L’analisi qualitativa nei processi educativi

Roberto Cipriani


L’ANALISI QUALITATIVA NEI PROCESSI EDUCATIVI


di Roberto Cipriani


Premessa


Il connubio tra qualità e quantità nella ricerca è inscindibile, come lo è quello fra attività investigativa ed attività formativa. Almeno in linea tendenziale questa appare la prospettiva più efficace e più efficiente.


Il probabilismo scientifico poi va applicato in pieno anche a fronte di soluzioni che sulla carta sembrano vincenti di per sé. Detto altrimenti, se nel passato pareva indefettibile il fondamento numerico come prova convincente ora si è puntato sulla qualità come chiave di lettura legittimante. Dunque sembrano non più vincenti le opzioni esclusivistiche, giacché l’approccio multimetodo pare offrire interpretazioni meno estemporanee, meno soggettivistiche, meno ideologicamente orientate.


L’argomento qui in discussione non è di poco conto. Esso è alla base di significativi sviluppi nel campo della conoscenza scientifica, della formazione delle nuove generazioni e della preparazione di docenti, educatori ed operatori socio-culturali.


In realtà non vi è soluzione di continuità fra chi è dedito allo studio ed all’indagine, nonché all’insegnamento, e chi invece si dedica ad un agire più concreto, più applicativo, più implementativo.


La prospettiva pluridisciplinare


Non è un caso che varie associazioni scientifiche a livello sia nazionale che internazionale annoverino fra i loro soci non solo gli scienziati di un particolare settore disciplinare ma anche i professionisti attivi sul territorio. In tal modo si instaura un circolo virtuoso fra pensiero ad azione, tra riflessione astratta ed applicazione pratica, fra approccio intellettuale ed agire fattuale.


Nel passato le associazioni scientifiche hanno assunto di necessità un carattere corporativo, difensivo delle peculiarità insite in una specifica materia. Soprattutto le scienze nuove, non tradizionalmente riconosciute, hanno fatto fatica ad affermarsi, fino ad ottenere una legittimazione piena grazie al loro ingresso nel novero degli insegnamenti accademici, con cattedre di ruolo e non più con insegnamenti solo facoltativi, provvisori, affidati con incarichi di breve durata, ad tempus.


L’impegno in tal senso è stato predominane, fino a mettere in subordine le questioni di maggior momento, quali gli aspetti metodologici, le problematiche procedurali, i paradigmi, i modelli, le scelte teoriche. Così sono state dedicate risorse importanti per difendere l’autonomia, l’indipendenza della propria collocazione accademica, trascurando pertanto altre finalità, fra cui le sfide sul piano dell’affidabilità, della correttezza, della fondatezza dei risultati acquisiti.


Ma soprattutto è mancato l’afflato del confronto libero, scevro da mere intenzionalità di conquista, colonizzazione e difesa delle postazioni raggiunte.


Risulta pertanto salutare un confronto a tutto campo come quello proposto della Società Italiana per la Ricerca Educativa e Formativa (SIREF), che invita allo stesso tavolo pedagogisti e sociologi, fisici ed economisti, filosofi ed altri studiosi specialisti nell’ambito delle risorse umane.


Il dibattito si presenta non agevole, come tra soggetti che si incontrano per la prima volta e che non si conoscono ancora reciprocamente, con tutti i malintesi, i difetti di comunicazione, le imprecisioni di vocabolario, le inadeguatezze di un linguaggio comune ancora quasi tutto da costruire.


E nondimeno l’esperienza vale la pena di essere vissuta. In fondo è evidente che l’operatore sociale resta tale se ha a che fare con Platone e con Kant ma, absit iniuria verbis, si trova ad essere in difficoltà se affronta temi per lui non abituali quali la gestione di sistemi complessi o l’analisi di dinamiche relative a macrosistemi economici. Ma ovviamente la posizione è reversibile e dunque applicabile anche nel caso in cui un fisico debba affrontare, per esempio, il significato del concetto di alétheia nei frammenti presocratici raccolti meritoriamente da Diels. Eppure sia nell’uno come nell’altro caso l’oggetto dell’analisi è quello, in fondo, della verità, o almeno della verosimiglianza.


