Roberto Cipriani
LAICITÀ E RELIGIONE PUBBLICA
di Roberto Cipriani (Università Roma Tre e Pontificia Università Lateranense)
Premessa
Per alcuni decenni gli specialisti del fenomeno religioso si sono affannati a discutere di secolarizzazione, morte di Dio, fine della religione, o – al contrario – di risveglio religioso, ritorno di Dio, espansione dell’influenza della religione. In diversi casi si è assistito a qualche ripensamento, ad un ammorbidimento dei toni, a cambi di rotta a 180 gradi. Valgano per tutti i due esempi di Sabino Samele Acquaviva (1971), già noto come teorico dell’eclissi del sacro, e di Harvey Cox (1968), profeta della città secolare. L’uno ha dovuto poi precisare che intendeva solo parlare di fine dell’uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989) e l’altro, più semplicemente, di essersi sbagliato sul futuro della religione. Ma anche i fautori di una forte ripresa del ricorso alla pratica religiosa hanno poi dovuto ricredersi.
In ogni caso è mancato un serio confronto con la realtà empirica, con i risultati delle indagini scientifiche serie e rigorose, non preconcette, oppure se vi si è fatto riferimento l’approccio è stato parziale, non contestualizzato, troppo facilmente generalizzato rispetto ad una realtà di fatto assai variegata e mutevole. Ma soprattutto non sono stati fatti i conti con il peso delle radici storiche, delle culture tradizionali, della socializzazione religiosa diffusa, del peso e dell’influenza delle strutture confessionali, sovente capillari ed alquanto efficaci nella loro azione (nonostante le apparenze immediate facciano presumere il contrario).
In tempi più recenti, la nuova parola d’ordine dell’analisi teorica e del dibattito intellettuale sembra sia divenuta la laicità, con particolare riferimento allo stato, alle istituzioni pubbliche, all’attività educativa (specialmente scolastica, a livello pubblico). In realtà non si tratta di una novità assoluta perché già in precedenza qualche studioso aveva parlato di laicizzazione piuttosto che di secolarizzazione, invero con un significato diverso da quello che attualmente è oggetto di continue diatribe.
Una certa accelerazione è venuta dalla ricorrenza centenaria della legge francese del 1905 sulla laicità dello stato. Ne sono nati documenti nazionali ed internazionali, convegni, volumi, dibattiti. E tutto questo non ha mancato di avere un riverbero anche in Italia. Ma prima ancora di risalire alle origini della questione pare opportuno richiamare alcune delle posizioni teoriche più recenti e significative (da Habermas e Giddens a Taylor).
Religione e sfera pubblica
Il filosofo-sociologo tedesco Jürgen Habermas, da molti considerato un continuatore della cosiddetta Scuola di Francoforte, mostra una certa preoccupazione per la solidarietà sociale. Lo si desume dalla sua opera maggiore sull’agire comunicativo [Habermas 1986b, II: 603-18], il cui «sfondo normativo» è correlato con l’autorità del sacro, in cui Habermas riconosce le radici dell’etica. L’obbligo morale deriverebbe infatti dal sacro attraverso una mediazione simbolica, che conduce al linguaggio (ed all’etica del discorso, insomma all’agire comunicativo, non strumentale, non coercitivo). In definitiva Habermas ritiene che solo una morale universale sia capace di tenere unita una società secolarizzata, attraverso la garanzia di un consenso di fondo [Habermas 1986b, II: 669].
Per non seguire necessariamente tutte le implicazioni del pensiero habermasiano sull’agire comunicativo, basta rilevare che la sua «sistematica delle forme dell’intendersi» concerne quattro settori: «(1) l’ambito della prassi cultuale, (2) l’ambito di azione nel quale i sistemi di interpretazione religiosi conservano una forza di orientamento immediato per la prassi quotidiana, infine gli ambiti profani di azione nei quali la riserva di sapere culturale è utilizzata (3) per la comunicazione e (4) per l’attività finalizzata, senza che le strutture delle immagini del mondo si affermino direttamente negli orientamenti di azione». Dunque i primi due ambiti sono connessi direttamente al sacro. Per quanto concerne il primo: «al mito corrisponde una prassi rituale (e azioni sacrificali) dei membri del gruppo, alle immagini religioso-metafisiche del mondo corrisponde una prassi sacramentale (e le preghiere) della comunità, alla religione colta della prima età moderna corrisponde infine la attualizzazione contemplativa delle opere d’arte auratiche» [Habermas 1986b, II: 801]. In termini più espliciti Habermas fa capire che il sacro si fonda sulla prassi cultuale (con il rito che istituzionalizza la solidarietà sociale; il sacramento/preghiera che istituzionalizza le vie di salvezza e di conoscenza; la rappresentazione contemplativa di arte auratica che istituzionalizza la fruizione dell’arte) e, per quanto riguarda il secondo ambito, sulle immagini del mondo che guidano la prassi (con il mito; le immagini religiose e metafisiche del mondo; l’etica religiosa di convinzione; il diritto naturale razionale; la religione cittadina) [Habermas 1986b, II: 802]. Rito e mito appartengono alla società arcaica, sacramento/preghiera ed immagini religiose e metafisiche del mondo appartengono alle grandi civiltà antiche, rappresentazione contemplativa di arte auratica ed etica religiosa di convinzione nonché diritto naturale razionale e religione cittadina appartengono alla prima età moderna.
Ma anche oggi la religione costituisce una sorta di sfida cognitiva in quanto dà contenuto e forza alle norme sociali e dunque alla solidarietà dei cittadini. Invece di scomparire [Habermas, Sölle, Luhmann 1977], la religione si situa anzi nella sfera pubblica [Habermas 2006a], dove svolge una sua funzione di mediazione fra due opposti, quello dei fondamentalismi e quello dei secolarismi. Habermas risponde così alla provocazione di Böckenförde [2007], il quale nega allo stato secolarizzato la possibilità di garantire le sue stesse premesse normative (possedute invece dalla religione cristiana) ed auspica una sua ristrutturazione come stato post-secolarizzato al fine di far fronte all’accentuata crescita della religiosità e dei movimenti fondamentalisti (allo stesso tempo però Böckenförde osserva che la religione, sempre più libera, non si conferma come fermento dell’ordine pubblico ed è separata dallo stato, che quindi non rappresenta e non protegge più alcuna religione, sebbene esso non giunga a negarla, oltretutto perché è nata prima).
In realtà il sociologo francofortese non vede solo i valori religiosi a fondamento della democrazia, in quanto vi contribuiscono anche le regole ovvero le procedure. Ma ritiene indispensabile che le religioni rinuncino a pretese di possesso della verità, accettino l’autorità della scienza e si sottopongano al diritto secolare. Ovviamente il dissenso sia religioso che laico in proposito è sempre da mettere in conto. Il che non impedisce di giungere ad un consenso ragionevole. Una secolarizzazione distruttiva è lesiva anche della società stessa [Ratzinger, Habermas 2005].
La prospettiva preferita da Habermas è quella illuminista, razionalista [Habermas 2002b] e secolarista ma egli non si dimostra del tutto contrario alla religione, cui chiede comunque di far ricorso ad un discorso che permetta di dialogare con il mondo laico.
In altri termini la religione è costitutiva del mondo della vita (Lebenswelt), anche se il processo di razionalizzazione e di secolarizzazione ne hanno ridotto la portata confinandola quasi solo alla questione del significato, giacché l’autorità del sacro è stata rimpiazzata da quella moderna del consenso. In questo è da vedere una crisi di legittimazione [Habermas 1975] della religione, insieme con lo sviluppo di una concezione secolare della conoscenza e dunque di una sfera pubblica sempre più indipendente dalla religione. Ma nel contempo Habermas [2006a] attribuisce alla stessa religione un ruolo non trascurabile nel processo di diffusione di linguaggi comuni, dando luogo altresì ad una «elaborazione linguistica del sacro» [Habermas 1986b: 648-96]. Insomma il pensiero religioso non sarebbe al di fuori della razionalità e può essere preso in considerazione per comprendere compiutamente forme e contenuti del processo di razionalizzazione. In definitiva il ruolo della religione non è scomparso ma è mutato. E ad ogni buon conto l’agire comunicativo non è assoggettabile ai condizionamenti di natura religiosa. D’altra parte però la maggiore secolarizzazione della società deve anche fare i conti con la persistenza delle concezioni religiose e delle comunità confessionali che le esprimono [Habermas 2002a: 99-112]. Pertanto le società post-secolari sono chiamate a porre in discussione la loro stessa comprensione della razionalità laica, in una prospettiva di maggiore apertura in chiave di allargamento della conoscenza (e dell’apprendimento anche dal pensiero religioso). In altri termini il principio della separazione tra religione e politica si fonda sulla base di una fase «post-secolare» di rispetto mutuo fra religione e ragione [Habermas 2006b: 19-50]. Lo stato laico però non può pretendere di imporre il suo linguaggio ai cittadini credenti, già costretti nella condizione asimmetrica (rispetto ai soggetti laici ed allo stato laico) di dover cercare una mediazione tra la loro fede e le ragioni laiche, mediante un equilibrio teologico ed etico [Habermas 2006b: 30]. È in tal modo che «il pensiero allarga le sue ali», come già Habermas [1986a: 202] ha ricordato a proposito dell’utopia e della speranza teorizzate da Ernst Bloch.
