“Manfredi-Giacinto, il patriarca di borgata”, in Bartalotta (a cura), Nino Manfredi. Uomo e Artista, Piccin, Padova, 2014, pp. 258-69, in collaborazione con M. Mansi.

Roberto Cipriani, Maria Mansi


MANFREDI-GIACINTO, IL PATRIARCA DI BORGATA


Premessa


   Letteratura e cinematografia non hanno mancato di evidenziare in modo singolare i vissuti e le dinamiche relazionali rilevabili nelle periferie urbane italiane, con particolare riferimento alla situazione romana. Dopo le opere letterarie Ragazzi di vita[1]Una vita violenta[2], Pier Paolo Pasolini si è cimentato con la macchina da presa affrontando l’esperienza di Accattone, un film del 1961. In tal modo è emersa all’attenzione di un largo pubblico una serie di vicende e di traversie solitamente non presenti sulla ribalta dei mass media.


   Ma non è solo Pasolini a segnalare la drammatica situazione dei borgatari romani. Anche la sociologia scende in campo e lo fa con il taglio giusto, scientifico e divulgativo, che desta una larga attenzione sia attraverso l’insegnamento universitario sia mediante alcune pubblicazioni ad alta tiratura. In tal senso va segnalata l’opera pionieristica di Franco Ferrarotti, che coglie subito nel segno con un suo libro dal titolo quanto mai efficace ed immediatamente comprensibile nel suo taglio critico: Roma da capitale a periferia[3]. Ma l’approccio alla periferia romana non si ferma qui. Segue poi un altro titolo, emblematico e provocatorio allo stesso tempo, ad opera di un allievo di Ferrarotti: La dialettica del baraccato [4]La scuola ferrarottiana scende ancora in campo con una buona parte dei suoi esponenti: Maria Immacolata Macioti, Maria Michetti, Laura Tini, Paola Bertelli, Enrico Pozzi, Consuelo Corradi, Renato Cavallaro, ed altri ancora. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la presenza di studiosi accademici soprattutto a Valle dell’Inferno, detta anche Valle Aurelia, è abbastanza frequente, per studi di vario tipo, ma soprattutto in forma di osservazione partecipante.


   Non è inverosimile che l’idea del film Brutti, sporchi e cattivi (1976) sia venuta ad Ettore Scola proprio a seguito del gran parlare che si faceva, a metà degli anni settanta, delle disastrose condizioni di vita da parte di tanti romani di adozione, immigrati dal sud, abitanti nell’estrema periferia della capitale, oltre il Grande Raccordo Anulare.


   Se la borgata di Valle Aurelia non condivide il tipo di insediamento delle periferie romane o dei cosiddetti borghetti, in quanto si trova in una zona centrale dell’Urbe, nondimeno molti tratti in comune restano: l’accentuata povertà, la promiscuità resa necessaria dalla ristrettezza degli spazi, l’assenza di lavori stabili, la diffusa disoccupazione che colpisce i giovani, le difficoltà di natura igienico-sanitaria, l’assenza di una rete fognante, le traversie da affrontare per l’approvvigionamento dell’acqua, la ridotta presenza od insufficienza di mezzi di trasporto pubblico, l’indisponibilità di servizi essenziali in loco.        


   A Pasolini e Ferrarotti si aggiunge dunque Scola, ma invero bisognerebbe dire segnatamente Nino Manfredi che, impersonando Giacinto, il protagonista del film Brutti, sporchi e cattivi, delinea il profilo di una figura esemplare nel firmamento cinematografico ed urbano di Roma. Grazie a Manfredi, appunto, si capisce molto di una realtà che sembra lontana ed invece è vicinissima: il vissuto molteplice e contraddittorio di chi risiede in una baracca: con grandi slanci di generosità ma anche con atteggiamenti e comportamenti che denotano un fondamentale egoismo, che tutto (o quasi) riconduce al proprio interesse privato, nonostante il carattere comunitario della famiglia allargata, anche ben oltre la misura e le regole della borghesia media ed alta.


