“Nuove prospettive per l’analisi qualitativa”, in Cipriani, Cipolla, Losacco (a cura), La ricerca qualitativa fra tecniche tradizionali ed e-method, FrancoAngeli, Milano, 2013, pp. 9-41.

Roberto Cipriani


Nuove prospettive per l’analisi qualitativa


di Roberto Cipriani


1. Premessa


     Dopo una lunga fase pionieristica è giunto il tempo, anche per l’analisi qualitativa (Cipriani 2008; Cardano 2011; http://www.analisiqualitativa.comhttp://www.sociologiaqualitativa.it/), di fare un salto appunto di qualità, prospettando nuovi orizzonti metodologici, nuove soluzioni analitiche, nuovi percorsi da sperimentare, nuovi traguardi da raggiungere. Ormai i tempi sono maturi per un colpo d’ala decisivo ed utile per raggiungere i livelli qualitativi delle indagini quantitative (Morgan 2013). Il buon esito del “Forum Nazionale Analisi Qualitativa” (FNAQ), che si tiene ogni anno a fine novembre presso l’Università Roma Tre, ne è una prova.


     Invero tutto questo susseguirsi di riferimenti al qualitativo ed al quantitativo non è senza motivo. In effetti la letteratura sociologica più recente è ricca di proposte che compongono insieme l’approccio qualitativo e quello quantitativo, parlando di metodi misti, procedure incrociate, analisi quali-quantitativa, fecondazione reciproca fra programmi di ricerca per loro natura piuttosto diversi.


Dato per scontato che solo alcuni imperterriti fondamentalisti dei due fronti continuano a sostenere l’unicità e l’affidabilità di uno solo dei due stili d’indagine, le esperienze empiriche sopravanzano le remore dell’uno e dell’altro fronte e danno luogo a sfide provocatorie ma promettenti, a confronti ravvicinati ma produttivi, ad intuizioni ed innovazioni illuminate ma tutto sommato ragionevoli. Il punto è semmai la possibilità di prosecuzione del cammino intrapreso, senza arrendersi a chimere che dall’uno e dall’altro polo allettano i ricercatori in cerca di un esito comunque soddisfacente dei loro tentativi scientifici.


     L’impresa alla quale si allude abbisogna però di collaborazioni non usuali, di strategie complesse ed articolate, di un accumulo costante di conoscenze in chiave di know how, al fine di convogliare più forze alleate per ottenere un medesimo obiettivo. Ecco dunque che per sperare in un successo almeno accettabile non sembra opportuno affidarsi ad un solo ricercatore ma a più studiosi da impegnare a pieno tempo in un medesimo programma. Se è difficile immaginare che, per esempio, nel giro di un triennio alcune centinaia di sociologi ed antropologi, psicologi e storici, si concentrino su una stessa finalità almeno si può auspicare che si creino consorzi di studio e ricerca interdipartimentali ed interuniversitari, magari internazionali, orientati a stabilire entro quali limiti sia dato operare in prospettiva empirica e teorica attorno ai temi del duplice discorso sociologico che parte da un’ottica sia qualitativa che quantitativa. Il livello alto dei risultati dipende in larga misura dal fatto che un gruppo esteso di scholars decida di lavorare in forma esclusiva attorno ad un piano dettagliato di attività, al fine di potere offrire qualcosa di nuovo alla comunità scientifica. Non solo. Sarebbe altresì auspicabile che tale iniziativa venga condotta stando insieme, in un medesimo laboratorio se possibile, scambiando continuamente riflessioni ed esperienze, conoscenze e risorse. Da questo punto di vista pure la contiguità delle azioni da implementare consentirebbe una sinergia diretta, a contatto di gomito si direbbe, in modo da stabilire contatti costanti, discussioni ripetute, decisioni motivate. Occorre dunque immaginare una comunità scientifica fatta di persone competenti e motivate, capaci di valorizzare i propri interessi individuali attraverso un’impresa condivisa.


     Ma la cellula operativa iniziale non dovrebbe limitarsi ad un ambito ristretto di cooperazione quanto piuttosto cercare altri apporti esterni, collaborazioni internazionali, consulenze di matrice straniera. Certamente la scelta da effettuare in quest’ultima evenienza è piuttosto delicata perché rischia di far muovere il gruppo esteso di lavoro verso destinazioni non adeguate. L’invito al cooperatore internazionale andrebbe esteso anche alla sua équipe di ricerca o almeno ad alcuni componenti più significativi ed esperti. Così si creerebbe una rete solidale di condivisione delle potenzialità e degli scopi finali.


     Basti pensare alla necessità di avere a portata di mano, sotto controllo, l’intera linea di produzione scientifica: dalla ricerca di base al “prodotto finito”. Passi pure quest’ultimo termine, ma l’intento è quello di far sì che per esempio nel caso dell’analisi qualitativa o quantitativa computer-assistita sia possibile intervenire sin dall’inizio, cioè a partire dalla progettazione del software da usare, senza ricorrere a materiale inventato da altri con fini diversi, forse persino solo di natura commerciale, cioè profit oriented. I ricercatori coinvolti dovrebbero quindi poter intervenire on line sulla procedura da mettere in atto, senza doversi assoggettare ad alcune caratteristiche del programma informatico in uso, il quale peraltro rischia di diventare facilmente, se non ben gestito, una gabbia, una palude, da cui non si riesce a districarsi, con il risultato di avere informazioni finali che provengono esclusivamente dal tipo di impostazione delle operazioni logiche previste dal software. Invece andrebbero sviluppate al massimo le capacità euristiche dello studioso, le sue abilità acquisite, le sue conoscenze specifiche. In definitiva l’operazione prevista è di tale complessità che richiederebbe metodologie multiple, atte a verificare senza sosta le dinamiche in atto, evidenziandone le carenze ed enfatizzando gli aspetti positivi, onde portarli a maturità completa ed affidabile.


     Per far questo in modo confacente e mirato appare indispensabile il ricorso alla comunità internazionale degli studiosi specialisti del campo. Anch’essi, del resto, hanno bisogno di confrontarsi con i colleghi sull’andamento delle loro suggestioni originali, onde rilevarne gli effetti e le possibilità di miglioramento, grazie al supporto dei colleghi.


     Su un aspetto, segnatamente, sembra indispensabile insistere: la ricerca sociologica ha a che fare con singoli individui, portatori di caratteri e comportamenti, attitudini ed abitudini, tutto un mondo di azioni sovente uniche ed imprevedibili, che vanno colte, descritte, classificate, interpretate, correlate, rilette, riposizionate in un contesto teorico-empirico. Orbene ognuna di queste operazioni va realizzata nel pieno rispetto dei criteri del rigore scientifico e della privacy personale dell’intervistato o dell’intervistata. In merito c’è altresì una deontologia professionale da osservare, senza tradire la fiducia dei soggetti coinvolti in un’indagine. Non basta usare degli pseudonimi per coprire, mascherare, l’identità reale del soggetto, giacché da molti indizi presenti nel testo raccolto attraverso un’intervista è possibile risalire a chi di fatto ha concesso l’intervista.


     Quello che resta irrisolto è però il passaggio dal livello singolare a quello universale, dal soggetto alla comunità di sua appartenenza, dall’uno ai molti. Se è indebito transitare da un’ottica tutta peculiare a livello di singola persona per desumerne tratti generali di un gruppo assai più numeroso è altrettanto criticabile il voler presumere che un insieme di numeri, come frequenze e percentuali, spieghi in pieno quelli che sono i motivi, le contingenze e gli scopi relativi ad un particolare individuo che sia membro di una comunità e/o di una società. L’approccio scientifico non può prescindere da una sua precisa contestualizzazione e da un riferimento diretto all’apporto individuale. Senza condividere necessariamente le posizioni dell’individualismo metodologico alla maniera di Popper (1973), Boudon (1983) ed Antiseri (1996) nondimeno si può dimenticare che il sociale è pur sempre un precipitato che deriva dal livello iniziale, basato sull’individualità da cui si parte per accumulare dati su dati, tutti di natura soggettiva anche se inquadrati nel sociale.


     Ecco dunque che una formulazione utile a questo riguardo può essere il dare un taglio più qualitativo al quantitativo e, d’altra parte, un profilo più quantitativo al qualitativo. Il che non significa affatto voler modificare o persino deformare il qualitativo a vantaggio del quantitativo o viceversa porre il quantitativo al servizio del qualitativo, ma piuttosto cercare più punti di vista, un maggiore numero di corroborazioni, per rendere ancora più valida la risultanza finale.


     Tutto quanto suggerito sinora non può approdare a gestioni parziali, parcellizzate, della ricerca. Si può pensare invece ancora più in grande, se possibile studiando la messa a punto di un vero e proprio masterplan, capace di prevedere linee plurime di intervento, fasi modulari di ricerca sia teorica che empirica, intrecci non sperimentati in precedenza, così da esplorare nuove potenzialità, nuovi tragitti, che conducano ad esiti meno prevedibili.