La religione nella modernità
Anthony Giddens, sociologo della London School of Economics, ritiene che la religione (cui dedica anche il quattordicesimo capitolo del suo volume Sociology [Giddens 2006]) non abbia perso terreno nell’arena sociale a seguito del processo di secolarizzazione [Dawson 2006]. Semmai essa ha assunto un significato diverso per l’attore sociale, fornendogli la possibilità di affermare una sua personale identità, anche a prescindere dal suo riferimento di gruppo e di contesto sociale. A differenza di Steve Bruce [2002], che non vede un grande futuro per la religione, Giddens ne riafferma la funzione, anche se in termini diversi dai sostenitori del risveglio religioso e dai teorici del pluralismo religioso.
Di fronte ai rischi della società tardo-moderna, secondo Giddens la religione torna ancora utile perché fornisce spiegazioni, motivazioni e risposte. Il processo di urbanizzazione ha allargato gli orizzonti ed ha interrotto i legami con i limiti dei contesti comunitari di appartenenza, lasciando gran parte della popolazione alla mercé degli eventi, dei fattori negativi, degli imprevisti. Per di più sono venute meno varie certezze del passato. Nella società frammentata di oggi non tengono le vecchie logiche del sacro e si cercano altre soluzioni, che si fondano sull’individualismo e sull’autoespressione.
La riflessività sul senso del proprio vissuto apre poi la strada a nuovi orizzonti-guida, per cui l’obbiettivo principale è quello di costruire il sé [Giddens 1991]. Giovani ed adulti cercano le vie d’uscita in modalità originali di vita, anche attraverso il miglioramento delle proprie capacità fisiche e produttive, tese soprattutto ad allungare la durata dell’esistenza.
Diventano fondamentali anche le relazioni interpersonali, non più circoscritte ai quadri sociali di pertinenza ma focalizzate piuttosto sui rapporti emotivamente significativi, dunque quelli affettivi ed amicali e sempre meno quelli collettivi, comunitari, allargati.
La tendenza è ad estromettere la vita sociale dalla relazione interpersonale profonda fra due soggetti, per evitare i rischi insiti nel mondo sociale, con le sue negatività di ogni genere. Ma la perdita dei punti di riferimento crea altresì inquietudine ed insicurezza, fattori che spiegano pure l’adesione dei giovani ai nuovi movimenti religiosi.
Nonostante crisi e difficoltà, le istituzioni religiose tuttavia continuano ad occupare un posto rilevante. Però, mentre si registrano tentativi fondamentalisti di ritorno al passato, in pari tempo si cercano consolazioni in avvenimenti futuri, al di là della soglia esistenziale. Ecco dunque che la religione non si eclissa ed anzi riappare a più riprese ed in vari luoghi. Pertanto dubbi e speranze convivono ed il fondamentalismo della tradizione si accompagna – pur a debita distanza – all’originalità delle esperienze.
Nascono dunque altri stili di vita ed altre convinzioni, le quali sono frutto di scelte dal sapore politico (che vanno dall’uso del corpo al femminismo, dall’aborto alla sessualità, dall’ecologismo alle tecniche di riproduzione umana). Tali sperimentazioni passano pure attraverso i nuovi movimenti religiosi, che quindi godono della fiducia delle giovani generazioni, le quali vogliono evitare i rischi della tarda modernità [Giddens 1990]. Però tutto questo significa altresì che la religione con la sua riflessività privatizzata è riuscita ad adattarsi una volta di più alle sfide del momento.
In pratica, seguendo alla lettera quanto proposto da Giddens [1992: 5], «nell’ordine post-tradizionale della modernità, e contro l’ambito delle nuove forme di esperienza mediata, l’auto-identità diventa un tentativo organizzato riflessivamente. Il progetto riflessivo del sé, che consiste nel sostenere narrazioni biografiche coerenti, ma rivisitate di continuo, ha luogo nel contesto della scelta multipla in quanto filtrata attraverso sistemi astratti. Nella moderna vita sociale, la nozione di stile di vita assume una valenza particolare. Quanto più la tradizione perde la sua tenuta, e quanto più la vita quotidiana è ricostruita in termini di interazione dialettica fra locale e globale, tanto più gli individui sono forzati a negoziare le scelte di stile di vita fra una varietà di opzioni».
L’era secolare
Nel 2007 il filosofo-sociologo canadese Charles Taylor (vincitore del Templeton Prize nel 2007 e del Kyoto Prize nel 2008, nonché docente emerito della McGill University a Montreal) con la pubblicazione di A Secular Age [Taylor 2007], un volume di 874 pagine, è balzato all’attenzione del mondo scientifico e religioso (e non solo). Il suo contesto di riferimento per definire secolare il nostro tempo è quello occidentale. L’autore si chiede soprattutto che cosa significhi passare da epoche in cui la fede religiosa era considerata un must, un obbligo di fatto, ad un’era in cui l’opzione religiosa è una fra le tante possibili. Il suo approccio ha un carattere storico e concerne in primo luogo il cristianesimo occidentale, che ha visto sviluppare tendenze sempre più secolari, dopo la scomparsa di vecchie formule religiose. Il tutto avrebbe avuto luogo, secondo Taylor, non seguendo un’unica e medesima direttrice ma attraverso movimenti diversificati, che non solo non hanno fatto scomparire la religione, come preconizzato da qualche studioso, ma ne hanno moltiplicato la presenza in vari ambiti, pur a fronte di evidenti crisi della credenza e della pratica. Intanto per dare un significato all’esistenza sarebbero disponibili molte soluzioni: religiose ed anti-religiose, spirituali e materiali. Nel contempo si assisterebbe ad un incremento delle esperienze religiose collettive e delle mobilitazioni di massa, anche violente.
Sono cinque le parti del testo tayloriano: l’opera della Riforma protestante [Taylor 2007: 25-218], il punto di svolta rappresentato dal «teismo provvidenziale» e dall’«ordine impersonale» [Taylor 2007: 221-95], il nova effect dovuto all’affermarsi dell’alternativa umanistica concernente l’autenticità rispetto a quella trascendente del deismo con la creazione di un più vasto raggio di soluzioni etiche e spirituali [Taylor 2007: 299-419], i racconti della secolarizzazione [Taylor 2007: 423-535] e le condizioni della credenza [Taylor 2007: 539-776].
La prima obiezione già mossa nei riguardi di Taylor è che il testo risente molto della confessionalità del suo autore, cattolico praticante e dunque coinvolto direttamente nelle problematiche di natura religiosa. Inoltre la voluminosità dell’opera è quasi un deterrente per un lettore non specialista e varie parti della trattazione appaiono ripetitive, con numerose digressioni, in uno stile non sempre semplice. Ciò non inficia comunque il valore complessivo dell’analisi tayloriana, che qualche suo collega sociologo non ha esitato a definire di portata epocale perché segna in effetti un punto di svolta nelle lunghe diatribe sulla secolarizzazione.
L’era secolare secondo Taylor offre numerose possibilità di scelta, fra religioso e secolare, fra spirituale e materiale, fra credenza e non credenza, fra deismo (o teismo) ed ateismo. Essa rappresenta una novità rispetto agli ultimi cinque secoli perché non ci sarebbe più l’incantamento del passato ma il disincantamento del presente. L’orientamento della società non è più diretto in senso verticale, cioè metafisico, ma piuttosto in senso orizzontale, terreno, quotidiano, contingente. Nell’epoca attuale prevale il naturale invece del soprannaturale. Le gerarchie tengono meno che in precedenza.
L’obiettivo di Taylor è mostrare che la religione ha ancora una sua funzione nel sociale; che l’individuo non può restare insensibile alle istanze della collettività; che conviene promuovere soluzioni ecumeniche; che gli esseri umani sono di per sé attori e protagonisti del conflitto; che è necessario decostruire il filone intellettuale della cosiddetta morte di Dio, il quale in realtà starebbe santificando gli individui sociali. Insomma la secolarizzazione non ha potuto eliminare la religione e pure la scienza è di aiuto nel supportare la religione.
Inoltre Taylor auspica il ritorno di un certo rispetto da parte degli intellettuali verso la religione, ma soprattutto pensa che la società abbia bisogno di redenzione, la quale può passare pure attraverso il desiderio erotico e l’amore di Dio. Così la società può essere reincantata con il ritorno a Dio, con i misteri dello spirito e con la stessa sensualità.
Nella sua analisi storico-sociologica del secolarismo Taylor parla di tre fasi. Nella prima la visione religiosa del mondo cede il posto ad una scienza libera da condizionamenti ma l’esistenza di Dio non viene negata ed è solo relegata nell’area della trascendenza. Nella seconda fase il secolarismo reagisce al deismo provvidenziale (di un Dio che provvede a tutto ed a tutti), per cui diminuiscono la pratica religiosa e l’adesione alla Chiesa, in quanto l’individuo pensa alla sua auto-realizzazione, non usufruendo dell’orientamento del pensiero cristiano in materia di sessualità, tecnologia, commercio, relazioni. Così non si guarda più al di là di se stessi per cercare indicazioni e norme, Dio è posto ai margini, il cristiano è solo una persona buona: a questo si riduce la religione civile. Nella terza ed ultima tappa si accrescono le potenzialità decisionali ben oltre la dicotomia fra credenza e non credenza. Le alternative etiche sono molteplici, dunque il riferimento comune si parcellizza, si frammenta. Questa è la cosiddetta «età espressiva» basata sull’esperienza personale, in cui la religione è un aspetto come tanti altri.
