LA RIDUZIONE DEL NUMERO DI SACERDOTI CATTOLICI IN ITALIA. UNA LETTURA SOCIOLOGICA

Roberto Cipriani


Premessa


            Il dato è ormai evidente da più anni a questa parte: si assiste ad una riduzione del numero dei sacerdoti cattolici diocesani in Italia, che erano più di 80.000 nel 1881 (quando la popolazione italiana era di 29.791.000 persone) e che sono diminuiti rapidamente nei cinque decenni successivi, fino a ridursi a poco più di 50.000 nel 1931. Da tale anno in poi il calo, pur costante, è stato più lento, fino al 1981: in tale cinquantennio la riduzione è risultata infatti meno drastica, assommando a circa diecimila unità. Venticinque anni dopo, nel 2005, si è ancora registrata una diminuzione (di quasi ottomila unità) almeno tendenzialmente più accentuata di quella registrata nei cinque decenni  immediatamente precedenti (1931-1981) ma non certo al livello di quella avutasi nel cinquantennio 1881-1931.


Bisogna però anche considerare che nel contempo è aumentata la popolazione italiana (oggi siamo ad oltre 59 milioni di individui). Inoltre è diminuito il tasso di fecondità totale, cioè il numero medio di figli per donna (era di oltre 2,5 negli anni sessanta, mentre ora è di poco superiore all’unità, insomma si è dimezzato), ed è aumentata l’età media (ora a 31 anni, ma in passato a 24 anni) al momento dell’ordinazione dei sacerdoti diocesani in Italia: questi fattori incidono evidentemente sull’andamento del numero di sacerdoti cattolici in Italia. Infine si è andato riducendo anche l’insieme dei sacerdoti nati in Italia, che intorno al 1940 – per avere un termine di riferimento preciso – presentava un tasso di 16 sacerdoti ogni diecimila maschi nati vivi in un anno (mentre oggi sono 10 ogni diciassettemila).


Non va poi dimenticato che alcune centinaia di preti diocesani italiani si sono impegnati come fidei dona  in terre di missione. Peraltro l’immissione in Italia di sacerdoti nati all’estero (sono il 4,5% ma anche mediamente più giovani ed in qualche misura – oltre duecento – polacchi) non fa recuperare di molto le perdite complessive. Vi sono invero differenze significative nel passare da una regione pastorale all’altra (il Lazio, come noto, è un caso a sé, con oltre il 20% di sacerdoti nati all’estero; d’altra parte l’Umbria ha la densità più alta di clero e la Campania la minore). Notevoli sono anche le differenze fra le diocesi (Roma, comunque, è una vera e propria eccezione).


Per i sacerdoti regolari si è avuto nel corso dei decenni un andamento dissimile da quello dei preti diocesani: erano meno di diecimila nel 1881, poi fino al 1931 hanno subito una leggera flessione; ma dal 1931 al 1971 sono aumentati sino a superare il totale di ventimila; in seguito è subentrato un declino affine a quello dei sacerdoti diocesani. In definitiva, pur con qualche oscillazione anche di rilievo nel tempo, il numero dei preti regolari è rimasto sempre inferiore rispetto a quello dei sacerdoti diocesani.


Quale futuro?


Le previsioni per il futuro variano di molto soprattutto in base alle capacità di reclutamento, ma in linea di massima si pensa che verso il 2025 i sacerdoti diocesani in Italia possano essere circa venticinquemila (ma anche quasi trentatremila se si mantiene una densità costante di ordinazioni). Si ritiene anche che a quell’epoca sarà possibile contare su circa 1500 giovani sacerdoti in più rispetto a quelli computabili con un tasso costante di reclutamento. Insomma se le regioni pastorali ora in sofferenza per carenza di vocazioni (e dunque di ordinazioni) dovessero impegnarsi maggiormente nella loro azione si potrebbero registrare risultati ancora più cospicui a livello complessivo. Molto, come nel passato, dipenderà dagli andamenti ciclici nel numero annuale delle ordinazioni (per esempio si sono avuti picchi numerici dal 1963 al 1971 e cali notevoli dal 1979 al 1983, ma poi qualche ripresa nel 1999 e nel 2000). In media nel ventennio 1983-2002 vi sono state 461 ordinazioni annue di sacerdoti diocesani in Italia, ma se si considera il solo decennio 1993-2002 la media è stata leggermente più alta: 494 nuove ordinazioni per anno.