     Indubbiamente un progetto simile risulta pretenzioso, ambizioso. Ma appunto per questo merita apposita attenzione e specialmente un rilevante investimento a livello economico e scientifico-accademico. Se non si compie un simile sforzo ben difficilmente si riuscirà a superare lo stallo attuale imposto allo sviluppo delle scienze sociali, per ragioni politiche considerate “superiori” ma in realtà miopi: disinvestire nella ricerca significa porre le premesse per conseguenze negative cui si dovrà poi porre riparo con l’impiego di risorse economiche ben maggiori di quelle non rese disponibili per la ricerca sociale.


2. Un programma scientifico a lunga gittata


     Le linee programmatiche di una nuova sociologia dell’analisi qualitativa si basano su quelle che sono le tendenze emergenti.


     Innanzitutto va approfondito l’argomento concernente la dimensione scientifica dell’analisi, cui faranno seguito gli approfondimenti specifici riguardanti nell’ordine la soggettività, l’approccio biografico, la costruzione della teoria a partire dai dati (Grounded Theory), l’indagine computer-assistita, la ricerca visuale.


     L’affidabilità di ogni ricerca (a carattere qualitativo e/o quantitativo, non fa differenza) è legata indissolubilmente al suo taglio scientifico, che se da un lato paga lo scotto di un’obsolescenza scontata, già al momento di cominciare ad investigare, dall’altro contribuisce comunque a porre le basi del nuovo che verrà dopo: il sapere è tendenzialmente cumulativo ed auto-correttivo. Oggi si possono indubbiamente criticare i limiti de Il contadino polacco in Europa ed America (Thomas, Znaniecki 1968), opera eminentemente qualitativa, ma riesce difficile negare che abbia offerto un contributo decisivo alla storia del pensiero sociologico.


     Tutto sommato, talune aperture metodologiche avviate da Thomas e Znaniecki tra il 1918 ed il 1920 appaiono ancora di straordinaria attualità, come ha sostenuto in modo convincente Giulia Sinatti (2008), specialmente in relazione al contributo teorico concernente il fenomeno migratorio, ma non solo, in quanto la loro ottica metodologica rimane pur sempre un parametro di riferimento classico, ben oltre le discussioni dapprima avviate criticamente (Blumer 1939) e poi riproposte con qualche ripensamento (Blumer 1979).


     La Nota metodologica che introduce l’opera thomasiana e znanieckiana merita da sola una trattazione ad hoc, perché è ricca di suggestioni originali e di punti qualificanti che indicano la strada da seguire per ricerche dal medesimo taglio teoretico e contenutistico. Però va anche detto che varie parti della Nota pagano lo scotto ad una polemica, molto contingente, nei riguardi delle scienze affermate da più tempo. In realtà la trattazione metodologica preliminare è svolta specialmente in chiave difensiva, per legittimare l’approccio qualitativo, nonostante la sua debolezza sul piano delle generalizzazioni da esso ricavabili. E dunque essa parla preferibilmente di “cause” e non di trends, fa il verso alle scienze esatte enfatizzate dal positivismo dell’epoca e talora cade in contrapposizioni un po’ forzate e strumentali al fine di dare credibilità a scelte di base assai diverse da quelle più in voga in quella temperie storica. In effetti non era facile proporre narrazioni, documenti personali ed una sola biografia (quella di Wladek Wiszniewski) a confronto, per esempio, con le corroborazioni statistiche che erano state utilizzate da Durkheim (1969) nel suo studio sul suicidio.


     Secondo Sinatti (2008, p. 4) Thomas si mostrava più propenso a lasciar parlare da soli i documenti raccolti, diversamente da Znaniecki, più attrezzato per congegnare interpretazioni sistematiche, complesse ed alquanto elaborate. In tal modo le due intelligenze sociologiche si compensavano a vicenda, fornendo un risultato apprezzabile nel suo insieme, in particolare per quanto riguardava la connessione fra comportamento umano e sua collocazione all’interno di una più ampia contestualizzazione in chiave di mutamento sociale (Sinatti 2008, p. 5). La base di partenza erano le lettere di corrispondenza fra polacchi in patria ed emigrati, le storie di vita ed i resoconti biografici, lettere pubblicate dai quotidiani, documenti di carattere associativo, dati parrocchiali e giuridici, dunque un insieme di informazioni “naturali” e “spontanee”. Su questi elementi si appuntò la critica di Blumer perché non erano rappresentativi, sufficienti, affidabili e verificabili. Soprattutto appariva scarso l’apparato interpretativo applicato alla gran mole di dati disponibili e pubblicati. Si dubitava anche delle scelte operate dagli autori nell’individuazione delle informazioni da trattare. Nondimeno il tentativo statunitense-polacco sembrava aprire un nuovo orizzonte all’analisi qualitativa, per la prima volta organicamente presentata e supportata a livello di pubblicazione scientifico-accademica. Il contributo maggiore risultò sin da subito essere la proposta di studiare i percorsi biografici. A ciò si aggiunse la novità di partire da singoli casi per un’analisi sociologica compiuta, in un quadro socio-culturale ben definito. Da qui nasceva il rinvio sostanziale alla “situazione” come piattaforma fondante del discorso scientifico promosso dalla sociologia. Come non ricordare in merito la nota espressione “definizione della situazione” (Thomas 1923, pp. 41-69) che lungi dall’essere un mero situazionismo di maniera si trasforma in opzione teoretica di prim’ordine, che successivamente offrirà sviluppi ben più consistenti attraverso l’interazionismo simbolico, l’etnometodologia, la teoria fondata sui dati, le diverse correnti di theory building, dunque di costruzione della teoria in modo innovativo (Cresswell 2012) rispetto agli approcci classici. Per non dire delle numerose teorie dell’azione sociale. Insomma Thomas e Znaniecki erano autori “seminali” senza precedenti, che poco si preoccupavano di problematiche istituzionali, politiche, amministrative e di grandi teorizzazioni astratte senza radici empiriche. Semmai il loro interesse andava ai gruppi familiari ed ai gruppi primari, produttori di cambiamento sociale ben più di altre realtà, come pare suggerire la stessa Sinatti (2008, pp. 7-8, 15-17), che nella sua conclusione (Sinatti 2008, p. 19) sottolinea altresì il carattere esemplarmente interdisciplinare dell’opera di Thomas e Znaniecki, anticipatori di futuri sviluppi nel campo della sociologia comparata internazionale, visto che entrambi hanno dovuto affrontare un processo di “spaesamento” (dépaysement) non solo geografico, ma anche disciplinare e metodologico.        


3. Scienza e non scienza


     Ci si chiede che cosa sia la scienza e si tende a rispondere che essa è una rappresentazione, quanto più fedele possibile, della realtà. Ma di fatto sono molte le rappresentazioni della realtà. E dunque un’ulteriore domanda si pone: quale di tali rappresentazioni è la più affidabile, la più verosimile? Appunto è in gioco la verosimiglianza, ammesso che si possa parlare dell’esistenza di una verità come fatto scontato. Intanto chi fa scienza sa bene che l’obiettività come parametro di riferimento è una chimera priva di fondamento, perché l’esperienza mostra che si tratta di una posizione piuttosto autoreferenziale e per di più irrealizzabile, del tutto utopica, tante e tali sono le interferenze che intervengono. Insomma non è facile essere del tutto sicuri di un dato. Occorre sottoporlo sempre ad analisi critica, ripercorrerne la costruzione e la metodologia attraverso la quale lo si è ottenuto. In fondo va anche considerato che la stessa scienza è un portato culturale che risente di condizionamenti di ogni tipo.


     La validità di un risultato scientifico non è un esito improvvisato, in quanto scaturisce da tutto un processo di scelte, negoziazioni, divaricazioni, approssimazioni, gradualità, senza pregiudizi di sorta, in una prospettiva di epoché, cioè di sospensione di qualsiasi giudizio preliminare di valore. Le descrizioni e soprattutto le interpretazioni già segnano un percorso da seguire e dunque non sono certo ininfluenti, ma segnatamente sono esse stesse figlie di un orientamento di partenza che comunque opera in ogni studioso.


     Forse si sottovaluta un carattere peculiare della scienza: la sua discorsività, la sua connotazione relazionale e comunicativa, il suo vissuto intersoggettivo come dinamica fra studiosi, di diversa matrice ideologica e disciplinare. Ed in generale un discorso in atto è tendenzialmente aperto, non censurante, non esaustivo, disponibile, pronto a seguire ogni potenziale rivolo di ricerca.


     Se anche può nascere dal desiderio di indagare la realtà (David 2005), rispondendo ad una curiosità di base, l’operazione scientifica riesce ad essere tanto più produttiva quanto più è capace di autonomia, libertà, indipendenza. L’affidabilità di una conclusione, sempre e comunque da ritenere provvisoria (“fino a prova contraria”), è messa al vaglio da parte della comunità scientifica che la soppesa, la critica, la ribalta, insomma ne misura in qualche modo la portata e ne accetta o rifiuta il contenuto ed eventualmente sospende una presa di posizione in merito.