Nella transizione dal sistema gerarchico e fondato sull’autorità ad un modello che favorisce l’iniziativa personale si sono registrate perdite ed alienazioni nelle Chiese cristiane. Però la prospettiva all’orizzonte è quella di un rientro della trascendenza, resa più accettabile. Taylor vede infatti nel messaggio cristiano dell’incarnazione la chiave di volta per congiungere spirito e corpo, dato che la religione è fatta essenzialmente di comunione anche fra dimensione spirituale e fisica. La Chiesa stessa favorisce l’agape, dunque l’amicizia, l’attrazione sessuale, la generosità. Il darsi incondizionato per il bene dell’altro rappresenta ciò che è buono e fa parte della sfida dell’era secolare alle religioni tradizionali. Occorre pertanto recuperare la carnalità, la corporeità, la fisicità, perché la religione non è fatta per giudicare gli atteggiamenti ed i comportamenti relativi a tali ambiti. Il secolarismo peraltro l’aiuta a liberarsi dal timore dell’inferno ed a superare il contrario dell’incarnazione, cioè l’escarnazione ovvero la negazione del corpo.
Sullo sfondo vi è una rivalutazione della resurrezione come atto conclusivo che non fa più temere la morte. Insomma Taylor ripropone la credenza nell’incarnazione per affrontare la violenza. Dunque la religione non fornisce solo significati ma anche chiavi di lettura per capire il verificarsi del male e rispondere ad esso con il perdono e non con la vendetta, ossia con la riconciliazione e non con il giudizio.
Intanto però i racconti del secolarismo dicono di una realtà senza Dio, senza trascendenza. La moderna civiltà si presenta invero abbastanza piatta. In definitiva è il cristianesimo, per Taylor, a fornire la risposta giusta con la resurrezione che dà senso all’incarnazione e fa superare l’escarnazione ovvero il ripudio del corpo. L’autore di A Secular Age invita infine a partecipare alla storia, per cambiare «il mondo come esso è».
«Così la ‘religione’ per i nostri intenti si può definire in termini di ‘trascendenza’, ma quest’ultima deve essere intesa secondo più d’una dimensione. Se uno crede in qualche agenzia o potere che trascende l’ordine immanente ciò è invero una caratteristica cruciale della ‘religione’, come questa viene rappresentata nelle teorie sulla secolarizzazione. Essa è la nostra relazione con un Dio trascendente il quale è stato soppiantato al centro della vita sociale (secolarità 1); essa è la fede in questo Dio il cui declino è delineato in queste teorie (secolarità 2). Ma per capire meglio i fenomeni che vogliamo spiegare dovremmo vedere la relazione della religione con un ‘oltre’ in tre dimensioni. E quella cruciale, che rende comprensibile il suo impatto sulle nostre vite, è appunto quanto ho appena esplorato: la sensazione che c’è qualche bene più alto dell’umano star bene, oltre di esso» (Taylor 2007: 20). Lo studioso di Montreal rinvia tutto ad una realtà ultraterrena che si configura entro il tracciato di un cristianesimo quale risposta da ritenere valida. Infatti «nel caso cristiano, noi potremmo pensare questo come agape, l’amore che Dio ha per noi, e che noi possiamo condividere attraverso il suo potere. In altre parole una possibilità di trasformazione, che ci porta oltre la perfezione solamente umana. Ma ovviamente la nozione di un ben più alto, raggiungibile da noi, potrebbe avere senso solo nel quadro di una credenza in un potere più alto, il Dio trascendente della fede che appare in molte definizioni della religione. Ma dunque in terzo luogo la storia cristiana della nostra potenziale trasformazione mediante l’agape comporta che noi consideriamo la nostra vita come qualcosa che va oltre i limiti della sua portata ‘naturale’ tra nascita e morte; le nostre vite si estendono oltre ‘questa vita’. Al fine di comprendere la lotta, la concorrenza, o il dibattito fra religione e non credenza nella nostra cultura, dobbiamo intendere la religione come una combinatoria di queste tre dimensioni della trascendenza» (Taylor 2007: 20).
In pratica la prima dimensione è data dall’agape che permette di trascendere il semplice stare bene a livello umano; la seconda dimensione è connessa alla credenza in un Dio trascendente; la terza ed ultima dimensione ha a che fare con la vita oltre la morte. Insomma tutto si gioca nel rapporto fra trascendenza della religione e sua negazione. All’interno di tale dialettica esiste una miriade di opzioni possibili. Ma oltre le secolarità 1 e 2 c’è anche una secolarità 3: «così la secolarità 3, che costituisce il mio interesse in questa sede, è contro la 1 (spazi pubblici secolarizzati), e la 2 (il declino della credenza e della pratica), è data da nuove condizioni della credenza; essa si basa su una nuova forma di esperienza che induce alla credenza ed è definita da essa; in un nuovo quadro entro il quale devono procedere ogni ricerca ed ogni domanda sulla moralità e sulla spiritualità» [Taylor 2007: 20]. In conclusione l’approccio di Taylor, che ha un taglio per certi versi più filosofico che sociologico, diviene alla fine quasi teologico, pur se fondato sull’esperienza.
La laicità alla francese
In Europa ci sono religioni (e Chiese) di stato in Finlandia ed in Grecia nonché nel Regno Unito e nel Principato di Monaco (a Malta, poi, il cattolicesimo è religione della nazione) e ci sono separazioni ma anche accordi in Germania, Austria, Italia e Spagna. C’è peraltro l’eccezione della Francia, ufficialmente secolare ma con molte situazioni contraddittorie a livello operativo, specie in Alsazia e Lorena. Le costituzioni della Grecia e dell’Irlanda fanno riferimento alla religione, invece quella tedesca consente l’Invocatio Dei, mentrela costituzione europea non vi accenna affatto. Altrove c’è un rimando a Dio nell’introduzione alla costituzione (in Polonia ed in Ucraina), oppure è richiamata la tradizione religiosa (come nella Repubblica Ceca ed in Slovacchia) od al contrario non vi è alcuna menzione di elementi religiosi, anche perché manca un preambolo alla stessa costituzione (in Albania, Armenia, Azerbaigian, Lettonia e Romania) o, comunque, Dio non viene citato (in Bielorussia, Bosnia, Bulgaria, Estonia, Ungheria, Lituania, Russia, Slovenia, Serbia e Montenegro).
La citata eccezione francese è oggetto di ampie discussioni. Innanzitutto perché si nega la sua eccezionalità. La laicità, a detta di Jean Baubérot (2003, 2004, 2007a, 2007b), titolare dell’insegnamento di “Histoire et sociologie de la laïcité” presso l’École Pratique des Hautes Études a Parigi, ha una valenza universale (ma in lingua inglese il termine ha fatto fatica ad affermarsi) e non ha a che vedere con il laicismo e con l’anticlericalismo tradizionale e neppure con la laicizzazione come sinonimo di secolarizzazione. Egli propone inoltre una sorta di patto laico, utile a definire i limiti ovvero le soglie della laicizzazione, andando al di là degli accenti polemici di tante discussioni sulla laïcité. Secondo tale approccio, per esempio, la laicizzazione turca attuata dall’alto ed in assenza di processi di secolarizzazione a livello sociale non appare una soluzione adeguata, perché le problematiche reali sono piuttosto complesse, molteplici e non risolvibili con un atto d’imperio (ma Böckenförde vede in essa una sorta di islam amministrato dallo stato). C’è poi da considerare il ruolo della religione civile, di quella secolare, di quella pubblica o con funzioni pubbliche. Dunque il quadro d’insieme non si presenta in modo autoevidente. Il punto essenziale è ovviamente definire che cosa si debba intendere per laicità, ma ogni ipotesi definitoria può contenere in sé un profilo vincolante e non sempre adatto alle situazioni polimorfe in atto.
Del resto è esemplare proprio l’esito del tentativo messo in atto da Baubérot stesso di stilare e far firmare da 250 intellettuali nel mondo una sorta di Dichiarazione universale sulla laicità. Non tutti gli invitati a sottoscriverla l’hanno condivisa e firmata. Non solo. Il testo originale francese è stato poi tradotto e modificato. Così nella versione in lingua spagnola, proposta da Roberto Blancarte del Colegio de Mexico di Toluca, si invoca il diritto alla blasfemia come espressione di libertà e di autonomia. Certamente l’intento è quello di salvaguardare le possibilità di esplicitazione di un punto di vista, per esempio a livello artistico, ma va da sé che il riconoscimento del diritto ad una potenziale offesa verso l’alterità o la diversità di orientamento non si giustifica con il diritto alla laicità, giacché travalica le soglie della laicità prospettate da Baubérot.
Nei riguardi della laicità prescritta in Francia per legge, si sono registrati andamenti alterni di rifiuto e di accettazione, di riproposizione e di rivisitazione. Di tali dinamiche si sono resi protagonisti, in successione di tempo, quasi sempre i medesimi soggetti intellettuali, religiosi e/o politici. A loro sostegno si sono aggiunte anche le suggestioni teoriche di alcuni pensatori sociali che hanno messo al centro dei loro interessi lo spazio pubblico della religione. Sta di fatto che da qualche anno a questa parte il tema della laicità è divenuto un argomento ricorrente di varie contese, non solo teoriche ma con conseguenze pratiche (tra l’altro, in merito ai contributi economici statali in favore delle Chiese).