Orbene se è difficile contestare che la scienza, la conoscenza scientifica, si fonda su criteri comuni che presiedono ogni operazione analitica nondimeno il percorso verso una comune piattaforma di strumenti investigativi è ancora costellato di difficoltà non facilmente valicabili. Né va dimenticato il peso che peraltro esercita il riferimento personale dello scienziato a pregiudizi preesistenti, che talora impediscono un’adeguata disponibilità a tener conto di posizioni diverse dalla propria, magari facendo valere aspetti caratteriali, eventi interpersonali pregressi, motivazioni dovute a fattori extrascientifici, emotivi, derivanti da antipatie e simpatie consolidate.


La frequentazione di gruppi realmente interdisciplinari e ricettivi nei riguardi di proposte alternative favorisce certamente una sempre più accurata conoscenza reciproca, base preliminare per qualsiasi interazione effettivamente utile per il progresso della scienza. Ecco perché se è opportuno allargare l’orizzonte della prospettiva pluridisciplinare è anche da considerare la convenienza di una stabilizzazione del gruppo di interlocutori, sia per non dover ricominciare ogni volta ex novo sia per procedere in forma soddisfacente verso obiettivi comuni, tali da offrire a tutti i partecipanti un forte senso di appartenenza e dunque di condivisione delle operazioni messe in campo.


Ricerca e formazione


L’organizzazione dell’università italiana in facoltà e dipartimenti, con la sopravvivenza – per di più – delle vecchie strutture universitarie di base, sta dando i suoi frutti ben visibili: uno spostamento sbilanciante, volto quasi tutto a favore della didattica ed a detrimento della ricerca. In tal maniera, riducendo l’apporto degli esiti investigativi, gli stessi contenuti dell’attività formativa ne risentono perché rimangono al livello del già noto, pubblicato, risaputo. Vengono invece penalizzati i nuovi dati, le ulteriori conoscenze, le interpretazioni innovative. L’estensione dello spazio-tempo da dedicare alla didattica, con il passaggio da sessanta a centoventi ore annuali (ma, spesso, anche di più), comporta un dispendio di energie che vengono di fatto sottratte alla dimensione peculiare del lavoro empirico sul campo, degli approfondimenti in biblioteca, delle inchieste mirate. Insomma lo scienziato è spinto sempre più verso la prestazione d’opera a carattere divulgativo ma rischia in tal modo di esaurire le sue scorte conoscitive, costretto com’è a ripetersi su quanto già da lui posseduto in termini obsoleti. Non vi è chi non veda nelle prevaricazioni delle facoltà sui dipartimenti un chiaro segnale di ribaltamento del rapporto fra didattica e ricerca: ormai si tende a fare più didattica che ricerca, più esami che studi, più operazioni burocratiche che iniziative di lavoro scientifico. Anche la cooperazione di gruppo fra studiosi ne risente: le aggregazioni si creano ad hoc, su progetti provvisori, per finalità contingenti, senza programmazioni a lunga gittata. La precarietà del ruolo dell’intellettuale è anche la precarietà delle sue potenzialità umane, a livello di tempo e risorse. Va comunque tenuto presente che ci sono soggetti più portati a svolgere funzioni didattiche mentre altri preferirebbero svolgere solo ricerche. In Francia, per esempio, le due figure sono separate: si può far carriera nelle università, dunque immaginando che prevalga il ruolo di docente, oppure nel C.N.R.S., cioè nel Conseil National de la Recherche Scientifique, con un impegno esclusivo nell’ambito dell’investigazione (il che però non impedisce di fornire anche prestazioni di insegnamento universitario).


Da noi, in Italia, le due funzioni sono esercitabili insieme nel contesto accademico e in quello extraccademico. Il problema sorge nel trovare un corretto equilibrio fra i due momenti, senza che nessuno dei due ne scapiti. Non a caso è previsto l’anno sabbatico, da usare per ragioni esclusive di ricerca. Ma il ricorso a tale possibilità offerta dalla normativa vigente, pur essendo un diritto, non è frequente, anche perché il docente congedando deve indicare un suo sostituto, non sempre facilmente rinvenibile, per il periodo di assenza. Allora sono numerosi coloro che non hanno mai usufruito di un anno sabbatico per ogni sette anni di attività continua di insegnamento: il timore diffuso è, probabilmente, relativo al fatto che l’allontanamento dal posto di lavoro rappresenti anche una perdita di controllo dell’ambiente universitario, con il rischio cioè di lasciare campo libero ad altri colleghi di gestire risorse, decidere sulla programmazione, cogliere le occasioni di finanziamento, seguire da vicino le dinamiche politico-culturali degli schieramenti e delle condotte, specialmente in vista di scadenze strategiche legate ai rinnovi delle cariche più prestigiose (rettore, preside, direttore, presidente, ecc.). In pari tempo non si può trascurare il dato inequivocabile di una ripartizione di una risorsa scarsa come il tempo, in gran misura eroso da incombenze di ordine vario, dai consigli alle commissioni, dagli esami ai ricevimenti, dalle immissioni di dati alla compilazione di schede e verbali.