     Quali sarebbero tuttavia i criteri, possibilmente universalistici, che dovrebbero presiedere ad ogni azione investigativa? Non è facile stabilirli in via previa. Nondimeno converrebbe indagare l’origine dei valori che presiedono all’attività scientifica del singolo ricercatore, in modo da coglierne il peso, l’incidenza, come pure l’apporto in chiave fuorviante rispetto a talune situazioni empiriche concrete. Ne emergerebbero gli interessi diretti dello studioso, la cui prospettiva analitica risente del fatto di essere in qualche misura preordinata e di rifarsi ad una certa percezione della realtà. Sarebbe tuttavia un indubbio valore aggiunto la capacità del ricercatore di essere consapevole dei limiti e dei riverberi delle sue risultanze d’indagine, avviando peraltro un utilissimo processo di riflessività e di rivedibilità, foriero di possibili innovazioni metodologiche e procedurali, che renderebbero più flessibili, cioè modificabili, le prassi già sperimentate.


     Invero c’è ancora chi nega il carattere di scienza alla sociologia a ragione di alcune sue incongruenze e limitazioni. Ciò si deve anche a varie dinamiche manifestate proprio in campo sociologico, con caratteri ibridi, teorie assai diverse, metodologie stratificate per complessità e specificità delle tecniche (Denzin 2011). Pure per questo la scienza sociologica appare continuamente in bilico fra collettività ed individualità, tra metodiche e strumenti di analisi, fra classificazioni e stili di ricerca, fra comparazioni e spiegazioni (Boudon 2010). Si arriva perciò a dubitare che la sociologia sia solo una disciplina e non una scienza (Coenen-Huther 2012a), senza negare però la possibilità di un progetto scientifico, registrando tuttavia una prevalenza delle procedure metodologiche rispetto alla teoresi.


     Fra l’altro la questione relativa ai giudizi di valore può essere superata adottando la modalità del riferimento (ovvero del “rapporto”) ai valori, che può permanere ma senza inficiare la metodologia di ricerca, il cui rigore dovrebbe garantire il livello di scientificità, in un’ottica di capacità critica ed auto-critica, cosciente appunto del fatto che esistono dei valori soggettivi a cui si fa capo (Coenen-Huther 2012b).


     Il tema dei valori è poi strettamente correlato alla problematica della soggettività nella ricerca scientifica (Gould 1985) e richiama il memorabile ed emblematico invito rivolto in passato da Thomas Henry Huxley (1962), eminente umanista e biologo, darwinista ed agnostico, promotore e riformatore dell’insegnamento scientifico, vissuto nel XIX secolo: occorre mettersi di fronte al fatto come un piccolo fanciullo, essendo preparati a mettere da parte ogni nozione preconcetta e seguendo umilmente la natura ovunque e verso qualunque abisso essa conduca; altrimenti non si imparerà nulla. Una simile conclusione, citata esplicitamente anche da Gould, fa il paio con l’idea stessa di serendipity, sostenuta fra gli altri da Robert King Merton (1948). Essa infatti risponde in pieno alle quattro funzioni mertoniane per lo sviluppo della teoria sociale: un dato imprevisto, anomalo e strategico esercita una spinta notevole per dare inizio alla teorizzazione, i nuovi dati hanno un’influenza diretta sull’elaborazione di uno schema concettuale, i nuovi metodi della ricerca empirica orientano verso ulteriori centri di interesse teorico, la ricerca empirica incide precipuamente sulla produzione di concetti chiari.


     Non si tratta,  peraltro, solamente di distinguere fra scienze umane, tendenzialmente più sorrette dalla soggettività, e scienze cosiddette esatte, più orientate al rigore scientifico. Pare invece più opportuno pensare in termini omogenei, senza riferirsi a posizioni dicotomiche in chiave scientifica ma proponendo una visione unitaria della scienza, capace di guardare con una medesima prospettiva a criteri metodologici generali che riescano ad accomunare sociologia e fisica, antropologia e storia, psicologia e matematica.


     Ogni studioso si porta dietro le sue precognizioni, i suoi punti di vista. Già l’esserne consapevoli è un buon inizio di riflessione scientifica, altrimenti si rischia di compiere errori madornali, quali conseguenze dirette dei pregiudizi soggettivi. Naturalmente la duplice prospettiva classica della “scoperta” (indagine a tutto campo con raccolta libera di dati) e della “giustificazione” (procedura di verifica di specifiche ipotesi predefinite e valutazione della loro sostenibilità) mantiene una sua validità, ma la prima e la seconda prospettiva possono anche integrarsi. In altri termini, conviene non porre limiti, quale che sia l’itinerario investigativo proposto. Si sa che molte scoperte decisive sono avvenute anche in modo del tutto casuale. Ma occorre sapere che né il procedere per induzione dal particolare all’universale né quello per deduzione dal generale al particolare sono garanzia di buon esito e di credibilità. Charles Peirce (2001) proponeva la soluzione dell’abduzione, non a caso, proprio perché convinto di dover tenere ben presenti al medesimo tempo entrambi gli approcci. In effetti un induttivismo ingenuo che si affidi del tutto alla “eloquenza dei dati”, che presuntivamente parlerebbero da soli, dà appena un’impressione di essere capaci di costruire teorie, se non si accompagna il processo scientifico con adeguati lumi di orientamento: non necessariamente vere e proprie ipotesi di lavoro ma almeno i blumeriani “concetti sensibilizzanti” (Blumer 1954).


    Inoltre, come ribadisce e prova esemplarmente lo stesso Gould (uno zoologo prestato a tutte le scienze), il soggettivismo latente e persino inconsapevole ha già dato conferme molteplici di operazioni improduttive e soprattutto fuorvianti per la conoscenza scientifica. Sono sostanzialmente tre le modalità inefficaci per fare scienza: il ricorso intenzionale alla frode (inventando o modificando le informazioni di base), la finalizzazione consapevole o inconsapevole (orientando i dati verso un’interpretazione preferita rispetto ad altre possibili) e il pregiudizio invalidante (manipolando le risultanze o indirizzandole comunque verso una lettura appunto pregiudiziale, cioè particolarmente desiderata, quale espressione di un vero e proprio wishful thinking).


     In particolare la frode può pure risultare gradita nei suoi contenuti ad un buon numero di studiosi, nella misura in cui appare utile a finalità di convenienza immediata e/o personale, mentre la finalizzazione – fosse anche inconscia – può rispondere esclusivamente a quanto il ricercatore si aspetta dalla conclusione della sua indagine, pur rigorosa e metodologicamente ineccepibile, almeno all’apparenza; in terzo luogo, il pregiudizio invalidante può inserirsi in un protocollo puntuale e formalmente corretto, proponendo però un’ermeneutica fondata sulla scorta di propensioni personali.


     Nello spirito di totale apertura verso ogni possibile andamento dell’indagine, non è detto che la soggettività sia sempre e solo portatrice di nocumento per la scienza. In fondo lo scienziato è pur sempre un individuo, che in quanto tale non può dismettere totalmente la sua visione del mondo; tuttavia non è escluso che possa altresì riconoscere il peso della sua soggettività e delle distorsioni che ne possono derivare, facilitando così una più convincente rimodulazione delle risultanze.


     Soprattutto, infine, andrebbe accolto un orientamento a fare i conti con le scoperte che si susseguono nei diversi campi disciplinari. In tal modo se non è possibile giungere al traguardo di una supposta verità, spesso auto-poietica, auto-affermata, almeno sarà dato ottenere un adeguato livello di onestà scientifica, oltre che di rigore metodologico (Maxwell 2013).


4. Dalla sociologia alla fisica e ritorno


     La scienza tende ad unire le discipline, ma queste ultime nel loro prediligere lo specialismo ed un certo isolamento auto-protettivo tendono a diventare sempre più ghettizzate, corporative, auto-referenziali, escludenti ma anche marginali rispetto all’evolversi del dibattito scientifico. Superata la due volte secolare diatriba fra scienze della natura e scienze dello spirito, dall’unità del sapere hanno invece tutti da guadagnare attraverso la frequentazione reciproca, la discussone aperta, il confronto franco e non strumentale per meri fini di carrierismo accademico.


     Non dovrebbe dunque suonare strano che un sociologo si interessi di fisica o che un botanico insegni e faccia ricerca di fitosociologia o che un biologo tenti di servirsi di paradigmi sociologici per studiare le comunità di microfloraDNA. Le problematiche da indagare sono più omogenee di quanto non si pensi, specialmente se si pone attenzione al tema comune della misurazione e della costruzione di teorie.