Dopo la cosiddetta grande secolarizzazione voluta da Napoleone Bonaparte, per l’acquisizione dei beni ecclesiastici, anche la legge francese del 1905 ha riguardato,in misura non trascurabile, i trasferimenti di rilevanti patrimoni a vantaggio dello stato. Ma la recente ripresa della diatriba sulla laicità ha obiettivi ben più ambiziosi, perché investe la presenza stessa della religione nel contesto sociale.
In primo luogo c’è da chiedersi se la laicità a cui si pensa sia essa stessa scevra da connotazioni ideologiche. La verifica è possibile nella misura in cui le soglie della laicizzazione non siano prestabilite da una parte sola, quella proponente, ma debitamente condivise ed accettate dalle parti in causa. Insomma lo scenario da immaginare è quello di un agire almeno tendenzialmente comunicativo e non meramente strumentale, per restare entro i limiti della teorizzazione habermasiana in proposito (Habermas 1996b).
Se si deve dare per scontata l’inutilità o pure la pericolosità sociale della religione (di qualsivoglia religione) non è altresì detto che sia da escludere del tutto una sua efficacia, fosse pure parziale, per il mantenimento dell’unità nazionale, della solidarietà comunitaria, del rispetto interpersonale.
Tra Rivoluzione Francese e Terza Repubblica Francese quasi non c’è soluzione di continuità nei riguardi della religione, si tratti di indifferenza o di neutralità o di tolleranza o di incompetenza, nei fatti divenute forme di avversità in nome di una razionalità considerata superiore. Invero la stessa religione fornisce strumenti analitici e definitori per distinguere sacro e secolare, anima e corpo, sentimento e ragione, spirituale e temporale, ragion per cui le soglie di laicizzazione sono facilmente rinvenibili e praticabili come punti-limite, per evitare invasioni di campo, colonizzazioni, espansioni indebite. Ma d’altro canto lo stato laico proprio perché tale non può negare diritto di cittadinanza alle varie esperienze religiose dei suoi cittadini. L’autonomia del soggetto non può non stare a cuore allo stato, chiamato invece ad allontanare quanto possa arrecare danno. Nessun rappresentante di uno stato democratico può negare ai cittadini-membri il diritto alla credenza (o alla non credenza) religiosa. Per non dire poi di quello che una o più religioni possono rappresentare per la storia di un paese come la Francia (od anche la Germania e l’Italia), in relazione alla conservazione dell’appartenenza territoriale e della memoria locale.
All’orizzonte c’è una prospettiva che contempla non più la strumentalizzazione o la mera contrapposizione ma una possibile sinergia, nel rispetto reciproco, fra stato e religione/i. Si verrebbe così a superare la paventata guerra delle due France, descritta da Émile Poulat (1987: 191), che sommessamente ricorda come Napoleone non fosse affatto contrario alla religione di stato, visto che come tale era da lui voluta nella costituzione della repubblica ligure del 1800, della repubblica italiana nel 1802 e del Regno di Napoli nel 1808.
Il cattolicesimo per oltre un secolo, dal 1802 al 1905, è stata la religione della maggior parte dei francesi. Ma come spiegare allora la laicità francese, qualcosa che è difficile capire ma anche esportare? I processi storico-sociologici sono articolati e non facilmente districabili. Poulat prova a fornire qualche spiegazione ed alla fine conclude che tutti i francesi sono dei laici (anche se non capiscono il significato della laicità) e che oggi non si può parlare di una religione pubblica ma di una libertà pubblica di coscienza e di religione. Il che è ben diverso. In altre parole non si comprende la chiave di lettura della laicità alla francese se non si tiene conto del rapporto fra libertà e verità, ovvero fra i diritti pubblici della verità sostenuta dai cattolici ed i diritti pubblici di ogni coscienza. Nell’interazione fra gli uni e gli altri diritti è la chiave di volta del sistema francese della libertà unita con la laicità.
Da un punto di vista storico quest’ultima appare a Poulat come lo specchio delle contraddizioni francesi, che attraversano quattro fenomeni: 1) laicizzazione e secolarizzazione insieme, con l’emergere della coscienza individuale e della ragione, mentre la religione cessa di essere alla base di ogni spiegazione; 2) due quadri diversi di riferimento, in particolare quello cattolico con il duplice statuto di clero e laicato e quello statale con il doppio rapporto intrattenuto, a titolo diverso, con i culti religiosi interni al paese e con il Vaticano come stato estero; 3) tre livelli della realtà, costituiti dallo stato come governo centrale, dalle istituzioni pubbliche (e dai servizi), dalla società civile (con la sua cultura); 4) quattro sistemi legittimatori, in epoche diverse, rispettivamente, di laicità sacrale con il sovrano che afferma la sua superiorità sul clero nello stato e mostra la sua sottomissione solo spirituale alla Chiesa; di laicità illuminata con la desacralizzazione del potere civile e dunque con la separazione fra Chiesa e stato; di laicità radicalizzata con la sua autonomia rispetto alla Chiesa e la sua neutralità dinanzi alle coscienze, sino a trasformarsi da laicismo spiritualista e religiosità laica in laicismo areligioso ed in effetti antireligioso; 4) una laicità riconosciuta, a livello costituzionale nel 1946 e nel 1958, con la Francia definita ufficialmente una repubblica laica ma successivamente costretta ad affrontare questioni concrete ed a divenire contrattuale pur restando conflittuale.
Entro questo scenario si dipanano vicende storiche e relazioni non facilmente decifrabili che approdano dapprima alla legge del 1905 sullo stato secolare francese e successivamente ad atti applicativi ed in realtà modificativi dei principi normativi. Sullo sfondo resta comunque, per Poulat (1987: 226), la libertà pubblica di coscienza, a poco a poco affermatasi come unica ed indivisibile, mentre la coscienza della libertà è molteplice e frantumata. In definitiva la laicità francese avrebbe una sua ambivalenza strutturale, frutto di una lunga e difficile conquista dello spirito umano, che riesce a porre termine al vecchio ordine delle cose e mette le basi per una legittimazione del pluralismo.
Appunto riferendosi alla Francia, Jean-Paul Willaime (2004: 279) parla di una doppia neutralità della laicità, come indipendenza dello stato dalle religioni e come libertà delle organizzazioni religiose rispetto alle strutture statali. Però Micheline Milot (2002: 23), guardando al Québec, vorrebbe evitare l’ostacolo dell’ideologia insita nella laicità francese e preferisce insistere piuttosto sulla gestione politica e sulla successiva trasposizione giuridica del posto della religione nella società civile e nelle istituzioni pubbliche. Il che apre nuovi orizzonti per la discussione sulla laicità.
In Europa anche laddove una particolare religione viene privilegiata dallo stato esistono, in realtà, margini di libertà per la sfera religiosa rispetto a quella politica. Tali margini consentono alle Chiese di curare i loro spazi di attività senza rendere conto ad altri.
Inoltre la laicità non può ridursi ad una semplice questione di culti permessi, di riconoscimenti ufficiali, di privilegi concessi o negati. E le stesse relazioni fra stato, religioni e società non possono seguire un modello unico, visto che le storie, le istituzioni e le tradizioni variano da una nazione all’altra, con peculiarità non immediatamente trasferibili ed implementabili in contesti diversi da quelli di origine.
Il caso francese per primo è a sé stante, come sottolinea Willaime (2004: 282), per varie ragioni: il conflitto fra stato e Chiesa è più accentuato; il problema della laicità è piuttosto ideologizzato anche per la presenza di correnti culturali a forte presa (libero pensiero, razionalismo, marxismo, massoneria); la supremazia dello stato è anche emancipatrice e centralizzatrice; la privatizzazione dell’appartenenza religiosa di solito non viene resa manifesta in pubblico. A differenza di Poulat, tuttavia, Willaime sottolinea che la situazione attuale è abbastanza diversa da quella dei secoli scorsi, perché presenta dati nuovi che inducono ad escogitare soluzioni innovative, passando dalla diffidenza della laicità ideologica alla fiducia della laicità giuridica, dal disconoscimento al riconoscimento, dall’astensionismo alla partecipazione (laïcité citoyenne).
Secondo l’articolo 1 della legge del 1905, in Francia si assicurano sia la libertà di coscienza sia il libero esercizio dei culti. E l’articolo 2 aggiunge che non si riconosce e non si finanzia nessun culto. Nel 1958, l’articolo 2 della Costituzione della Repubblica prescrive che la Francia è indivisibile, laica, democratica e sociale, assicurando l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza distinzione d’origine, razza o religione e rispettando tutte le credenze. In pratica non c’è un riconoscimento ufficiale delle religioni ma esse possono esprimersi ed operare. Intanto però in Alsazia e Mosella sia i preti che i pastori ed i rabbini sono stipendiati dallo stato francese, in base al concordato del 1801 ed ai successivi articoli del 1802.
Ma come spiegare allora la laicità francese? Per Willaime essa si è sviluppata in un contesto conflittuale dato dalla contrapposizione tra Francia laica e cattolica, appunto dalla guerra delle due France (analizzata anche da Poulat). Lo snodo sarebbe rappresentato dal carattere anticlericale, che di solito si sviluppa più in un paese cattolico che non a dominanza protestante, proprio perché è la Chiesa cattolica a segnare maggiormente un solco fra clero e laicato, fra spirituale e materiale, fra mondo ecclesiastico e società esterna, mentre nel mondo protestante ed in quello ebraico la differenza è assai meno evidente o non esiste affatto. Ed allora il risultato è, di converso, pure una sacralizzazione della politica che si accompagna ad una laicizzazione del religioso. Il che ha permesso, invero, di celebrare una messa di stato a Notre-Dame l’11 gennaio 1996 per i funerali del presidente Mitterrand.