Brutti, sporchi e cattivi


   Il film di Scola è stato girato sulla collinetta di Monte Ciocci, che offre uno sguardo panoramico congiuntamente sulla cupola michelangiolesca della basilica di San Pietro, sul viadotto ferroviario della linea Roma-Viterbo, su via Baldo degli Ubaldi, sulla Pineta Sacchetti e soprattutto sulla Valle dell’Inferno, con i suoi residui di vecchie fornaci, da tempo spente, ma le cui ciminiere testimoniano un passato fecondo di operosità ed opere (da quando Roma è divenuta la capitale d’Italia, cioè dal 1870, l’attività edilizia è cresciuta a ritmi esponenziali, dando lavoro a diverse generazioni di fornaciari, che hanno prodotto quei mattoni in argilla che si ritrovano copiosamente in molte strutture residenziali ed istituzionali che costituiscono il tessuto portante dell’Urbe). Si può dare che gran parte della Roma post-unitaria abbia cominciato a prendere forma e linfa costruttiva nella valle un tempo definita inferior (come si legge nelle mappe di qualche scolo fa) in quanto posta più in basso rispetto ai colli circostanti, in particolare ai piedi del Vaticano.


   Sullo sfondo di un contesto tanto prestigioso e ricco di memorie storiche si staglia, nelle scene del film, la figura di un dominus onnipresente ma non sempre vincente: un Manfredi-Giacinto che cerca di governare il suo entourage familiare ed extra-familiare senza riuscirvi ed anzi è costretto a difendere il suo denaro dalle mire del suo nucleo esteso. Nel frattempo però egli riesce ad ottenere qualche risultato positivo e tuttavia effimero: la vita riprende i suoi ritmi quotidiani fatti di espedienti per la sopravvivenza, lotte interpersonali, andamenti altalenanti fra tolleranza e razzismo, astinenze forzate (di ogni genere) ed abbuffate incontinenti, sopraffazioni e solidarismi.


   Tutto questo emerge in modo sintomatico e palese appunto dal protagonista Nino Manfredi, che fa del suo meglio nel dare un accento pugliese alla sua parlata, nel tenere il suo occhio sinistro in parte chiuso (quasi a non volere vedere in dettaglio tutto ciò che gli accade d’intorno), nel trovare il giusto mezzo fra drammaticità, realtà e comicità, in modo da trasmettere allo spettatore l’essenziale delle vicende narrate cinematograficamente e sapientemente accompagnate dal supporto artistico ed organizzativo di nomi di tutto rispetto, che vanno dallo stesso regista Scola (premiato a Cannes nel 1976 per la miglior regia, grazie a Brutti, sporchi e cattivi), agli sceneggiatori Ruggero Maccari e Sergio Citti (straordinario conoscitore degli ambienti marginali romani), al musicista Armando Trovaioli, al fotografo Dario Di Palma ed al produttore Carlo Ponti.


   Il film invero può dar luogo ad osservazioni critiche contrastanti ma forse quello che è più controverso è in fondo il carattere più esemplare, illustrativo e sociologicamente rilevante: la rappresentazione di un mondo reale, non astratto, persino riduttivo rispetto a certe fenomenologie che l’osservazione diretta sul campo mette in luce e segnala all’opinione pubblica ed ai decisori politici.


   Il mondo delle baracche è abitato da persone ed animali (da cortile ma in realtà in campo aperto), da lamiere e piante che fanno da quinte di un teatro all’aperto, di una rappresentazione open air che è messa alla vista di tutti, anzi bene in mostra dall’alto di Monte Ciocci sino ad abbracciare tutto l’intorno: dall’Istituto Dermoterapico dell’Immacolata su un costone della Pineta Sacchetti al Policnico Gemelli che lambisce la valle, dalla via Aurelia alla Città del Vaticano (con la Porta Pertusa – sotto il Torrione di San Giovanni -,  a lungo via di accesso verso la valle ma ormai murata da secoli).


   Nino Manfredi si muove a suo agio su un terreno che pare suo proprio da sempre: la Roma papalina e quella più popolare, la grande bellezza dei fasti imperiali prima e religiosi poi ma pure la grande bruttezza, la sporcizia e la cattiveria messe in scena da una compagine di venticinque attori (infanti compresi) che paiono rappresentare la loro quotidianità di sempre. In questo Nino-Giacinto è magistrale, anche nel senso didattico del termine, attraverso le sue movenze, le sue fisime per la proprietà della casa-baracca, le ansie per il suo pupo ovvero il denaro che nasconde, il legame profondo con la terra e con la realtà contadina di provenienza (pugliese o cociara che sia), il rapporto di odi et amo con la consorte, con la famiglia più o meno allargata e con il vicinato, il tentativo di riservatezza in un quadro d’insieme assai promiscuo ed embricato (la suggestione ha un sapore metaforico e proviene dalla storia del luogo, che ha fra l’altro una via detta degli Embrici a memoria dell’antica vocazione laterizia legata alla produzione tipica delle fornaci).