     Abituati come siamo a ragionare solo in termini geometrici di altezza, lunghezza e larghezza ed in termini cronologici di tempo, siamo inclini a ritenere che solo queste quattro siano le dimensioni della realtà di cui ci si debba interessare da studiosi. Ed invece diverse altre prospettive vanno aggiunte, per avere un maggiore e più diretto esame (e controllo scientifico) delle dinamiche in atto. Per esempio si può fare ricorso alla “teoria delle stringhe”, che ha un carattere fisico-matematico unificatore ed utilizza una trattazione quantistica delle interazioni gravitazionali. Sono dunque onde di gravità quelle che vengono studiate nel loro propagarsi a dieci dimensioni (superstringa) attraverso lo spazio ed il tempo insieme, mentre se le dimensioni aumentano sino ad essere ventiquattro si ha la stringa bosonica. L’esame scientifico in atto da tempo riguarda non tanto le particelle quanto le vibrazioni delle stringhe, sia aperte che chiuse, e soprattutto il loro modo di vibrazione, che definisce la massa ovvero l’energia di ogni particella. La costante di Planck (h=6,626×10-34Js) moltiplicata per “v” (frequenza di un’oscillazione) dà come risultato l’energia “E” emessa o assorbita nell’oscillazione ed è chiamata altresì “quanto di azione”. A titolo esemplificativo si ricorda che un elettrone vibra circa cinquecentomila miliardi di volte in un secondo. L’universo è energia, vibrante lungo campi e reti e racchiusa nella massa. Il tempo è il moto dell’energia e dell’espandersi della materia e lo spazio è il network dell’energia. Il tutto deriverebbe da un “vuoto ricco”, pregnant void, primigenio, anteriore alla gravità, all’elettromagnetismo ed al nucleare (sia forte che debole).


     Detto altrimenti non si guarda più (o almeno non solo) agli elementi di base rappresentati dagli atomi (aventi un nucleo, dove si concentra quasi tutta la massa, circondata da un nugolo di elettroni; ma ci sono anche protoni e neutroni, per esempio rispettivamente 92 e 154 nell’atomo di uranio), dagli elettroni (dotati di carica negativa e di massa leggerissima), dai protoni (dotati di carica positiva e con massa circa 1480 volte superiore a quella degli elettroni) e dai neutroni (aventi massa circa uguale a quella dei protoni ma carica nulla).


     I neutrini, da diversi anni oggetto di studio nei laboratori situati sotto il Gran Sasso e quasi privi di massa (come i fotoni, dunque pura energia), stanno forse passando ad un rango di minore attenzione nel campo della ricerca avanzata.


     Le complicazioni non si riducono solo a quanto appena detto. Vi sono altre particelle elementari che presentano caratteri ben più stratificati: i pioni (che fanno parte dei mesoni) possono avere sia carica positiva che negativa ma pure neutra.


     Si pensi poi, a mo’ di esempio, a quella che è la nostra stessa posizione definita da tempo e spazio nell’universo. Occorre pensare che lo scorrere fra l’alto ed il basso significa rifarsi ad una medesima dimensione. Lo stesso dicasi fra l’avanti e l’indietro. Così non è, tuttavia, se ci si muove verso il basso ed in avanti o verso l’alto ed indietro.    


     Più interessante e scientificamente produttivo è pensare che la nostra posizione (o quella di un puntino segnato su un foglio di carta) sia estensibile, allungabile, ipoteticamente verso qualunque direzione, al di là delle quattro dimensioni cui siamo abituati. Così la gravità altro non sarebbe che un elemento fornito di massa da cui hanno origine tante linee gravitazionali orientate in ogni senso possibile, immaginabile o meno, dunque verso l’infinito. Anche se lo spazio reale non è multidimensionale nondimeno si può generalizzare l’idea di molte altre dimensioni, oltre quelle consuete della nostra conoscenza quotidiana.


     I progressi della fisica ci stanno abituando a ritenere possibile ciò che in passato era del tutto escluso. A parte l’indivisibilità, per definizione, dell’atomo che ormai viene diviso in più elementi, anche gli elettroni mostrano una tendenza a scomporsi in più particelle, dette anyoni, che mantengono una parte della carica negativa originale dell’elettrone da cui provengono.


     Esisterebbero inoltre universi con varie dimensioni, all’interno di uno spazio immenso (iperspazio) che tende ad espandersi e registra collisioni fra i diversi universi, che a seguito del loro incontro-scontro si annullano a vicenda. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto in quel Big Bang (non esente da dubbi e discussioni) di circa 14 miliardi di anni fa da cui deriverebbe l’universo attuale.


     Orbene le collisioni sembrerebbero favorire la sopravvivenza di universi con tre e sette dimensioni. Il nostro universo tridimensionale sarebbe però solo un pezzo dell’intera realtà, che a sua volta potrebbe anche avere caratteri con sette dimensioni. Va comunque considerato che le tre dimensioni spaziali fanno poi i conti con la dimensione temporale: spazio e tempo sono strettamente connessi fra loro ma permangono diversi (Sachs 1969). A livello soggettivo vale la pena di sottolineare che le percezioni mutano significativamente: una persona può vedere due oggetti separati solo nello spazio, un’altra li percepisce come divisi sia nello spazio che nel tempo; un individuo può guardare a due fatti come scissi solo nel tempo, un altro invece anche nello spazio. Sulla base di tali dati di fatto è evidente che una narrazione biografica, ad esempio, può orientarsi a fornire visioni diversificate di un medesimo evento o fenomeno, da parte di un medesimo soggetto o di più soggetti, a loro volta collocati in spazi e tempi differenziati, quindi con una complessificazione accentuata che rende ardua ogni operazione analitico-interpretativa.


     La libertà di movimento nelle dimensioni e nelle percezioni spazio-temporali comporta in ogni caso almeno un limite auto-evidente: non si riesce ad essere presenti in ogni spazio ed in ogni tempo. Nessuno sarebbe in grado di tornare indietro nel tempo per riuscire a vivere in un’epoca oramai trascorsa: lo si fa solo mentalmente, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di imprecisione, infondatezza, inaffidabilità, anche nel caso in cui si faccia riferimento diretto a fonti storiche coeve con l’epoca cui si intende ritornare. Ognuno di noi si trova in un ambito, in un “cono di luce” creato da una sorta di illuminatore che produce lo spot, cioè il punto illuminato entro cui ciascuno di noi è collocato. Per questo se si gode di una bella giornata di sole alle ore 12 di un certo giorno potrebbe darsi che in quel preciso istante il sole stesso sia già esploso e non produca più alcuna luminosità; il che è possibile in quanto la luce solare impiega circa 500 secondi per giungere sulla terra, per cui l’evento catastrofico potrebbe essere avvenuto, in ipotesi, alle ore 11,55 del luogo terrestre in cui ci si trova. In altri termini la posizione del sole e quella della terra sono all’interno di due diversi “coni”, per cui solo se si ha o si supera la velocità della luce sarebbe in astratto possibile assistere all’esplosione solare, ma intanto l’operazione a ritroso sarebbe impedita perché l’andamento del tempo è dal passato verso il futuro e solo la fantascienza e la fiction cinematografica consentono di invertire tale direzione. Non si può accedere a tutto il tempo ed a tutto lo spazio, così come non è praticabile la conoscenza compiuta di ogni fenomeno, comportamento ed atteggiamento umano.


     Si resta quindi entro i confini della quadrimensionalità rappresentata dalle tre dimensioni spaziali e da quella temporale. Si ipotizza, da parte dei fisici, che la quinta dimensione possa essere la gravità, oppure l’elettromagnetismo (come rapporto fra correnti elettriche e campi magnetici) costituente un’unica forza insieme con la gravità, od anche la stessa massa di cui è ricco il nostro universo.


     Nella ricerca di ulteriori dimensioni, nell’ambito della “teoria delle stringhe”, gli sviluppi riguardano più lo spazio e segnatamente l’iperspazio che non la temporalità. Insomma i viaggi nel tempo si confermano impraticabili (almeno per ora, ovvero allo stato delle conoscenze attuali). Ma, secondo Itzhak Bars, è immaginabile una seconda dimensione temporale sia pure solo teoricamente e senza alcuna possibilità di attraversare il tempo. Occorre precisare che la proposta di Bars su una sesta dimensione potrebbe funzionare all’unica condizione che vi sia anche un’ulteriore dimensione spaziale, oltre le tre già note.


     Piuttosto discusso è il sistema numerico degli “ottonioni”, che hanno appunto otto dimensioni ed abitano uno spazio rarefatto, in cui è permesso creare combinazioni di vari elementi, fare divisioni ed usare tutte le formule algebriche, dando luogo ad una singolare struttura matematica, nota come “gruppo di Lie eccezionale E8”. Invero si resta sinora a livello di pure supposizioni, su cui si lavora da circa quaranta anni.


     Prima di completare il percorso per giungere alle dieci dimensioni della teoria delle stringhe conviene aggiungere alcuni riferimenti sulla quantistica e sulla relatività.