Didattica e ricerca


Alcuni segnali anticipatori di un possibile futuro anche italiano (ed europeo) provengono d’oltre Manica, dalla Gran Bretagna, dove sono in atto misure restrittive per i docenti e per la ricerca. Innanzitutto sono avvenuti licenziamenti dei professori universitari, a seguito della chiusura di alcune strutture. In altri casi gli stipendi sono stati ridotti (del 20% od anche più).


D’altra parte sin dal 2004 il governo Blair aveva aumentato, sia pure a partire dall’anno accademico 2006-2007, le tasse annuali di iscrizione all’università, portandole da 1000 sterline a 3000 (od anche più per il prosieguo).


Nel frattempo il potere d’acquisto dei salari percepiti dagli accademici è diminuito del 40% a confronto di categorie professionali affini.


Un miglioramento degli stipendi è stato promesso in rapporto all’andamento delle iscrizioni universitarie. Se queste aumenteranno in misura adeguata, un terzo dei proventi andrà a vantaggio dei docenti salariati, con un’offerta da parte dei rettori che raggiunge, in tre anni e mezzo, il 12%. Il che nella sua consistenza copre appena l’entità della svalutazione in atto, attestata attorno al 3% annuo. Ed intanto permarrebbe la sperequazione fra lo stipendio rettorale, di circa 200.000 sterline annue, e quello professorale, di circa 35.000 sterline lorde annue.


Lo slittamento atteso per gli anni futuri è un sostanzioso aumento delle tasse universitarie, più che triplicate, con un adeguamento dei salari dei docenti neppure in grado di restare alla pari dell’inflazione, con una possibile riduzione della durata degli studi universitari (forse da tre a due anni per il titolo di laurea), con un’attribuzione della possibilità di far parte delle commissioni di esami universitari anche a soggetti non in organico nelle università (dottorandi, borsisti, contrattisti, ecc.), ed infine con un ricorso a prove facilitate di esame (magari con voti “politici” e risultati positivi assicurati).


Ma quello che fa maggiormente problema è la propensione a separare la docenza dalla ricerca: si pensa ad un impegno docente a tempo completo. Di conseguenza è possibile svolgere ricerche solo in presenza di finanziamenti provenienti dall’esterno delle università. Con tali risorse è finanziabile indirettamente l’attività di studio del personale docente in organico, che risulterebbe sgravato, almeno parzialmente, del suo carico didattico, affidato invece a soggetti esterni, retribuiti con i fondi in realtà destinati a sovvenzionare la ricerca.


Ecco dunque che le sorti della scienza rimarrebbero affidate all’estemporaneità ed alla casualità dei contributi finanziari extrauniversitari. In caso poi di assenza totale (o quasi) di tali forme di supporto è immaginabile che nessun docente farà più ricerca e dunque si troverà a rendere sempre meno aggiornati i contenuti della propria didattica.


A soffrirne saranno soprattutto le discipline non foraggiate a livello extraccademico, in quanto non direttamente connesse ad operazioni profit oriented. Chi può avere infatti interesse economico a sostenere approfondimenti relativi alla filologia romanza o alla storia bizantina? E dunque queste e molte altre discipline dovrebbero scomparire del tutto e non avere più alcun cultore, una volta ritiratisi dall’insegnamento gli attuali docenti? E quali prospettive rimangono per gli attuali giovani studiosi di dette discipline?


Si profila così una fenomenologia di low cost anche per le università. Infatti è già stata coniata l’espressione Ryanair universities per indicare gli atenei in cui tutto è ridotto all’indispensabile, la ricerca è bandita, i docenti si limitano ad insegnare, magari on line, a distanza, senza mai incontrare i loro allievi, ricorrendo a formule tipo powerpoint dove tutto è reso omogeneo, non individualizzato, generico, pronto all’uso (e getta…), sin troppo essenziale. In definitiva l’azione del professore si ridurrebbe a quella di esaminatore veloce, persino con letture ottiche di questionari somministrati a tappeto e senza tenere conto delle diverse esigenze degli allievi.


