessarsi ed altro ancora, il 35% dei romani intervistati presenta un indice religioso medio-basso; ma per il 21,4% è basso e per il 19,1% è nullo. La religiosità medio-alta ed alta assommano al 24,5%.

In termini di tipologia religiosa la composizione della popolazione romana si articola secondo sei categorie attitudinali e comportamentali:

a – 12% di religione di chiesa primaria (cioè di soggetti più vicini all’istituzione);

b – 11% di religione di chiesa secondaria (cioè di soggetti religiosi ma più critici);

c – 15% di religione diffusa primaria;

d – 23% di religione diffusa intermedia;

e – 18% di religione diffusa periferica;

f – 21% di non religione.

2 – La presenza della chiesa a Roma

La visibilità della chiesa a Roma costituisce in pari tempo un punto di forza e di debolezza. Se per un verso la città gode del doppio privilegio della presenza del papa e della sua centralità rispetto al mondo cattolico, per un altro verso la sua ridondanza a livello simbolico-religioso e rappresentativo-pubblico può rendere più ardua la sua credibilità socio-pastorale. L’evento giubilare del 2000 rende ancora più evidente questa “ipereccedenza della visibilità” della chiesa cattolica che è in Roma, sottoposta a rilievi, critiche, prese di distanza a carattere tendenzialmente o dichiaratamente laico.

L’appartenenza cattolica resa esplicita dagli intervistati romani giunge al 78,3% ma in Italia è in media all’88,6%. Del resto prevale una modalità dell’appartenere che appare convinta sul piano personale ma che non si traduce per i romani in un impegno attivo, come sostiene il 42,7% del campione. In effetti il 63,4% non partecipa ad associazioni e movimenti cattolici a carattere nazionale, mentre il 18,3% partecipa saltuariamente ed ancora il 18,3% regolarmente.

3 – Il ruolo della parrocchia nel contesto romano

Il 45,6% dei soggetti intervistati dice di non partecipare a gruppi parrocchiali. Il 30% invece appare più regolare nella partecipazione, che risulta saltuaria per il restante 24,4%.

La partecipazione ad incontri, conferenze, dibattiti, iniziative organizzate dalle parrocchie (o da altri gruppi o centri religiosi) interessa il 13,6% per motivi personali, il 5,4% a motivo dei figli (catechismo, prima comunione, gruppo giovanile, scuola), per entrambi i motivi il 2,6%, per altre ragioni l’1,8%, mentre il 76,6% non interviene mai.

Il 60,1% non offre denaro alla parrocchia ma il 27% lo fa spesso. Nondimeno un attaccamento ad essa è prevalente, se rispetto ad un’ipotesi di chiusura o soppressione della sede parrocchiale il 39,4% pensa che la vita sociale ne risentirebbe abbastanza negativamente, il 30,3% molto negativamente. Mostra una totale o parziale indifferenza in proposito solo il 17,7%.

In effetti, comunque, è sempre la solita fascia di circa un quarto della popolazione che interviene, partecipa, si aggrega, collabora più spesso.

4 – Il personale religioso nella realtà romana

Il 56,2% dei romani ritiene giusto l’8 per mille, dunque si orienta in senso favorevole al finanziamento delle attività svolte dal personale religioso.

D’altra parte il giudizio complessivo sulla chiesa cattolica è positivo o molto positivo per il 34,3%, è incerto per il 24,7%. Tuttavia è critico o negativo per il 41%. In ogni caso si tratta di un orientamento più favorevole che non nei confronti di altre istituzioni (partiti, sindacati, ecc.).

Tra le opere da svolgere da parte della chiesa viene messo al primo posto l’aiutare chi ha bisogno e chi soffre (lo sostiene il 31,3% del campione, ma se si aggiungono anche la seconda e la terza scelta previste dal questionario l’insieme raggiunge il 68,6%, punta massima delle opzioni indicate, il che verifica ampiamente l’ipotesi secondo la quale a Roma la chiesa cattolica sia apprezzata in primo luogo per l’azione della Caritas).

Compito del personale religioso dovrebbe essere, secondo le prime tre scelte del campione romano, “promuovere la pace tra le nazioni” (per il 38,3%), “educare i giovani” (per il 36%), “annunciare Gesù Cristo e il Suo Vangelo” (per il 30% nel complesso delle tre opzioni, ma già come prima opzione questa modalità dell’evangelizzazione cristiana assorbe il 23,7% ).

Che non ci sia bisogno dei preti e della chiesa giacché “ognuno può intendersela da solo con Dio” è detto dal 36,4%. Intanto però il 35% ritiene la chiesa cattolica “l’unica autorità spirituale e morale degna di rispetto”.

In definitiva, pur tra carenze e difficoltà, la religiosità cattolica ha ancora salde radici nella città sede del papato.

Testo di riferimento:

La religiosità a Roma, a cura di R. Cipriani, con saggi di S. Bolasco, C. C. Canta, C. Costa, L. Diotallevi, F. Garelli, M. I. Macioti, R. Mion, G. Piscitelli, E. Rosanna, D. Schiattone, C. Tognonato, pubblicato da Bulzoni Editore, Roma, 1997, pp. 296.

* Sintesi dalla registrazione audio.