     La quantistica prende in esame i quanti cioè la minima quantità indivisibile di una grandezza, che cambia in modo discontinuo. Secondo la “teoria dei campi” ogni particella va associata ad una interazione: i fotoni, come quanti di luce, al campo elettromagnetico ed i gravitoni, come quanti di interazione, al campo gravitazionale. La meccanica quantistica, in particolare, studia la quiete ed il moto dei corpi, però non tenendo conto dei fenomeni di tipo relativistico e sostenendo l’impraticabilità di previsioni esatte sull’esito di una misurazione, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg (1971).


     La “relatività generale”, d’altra parte, considera i fenomeni proprio in chiave relativistica, cioè in relazione al sistema di riferimento, per cui tempo e spazio (unificati in un’unica forma quadridimensionale) vanno correlati ad un osservatore “inerziale”, che permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Inoltre l’energia (“E”) e la massa (“m”) sono equivalenti, secondo la nota formula einsteiniana E=mc2 (Einstein 1923): la massa dipende dalla velocità della particella, ovvero dall’energia prodotta, giacché “m” rappresenta la massa a riposo e “c” la velocità della luce. Infine nello stesso ambito teorico è inserito anche lo studio delle dinamiche gravitazionali.


     Il tentativo di mettere insieme la meccanica quantistica e la relatività generale mira alla costruzione di una “teoria del tutto”, secondo cui tutte le particelle della materia trasmettono le loro forze, cioè la loro energia, in modo vibratile, azionando piccole stringhe (da cui deriva appunto la denominazione di teoria delle stringhe). Queste ultime conservano nondimeno un carattere monodimensionale, che si situa in uno spazio con dieci dimensioni, di cui nove sono spaziali ed una è temporale.


     Sono almeno cinque le categorie di teorie delle stringhe che si confrontano nel campo della ricerca. Intanto una teoria delle stringhe a ventisei dimensioni pare ormai del tutto accantonata. Invece merita maggiore attenzione una teoria delle stringhe con undici dimensioni detta “teoria-M”, che prevede l’unificazione delle dieci dimensioni in una sola, l’undecima nella fattispecie.


     La prospettiva più promettente riguarda le antiparticelle, che in alcuni casi (fotoni, pioni, eta) coincidono con le particelle stesse, in altri differiscono totalmente (gli elettroni, che hanno carica negativa, si ritrovano antiparticelle con carica positiva, mentre i protoni, dotati di positività, si confrontano con antiparticelle negative; i neutrini, infine, interagiscono con antiparticelle che sono elettroni o muoni, entrambi negativi).


     Le origini delle particelle e delle antiparticelle sarebbero piuttosto remote e risalirebbero al Big Bang, dopo del quale materia ed antimateria si sarebbero annientate vicendevolmente, rompendo la simmetria preesistente (Alfven 1971). Prima di allora le particelle erano pura energia e non avevano massa, muovendosi alla velocità della luce. Nell’universo c’era una sorta di etere, che è stato definito “campo di Higgs”, di cui le particelle non facevano alcun uso. Ma un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang l’etere-campo di Higgs acquistò maggiore consistenza, per cui le particelle dapprima assolutamente libere cominciarono ad impattarsi con esso e ad acquistare massa, ingrossandosi e rallentando il loro libero vagare. Quanto maggiore era l’interazione dell’impatto tanto maggiore era l’acquisto di massa. A ben pensarci, l’esistenza di tali masse ha consentito alla fine la nostra stessa esistenza. Al momento questa è la spiegazione più corroborata ed affidabile, ma non è detto che sia l’ultima ed unica possibile.


     Qualche elemento di materia sarebbe rimasto dopo la grande collisione. Trovare, poi, oggi residui di antimateria è impresa quasi irrealizzabile (anche perché si suppone che essa abbia vita solitamente breve). Ci sono riusciti in pochissimi.


     Nel 1983 a Ginevra il team di Carlo Rubbia (premiato nel 1984 con il Nobel) aveva scoperto tre “bosoni intermedi”, W+, W, Z0, particelle-tramite (quanti) di interazioni deboli, aventi una massa 100 volte superiore a quella del protone. Nel 1995 vennero reperiti 9 atomi di antimateria, specificamente di anti-idrogeno (antiprotone con carica negativa, contrapposto al positrone, con carica positiva), ma si annientarono. Nel 1997 furono creati 50.000 atomi di anti-idrogeno, però sfuggiti nel nulla perché dotati di energia eccessiva. In seguito nel 2002, pure presso il CERN di Ginevra, vennero prodotti per 1,7 decimi di secondo, con l’LHC (Large Hadron Collider, un anello sotterraneo di 27 chilometri), altri 38 atomi di antidrogeno (l’idrogeno è l’elemento più presente nell’universo), raffreddati a meno 272 gradi e, con l’aiuto di un campo magnetico, allontanati dalle pareti verso il centro del contenitore, affinché non si annullassero. Nel laboratorio di Brookhaven, ad Upton negli Stati Uniti, è stato individuato nel 2011, grazie all’acceleratore Relativistic Heavy Ion Collider, un nucleo di anti-elio 4, detto anche particella Alfa (l’elio è il secondo elemento più presente nella realtà). Sempre nel 2011 è stata inviata in orbita, con lo shuttle Endeavour della NASA, una stazione spaziale internazionale per condurre l’esperimento Alpha Magnetic Spectrometer per cercare anti-elio o anti-carbonio.


     Alla fine è giunto l’annuncio ufficiale del 4 luglio 2012: la scoperta di una “particella messaggero” (ragioni editoriali l’hanno battezzata anche come “particella di Dio”), il “bosone di Higgs”, particella con spin (momento angolare o di rotazione) nullo e massa, di circa 125 GeV (miliardi di elettronvolt), quasi 130 volte maggiore di quella del protone, compatibile con il “Modello Standard della fisica” delle alte energie. Quest’ultimo è basato su due tipi di particelle: leptoni (divisi in neutrini, elettroni e muoni) ed adroni (comprendenti mesoni, cioè pioni, kaoni ed eta, nonché barioni, cioè protoni, neutroni, lambda, sigma, csi ed omega). Inoltre il modello prevede quattro interazioni (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare debole e forte) e varie particelle-messaggero, cioè i bosoni, trasportatori di interazioni (Chew, Gell-Mann, Rosenfeld 1977). Proprio i leptoni e gli adroni sarebbero i costituenti principali della materia, giacché aggregano le particelle più piccole, i quark, che rappresentano l’infinitesimale, l’infinitamente piccolo, al livello di un miliardesimo di miliardesimo di metro.


     “La teoria della relatività ha modificato drasticamente non solo la nostra concezione delle particelle, ma anche la nostra rappresentazione delle forze che agiscono tra di esse. In una descrizione relativistica delle interazioni, le forze tra particelle – vale a dire la loro mutua attrazione o repulsione – sono rappresentate come scambio di altre particelle” (Capra 2009, p. 97). Per di più “nella fisica moderna, l’universo appare quindi un tutto dinamico, inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale. Nell’esperienza che se ne può avere i concetti tradizionali di spazio e di tempo, di oggetti isolati, e di causa ed effetto, perdono il loro significato” (Capra 2009, p. 98).    


     Torna utile specificare che gli studi sul bosone di Higgs sono stati svolti secondo la seguente procedura: fasci di protoni vengono fatti circolare in senso opposto nel tunnel del CERN, quasi fino alla velocità della luce, e sono condotti a collisione in corrispondenza di quattro impianti di sperimentazione, dei quali ATLAS e CMS sono i più grandi ed hanno permesso l’individuazione del bosone di Higgs. Il Large Hadron Collider ha portato anche a verificare la presenza di tutte le particelle del “Modello Standard della fisica”: sia leptoni che adroni.


     Tutto ciò è ormai acquisito (anche se rivedibile), ma invero si conosce scientificamente solo il 4% dell’universo, il resto (96%) è fatto di energia (73%) e materia oscura (23%) di cui nulla (o quasi) si sa.


     Intanto questo excursus sulle ultima novità della fisica è una salutare full immersion che suggerisce soluzioni e procedure che possono essere utilmente implementate anche nel campo della sociologia, ormai non più circoscrivibile al vieto dilemma fra qualitativo e quantitativo e perciò affrancabile da pastoie impelaganti e diatribe datate.


     Il taglio da dare ad una nuova sociologia degna del presente non può essere quello di fare battaglie di retroguardia ancorate al settorialismo delle denominazioni didattiche ma piuttosto di cercare sempre più le compartecipazioni pluridisciplinari. Non si tratta di trovare qualche collega amico e compiacente. Occorre ben di più: una programmazione a largo raggio per far sì che numerosi e qualificati studiosi si concentrino su obiettivi comuni, pluriennali, internazionali, dedicati al raggiungimento di mete chiare e condivise. A questo proposito quel che emerge in modo evidente è la necessità di una rete solida di collaborazioni e di scambi, con incontri e confronti costanti, badando alla messa a punto di protocolli dettagliati di ricerca e di sperimentazioni rigorose. L’esempio del CERN di Ginevra è quanto mai eloquente: il risultato raggiunto nasce da migliaia di soggetti coinvolti e da varie decine di contributi nazionali in termini di risorse economiche e strutturali.