Particolarmente complesso è poi il calcolo per i sacerdoti regolari o “religiosi” che dir si voglia: essi rappresentano un po’ più della metà rispetto al totale del clero diocesano. Nel 2005 (come ultimo dato noto al momento) essi assommano a 17.389, mentre i preti diocesani risultano essere 31.946, per un totale cumulato di 49.335 sacerdoti secolari e regolari in Italia.


In comparazione con la Spagna e specialmente con la Francia, la situazione italiana anche per gli anni a venire tende a presentarsi con livelli quantitativamente superiori. L’andamento statistico potrebbe però cambiare leggermente intorno al 2015, quando la densità del clero in Italia potrebbe scendere al di sotto, semmai, di quella spagnola, ma non certo di quella francese. Va comunque ribadito che l’incidenza maggiore sulla riduzione del numero dei sacerdoti diocesani deriva, ovviamente, dalla mortalità delle fasce di età più anziane: queste ultime costituiscono una quota parte rilevante rispetto all’insieme dei sacerdoti diocesani nel Paese. In effetti circa cinquecento ordinazioni per anno non sono sufficienti a mantenere i livelli precedenti; peraltro nel 2005 sono stati solo 399 i nuovi sacerdoti diocesani ordinati e si sono registrate ufficialmente 49 defezioni.


Non va infine trascurata la nuova realtà dei diaconi permanenti, che nel 2005 erano 3.124 del clero diocesano e 56 del clero religioso. Occorre poi aggiungere 3.210 religiosi non sacerdoti, per non parlare della peculiare consistenza del numero delle religiose (ben 101.564). Ma ancora più numerosi sono i catechisti, che risultano essere ufficialmente 209.546.  


Un confronto con l’Oltralpe


            Una recente ricerca di Céline Béraud sul “mestiere” di prete in Francia ha accertato che la riduzione del numero dei sacerdoti ha comportato una maggiore attenzione al ruolo prettamente religioso, facendo mutare dunque il profilo abituale delle attività quotidiane di un sacerdote. Egli è spinto infatti verso una maggiore mobilità territoriale (il miglioramento delle vie di comunicazione e la maggiore rapidità dei trasporti lo favoriscono abbastanza sotto questo aspetto, un po’ limitato nel passato da fattori contingenti). In particolare il ministro di culto non appare più legato alla sola struttura parrocchiale di sua pertinenza ma è costretto a seguirne pastoralmente anche altre. E d’altro canto i suoi luoghi di azione non si riducono più agli ambiti strettamente ecclesiastici.


            Una tale accresciuta mobilità del sacerdote lascia maggior spazio alla sua comunità e soprattutto ai laici, che però hanno aspettative peculiari di animazione e cura pastorale, rispetto alle quali in buona misura il presbitero può non aver avuto in seminario (od in altri luoghi formativi) la necessaria ed adeguata preparazione. Si crea così uno iato fra aspettative suscitate e prestazioni fornite.


            L’impegno invero è su più fronti: quello del rito, dove si richiede una competenza cerimoniale primaria, che non si acquisisce facilmente perché sono in gioco variabili complesse ed articolate sul piano simbolico, comunicativo, semiotico e contenutistico; quello della guida, ovvero dell’accompagnamento, che consiste nel seguire da vicino le iniziative, gli apprendimenti e le forme di socializzazione; quello dell’etica intesa come risorsa principale, punto di riferimento esemplare ed emblematico, continuamente sottoposto a verifica da parte altrui.