Ora, secondo Willaime (2004: 328), si è passati in Francia da una laicità di lotta ad una laicità di gestione. Superato l’anticlericalismo e l’atteggiamento neutrale nei riguardi della religione, si registra altresì una certa emancipazione, quasi completa, dalla tutela clericale. Nel frattempo si affacciano nell’arena pubblica numerose questioni a carattere etico. Il che potrebbe favorire la stipula di un patto laico (Baubérot 1990) inteso come soluzione dei nodi dovuti al pluralismo religioso, mettendo da parte la pura e semplice contrapposizione fra laicità e religioni, in fondo laicizzando la stessa laicità (Willaime 2004: 329) ed inserendola in un quadro più legato alle problematiche dei diritti umani (che non prevedono né l’obbligo né la proibizione della credenza e della pratica religiosa). La prospettiva concreta è quella di una democrazia pluralista, che non può non suscitare effetti sino nell’ambito delle Chiese stesse, favorendo lo spirito di partecipazione e di gestione comunitaria. Ed allora la separazione fra stato e Chiesa permane ma non impedisce la cooperazione su obiettivi comuni.
L’esperienza della Commissione Stasi che avrebbe dovuto dare indicazioni proprio su questioni religiose di fondo non è sembrata del tutto positiva, visto che quasi tutto si è ridotto alla proibizione del velo islamico. La mancata adesione al documento di tutta la Commissione è indice di un chiaro disagio nei confronti di un testo rispondente quasi solo ad una logica conflittuale nei confronti degli estremismi religiosi, che costituirebbero un pericolo per la laicità dello stato francese.
Le vicende recenti che hanno riguardato la laicità alla francese fanno capire ancor più che essa non può assurgere a modello unico di riferimento. Ed inoltre il fatto religioso non appare esclusivamente come una questione tutta individuale, giacché i suoi riverberi nella società sono quanto mai evidenti. In fondo sembra proprio che la secolarizzazione sia ben riuscita: il pubblico non è più sottomesso al religioso (che peraltro non è scomparso) e gli individui sociali sono autonomi ed emancipati da tutele magisteriali di tipo confessionale. L’auspicio finale di Willaime (2004: 345) è di reinventare una laicità in grado di far coagulare varie istanze e diversi apporti delle religioni, in vista di una società di individui più motivati socialmente.
Laicità e credenza
Uno degli ostacoli maggiori per un adeguato esercizio della laicità è probabilmente nella presunzione che essa di per sé comporti l’esclusione della credenza o che al contrario non vi possa essere laicità, politicamente corretta, nella stessa credenza. Conviene soppesare in proposito i due termini di libertà ed uguaglianza che sono frutto proprio della Rivoluzione Francese. Ebbene il principio della libertà comprende anche la libertà religiosa (o di religione/i). E quello di uguaglianza (ovvero di non discriminazione) include ogni forma di attività umana concretamente realizzabile od astrattamente pensabile, dunque anche le espressioni religiose. Il discorso vale anche rovesciando i termini della questione: lo spirito religioso riesce ad essere laico nella misura in cui non ritiene un avversario da combattere appunto lo spirito laico, con tutte le sue implicazioni connesse (pensiero non ispirato da alcuna credenza religiosa, atteggiamento critico nei riguardi delle istituzioni e delle azioni religiose, così come nei riguardi di altre istituzioni ed azioni: politiche, economiche, sindacali, formative, ecc.). Detto altrimenti, un corretto agire comunicativo fra le parti in causa può produrre esiti virtuosi, per cui tutto parrebbe risolto, ma solo se non ci fosse di mezzo la variabile umana, costellata di convinzioni pregresse, orientamenti difensivi, propensioni individualistiche e di gruppo, appartenenze codificate e saldamente radicate, timori di perdita dei punti di riferimento essenziali.
Le resistenze per la realizzazione di un’efficace comunicazione fra soggetti laici e soggetti credenti derivano in primo luogo dal costituirsi dei due fronti a partire da basi istituzionali (intese in senso lato, sia in quanto veri e propri organismi storicamente fondati e sviluppatisi nel tempo, come nel caso degli stati e delle Chiese, sia in quanto complessi di idee, ovvero ideologie, che sono nate e si sono consolidate riscuotendo consensi variabili nel corso della storia ed attraverso le diverse aree geografiche, ma restando tendenzialmente stabili per qualche tempo, come nel caso del nichilismo, del materialismo, del marxismo, del positivismo, del razionalismo, del liberalismo, del secolarismo, del modernismo, dello scientismo, dell’esistenzialismo).
La problematica della laicità – va detto – ha matrici tipicamente europee, inizialmente francesi e poi via via italiane, spagnole e sempre più ampie. Lo spunto iniziale è nell’età dei Lumi e successivamente nelle forme e nei contenuti degli eventi rivoluzionari del 1789 parigino (e non solo). Anche la federazione statunitense ha conosciuto ai suoi albori un momento rivoluzionario senza tuttavia dar luogo alle medesime conseguenze a livello di fenomenologia religiosa. Anzi nel Nord America il connubio fra politica e religione è abbastanza stretto: il motto che accompagna lo stemma degli USA ripone fiducia in Dio ed i discorsi di insediamento dei presidenti statunitensi contengono numerosi e ripetuti rinvii ai fondamenti biblici, alla tradizione cristiana e segnatamente protestante. In pratica la religiosità diffusa, confermata da varie indagini empiriche negli Stati Uniti, ma anche in Canada e specialmente nel Québec, non dà adito a sollevare questioni relative alla laicità o, almeno, non ne fa un focus principale di discussione.
In tale quadro contestuale non si nota una marcata polarizzazione fra stato e Chiese, fra mentalità secolare e spirito religioso, almeno non nella medesima misura che si può verificare invece in molte parti dell’Europa. Nella realtà sociale nordamericana il ruolo pubblico della religione non pone particolari problemi: lo si dà per acquisito, scontato, tradizionalmente riconosciuto (anche per questo il lemma laicity ha preso a circolare solo di recente). Così realtà secolari e realtà religiose vivono la loro autonomia senza conflitti acuti, anche se non mancano confronti piuttosto vivaci su temi controversi (aborto, pena di morte, ecc.). La religione civile di Rousseau trova dunque entro questa cornice una sua consistenza concreta ed anzi sostiene la convergenza di credenze diverse verso l’unità politica, quasi si trattasse di un comune denominatore a valenza anche religiosa. D’altra parte è da tener presente che nell’America settentrionale è prestato gran rispetto alla libertà personale, al diritto individuale di scelta, pur restando tuttavia nell’orbita dei vincoli sociali, etnici, comunitari e religiosi (almeno in linea di massima). L’obiettivo perseguito è l’accordo fra legge civile e morale personale. Nondimeno permane un totale ed eguale rispetto per la coscienza individuale di ciascuno. Si ritiene che ciò sia un diritto, ossia la base necessaria per la ricerca dei fondamenti etici che diano un senso all’esistenza. Occorre pertanto uno spazio sufficiente affinché i soggetti singoli possano mettere in essere i loro intenti morali in qualunque modo, purché non sia in contrasto con l’interesse pubblico. Allo stesso tempo chi governa non scende in campo nelle discussioni religiose, non parteggia per l’una o l’altra espressione confessionale, dovendo considerare tutte le denominazioni alla pari, imparzialmente. L’uguaglianza dei cittadini è giudicato un principio superiore. Sulla scorta di questo fondamento, Martha Nussbaum (2008) dell’università di Chicago, filosofa già anglicana ed in seguito ebrea riformata, autrice di Liberty of Conscience. In Defense of America’s Tradition of Religious Equality, difende il diritto dei Mormoni alla poligamia, applicando quindi in pieno la sua idea di libertà di coscienza e di religione (un po’ come aveva già messo in evidenza Poulat, nel suo testo del 1987 su libertà e laicità). Pure la Nussbaum pare non gradire il tipo di laicità in auge in Francia perché a suo giudizio è troppo coartante per i credenti, invitati a non prendere parola in pubblico. Anzi per la docente di Chicago la separazione fra stato e Chiesa è appena un valore secondario rispetto al valore primario dell’uguaglianza di libertà per i cittadini, credenti e non. E sull’annosa questione delle trasfusioni di sangue per i Testimoni di Geova opta per una soluzione che preveda libertà di scelta per gli adulti, che sono maturi e consapevoli, ma non per i loro figli la cui vita andrebbe salvaguardata ad ogni costo. Infine Nussbaum auspica l’insegnamento relativo al creazionismo nei corsi di religioni comparate ma non in quelli di scienza.
Appena a sud degli Stati Uniti, in Messico, il discorso sulla laicità si ripropone ma in maniera diversa. Anche qui vi è un episodio rivoluzionario iniziale, quello dello zapatismo che ha segnato la fine della presenza pubblica della religione, nella prima metà del secolo scorso. La prova più evidente della laicità dello stato messicano è da rinvenire nella proibizione dell’uso dell’abito talare in pubblico. Insomma si vuol dare chiaramente ad intendere che la religione è un affare esclusivamente privato che non può avere impatti a livello statale e quindi pubblico.