     Esemplare è poi la prospettiva multidimensionale, che non concerne solo la ricerca del bosone di Higgs ma che si basa prioritariamente su uno stile d’indagine aperto ad ogni soluzione, senza dover rinunciare aprioristicamente a parametri-guida come il “Modello Standard della fisica” o il “Modello Standard esteso” (che riunisce in un unicum l’interazione elettrodebole e quella elettroforte). Il rinvio speculare al campo sociologico non appare molto convincente, visto che ancora si distingue fra standard non standard (Ricolfi 1995; Marradi 1996).


     Un’altra lezione proviene dalla scelta di studiare essenzialmente ciò che ha una minore visibilità, anzi nessuna visibilità immediata. Dunque l’analisi dell’infinitamente piccolo è un percorso non trascurabile, visto che può produrre esiti imprevedibili e strategici per la conoscenza della realtà. Basti considerare la valenza della teoria delle stringhe, che fa capo ad un elemento di per sé secondario, di appendice. Eppure proprio attraverso le vibrazioni delle stringhe passa l’energia, per cui la massa si anima ed interagisce. A parte questo, è proprio il caso di sottolineare che anche il più piccolo gesto, il movimento meno percettibile, è passibile di essere foriero di cambiamenti decisivi.


     Un altro contenuto merita attenzione. La realtà è quanto mai complessa e frastagliata nelle sue forme consolidate ed in quelle cangianti, nelle sue articolazioni e movenze,. Ciò che appare non è detto che corrisponda ad un dato di fatto. Solo un’indagine accurata ed incondizionata (per quanto possibile) riesce a garantire un buon livello di scientificità. Occorre ribadire che la certezza assoluta della verosimiglianza di un dato non è mai scontata. Tutt’al più sarà offerto un quadro quanto più preciso possibile, lasciando però aperto il campo a revisioni e rovesciamenti dell’approccio interpretativo.


     Anche la problematica delle dimensioni spaziali e temporali la dice lunga su molte prassi di ricerca piuttosto affrettate e superficiali. La contestualizzazione è un must di ogni studio sia empirico che teorico. In particolare va ribadito che esiste da parte dei soggetti una larghissima variabilità delle percezioni. Un intervistato non risponderà sempre allo stesso modo ad una medesima domanda: molto dipenderà dalle contingenze, dalla situazione emotiva e dai condizionamenti del momento o del passato o di un prevedibile futuro. Insomma converrà sempre e comunque avere bene in mente che ogni tentativo di conoscenza è soggetto a limiti di varia natura ed origine.


     Anche il mito della narrazione relativa alle dinamiche del Big Bang si presenta istruttivo. Lo si potrebbe avvicinare al carattere onnicomprensivo, esaustivo, di una grande teoria di fondo: quella dello struttural-funzionalsimo o dello strutturalismo tout court. E nondimeno uno scenario teorico di larga massima giova ai ricercatori per avere un parametro orientativo, magari da decostruire in corso d’opera.


     Dopo tante intuizioni iniziali e successive ricerche di prove legate al quadro dei citati “Modelli Standard” qualche risultato è giunto grazie ad un’indagine condotta in ogni possibile campo, senza interferenze di natura ideologica e senza manipolazioni strumentali. Insomma si è di fronte ad un modello esemplare di fare ricerca, che riesce a valorizzare anche l’assenza di dati (il riferimento è al pregnant void ricordato sopra), fino a spiegarla e reinserirla nel frame complessivo dell’analisi.


5. La soggettività


     Ritorno del soggetto, autonomia del soggetto, autenticità del soggetto ed altre sollecitazioni affini sono fra i temi più ricorrenti nella recente letteratura sociologica e non (Farina, Kirchmayr 2001). Il soggetto è non solo il protagonista di un lavoro d’indagine ma diventa sempre più un attore principale della ricerca, interloquisce con lo studioso e pone problemi deontologici e procedurali (AA.VV. 1991; Hall 2004). Insomma il soggetto è sempre più relazionale (Donati 1991) e promuove nello stesso tempo identità e reciprocità (Melucci 1991).


     Se si nega l’oggettività è possibile invece sostenere la soggettività come elemento irrinunciabile dell’analisi sociologica (Letherby, Scott, Williams 2012)? Se per soggettività s’intende il lasciare campo libero alle opzioni individuali dello studioso-ricercatore è logico che ci si trova sul versante perfettamente opposto a quello della pretesa oggettività, solo che stavolta la pretesa risiede nell’orientamento ideologico e metodologico di chi, inconsciamente o meno, pensa di imporre il suo punto di vista. E dunque tale tipo di soggettività non trova facilmente cittadinanza nella scienza. Se invece per soggettività si indica il ruolo centrale dell’attore sociale in questione allora si può discutere sul senso e sui limiti della soggettività.


     Ci si chiede dunque se un corretto approccio alla realtà da esaminare debba o meno prevedere una relazionalità (forte o debole) fra il sociologo ed il suo interlocutore. L’introspezione e la riflessività (Alvesson, Sköldberg 2009) assumono un ruolo decisivo in tal contesto operativo. Il sé, dall’una e dall’altra parte, è pur sempre un attore sociale, che si porta dietro il suo carico di pregiudizi, valori, modelli di comportamento, ma in pari tempo è libero di esercitare il suo potere di agire o non agire, operare in un certo modo od in un altro. La consapevolezza della soggettività nasce dal constatare l’esistenza di altre soggettività e di altri eventi ed oggetti.


     Ogni soggettività è in primo luogo la risultanza di un lungo processo di socializzazione, di discorsi sentiti e fatti, di esperienze subìte o gestite, insomma di azioni ricevute ma anche compiute, in un processo continuo di interazioni, interferenze, condizionamenti, influenze. Il tutto si accompagna sovente con una ricerca di identità, di ruolo nella società, di spazio indipendente. In termini sociologici diventa persino arduo distinguere fra soggettività ed identità, data la loro evidente interconnessione. Il problema potrebbe risolversi guardando all’unità dell’individuo. Ed in tal caso emergerebbe chiaramente una sorta di parallelismo con quanto avviene in fisica, allorquando si tende ad unificare spazio e tempo per meglio comprendere i fenomeni in esame. In fondo la stessa soluzione del narrare autobiografico risponde bene a questa istanza unificatrice, giacché chi racconta mette insieme soggettività ed identità (ma anche spazio e tempo della sua persona). Ovviamente la soggettività è maggiormente in gioco a livello di sentimenti, di coscienza esistenziale e di conoscenza della realtà.


     La soggettività è chiamata in causa specialmente nella definizione della situazione: prima di ogni azione comportamentale auto-determinata c’è sempre una fase di esame e decisione che noi possiamo chiamare “definizione della situazione”. Ed in effetti non solo atti concreti dipendono dalla definizione della situazione, ma gradualmente un’intera condotta di vita e la stessa personalità dell’individuo deriveranno da una serie di tali definizioni (Thomas 1923). Ancor prima di questo scritto di Thomas, va annoverato quanto aveva pubblicato la Carnegie Corporation (1919) in occasione di uno studio sull’assimilazione nella società americana: “la partecipazione comune in attività comuni implica una comune ‘definizione della situazione’. Di fatto ogni singolo atto, ed alla fine tutta la vita morale, dipende dalla definizione della situazione. Una definizione della situazione precede e limita ogni possibile atto, ed una ridefinizione della situazione cambia il carattere dell’azione”. Questa citazione è stata pubblicata da Park e Burgess nel 1921. In verità Thomas aveva lavorato con Park proprio al progetto della Carnegie Corporation ma il suo nome non è poi comparso come autore, il che non esclude affatto la sua paternità per il concetto di definizione della situazione. A voler comunque proseguire nella ricerca sulla prima formulazione del medesimo concetto occorre risalire a George Herbert Mead (1982, p. 53): “gli scienziati presentano dati a se stessi e costruiscono un’ipotesi che spiegherà dati apparentemente in conflitto. Questo è un perfezionamento. Dov’è il meccanismo che rende possibile il processo? Il suggerimento è nella nostra conscia, subconscia, condotta sociale. Si tratta di quella condotta sociale in cui noi siamo consapevoli delle nostre risposte agli altri, risposte che hanno un significato per noi stessi, e noi tendiamo a rispondere alle cose che diciamo agli altri”. Pur nella complessità del linguaggio sociologico di Mead alcuni aspetti alludono ad una sorta di definizione della situazione: che cosa è la condotta sociale avveduta, consapevole, che tiene conto di quanto si è detto agli altri e di quanto questi ultimi dicono a loro volta? Sono tutti elementi che servono a definire il profilo che descrive la situazione creatasi. Il passo citato risale ad una lezione del 1914.