            Orbene nelle diverse funzioni rituali, educative ed etiche si assiste ad una vera e propria divisione del lavoro con i laici. Il tutto si trova poi a fare i conti con i nuovi modelli di credenza, l’autonomia anche spirituale delle persone e la difficile gestione dell’appartenenza ecclesiale.


            Si rileva dunque una ricerca di legittimazione del nuovo prete nella società contemporanea, quasi nel tentativo di recuperare una credibilità sempre più a rischio. L’obiettivo immediato appare quello di riprendere quota in uno spazio pubblico che non concede facilmente cittadinanza. Ecco perché, dopo l’impegno profuso nel seguire e portare a compimento la sua vocazione, il prete cerca un suo statuto sociale che in qualche modo lo ricompensi degli sforzi compiuti per raggiungere il suo ruolo sociale. A questo punto egli cerca di farsi valere per la professionalità nello svolgimento dei suoi compiti e per la specificità della sua stessa opzione professionale.


            Il suggello della vocazione è certamente l’ordinazione ma questa segna anche un termine di separatezza e di distinzione rispetto alla comunità sociale di appartenenza. Vi aleggia l’idea di un dono spirituale divino ma anche quella di una connotazione sacrificale. Ecco quindi che si riaffaccia la prospettiva piuttosto dell’altare che non del vangelo. Insomma, secondo Béraud, ci sarebbe una propensione persino a sottolineare con l’abito il carattere della diversificazione, non secondo un intento passatista e tradizionalista, quasi da ritorno al tempo che fu, ma piuttosto in chiave di ricomposizione (messa in atto soprattutto dai nuovi preti francesi).


            Non è facile stabilire quanto sia fondata una tale lettura offerta dalla sociologa transalpina ma sta di fatto che in effetti, a fronte della nuova lena assunta dai laici nell’assolvimento di compiti pastorali, il sacerdote contemporaneo sembra volto a superare le sue angosce di ruolo rimettendo in campo qualche distinguo del passato, magari di tipo tridentino.


In tale contesto non è agevole stabilire se in Francia vi sia piuttosto una fuga in avanti o un rifugiarsi nel conservatorismo di vecchio stampo. Forse ci sono l’uno e l’altro atteggiamento: il rigetto delle soluzioni controriformistiche ma pure una predilezione per modalità diversificatrici. Non è fuori luogo immaginare un sacerdote che sia in pari tempo serio, preparato e “moderno” ma anche propenso ad una certa “sontuosità” esteriorizzata della sua posizione. Si capiscono così forse meglio le reazioni registrate proprio in Francia alla reintroduzione della messa in latino, la vexata quaestio che in quel Paese aveva portato ad una sorta di scisma qualche decennio fa (dopo il Vaticano II) con il caso Lefebvre e la sua Fraternità Sacerdotale San Pio X.                        


Nondimeno l’autorità del prete si esprime di continuo attraverso le tre funzioni già indicate, quelle cioè legate a rito, educazione ed etica. Però esse non vengono legittimate e riconosciute pubblicamente una volta per tutte ed hanno dunque bisogno di una costante rinegoziazione. Il che non significa rinunciare ai principi di fondo bensì di ritrovare di volta in volta un equilibrio efficace tra vocazione/professione e impegno/mutamento. Il punto di convergenza, anzi di soluzione, risiede appunto nel singolo ecclesiastico che mette a confronto la sua visione del mondo con i dati non sempre condivisi e/o condivisibili della realtà sociale.


In fondo è un portato innovativo, non abituale, il desiderio da parte del sacerdote di pensare al benessere personale, al rispetto della privacy, al diritto al riposo ed alle vacanze, alla separazione fra luogo di vita quotidiana e luogo di culto, alla frequentazione di amicizie. L’assenza di tali prerogative viene ritenuta, secondo Béraud, una porta aperta agli abbandoni, alle rinunzie, al calo delle vocazioni. Al contrario le risposte positive alla solitudine, attraverso l’autorealizzazione personale, sembrano favorire un atteggiamento positivo nei riguardi del “mestiere” di prete. Altrimenti la soluzione del ritiro prima dell’ordinazione o poco dopo appare giustificata.