Vita di borgata


   Giustamente Arnaldo Nesti ha intitolato un suo libro, anni fa, Le fontane e il borgo[5], proprio per sottolineare la stretta connessione, reale e metaforica, esistente fra gli agglomerati umani e le sorgenti d’acqua. Il che è vero per la fondazione di città come per i conflitti territoriali, per la costruzione sociale[6] delle credenze ed appartenenze come per l’esercizio di un potere riservato ed esclusivo. Orbene anche nel film di Scola la fontana di borgata appare come un punto di riferimento essenziale per la trama e lo sviluppo della narrazione filmica. Alla fontanella (o al lavatoio pubblico) ci si ritrova per parlare, si dà appuntamento, s’incontrano i giovani fidanzati, si cerca l’amore della vita, si ha un pretesto per chiacchierare in attesa che si riempiano i contenitori da riportare a casa colmi per lavare persone ed oggetto e per cucinare. La fonte è unica, si fa la fila. Talora lunghi tubi di gomma, a turno, adducono l’acqua sino nelle catapecchie fatte di qualche mattone, cartone pressato, polistirolo, materiali da imballaggio, legname rimediato ed adattato alla bisogna.   


   L’acqua è uno dei pochi beni che i baraccati non pagano. Per il resto sono costretti ad arrangiarsi, a chiedere prestiti, anche per il vino che ovviamente i venditori non danno senza soldi. Singolare ma significativa è la progressiva riduzione di una richiesta formulata da un borgataro a Nino-Giacinto: dapprima tremila lire, poi duemila, più tardi cinquecento o, ancor meno, fino a scendere a duecento, per concludere con il minimo, appena cento lire, una miseria – è giusto il caso di dire -.


   Al mattino Manfredi fa colazione con il vino. Poi esce di casa, si fa per dire. E tutto comincia a svolgersi all’aperto. Motociclette vanno e vengono: servono per scippi e furti, per i quali lo spazio comune della borgata è un formidabile campo di allenamento. Un bimbo si gode il suo lecca-lecca. Una ragazza di colore (indicata come la negra) si affaccia nel paesaggio umano piuttosto composito. Anche un bimbetto di pelle scura fa la sua apparizione. Intanto galline e galli attraversano di continuo la scena, quasi a sottolineare la loro condizione di sudditanza, di destino prefissato, di relazioni di potere a carattere sessuale. Come un vecchio leone ancora in gioco Giacinto non manca di dire la sua e fa sentire alta la sua voce, nonostante l’età lo abbia debilitato.


   I giovanissimi dal canto loro sono segregati sin dalle prime ore del giorno in un recinto a loro riservato e costituito da una barriera di letti in ferro piantati sul terreno. Mandarli all’asilo è un lusso non permesso, neanche in caso di possibile gratuità dell’iscrizione: resterebbe pur sempre il problema dell’accompagnamento. In effetti il nucleo dei borgatari è collocato in una sede che si raggiunge dalla viabilità cittadina solo attraverso una lunga scalinata che in un altro contesto avrebbe potuto rappresentare una sorta di privilegio (guardare tutti e tutto dall’alto) ma che a Monte Ciocci costituisce un ulteriore motivo di separatezza e di emarginazione anche residenziale (la zona) oltre che abitativa (la casa).


Nino-Giacinto preferisce non scendere a valle, o meglio a Roma. Rimane sempre confinato nella sua baraccopoli ed anche quando incontra una sua nuova compagna, una sua amante, predilige il permanere in altura da dove, coccolato dalla sua donna, contempla il traffico cittadino, il resto del mondo, un reticolo di relazioni che gli sono del tutto estranee.