     Ancora più remoto, e forse più convincente, è un ulteriore brano che rimonta al 1909 (Mead 2001, pp. 4-5): “in questo campo della consapevolezza sociale si presentano gradualmente oggetti – oggetti sociali, i sé, il me, e gli altri. Desidero discutere un po’ il processo attraverso cui tali oggetti si presentano. Che questi processi sociali istintivi siano intimamente connessi con le emozioni e che molte delle cosiddette espressioni delle emozioni siano tracce o prime fasi di reazioni istintive è stato riconosciuto in ogni trattazione psicologica delle emozioni e degli istinti, ma, per quanto ne so, la funzione che tali espressioni delle emozioni possono avere nel processo di mediazione della condotta sociale e di formazione degli oggetti nella coscienza sociale non è stata studiata in modo adeguato”. In questo brano sono messe in risalto le emozioni che si collegano di fatto ad una primordiale, quasi istintiva, definizione della situazione, allorquando avviene un incontro fra soggetti diversi. E si apre ad un’idea di mediazione e di formazione che non può non approdare ancora una volta alla definizione della situazione. Infine “per ritornare alla situazione al di fuori della quale le emozioni si presentano, la consideriamo una in cui l’inibizione mediante impulsi conflittuali rende necessario il riadattamento. La situazione è una situazione sociale. Il riadattamento sarà un riadattamento sociale”. Come si vede, in quest’ultima parte, il richiamo all’idea di situazione è quanto mai esplicito ed ancora una volta si presenta la dimensione emozionale, derivante direttamente dalla percezione che si ha dell’interlocutore non appena un incontro abbia luogo.


     Si può ipotizzare una certa affinità fra Mead e Thomas sulla soggettività, ma un altro autore da non trascurare è Alfred Schütz (Sacchetti 2012), come mette bene in evidenza pure Luigi Muzzetto (2006, pp. 20-21): “l’immagine della soggettività presente nel pensiero di Schütz è complessa: richiama sia le articolazioni dell’io di Scheler e di Husserl, per poi muoversi verso l’io di di James e di Mead, sia la struttura della coscienza di Husserl e Bergson. Sebbene l’autore sviluppi solo in parte il concetto dell’io, mostra comunque l’esistenza della possibilità di una sintesi efficace tra il percorso di Mead e quello di Weber. L’analisi dei processi della coscienza e dell’interazione mostra il carattere mobile e articolato del senso”. Inoltre “l’accettazione del mondo taken for granted di una serie di conoscenze è un tratto costitutivo del senso comune. Occupa quindi un posto strategico sia nella dimensione soggettiva sia in quella sociale”. Il tutto s’impernia sulla vita quotidiana, ambito principale ma non unico dell’approccio schütziano, che privilegia la libertà dell’attore sociale.


     Tale libertà non può essere negata al ricercatore ma nella conduzione delle interviste (Bichi 2007) non mancano interferenze, deviazioni e manipolazioni (Winker, Menold, Porst 2013).


     Martuccelli e de Singly (2009) preferiscono enfatizzare il carattere duale dell’individuo, di origine durkheimiana (ovvero gli “stati mentali” personali e le abitudini ed i sentimenti di derivazione sociale) (Durkheim 1962) e vanno anche ben oltre, prospettando un individuo trasversale fra tradizione e modernità, fra diverse esperienze nazionali, tra forme molteplici di modernità, nell’ambito di una nuova sociologia delle società ma su scala individuale.


     Propone di risolvere diversamente i problemi dell’individuazione Enzo Campelli (2011) – da lungo tempo impegnato sul tema della soggettività (Campelli 1991) -, riproponendo la vexata quaestio sulla verità: “la tensione di verità costituisce una dimensione fondamentale delle ragioni che inducono al lavoro scientifico ma non pertiene ai suoi risultati” (Campelli 2011, p. 152). La soluzione suggerita è “il richiamo all’asseribilità argomentata, che costituisce il solo debole e parziale strumento di confronto e di preferibilità possibile alle analisi del sociologo. Tanto la convinzione inattuale dell’attingibilità di una verità semplice e intera, che si contrapponga definitivamente alle infinite versioni diverse da essa, quanto il suo contrario, cioè la presunzione di una totale libertà dell’interpretare, completamente svincolata da ogni fattualità, costituiscono pratiche di deresponsabilizzazione” (Campelli 2011, pp. 151-152).


     Alle caratteristiche del contesto (context sensitivity) fa appello, infine, Mario Cardano (2011) che insiste sull’argomentazione, alla pari di Campelli, ma aggiunge, fra l’altro, la teoria della probabilità e l’estensione della predicabilità (in sostituzione della generalizzazione).


6. L’approccio biografico


     La narrazione biografica ha una storia così protratta nel tempo che travalica di gran lunga il secolo e mezzo di vita della sociologia. Nel frattempo essa ha assunto un carattere scientifico ampiamente riconosciuto ai fini della conoscenza di una società, di una comunità, di un’organizzazione.


     Anche la storia orale rientra ormai tra le cure preminenti di varie istituzioni, ivi comprese quelle governative. Va segnalato come esemplare il caso degli Stati Uniti che presso la Columbia University di New York hanno raccolto, dal 1948, innumerevoli documenti di oral history, che rappresentano un patrimonio di grande pregio per la storia confederale. Si tratta della celebre The Oral History Collection, che ha un suo Research Office molto attivo ed efficace, che pubblica periodicamente il catalogo della raccolta e rende conto delle testimonianze rese da migliaia di persone (oltre cento ogni anno) per lasciare traccia duratura delle varie attività svolte negli USA nel campo delle arti, degli affari, dell’educazione, della storia, delle relazioni internazionali, del giornalismo, del lavoro, della giurisprudenza, della biblioteconomia, della letteratura, della medicina, delle scienze fisiche e naturalmente pure delle scienze sociali (ogni anno vengono catalogati materiali per alcune decine di migliaia di pagine). Varie centinaia di libri sono stati dedicati a quella che viene indicata in modo abbreviato come COHC. Una buona parte dei materiali è microfilmata ed è accessibile anche in altre sedi scientifiche. Diversi progetti e finanziamenti riguardano principalmente lo studio dei materiali raccolti.


     Qualcosa di simile, ma con un diverso orizzonte scientifico ed operativo, è reperibile anche in Italia ad Anghiari con la Libera Università dell’Autobiografia ed a Pieve Santo Stefano, dal 1998, con la Fondazione Archivio Diaristico, attualmente sotto la direzione di Duccio Demetrio (1996), dopo l’iniziale apporto di Saverio Tutino, direttore della rivista semestrale Primapersona e promotore di un concorso per diari denominato “Premio Pieve”, ora intitolato anche a suo nome.


     Più recente è l’iniziativa di una banca della memoria (www.bancadellamemoria.it), che raccoglie migliaia di interviste video, a cura di Lorenzo Fenoglio, Franco Nicola, Luca Novarino e Valentina Vaio (Papi 2009). L’interesse per la conservazione della memoria e la sua metodologia specifica sta crescendo in misura rilevante (Yow 1994; Galli, Padovani 2000; Leone 2001; Cavallaro 2002; Rampazi, Tota 2007).


     In campo strettamente sociologico sono le storie di vita il più cospicuo apporto all’analisi qualitativa. In Italia ormai da più decenni la produzione editoriale non cessa di mettere in circolazione materiali sia biografici che autobiografici. Come ben sintetizza Paolo Montesperelli (1995, p. 18) “sia le critiche sia le repliche evidenziano l’elevata complessità di molte questioni epistemologiche legate alle storie di vita. Non è vero perciò che le storie di vita costituiscano un modo facile di fare ricerca”.


     L’utilizzo dei documenti biografici (o meno) si presta a diversi ed inusitati approcci: per esempio si può collegare la dinamica dell’andamento del racconto con la teoria dell’azione (Petitat, Baroni 2000). In altri casi una trattazione particolarmente avvertita riesce a far scaturire interpretazioni e classificazioni da testi letterari classici come da altre fonti (Jedlowski 2000) e pure da comunità narrative: dopo un brillante ed informato excursus, si formula la proposta di una sociologia della narrazione suddivisa tra “la facoltà di narrare” e “l’interpretazione narrativa della realtà”.


     Scende direttamente sul terreno dell’indagine empirica la raccolta di Storie di ordinaria povertà curata dal CRIPES-Centro Ricerche Politiche Economiche e Sociali (2000) di Roma, per conto della Regione Lazio. L’operazione è meritevole di attenzione, anche se manca un apparato metodologico ed interpretativo.