L’avvio di una procedura nazionale per la valutazione della ricerca scientifica è senza dubbio un significativo passo in avanti rispetto al passato, anche se molti aspetti sono suscettibili di cambiamenti migliorativi. In effetti il processo ormai avviato da tempo è un incipit meritevole di grande attenzione. Ma proprio per questo qualche ulteriore precauzione è necessaria.


Non si può presumere che un docente produca ogni anno un lavoro degno e meritevole. È vero che si opera attraverso una selezione dei prodotti migliori già avvenuta in ogni ateneo. Ma l’effetto, neppure molto indiretto, è che ogni professore universitario è sottoposto a verifica per la sua produttività scientifica annuale. Orbene in alcuni settori, per talune materie, l’indagine arriva a prolungarsi per anni prima di giungere ad esiti pubblicabili, sottoponibili al giudizio della comunità scientifica (si pensi ad esempio ad uno scavo archeologico che arriva a durare decenni prima di approdare a ritrovamenti rilevanti). E c’è poi il caso, non infrequente, di un’indagine che non porta alcun risultato, anzi il cui esito reale è appunto l’assenza di novità. La ricerca pura è soggetta a questo genere di conclusioni non innovative, che nulla aggiungono al know how esistente. C’è forse da condannare un tentativo scientifico non riuscito? La ricerca, del resto, non può non essere libera ed indirizzata in tutte le direzioni possibili.


Che dire poi di ostacoli obiettivi che impediscono ad un accademico di pensare in misura primaria alle operazioni di studio e ricerca? Egli può trovarsi a dirigere una struttura universitaria, a presiedere un’associazione scientifica, a svolgere un’intensa attività di fund raising, a cercare interazioni indispensabili con gli enti territoriali pubblici e privati. Come può nel contempo svolgere altresì indagini sul campo o in laboratorio? Del resto non vi è neanche l’esonero dall’insegnamento, in quanto le figure che ricoprono ruoli istituzionali sono tenute ad adempiere in pieno ai loro compiti didattici, senza subappaltarli ad altri.


L’obiettivo non può non essere dunque quello di un’integrazione completa fra insegnamento e studio, fra attività formativa e ricerca. Vanno dunque reperite le risorse almeno di base per consentire a tutti gli accademici di assolvere ed onorare in pieno il loro insieme di diritti e doveri.


È vero che il privato non sostiene abbastanza nel nostro paese la ricerca effettuata a livello universitario, ma è altresì vero che neppure lo stato onora il suo impegno a tal proposito, più volte conclamato. In effetti da oltre un decennio non si registra in Italia alcuna crescita del tasso percentuale di investimento sulla ricerca rispetto al totale del Prodotto Interno Lordo. Si è fermi da tempo attorno alla percentuale dell’1%, mentre in Germania si registra il 2,5%.


In definitiva per la formazione del capitale umano un’adeguata azione nel campo della ricerca è irrinunciabile, pena l’inefficacia della formazione, l’obsolescenza del sapere, l’impossibilità per le future generazioni di disporre di conoscenze aggiornate, di saperi utili, di capacità critiche, di potenziali analitici debitamente problematici ed orientati piuttosto verso l’innovazione che non verso la mera conservazione e ripetizione dell’esistente. Ne va del futuro del nostro paese. La knowledge society richiede capacità sempre più raffinate e consapevoli, per evitare tracolli collettivi ed individuali, addebitabili ad insipienza programmatica ed a carenze previsionali di fondo.


Narratività conoscitiva e processi educativi


La situazione attuale a livello universitario (e non solo) vede una rilevante diffusione delle forme di precariato e di mancata occupazione. Si potrebbe trarre spunto da questo dato di fatto per cominciare a svolgere indagini qualitative [Cipriani 2008] sulle matrici di tale stato di cose, a partire dagli stessi racconti autobiografici dei diretti interessati, dei protagonisti-destinatari delle conseguenze derivanti dalle caratteristiche della società cosiddetta flessibile. Potrebbe così svilupparsi una narrativa educativa così come già esiste ed è ben sviluppata una narrativa medica [Masini 2005].