   Il patriarca della borgata non appare un menomato per il fatto di non essere tra gli altri cittadini romani, insieme con loro, accanto a loro, insomma in situazione di parità. A lui basta conservare il gruzzolo che ha nascosto, avere qualche avventura-esperienza amorosa e spassarsela per il resto del giorno. L’età lo giustifica ampiamente: ha già dato, ha procurato ai suoi un posto dove sopravvivere a due passi dal centro storico di Roma. Ad un certo punto pare persino filosofeggiare, anche solo nelle posture, nelle intonazioni della voce ed in suo titubare riflessivo che lo appaia all’ironia cupa e sferzante di Eduardo De Filippo, autore ed attore che ripropone se stesso sul palcoscenico. In fondo anche Nino Manfredi sembra perfetto nel suo ruolo di Giacinto, che fa il suo andare di piccolo cabotaggio fra le traversie quotidiane, magari leccando un sigaro, ma senza distrarsi dai suoi obiettivi primari: bere e mangiare bene, sfruttare qualche occasione di passaggio a livello sessual-sentimentale, prendersela con un avversario di turno, per esempio Cesaretto, un venditore ambulante ben furbo, che regala uno scopino da bagno. A parte questo, il protagonista passa il tempo ad ubriacarsi ed ascoltare la radio (sono invece le donne che si lasciano attrarre dalla televisione). Magari scherza con chi sottopone ad una messa in piega sotto un enorme casco da parrucchiere.


   Varie scene si sovrappongono e tanti sprazzi offrono motivi di riflessione che più volte riconducono al medesimo argomento: povertà e marginalità congiunte. Ne sono un emblema evidente sia un cane zoppo che fa uso solo di tre gambe sia un altro personaggio secondario del film che appare zoppicante quasi come il cane a lui specularmente giustapposto .


   L’immedesimazione dell’attore Nino Manfredi nel personaggio di Giacinto Mazzatella (cognome ben evidenziato a fianco dell’ingresso nella baracca, quasi estremo tentativo di recupero di un’identità negata) è ben calibrata, senza eccessi e sbavature.


   Il rumore dei treni della ferrovia Roma-Viterbo e del traffico automobilistico che scorre ai piedi di Monte Ciocci quasi non lo distrae affatto e lo rende piuttosto apatico di fronte alla realtà circostante. Se la prende con il figlio ma parrebbe più un atto dovuto, un volere mostrare un ruolo paterno che non gli calza affatto. Il rumoreggiare e gli strilli delle donne non lo sommuovono più di tanto. Mazzatella-Manfredi procede con un barcollare costante, con uno sguardo distratto-attento che scruta e valuta, desideroso di non perdere il bastone del comando specialmente quando il piccolo borgo si anima dando segni di vita piuttosto intensa, stimolata dall’atteggiamento di due sorelle ricettatrici e ricattatrici che speculano fino all’osso sulle necessità altrui oppure dalla reazione di una mamma che prende a botte un travestito od ancora da un ragazzino che mostra a tutti un topo o dall’arrivo degli altri bambini che escono dal loro pseudoasilo al suono festoso delle campane della basilica di San Pietro od infine dall’arrivo di una prostituta con un’auto lussuosa di marca Mercedes. Tutto ciò ha luogo mentre una vecchia rimane affascinata da films americani tramessi dalla televisione collocata nel bel mezzo della sua baracca.


   Gli espedienti per la sopravvivenza sono vari: dalla raccolta di carta da macero alle piccole ruberie, dalla riparazione di cassette della frutta al semplice elemosinare per strada. Pure galline e caprette possono costituire un’ottima risorsa alimentare in caso di necessità.


   Come in molte realtà tragiche, disperate, senza via d’uscita, ecco sopraggiungere pure il momento onirico, con un sogno straordinario fatto soprattutto di luci al neon. Nel frattempo la vecchia finisce su una sedia a rotelle ma ha ben tre televisori a sua disposizione. Il sogno notturno peraltro non è casuale visto che Giacinto-Nino opera specialmente di notte, in particolare per procedere alla verifica del suo denaro in contanti. Ma ad un certo punto non ricorda più dove ha nascosto il suo tesoro e viene pure intervistato dalla RAI-TV, che egli manda bellamente a quel paese con un vaff. Anche ai suoi numerosi conviventi rinfaccia, convinto ma con scarso senso dell’ironia, che hanno una stanza tutta per loro, senza tuttavia considerare le condizioni estreme di quella loro sistemazione.