La crisi del clero nell’età contemporanea interpella dunque molti responsabili delle situazioni di fatto. Essi non si rendono conto che ormai la legittimità, lo statuto e l’autorità del sacerdote non sono più da considerare come qualcosa di scontato. Si tratta invece di traguardi da conquistare, di mete da raggiungere, mediante una riscoperta delle valenze tradizionali storicamente radicate ed una riappropriazione di competenze specifiche da esercitare con grande professionalità, alla ricerca di un equilibrio che funga da garante ai fini della prosecuzione del percorso presbiterale.


Il sacerdote ha dinanzi a sé un mondo che pare andare nel senso opposto al suo: il dono è raro, la misura di tutto è il denaro, la dedizione di sé non è parte del comune sentire. Dunque la soluzione ministeriale si presenta in chiave di aggancio alla sacramentalità ma pure al celibato quali risorse utili alla distinzione che legittima la funzione stessa del sacerdote.             


Un confronto con il protestantesimo


            L’anticlericalismo più o meno diffuso in Italia come in Europa ha fatto sì che nei riguardi del ruolo sacerdotale non si abbia in generale un atteggiamento positivo. Eppure il concorso dei contribuenti italiani al versamento dell’otto per mille nei confronti della chiesa cattolica e di altre chiese cristiane non è venuto meno, anzi è andato crescendo in questi ultimi anni. Anche a questo proposito parrebbe esserci dunque una contraddizione: da un lato la figura del prete non gode di buona e favorevole stampa ma d’altro canto si riconosce nei fatti la necessità di sostenere il clero. Questo dato di fatto è in evidente controtendenza rispetto ad altri contesti dove la tassazione a destinazione religiosa segue altre modalità e dove si è avuto invece, a partire dagli anni settanta, un netto ridursi del supporto economico alle chiese ed a quelle protestanti in particolare. Il venir meno dunque di una certa stabilità economica ha minato la stessa organizzazione di chiesa, inducendo cambiamenti di tipo strutturale ed occupazionale.


            Ma va precisato che sia il cattolicesimo come il protestantesimo hanno subito notevoli decurtazioni nel numero di pastori non connesse necessariamente alle minori disponibilità economiche.


Negli Stati Uniti il decremento di preti cattolici ha toccato il 40% nell’ultimo quarantennio, presumibilmente piuttosto in relazione all’obbligo del celibato ma indirettamente anche al diniego magisteriale del sacerdozio femminile (un tema segnatamente presente nel dibattito religioso-culturale statunitense).


Le carenze di clero hanno riguardato anche il mondo protestante, che ha visto il ritiro di intere generazioni di ministri del culto ordinati nel dopoguerra, senza che venissero sostituite da nuove leve. Ma soprattutto tra i protestanti si è assistito ad un orientamento del clero a trovare occupazioni supplementari, slegate dall’impegno ecclesiale. In vari casi poi sono state concesse ai laici autorizzazioni di natura cultuale per necessità locali, in sostituzione dei pastori. Oppure ministri di culto già ritiratisi dalla cura di un territorio sono stati richiamati in servizio per una sorta di interim suppletivo. Singolare ed emblematica è tuttavia l’eccezione della Chiesa Episcopaliana che ha aumentato del 60% il proprio clero negli stessi anni in cui le altre chiese cristiane sono state in crisi per esodi di massa dovuti, specie nel cattolicesimo, a problemi di solitudine, celibato e conservatorismo nei valori. Resta comunque peculiare del clero protestante la ricerca di un altro lavoro, di un’occupazione più stabile ed economicamente gratificante. In proposito mancano tuttavia apposite indagini che individuino le motivazioni specifiche di una scelta occupazionale extraecclesiale o di un abbandono definitivo del ruolo. Un’ipotesi interpretativa è stata suggerita (cfr. Hoge et al. 1981): si tratterebbe di una crisi di identità dovuta all’ambiguità, all’incertezza del ruolo di presbitero. Il che potrebbe applicarsi pure alla situazione del clero cattolico.