D’altra parte un altro filone degno di interesse per l’approccio qualitativo in campo educativo è quello costituito dai recenti studi sull’utilizzo dei telefoni cellulari, tipico oggetto per intrattenere relazioni intersoggettive quasi continue nel tempo se non nello spazio. In tale contesto potrebbe essere utile esaminare appositi diari di uso relativi allo strumento di comunicazione, anche e forse soprattutto per quanto riguarda le immagini trasmesse (dalle semplici “faccine” alle più articolate scene di ripresa videografica). Quest’ultimo nuovo fenomeno è il frutto di una possibilità inusitata, quella di produrre immagini in proprio e di fornire auto-rappresentazioni di se stessi che sono anche auto-definite ed auto-gestite.


Pur nelle diverse modalità di riferimento al vissuto tipicamente giovanile, è possibile predisporre sia interviste in profondità che disamine sotto forma di focus group. Alcuni studiosi particolarmente qualificati nel campo dell’analisi qualitativa fanno pure ricorso a foto-stimolo per raccogliere impressioni ed orientamenti degli intervistati [Faccioli, Losacco 2008]. Insomma in molti casi sono proprio gli indicatori visuali a rappresentare un dato affidabile e suscettibile di investigazioni approfondite [Poggi 2007]. A partire da indizi visivi è possibile desumere dinamiche emotive in corso o pregresse, dimensioni relazionali, atteggiamenti ed orientamenti. La stessa sociabilità come rapporto interpersonale, secondo la prospettiva di Georg Simmel [1989], è indagabile mediante lo sguardo dell’osservatore e quello dell’osservato. E d’altra parte pure il profilo dei modi d’uso di un telefono portatile possono offrire indicazioni preziose sull’agire sociale di un individuo: molto ci può dire la sua preferenza per i toni alti o piuttosto eccentrici del tipo di suoneria, oppure la sua scelta di tenerlo spento nel corso di attività che comportino la presenza di altri interlocutori sia in privato che in pubblico.


Il linguaggio delle immagini poi è quanto mai eloquente ai fini di un’indagine sociologica volta a conoscere gli andamenti dei processi educativi: intervengono qui le abituali prospettive tipiche dell’interazionismo simbolico [Blumer 1969], che guarda a posture e gesti in situazione degli attori sociali, i quali danno senso al loro agire, entro uno spazio in cui sono presenti altri soggetti che con le loro azioni interagiscono essi pure.


Diventa particolarmente efficace l’approccio qualitativo nel caso di un’indagine volta a cogliere i caratteri peculiari relativi alla percezione che le persone con disabilità hanno nei riguardi dei loro interlocutori. La ricerca diventa allora un vero e proprio intervento sociale e tendenzialmente educativo ove si consideri che la barriera che si erge di solito nei confronti della disabilità è più psicologico-sociale che fisica [Perrotta 2009]. A tal proposito è soprattutto la relazione io-tu (e poi quella tu-io) che stabilisce i termini del confronto interpersonale e delle percezioni reciproche, cariche di pregiudizi, di riserve mentali e di timori.


Fra l’altro alla conoscenza scientifica qualitativa si può applicare la teoria degli atti linguistici di Austin [1974], nota sotto l’espressione “quando il dire significa anche fare”. Perciò l’atto locutorio della comunicazione ed in particolare della comunicazione narrativa diviene di fatto perlocutorio, cioè un’azione trasformativa, performativa appunto, anche in chiave educativa. In effetti il dire può essere suasivo ed ottenere qualche risultato, può cioè far cambiare idea, opinione, atteggiamento e comportamento.


La stessa osservazione partecipante, tecnica tipica dell’analisi qualitativa, particolarmente usata da antropologi e sociologi non quantitativisti, in qualche modo ed in qualche misura modifica l’agire altrui: quando si è osservati e dunque “sotto controllo”, l’azione tende a conformarsi a quelle che possono essere le attese altrui o comunque a non esprimersi solo secondo i criteri della propria scelta autonoma. Anzi proprio l’osservazione partecipante può in realtà divenire – per restare nell’ottica di Austin – un atto illocutorio che tuttavia contiene nel suo fare il suo dire.