   Ad un certo punto il protagonista si presenta con una barba lunga, rifiuta di finire in un ricovero per vecchi e si prende la sua rivincita con Iside, il suo nuovo amore, in una scena che vede entrambi i personaggi sdraiati sotto un enorme cartellone pubblicitario posto su Monte Ciocci con uno scenario di sfondo costellato dal passaggio di un gregge di pecore (evento non del tutto raro per gli abitanti di Valle dell’Inferno, che si trova in prossimità del parco del Parco regionale urbano del Pineto, ricchissimo di prati).


   Ma la scena chiave, per l’interpretazione di Manfredi e la svolta conclusiva del film è quella del grande pranzo in trattoria (che sembra riecheggiare un film di qualche anno prima, il 1973, La grande abbuffata di Marco Ferreri), momento scelto per avvelenare il protagonista ed ereditare i suoi averi.


Giacinto ed i bambini


   Nel film la presenza dei bambini è descritta da una serie di sequenze in cui una ragazza, quasi adolescente, ogni mattina passa a prendere i piccoli che la aspettano nelle loro case-baracche e la seguono con naturalezza per andare tutti, tanti, in un recinto-gabbia costruito con reti di letto metalliche. La gabbia viene poi chiusa con un lucchetto sigillato da una chiave. Nessun adulto è presente nella gabbia-asilo ed i bambini organizzano le fasi della  giornata, i loro giochi, i loro momenti di apprendimento attraverso l’esperienza condivisa di vita in una sorta di reclusorio, tra pari. Non è fuori luogo osservare che mentre il pollame è assolutamente libero di scorrazzare sono invece i ragazzini e le ragazzine a ritrovarsi in una sorta di pollaio dalle pareti più alte e rinforzate.


   La presenza infantile è metaforicamente muta: è raro sentire il pianto di un bambino nel chiasso concitato di voci che fa da sottofondo alla vita nella baraccopoli. In ogni caso i bambini partecipano a tutti gli eventi della famiglia, dall’accompagnare la nonna (insieme con tutti gli altri) a riscuotere la pensione all’offrire solidarietà e collaborazione alla mamma, prima e dopo che venga picchiata dal padre Giacinto. In questo singolare set che diviene un luogo di formazione, l’unico per loro, la fase primaria e quella secondaria della socializzazione si fondono e nulla pare offrire a questi piccoli-adulti l’opportunità di scoprire un mondo diverso e/o la speranza in un mondo migliore.


   Giacinto (Nino Manfredi) nel suo ruolo di capo-tribù, preoccupato in modo ossessivo dei suoi soldi, della sua casa, sembra non si accorga della presenza infantile, anche se numerosa, perché non costituisce una minaccia per i suoi beni da preservare. Invece è perseguitato dal sospetto che tutti i componenti della famiglia, figli, consorte, amante, nonna, vogliano impossessarsi del denaro che egli nasconde con solerzia e che riuscirà a conservare al di là di ogni tentativo di furto. “I parenti sono come gli stivali, più sono stretti e più fanno male” continua a ripetere. Dunque anche la baraccopoli non è tanto lontana nel tempo e nello spazio dalla realtà allargata del mondo degli uomini e delle donne che si ritrovano a vivere in una condizione meno disastrata. 


   L’affettività, poi, non è una componente rilevante nella vita di questa famiglia Mazzatella abbrutita dalla miseria sia di mezzi che morale, nemmeno quando Giacinto, durante il pranzo organizzato dai parenti per avvelenarlo, si commuove dopo la recita di un’innocente poesia da parte di un suo nipotino.


   La dimensione dell’affettività sembra però fare ancora capolino quando Giacinto si innamora di Iside (interpretata da Maria Luisa Santella), una prostituta, ed è da questa ricambiato. I due sembrano sospesi in alto sulla città, con sullo sfondo la cupola di San Pietro e la Via Olimpica, presi dall’illusione di poter sognare e di allontanare la malinconia e la solitudine che li circonda.



[1] Milano, Garzanti, 1955.


[2] Milano, Garzanti, 1959.


[3] Roma da capitale a periferia, Roma-Bari, Laterza, 1970.


[4] M. Lelli, Dialettica del baraccato. Dalla lotta per la casa alla crisi della città capitalistica, Bari, De Donato, 1971.


[5] A. Nesti, Le fontane e il borgo. Il fattore religione nella società italiana contemporanea, Roma, Ianua, 1982.


[6] P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, il Mulino, 1969.