Negli altri stati del centro e del sud dell’America gli andamenti dei rapporti fra stato e Chiesa hanno seguito le vicissitudini delle singole nazioni, passate attraverso multiformi esperienze, dalla dittatura al governo militare, dalla pseudodemocrazia alla democrazia effettiva. Non sempre le letture dei diversi eventi degli ultimi decenni sono state chiare e senza ambiguità di fondo. In qualche caso si è avuto di fatto un collateralismo o una non belligeranza ideologica fra stato e Chiesa, con conseguenze ancor oggi oggetto di valutazioni non concordi neppure sui dati di fatto.
In Asia i rapporti fra stati e Chiese sono legati essenzialmente ai tipi di regime politico in vigore, ma in generale è l’autorità politica a stabilire regole e limiti, indipendentemente dal parere dei soggetti religiosi interessati. Salvo qualche eccezione, il potere politico risulta autoreferenziale ed osteggia ogni modalità religiosa non corriva con il sistema di governo vigente. Singolare è il caso della Repubblica Popolare Cinese dove esistono due Chiese cattoliche, di cui una piuttosto vicina alle posizioni dello stato nazionale mentre l’altra fa capo alla Chiesa di Roma. In Giappone d’altra parte è prevalso il modello jeffersoniano e statunitense dello stato neutrale che non sceglie alcun Dio fra i tanti, impedisce il cesaropapismo, favorisce la crescita di una società civile religiosa che sia pluralista e pacifica. In tal modo si spiega il carattere agnostico del sistema scolastico giapponese.
La situazione africana varia secondo la cultura religiosa dominante nei singoli paesi, ma mostra il fallimento parziale di politiche scolastiche statali dirigiste in senso laico. La presenza dell’islam, quando maggioritaria, è di solito alquanto vicina all’orientamento dello stato ed in tal caso, in genere, non si pongono questioni di laicità per la particolare concezione della relazione fra la religione islamica e la politica, tanto sono in simbiosi entrambe. Ma l’islam (Bozdemir 1996) ha dovuto adattarsi alle correnti animiste, consentendo poligamia e forme di sincretismo. Più complesso è il rapporto fra laicità e religioni cristiane. In alcuni stati poi c’è una separazione formale fra stato e Chiese. In realtà non esiste un vero e proprio problema della laicità in Africa, perché la religiosità è largamente diffusa, in diverse forme, principalmente animiste ma pure kimbangiste, tradizionali ed indipendenti. Non mancano infine tentativi di eliminare la religione per decreto (Madagascar, Benin, Angola, Mozambico, Etiopia, Repubblica Popolare del Congo). Un po’ per volta la laicità si è fatta strada ed è entrata a far parte della maggioranza delle costituzioni statali, ma il dibattito su di essa latita ed è considerato un prodotto d’importazione, ridotto a piccole cerchie di intellettuali.
In Australia il modello di riferimento è quello britannico, anglicano nella fattispecie, ma le condizioni non sono del tutto assimilabili a quelle riscontrabili nel Regno Unito e comunque il problema della laicità non sembra creare particolari differenziazioni.
In definitiva si discute di laicità quasi solo in Europa. E soprattutto si assiste quasi ad una rincorsa da più parti a voler fornire la definizione di laicità da far assurgere a parametro unico. Quando la proposta di definizione proviene da intellettuali religiosamente orientati o dalla stessa Chiesa ufficiale sono i laici ad obiettare. Se le parti si invertono non manca certo il rilievo critico di parte religiosa.
Si può osservare che non se ne esce se non si trova una soluzione da adottare congiuntamente, non necessariamente una volta per sempre ma cercando semmai caso per caso il punto di consenso. Chiedere il rispetto di tutte le definizioni della laicità significa di fatto arrendersi dinanzi alle difficoltà che ne derivano e dunque rassegnarsi a non ritenere valida alcuna definizione.
Si potrebbe anche distinguere fra laicità debole (laica) e laicità forte (laicista e non credente) (Fornero 2008), ricorrendo or all’una or all’altra. Ma neppure questa pare essere la via d’uscita più adatta, anche se la prima delle due varianti appare a prima vista l’opzione preferibile, al fine di rendere più praticabile ed efficace il confronto.
Ora però occorre fare i conti anche con quanti, religiosamente motivati, si dichiarano essi per primi come autentici laici. C’è da chiedersi a questo punto se il bouleversement dei ruoli possa giovare. Il puntare a raggiungere un più alto tasso di laicità non è detto che aiuti a risolvere i dilemmi in esame. Per di più, nel caso italiano, i due poli in gioco non sono semplicemente i laici per un verso ed i cattolici per l’altro verso: il mondo dei laici non è affatto omogeneo come non lo è quello dei non laici, i quali meno che mai possono corrispondere in toto all’insieme dei cattolici. Ben altre ed articolate sono le sensibilità religiose che si mettono in gioco nella diatriba sulla laicità. Per restare nel contesto italiano, che ruolo e che proposta hanno i protestanti e gli ebrei? Perché limitare alla sola Chiesa cattolica la funzione di destinataria delle sfide laiche?
Il punto nodale è esattamente il ruolo pubblico della religione e delle religioni, anzi più proficuamente è lo stesso spazio pubblico l’arena principale dove far confluire suggestioni ed elaborazioni per capire primariamente i termini della disamina da condurre. La conoscenza adeguata, scientificamente calibrata, deriva tuttavia dalla messa in atto almeno di qualche espediente metodologico, a partire dall’atteggiamento di epoché, di sospensione del giudizio, in modo da capire attraverso il conoscere, per potersi solo da ultimo esprimere sull’argomento in esame, a ragione approfonditamente veduta.
Habermas (2006a, 2006b) ha opportunamente richiesto che il mondo dei credenti con le sue argomentazioni possa entrare nella sfera pubblica e presentare le sue istanze. All’orizzonte è uno scambio virtuoso di prospettive fra laici e credenti, ma per quanto concerne l’Italia sembrerebbe che tale démarche non abbia senso perché è difficile trovare (sia da parte laica che da parte religiosa) qualcuno disposto a fare un passo indietro, ad arrendersi per capire, a farsi prendere per poter poi catturare, cioè cogliere il risultato finale con la soluzione del problema affrontato.
Non va dimenticato che ci possono essere laicità areligiose ed antireligiose, espresse da non credenti, e laicità non religiose, espresse da non credenti, od ancora laicità espresse da diversamente credenti ovvero da portatori di altre modalità di credenza che non rientrano nei canoni ufficiali di Chiesa o nelle azioni statisticamente modali, più ricorrenti. E qui si aprirebbe tutto un ventaglio di possibilità sull’etsi non daretur avente Dio come soggetto. Il tutto si situa poi nello scenario delle scelte da operare, sulla base di criteri ispirati alla responsabilità od alla razionalità. Ma le opposizioni, le divaricazioni e le ottiche polimorfe sono sempre in atto e non consentono percorsi agevoli. In conclusione, comunque, la laicità a partire dalla sua stessa pluralità di voci ed opinioni, che si concretizzano in definizioni e decisioni, resta profondamente, cioè fino in fondo, laica allorquando prevede che anche altri si possano presentare con alternative molteplici, non affini alle prospettive laiche.
Il dibattito sulla laicità e sul ruolo pubblico della religione
Al principio della laicità, proprio in quanto chiede ad altri di rinunciare ai propri assolutismi, va addizionata una forte consapevolezza della sua dimensione relativa. Pure nella Chiesa cattolica, per opera del cardinale Carlo Martini (nel duomo di Milano, ai primi di maggio del 2005), si è giunti al riconoscimento di un relativismo cristiano, da cui discende l’istanza di una vita in comune cha vada oltre le differenze esistenti e che insegni a vivere insieme nella diversità, non nella sola tolleranza (che non è sufficiente ed è costantinianamente troppo datata, risalendo a 17 secoli fa) ma piuttosto nella comprensione e nell’accoglienza. Ed anche nel rapporto con la verità religiosa non esiste un’unica via di approccio, giacché ogni forma di conoscenza, per quanto rigorosamente scientifica, è provvisoria, precaria, contingente. Il relativismo perciò non è di per sé condannabile e non è identificabile sommariamente con l’areligiosità, l’irreligiosità, l’agnosticismo, l’indifferenza, il nichilismo. Esso rientra tra le forme possibili di pluralismo, che contemplano non a caso anche la laicità.
È di fronte al pluralismo che non basta la neutralità ma serve l’imparzialità, soprattutto in campo etico e giuridico, dove il potere dello stato va esercitato a prescindere dalla tipologia dei destinatari che vengono interessati dai suoi interventi legislativi o sanzionatori. L’imparzialità del diritto significa il riconoscimento della libertà declinata nelle sue forme di libertà religiosa (il cui esercizio comprende anche la libertà di pensiero, associazione e riunione). In questa prospettiva fra l’altro non può più valere il vecchio principio del cuius regio eius et religio, perché nessuno è obbligato a seguire la religione del proprio sovrano o del proprio stato o del proprio governo. Da qui nascevano l’idea e la pratica della tolleranza nei riguardi delle religioni minoritarie, come recitava lo statuto albertino del 4 marzo 1848, nel secondo comma dell’articolo 1. Ma in seguito si è passati da una tolleranza riduttiva alla più vasta idea di libertà di credenza e pratica religiosa, senza condizionamenti da parte dello stato e con la possibilità di manifestare pubblicamente la propria appartenenza religiosa. Il parlare di tolleranza religiosa all’interno del principio di laicità è dunque un ritornare indietro rispetto a conquiste già ottenute a livello giuridico, sia formale che sostanziale. D’altra parte occorre riconoscere che la neutralità completa non è sempre implementabile ed essa stessa è in ogni caso una scelta e dunque una decisione non imparziale.