Un esempio peculiare potrebbe essere costituito dalla semplice osservazione di quanto avviene quotidianamente in ambito domestico, per ciò che concerne il possesso e la gestione del telecomando televisivo: chi ha il diritto di stabilire quali bottoni premere e quindi quali trasmissioni seguire? Che cosa avviene in caso di conflitto o comunque di disaccordo sulle scelte da effettuare? Quali conseguenze si registrano dopo un’opzione effettuata ma non condivisa? Chi impone il suo volere? Chi cede e come? Sono tutti interrogativi (e situazioni) segnatamente intriganti dal punto di vista dell’analisi qualitativa in chiave di studio dei processi educativi, che sono sempre tipicamente interattivi fra persone.


Qui si affaccia in modo cogente la necessità di ricorrere alla teorizzazione di George Herbert Mead [1966] relativa al cosiddetto altro generalizzato, alla “gente” che fa ed ha un’opinione e che interagisce con gli altri soggetti. La comunicazione non può prescindere da questi scambi fra gli attori sociali, tutti protesi ad un interscambio che favorisce la percezione del sé e la coscienza-consapevolezza del sé. Nella prospettiva di una considerazione rivolta allo sviluppo dei processi educativi è facile comprendere che l’autoconsapevolezza (o coscienza di sé) si realizza nella comprensione del proprio ruolo nella comunità di riferimento, dunque in rapporto agli altri, nei quali ci si immedesima per intessere una relazione significativa ed utile a confermare, corroborare la propria funzione di individuo sociale. L’allargamento della rete dei rapporti consente di avere un’idea più definita di ciò che gli altri rappresentano, appunto come “altro generalizzato”.          


Metodologia dell’analisi qualitativa


L’analisi qualitativa dei processi educativi è oggi particolarmente sostenuta da tutta una nuova strumentazione di carattere informatico, che permette di esaminare compiutamente una massa enorme di dati ed informazioni a carattere biografico ed autobiografico, approccio ormai divenuto tipico nel campo della pedagogia [Cambi 2004; Demetrio 1996, 1998, 2003; Demetrio, Biffi 2007] come della sociologia [Cipriani 1995; Bichi 2000, 2002; Marradi 2005]. Torna particolarmente utile nell’analisi dei contenuti di un’intervista o di una storia di vita l’indagine computer-assistita. Sono numerosi ormai i programmi a disposizione, dopo qualche incertezza iniziale e la difficoltà di scommettere su prodotti non particolarmente remunerativi sul piano del profitto economico, data la ridotta domanda del mercato scientifico nel settore qualitativo. Adesso c’è persino l’imbarazzo della scelta fra NVivo (giunto alla sua ottava versione, dedicata anche all’analisi delle immagini) ed Atlas-ti (di matrice tedesca e particolarmente diffuso in Europa).


A livello di procedure si tratta invece di scegliere fra la metodologia classica, che prevede l’individuazione previa di ipotesi di lavoro, cioè di rapporti ipotetici tra variabili indipendenti (per esempio la socializzazione primaria in famiglia) e variabili dipendenti (ad esempio il rendimento scolastico), ed altre soluzioni metodologiche più rigorose (fra cui la Grounded Theorydi Glaser e Strauss [2009] o più anarchiche (alla maniera di Kuhn [1978] e soprattutto di Feyeranbed [1979]).


In particolare è la Grounded Theory, come teoria fondata (sui dati), che sembra offrire maggiori potenzialità per lo sviluppo dell’analisi qualitativa, in quanto non preclude in modo aprioristico alcun percorso d’indagine ed anzi incrementa le possibilità di studio investigativo, lasciando aperto il campo ad ogni esito esplicativo ed interpretativo. Diversamente però da quanto suggeriscono i proponenti della teoria fondata sui dati, non sembra conveniente procedere senza alcuna indicazione che possa orientare – almeno in qualche aspetto di tipo concettuale – l’analisi appunto dei dati. Per questo alcune esperienze empiriche sul campo hanno indotto a ritenere che sia opportuno far ricorso ad alcuni concetti sensibilizzanti [Blumer 1954, 1969: 148-149], in grado cioè di rendere sensibile il ricercatore verso taluni ambiti definiti, in modo da evitare altresì una totale anarchia della ricerca, senza più regole.


In pari tempo però è la stessa Grounded Theory che consente di sviluppare ed approfondire modalità di analisi abbastanza rigorose, attraverso la triplice modalità del campionamento dapprima aperto, poi assiale ed infine selettivo, che dà luogo ad altrettante procedure di codifica dei dati e di analisi successiva, finalizzata quest’ultima alla costruzione di una teoria scaturente dai dati stessi e non più prestabilita già all’inizio dell’inchiesta.