            Ancora per gli Stati Uniti si è detto in modo icastico che vi sono “banchi pieni ed altari vuoti” (cfr. Schoenherr, Young 1993), segnalando così che a fronte di una tenuta della pratica religiosa si nota invece una forte carenza di ministri celebranti. Diversa è la situazione per i praticanti in Europa, dove le chiese anglicane hanno tassi di frequenza regolare settimanale al di sotto del 5% e quelle cattoliche oscillano su valori più alti (fra cui quelli ancora misurabili oggi in Italia attorno al 25%) ma tendenzialmente in discesa (sempre in Italia la pratica costante era infatti al 31% poco più di un decennio fa: cfr. Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995). Dunque la tendenza europea ed italiana è piuttosto verso banchi sempre meno pieni ed altari sempre più vuoti, ma con le cautele che ogni previsione statistica impone sui tempi lunghi e sulle contingenze di momenti straordinari (si pensi all’impatto vocazionale ed al numero di ordinazioni sacerdotali, prodotti almeno in parte dall’evento giubilare cattolico del 2000).


Prospettive conclusive


            Il calo del personale ministeriale riguarda in definitiva l’intera dimensione del cristianesimo, ma include anche le comunità dell’ebraismo, pure esse in difficoltà sul piano vocazionale rabbinico (per il servizio nel tempio). Sembra esserci peraltro un fattore che accomuna le tre situazioni: la difficoltà di reperire soggetti che intendano dedicarsi al ruolo sacerdotale a pieno tempo. Ed intanto si tende anche a procrastinare il momento dell’eventuale ordinazione al ministero. La conseguenza evidente è un invecchiamento del clero, giacché i nuovi esponenti sono più adulti e quelli anziani sono indotti a riprendere servizio effettivo. Insomma si assiste ad un fenomeno che ha il carattere dell’ingrigimento del ruolo, sempre più ricoperto da soggetti di età matura. Qualcosa di simile sta avvenendo anche in altri ambiti professionali, tra cui quello universitario dove i giovani ricercatori entrano tardi e poco numerosi mentre i professori in pensione tornano numerosi ad insegnare come docenti a contratto. Ma tra le due situazioni la differenza è data principalmente dal livello vocazionale, presumibilmente più radicato nel ministero sacerdotale.


            In Italia le prospettive per il futuro del cattolicesimo non lasciano prevedere una continua ed inarrestabile crisi di vocazioni con conseguente drastica riduzione del clero, sia diocesano che regolare. Vero è però che accelerazioni e rallentamenti nel “reclutamento” e nel “mantenimento in servizio” dipendono essenzialmente dalle strategie formative di base, dalla definizione di una chiara ed inequivocabile identità del ruolo, dalla capacità di favorire la crescita di personalità mature, dall’atteggiamento complessivo nei riguardi dell’azione religiosa e pastorale.


Gran parte della tenuta e dell’eventuale crescita (non solo quantitativa) del clero cattolico italiano si fonderà sull’esito della “sfida” tra la propensione alla modernizzazione religiosa della chiesa cattolica italiana da una parte e l’impatto dei processi di modernizzazione sociale in atto nel nostro Paese dall’altra, come ha già sostenuto Luca Diotallevi (1999).


Insomma la sola lamentela sul mondo moderno non risulta più essere la risposta adeguata, se mai lo è stata. Ben altri sono gli strumenti del confronto: dalla preparazione di base (non solo a contenuto religioso) alla valorizzazione del capitale individuale, umano, culturale, simbolico e sociale degli attuali e dei futuri preti.               


                                                                                  ROBERTO CIPRIANI


                                                                                  Università Roma Tre


                                                           Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia


                                                                                  Rciprian@uniroma3.it


Riferimenti bibliografici


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