Ma un ulteriore ostacolo si frappone: il fondamentalismo, che non media, chiede l’applicazione delle norme in tutti i casi senza distinzioni di sorta, non riconosce autonomia agli interlocutori, ribadisce solo i propri principi di riferimento. Sul piano strettamente giuridico, vale tuttavia il solo principio di giustizia, che non procede per favoritismi, applica la norma, non si autodefinisce né laico né religioso, rispettando così il criterio dell’uguaglianza. Resta però aperta la discussione sulla necessità o meno di conformare l’ordine giuridico positivo alla legge morale oggettiva, all’ordine morale naturale (Dalla Torre 2008: 178).
Ad ogni buon conto è bene precisare che la laicità non può pretendere di appiattire su di sé la religione né tanto meno la religione è chiamata ad annientare la laicità per non avere contraddittori nella sfera pubblica. Per giungere ad una conclusione simile, molto c’è da fare a livello di cultura religiosa come pure di cultura politica, nel senso di fornire alle nuove generazioni soprattutto, ma anche a quelle più adulte, criteri di discernimento sufficientemente fondati in termini di conoscenza non orientata ideologicamente. Si sostiene giustamente che una buona formazione culturale in campo religioso non può non approdare ad una difesa strenua della laicità dello stato, non accettando formule surrettizie di accomodamento strumentale o patti del tipo do ut des, con assoggettamenti indebiti della Chiesa allo stato e viceversa. Il principio della laicità inclusiva non può essere considerato il grimaldello per l’ingresso della Chiesa nello stato né al contrario la sfera pubblica può essere lo spazio per il dominio dello stato sulla religione.
Di complemento a tale problematica di carattere generale fa ancora questione il tema dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole dello stato italiano (argomento di incontro-scontro fra laici e non). Su tale terreno ci potrebbe essere un serio tentativo di dialogo realmente ed habermasianamente comunicativo tra mondo laico e mondo religioso, per esempio a partire dall’ipotesi di un programma a largo raggio finalizzato alla comprensione delle principali religioni presenti nel paese, il che diverrebbe un vero e proprio servizio di supporto al dialogo interreligioso ed interetnico, come già avviene in Europa:
Nazione | Insegnamento |
Austria | Cattolico o Islamico o Altro |
Belgio | Cattolico o Ebraico o Islamico o Etico Areligioso |
Bulgaria | Ortodosso o Islamico |
Croazia | Cattolico |
Repubblica Ceca | Cattolico |
Danimarca | Protestante Luterano; Storia Religiosa nelle scuole secondarie |
Finlandia | Protestante Luterano o Etico |
Francia | Un giorno libero nella scuola primaria per seguire l’educazione religiosa in una Chiesa a scelta; Cattolico in Alsazia e Mosella |
Germania | Cattolico o Protestante o Islamico o Altro |
Grecia | Ortodosso |
Olanda | Protestante o Cattolico o Altro o Liberale |
Polonia | Cattolico o Altro |
Portogallo | Cattolico o Altro |
Regno Unito | Interconfessionale (Religione Multifede) |
Romania | Ortodosso o Altro |
Russia | Ortodosso Culturale o Altro |
Serbia, Montenegro, Kosovo | Ortodosso o Altro |
Slovacchia | Cattolico |
Spagna | Cattolico o Altro o Storia Religiosa; o Islamico al di fuori dell’orario scolastico |
Svezia | Nessun insegnamento confessionale |
Nel contempo potrebbe pure porsi l’obiettivo del ripristino degli insegnamenti teologici nelle università statali in un’ottica non confessionale ma di rigorosa ricerca scientifica a tutto campo, con la possibilità di incrementare prolifiche aperture interdisciplinari quali quelle che hanno dato luogo all’esemplare colloquiare di Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger (Ratzinger, Habermas 2005). Potrebbe essere questa una strada per far cadere pregiudizi e resistenze ma specialmente per far salire il livello qualitativo dell’approccio scientifico ai temi della laicità e della religiosità, della bioetica e del biodiritto. In tal senso è da allargare la preoccupazione manifestata da molti (ivi compreso papa Benedetto XVI) sul futuro dell’educazione in Italia.
Un’altra preoccupazione, riaffacciatasi di recente (De Rita 2008), rimanda alla confusione fra sacro e santo: il primo è dato dal nesso con il mistero divino ed il secondo dalla presenza della fede nel sociale, ossia dal ruolo sempre più attivo della Chiesa italiana sul territorio del paese, in campo sociale, in sostituzione dello stato ed in ruoli pubblici. In particolare è dalla capacità manageriale del cattolicesimo (nel muoversi agevolmente fra sacro e santo) che deriva lo spazio sempre maggiore della religione cattolica nell’arena pubblica, suscitando perciò riprese di istanze laiche individuali e statali.
Vale la pena di ricordare che già molti anni fa non la intendeva allo stesso modo Italo Mancini (1983), teologo e filosofo della religione nell’università di Urbino, il quale presago stigmatizzava la cultura della presenza del sacro (che indicava con l’iniziale maiuscola) e vedeva nel santo la vera salvezza contrapposta a quella falsa e violenta del sacro. Per lui il santo era la fede pura, separata, non assoggettabile agli interessi terreni e dunque non asservibile al sacro come suo management in termini di potere terreno da esercitare nella società. Il santo, il divino, non andrebbe confuso con l’umano di un certo tipo di sacro che vuol gareggiare con la forza laica del mondo profano. Non a caso, soggiunge Mancini, la cultura neo-ebraica ha distinto fra santo, innominabile, e sacro, immediato e manipolante. Orbene la nuova destra tende a confinare il santo entro ambiti minoritari e marginali, molto identitari, ed a valorizzare invece il sacro, vitale, attivo, operativo nella concretezza del quotidiano e del politico.
Discutere qui la fondatezza dell’una o dell’altra distinzione richiederebbe troppo spazio e molta letteratura di riferimento. Conviene appena constatare e sottolineare qualche aspetto. Innanzitutto che si chiami sacro o santo l’agire della Chiesa nella società non è senza conseguenze e senza problemi. Inoltre il ricorso alle due qualificazioni, almeno in relazione al ruolo pubblico della religione, crea altre separatezze che le definizioni non risolvono, visto che risultano intercambiabili, a seconda delle prospettive ideologiche ed intellettuali di chi le usa. Infine non va sottovalutato che criticare una superficiale confusione di termini e poi crearne un’altra non è il miglior servizio che si possa rendere alla comprensione della realtà. Per questo, metodologicamente, sembra più corretto far ricorso a due lemmi tendenzialmente meno ambigui, almeno in linea di massima: Chiesa (intesa come organizzazione storica con la sua gerarchia, le sue strutture, associazioni, movimenti e soggetti individuali credenti, praticanti, appartenenti) e religione (intesa come insieme di attività che si rifanno ad una matrice ispiratrice di tipo spirituale, metafisico; ma anche la religiosità ha caratteristiche simili).
Per ritornare a Böckenförde (2007), la religione non presiede più allo spirito dello stato (e dunque quest’ultimo non sarà più né cristiano, né islamico, né altro in chiave religiosa) ma sceglie di operare nella società, diviene religione civile, influenza l’ordinamento sociale attraverso gli individui e gli orientamenti che fornisce loro. Per questo c’è da aspettarsi, sempre secondo Böckenförde, che essa ambisca a svolgere un ruolo politico secondo una prospettiva che ad essa è propria, appunto quella religiosa. Soffermandosi sulla laicità dello stato, Böckenförde sembra disdegnare la laïcité di derivazione francese e prediligere il concetto di neutralità aperta a tutte le religioni (come in Germania), ma forse l’idea di imparzialità funzionerebbe meglio al riguardo ed aprirebbe una strada abbastanza larga per la presenza della religione ovvero delle religioni nella sfera pubblica, senza ghettizzazioni nel privato od al massimo nel cosiddetto privato-sociale in funzioni di supplenza dello stato stesso. Questo scenario consentirebbe una piena realizzazione delle Weltanschauungen religiose ebraica, cristiana ed islamica, che non vedrebbero pertanto alcuna soluzione di continuità fra credenza ed azione, fra vita spirituale e presenza nel mondo. Ancora una volta si tratta di trovare un equilibrio fra laicità dello stato ed esigenze religiose di una parte non insignificante di cittadini. In tal modo si prende atto della possibilità di recupero, come argomenta Böckenförde, dei principali valori dell’Illuminismo: diritti umani e libertà (anche religiosa).
Certamente c’è un interconnessione fra il tópos della laicità e quello del pluralismo. L’una e l’altro si ritrovano ad interloquire con la resilienza della religione che dopo la ventata pluridecennale della secolarizzazione conserva una sua solidità di base. Le ragioni del pluralismo possono essere pragmatiche, di convenienza: a fronte della persistenza delle religioni l’unica modalità di governo sembra essere quella di una permissività diffusa. Questa scelta comunque non si fa carico delle difficoltà create a quanti si aspettano di poter usufruire di maggiori spazi di autonomia e di uguaglianza ed al contrario devono lasciare posto ad altri ed in qualche modo tollerarli: l’inclusività diviene di fatto una sorta di esclusione per quanti già sono all’interno di un sistema dato. Un pluralismo più riflessivo fa appello ai valori della giustizia, della libertà, della legittimità e del dovere socio-politico per far accettare posizioni diverse dalla propria pre-esistente. Il rischio è di forzare alla libertà anche chi non è d’accordo ed ha il diritto di non esserlo. O di chiedere, pure a chi non intende ricorrervi, la cosiddetta uguaglianza di rispetto, concetto tuttora presente, come filótimo,nella cultura greca di villaggio (Cipriani, Cotesta, Kokosalakis, van Boeschoten 2002).