Mettendo insieme gli attributi (genere, età, scolarità, classe sociale, residenza, ecc.) dei soggetti intervistati (o comunque dei protagonisti dell’indagine) con i nodi concettuali (rappresentati dai concetti sensibilizzanti, scelti come guida per “etichettare” i dati) si avviano approfondimenti e studi di relazioni fra soggetti e fra concetti, nonché fra soggetti e concetti, che preludono alla theory building, dunque alla costruzione di una teoria riferita ai dati raccolti e che l’hanno prodotta.


Conclusione


La metodologia narrativa è in realtà un preliminare che introduce alla comprensione dei processi educativi ed è essa stessa un processo educativo nella misura in cui permette al soggetto di esprimersi, di chiarire i propri punti di vista, le proprie opinioni, i propri atteggiamenti. In tal modo si approfondisce la conoscenza del sé, se ne acquista una consapevolezza sempre maggiore ed in pari tempo si offre pure ad altri la possibilità di capire, di cogliere l’essenza di un sentire che poi diviene agire.


Se si fa ricorso alla sociologia visuale, alla ripresa videografica della narrazione (o anche della semplice intervista), diventa più agevole il lavoro di ricostruzione e decostruzione degli strati di significato insiti nel racconto.


Soprattutto se l’analisi si concentra sulla stessa comunicazione, è dato indagare a fondo sulla gestualità degli insegnanti, sulla prossemica come uso dello spazio nella pratica didattica, sui segni e sui segnali derivanti dall’emozionalità del rapporto docente-discente, sul ricorso all’ironia reciproca fra adulti e giovani od anche all’interno della medesima categoria di età, sull’uso della corporalità e delle relative posture nello scambio di messaggi silenziosi nella situazione d’aula, sulla valenza degli sguardi – magari sulla base di un dizionario ben preciso definibile come “occhionario” [Poggi 2007] -, sulla modulazione delle voci (dai toni più bassi a quelli più alti, tutti suscettibili di letture diversificate).    


Se invece si fa riferimento al Piano dell’Offerta Formativa (POF) è possibile intendere meglio – con l’analisi qualitativa e con l’analisi del contenuto in particolare – il senso della normativa di riferimento, l’articolazione in moduli, le strutture utilizzate, l’organicità della proposta, la potenziale efficacia del piano [Ferdinandi 2008], il contributo degli estensori come soggetti singoli o come collettività scolastica, le finalità intenzionali, i condizionamenti del contesto.


Tuttavia è bene precisare che non giova ad una corretta disamina qualitativa l’assenza di aderenza ai dati o un’eccessiva astrattezza delle interpretazioni. Né tanto meno giova un eccesso di metodologismo di fondo e di tecnicismo applicativo: la dinamica dei processi educativi come di altri processi sociali è complessa, imprevedibile, talora imperscrutabile nella sua portata reale. Dunque non giova perdere di vista la dimensione umana, libera, spontanea delle azioni che riguardano per esempio l’accoglienza rivolta ad un alunno straniero, in chiave di integrazione o di esclusione, di socializzazione o di emarginazione, di presa in carico o di allontanamento.


L’indagine qualitativa applicata ai processi educativi serve anche a mettere in chiaro che l’assenza di obiettivi educativi può derivare da una carenza di base a livello formativo, da una rinuncia all’impegno collettivo per cui si lascia ad altri il compito della dedizione piena, da una mancanza di continuità nell’azione educativa, da una ridotta efficacia dell’offerta formativa. A tutto ciò vanno poi aggiunti alcuni elementi di disturbo, veri e propri distrattori che vanno fatti risalire al contrasto di interessi nell’azione educativa, alle difficoltà di socializzazione e di inserimento, alla mancata soddisfazione delle attese, alla debole o fuorviante comunicazione istituzionale in ambito scolastico, alle ridotte capacità di investimento di risorse economiche e personali nell’azione educativa.


Infine l’indagine qualitativa può mettere in grado di comprendere quali siano le remore che impediscono il raggiungimento degli obiettivi prefissati, specialmente per la presenza di luoghi comuni, di un pregiudizio (bias) che non si riesce a sconfiggere. Einstein, che se ne intendeva, pensava che fosse più facile disintegrare un atomo che annullare tutta una serie di partiti presi, preconcetti, per nulla scalfiti dai risultati del progresso nel campo della conoscenza scientifica.       


Riferimenti bibliografici


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