Gian Enrico Rusconi (2000) da lungo tempo è un intellettuale di riferimento sulla querelle della laicità, reso tale da una capacità di tenuta e di rigore che fa segnare ormai più di un quarantennio nel campo della polemica pubblica su religione e politica. Si tratta dunque di un protagonista e di un interlocutore di prim’ordine, attento, documentato e rispettoso. A suo dire la novità del tempo presente è nell’offerta di un’etica pubblica da parte delle Chiese. Ciò produce di per sé elementi di conflitto con l’approccio laico che tende ad impedire un apporto religioso alla medesima etica, insomma come se Dio non ci fosse (il noto etsi deus non daretur). Le Chiese invero non obiettano alla laicità dello stato ma si rifanno ad una cosiddetta sana laicità costruita sulla base dei loro parametri di riferimento. Da qui sorge la reazione da parte laica, che non gradisce forme di diktat provenienti da istituzioni che non siano lo stato.
L’equivoco maggiore è probabilmente nella qualificazione di dittatura del relativismo che alcuni esponenti della cosiddetta religione-di-chiesa (vecchio termine assai caro a Rusconi) vedono nelle affermazioni di parte laica, che al contrario preferisce parlare di una regolazione consensuale dei principi etici e della loro applicazione. Da un lato vi sarebbe l’autorità dei criteri di fede, dall’altro quella dei cittadini nel loro insieme, ivi compresi i credenti a vario titolo (anche diversamente, come piace dire a Rusconi).
Si sostiene che l’etica pubblica laica possa anche differire, in misura sopportabile, da quella privata. Dal canto suo l’etica pubblica religiosa appare più compatta, ma anche per essa vi sono possibili divari in ambito privato. Il discrimine maggiore poi proviene dalla diversa procedura messa in atto nelle due prospettive: in quella laica si registra la propensione a decidere caso per caso, mentre in quella religiosa varrebbe un corpus generale di principi validi per ogni questione.
Intanto il laico non accoglie l’intrusione del divino nelle scelte operative che derivano da diritti definiti attraverso procedure razionali e consensuali. E chiede perciò al soggetto religioso di adeguarsi alle regole dello stato laico. In altre parole la convergenza tra fede e ragione non trova sostegno al di fuori della religione-di-chiesa. Ma la posizione laica non legittima affatto, aggiunge Rusconi, l’assenza di qualsiasi regola morale ed anzi ne prevede altre basate su un ethos consensuale, anche se non attingibile agevolmente.
Rusconi, mentre contesta a Böckenförde (2007) la tesi di una religione cristiana in grado di assicurare le premesse normative che mancano allo stato secolare, osserva che le radici storiche cristiane possono essersi trasformate con il tempo in ragioni laiche e concorda infine con le richieste habermasiane per una rinuncia delle religioni al possesso esclusivo della verità, per un dialogo reale fra loro stesse, per un apprezzamento della scienza e per un’accettazione della supremazia laica nel campo del diritto.
Conclusione
Il rapporto fra stato e religione/i investe varie realtà politico-territoriali e trova esiti che dipendono in larga misura dalle contingenze storiche, dagli andamenti elettorali, dai regimi governativi. L’Indonesia, ad esempio, è un paese contraddistinto dalla duplice presenza islamica (poco più dell’87%) e cristiana (poco meno del 10%), insieme con due minoranze religiose significative (induista attorno al 2% e buddista sull’1%). In un tale contesto, come in tante altre parti del mondo (dall’Irlanda a Cipro, da Israele all’India, dal Sudan alla Cina), c’è il problema della convivenza fra culture e tradizioni religiose diverse che insistono sul medesimo territorio.
La storia universale, del resto, è attraversata da guerre di religione, conflitti interreligiosi, contrasti politico-religiosi. Nel caso dell’Indonesia la soluzione sembra sia stata trovata grazie al ricorso ad un’ideologia nazionale, detta Pancasila (Intan 2006), al cui interno la religione svolge un ruolo rilevante, basato essenzialmente sul dialogo interreligioso fra mussulmani e cristiani. Né il carattere islamico né quello secolare dello stato indonesiano costituirebbero altrimenti una via d’uscita. Pertanto «la Pancasila è la sola alternativa possibile se l’Indonesia intende conservare la sua unità e la sua diversità. Avendo a che fare con due ideologie in conflitto, la soluzione offerta dalla Pancasila è che l’Indonesia non vuole essere né uno stato secolare, in cui la religione è del tutto separata dallo stato, né uno stato religioso fondato su una sola fede particolare. In breve, sia la Pancasila che la ‘secolarizzazione come differenziazione’ […] consentono di evitare la scelta fra uno stato secolare ed uno stato largamente religioso» (Intan 2006: 18). Detto altrimenti, secondo i principi della Pancasila lo stato resta religioso ma non teocratico.
L’idea della varietà nell’unità era nata ad opera di Sukarno (divenuto poi primo presidente dell’Indonesia), che aveva tenuto conto delle stesse diversità rilevabili nell’islam indonesiano e che il primo giugno del 1945 aveva esposto in un discorso i cinque principi della Pancasila, parola sanscrita e pali che indica i cinque (panca) fondamenti (sila). Originariamente i principi erano: nazionalismo, internazionalismo o umanitarismo, deliberazione o democrazia; giustizia sociale o benessere sociale; ed infine ketuhanan ovvero Lordship. Come si vede, si tratta di un mix fra contenuti islamici e contenuti secolari, invero più a vantaggio di questi ultimi. Quando però i principi vennero dapprima riformulati e ridotti infine ad uno, non fu fatto cadere proprio il rinvio alla dimensione religiosa riguardante il Signore, che anzi venne recuperata sotto la dizione della sua unicità. Insomma l’unità della nazione veniva garantita dalla base comune del riferimento al Signore, condiviso e da condividere fra i cittadini. Così rimaneva il contenuto religioso ma la nazione non si divideva anzi si rafforzava nell’unità relativa al medesimo Signore. Appunto l’unicità del Signore soddisfaceva gli islamici come pure i cristiani perché entrambi vi vedevano una forte coerenza con la loro fede. Ma intanto pure i fautori dello stato secolare restavano gratificati dal compromesso raggiunto attraverso l’esistenza di un fattore unificante a vantaggio dell’intera nazione indonesiana. In seguito, tuttavia, la situazione non è rimasta tranquilla e si sono registrati vari momenti di tensione fra le diverse parti della nazione indonesiana. Il principio dell’unica Lordship ha però contribuito di fatto ad una certa tenuta dell’unità nazionale.
La situazione si è complicata ancor di più, dopo l’esperienza della cosiddetta Guided Democracy di Sukarno, in particolare con l’avvento al potere da parte del generale Suharto, la cui gestione ha avuto dei contraccolpi a livello di religioni, dell’islam in primo luogo. Le diatribe tuttora in atto in merito ai contenuti enunciati nella Pancasila sono numerose e sovente accompagnate da argomentazioni alquanto peculiari. Come dato conclusivo appare comunque ribadito il peso decisivo della religione ovvero delle religioni indonesiane, come mostra l’incremento della presenza dell’islam nello stato, in particolare con il governo del New Order di Suharto. Per di più l’azione religiosa sembra essere anche fattore di promozione della democrazia e della liberazione. Né può essere trascurato il ruolo degli intellettuali (islamici e cristiani insieme) nell’accettazione della Pancasila. Infatti «come stile di vita, la Pancasila invita i cittadini indonesiani a fondare una nazione costruttivamente basata su valori umani contraddistinti dalle idee di inclusività e di non discriminazione» (Intan 2006: 222).
Non è il caso di enfatizzare il caso dell’Indonesia, che resta giusto un esempio di soluzione non definitiva, realizzabile e realizzata. Ma esso dimostra che quando la laicità viene assunta come un valore da difendere da parte delle medesime religioni e quando le religioni sono prese sul serio dal mondo laico si può dire che una comunicazione virtuosa è stata attivata e che ulteriori traguardi sono raggiungibili. Forse, in ipotesi, solo la dignità umana non può essere oggetto di compromesso perché la si potrebbe ritenere in generale un valore non negoziabile e non soggetto all’obbligo della reciprocità: essa andrebbe rispettata ad ogni costo, anche se altri non vi ottemperassero. Per coerenza con quanto sostenuto sinora è evidente che quest’ultimo punto non vuole essere un’eccezione ma va esaminato e ricalibrato secondo l’esito del dibattito da condurre in merito. Può essere forse questa l’ipotesi rifondatrice di una laicità e di una religione che fanno a gara per deideologizzarsi e dialogare, pur senza rinunziare del tutto ai propri principi fondativi. La verità assoluta non è tutta da una parte, ma può essere disvelata con la partecipazione di entrambe le parti, che non possono non riconoscere agli altri quello che chiedono per sé. Rispetto e comprensione nascono tuttavia da un impegnativo tentativo di conoscenza reciproca, teso a delibare coscientemente gli aspetti che sollevano interrogativi etici, aprono orizzonti nuovi all’agire umano e nulla escludono dal campo del possibile, fatti salvi alcuni valori stabiliti di comune accordo.
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