     Le problematiche dell’analisi qualitativa applicata alla biografia sono di varia natura (Bonica, Cardano 2008; Lichtner 2008) ed hanno a che vedere con l’intreccio che va dipanato fra io ed alter, fra strutture sociali e società nel suo insieme, fra vite individuali e riverberi sociali, fra testualità ed oralità, fra tempo e memoria, per non dire della complessificazione derivante dall’intertestualità. Sullo sfondo rimane poi, non sempre risolto, il tema della rappresentatività, che non si può ridurre alla sola rappresentazione agita dal soggetto intervistato. Altri dilemmi metodologici possono riguardare il rapporto fra vero e falso nei testi di natura autobiografica o le opzioni etiche relative all’interlocuzione con l’intervistato (Toti 2007).


     L’esperienza del raccontarsi, oltre che vissuto scientificamente orientato verso un uso analitico ed interpretativo, si trova ad essere altresì una modalità terapeutica, consapevole o meno, tanto da convergere talora con un profilo di tipo psicoterapeutico. Ed in effetti suggestioni concernenti la narrazione come terapia provengono da più parti, da Duccio Demetrio (1996) come da Mario Cardano (Bonica, Cardano 2008). Il discorso del narrare curativo si estende sino alla medicina in generale (Cipriani 2010), alle medicine alternative (Secondulfo 2009) ed allo sciamanesimo femminile (Tedeschi 2011, pp. 233-306). 


     Un’ultima ma non meno importante considerazione attiene alla cosiddetta ermeneutica oggettiva proposta da Ulrich Oevermann (1979) ma non particolarmente diffusa, probabilmente anche a ragione di una barriera linguistica dovuta alla lingua tedesca (Gerber 2007). Nello schema teoretico dell’ermeneutica oevermanniana le ipotesi di lavoro nascono solo dopo un’accuratissima analisi del contenuto dei testi. La procedura prevede che si possa cominciare a fare una generalizzazione solo quando una certa struttura tende ad essere regolare e ripetuta. Non si tratta però di conteggiare il numero di conferme di un andamento. Ed in ogni caso l’essenziale consiste nella fase iniziale (piuttosto lunga) di disamina approfondita e continuata del contenuto testuale, cui si accompagna un’ampia discussione da parte del team di ricerca. Il carattere oggettivo è dato dalla presenza di “strutture oggettive” nel testo stesso. L’oggettività viene sottoposta a sua volta ad un processo di possibile falsificazione, dunque la verifica non è necessariamente data per scontata. In definitiva si ha oggettività e falsificabilità al tempo stesso.


     Oevermann si rifà a Mead (1982; 2010) per il linguaggio come condizione di socialità, a Chomski (1977) per le regole creatrici di senso (non quello del soggetto ma quello oggettivo creato dalle regole del linguaggio) ed a Peirce (2001) per il processo abduttivo. L’obiettivo è di distinguere fra senso soggettivo e senso oggettivo, dovuto quest’ultimo alle regole comuni, comunitarie e/o universali del linguaggio. Le strutture di senso da individuare possono essere manifeste o latenti per cui ogni sequenza testuale va analizzata molto attentamente. Proprio per questo il procedimento comporta un largo impiego di tempo. E lo si apprende attraverso un’esperienza diretta nel gruppo di ricercatori condotto da Oevermann stesso. Intanto qualche utile informazione metodologica di massima è accessibile anche in lingua francese (Wernet 2000): in un primo momento (Geschichten=storie) la sequenza testuale da esaminare viene decontestualizzata e se ne propongono le più diverse interpretazioni, senza sceglierne alcuna; successivamente (Lesarten=letture) le storie raccolte nella fase precedente vengono raggruppate in modo da costituire dei “tipi di significato” (Bedeutungstypen), che non sono specifici del caso in esame ma Lesarten, modi di lettura, provando inoltre a vedere se i tipi emersi resistono anche ad una sorta di verifica per opposizione, attraverso una storia contrastante (kontrastierende Geschichte), diversa, opposta; da ultimo avviene la ricostruzione di quella che è la struttura del caso (Fallstruktur) mettendo a confronto le modalità di lettura, Lesarten (ottenute nella tappa antecedente), con il contesto reale, che alla fine viene recuperato per stabilire la leggibilità del testo mediante ipotesi sulla struttura del caso (Fallstrukturhypothesen). Il tutto richiede un’accentuata competenza linguistica da parte dei ricercatori.


     Sono infine cinque i principi dell’ermeneutica oggettiva: indipendenza del contesto (Kontextfreiheit) da applicare nella prima fase allorquando non si tiene conto di alcun sapere previo né dei con-testi che precedono o seguono; letteralità (Wörtlichkeit) come rispetto assoluto del testo (anche degli errori grammaticali) senza introdurre approssimazioni o modifiche; sequenzialità (Sequenzialität) che è fondamentale nell’analisi in quanto presenta e suggerisce un certo ordine utile per la creazione di senso; estensività (Extensivität) che significa un intenso lavoro per sperimentare tutte le strade possibili per tentare di falsificare le ipotesi in atto sulla struttura del caso; economia o parsimonia (Sparsamkeit) tesa ad evitare sforzi e tentativi inutili e grossolani, ad esempio in chiave psicoanalitica. La procedura per congetture e confutazioni sembra riecheggiare quella popperiana (Popper 2009).


7. La Grounded Theory


     Probabilmente la maggiore e più diffusa novità teorico-metodologica degli ultimi decenni nel campo dell’analisi qualitativa è stata quella prospettata da Barney G. Glaser ed Anselm L. Strauss con la loro Grounded Theory (Urquhart 2012), ovvero teoria fondata o basata (sui dati) (Glaser, Strauss 2009).


     Seguendo la lettura dettagliata che ne offre Massimiliano Tarozzi (2008, pp. 10-12), la Grounded Theory è al medesimo tempo un “metodo generale”, complessivo, di analisi di tipo comparativo ed anche un “insieme di procedure” in gradi di produrre “sistematicamente”, cioè in modo rigoroso e non semplicemente in maniera soggettiva, una teoria “fondata sui dati” e “capace di dar conto della realtà presa in esame”. Essa va oltre il carattere linguistico ed ermeneutico (connesso ai significati) e mira a reperire regolarità concettuali nel fenomeno o nei fenomeni in esame. Il problema della rappresentatività viene affrontato mediante il “campionamento teorico” che estende in progress, durante l’indagine, numero e caratteristiche dei soggetti, per cui non vi è un numero prefissato di individui da intervistare ma questi vengono individuati e coinvolti a mano a mano che si rende necessario avere informazioni su una certa area tematica, concettuale. Raccolta ed analisi dei dati procedono di pari passo e dunque è possibile intervenire in corso d’opera con un andirivieni continuo fra terreno d’indagine ed analisi mediante codifica (Saldaña 2012). Altro carattere connotativo della teoria fondata sui dati è la costante presenza dell’analisi comparativa fra i dati, delle codifiche effettuate, delle categorie concettuali, tutte fortemente radicate nei dati empirici in un nesso senza alcuna soluzione di continuità. Insomma non si tratta di descrivere quanto, invece, essenzialmente di lavorare per concetti. Da ultimo, ma tale fase non è la meno importante, vanno predisposti memo (note sull’andamento della ricerca e sulle intuizioni che emergono di volta in volta, vero e proprio impianto per stratificazioni successive) e diagrammi (mappe concettuali, grafici, schemi, schizzi, profili). Questo insieme articolato di forme e contenuti a carattere metodologico e teorico rimanda principalmente a due grandi correnti del pensiero filosofico-sociologico, dapprima il pragmatismo con Dewey, per il quale “una teoria fondata è applicabile tanto nelle situazioni quanto alle situazioni” (Glaser, Strauss 2009, p. 217), e poi l’interazionismo simbolico con Blumer, il quale però si era limitato alla “formula generale di attenersi ai dati” (Glaser, Strauss 2009, p. 42, nota 15) senza avventurarsi in merito alla produzione della teoria Ma in realtà pure Peirce, mai citato da Glaser e Strauss, sembra svolgere una funzione latente con la sua idea di abduzione.


     Glaser e Strauss hanno fatto scuola ma hanno posto le premesse per lo sviluppo di linee di pensiero non sempre convergenti. Dopo la morte di Strauss nel 1996, Glaser è rimasto giudice di fatto unico che dal suo punto di vista approva o meno la purezza e la legittimità della Grounded Theory. Nel contempo, come segnala Tarozzi (2008, p. 37), sono tre i filoni tuttora in attività: in primo luogo quello classico dello stesso Glaser (1998), quello della “piena descrizione concettuale” entro precise categorie e tecniche di Corbin e Strauss (Corbin, Strauss 2007) ed infine quello costruttivista di Charmaz (2006; Bryant, Charmaz 2007) che insiste molto sulla relazione fra ricercatore ed attori sociali e sul significato attribuito ai fatti. Le differenze su alcuni punti sono notevoli, specie per quanto riguarda la codifica: solo sostantiva e teorica in Glaser, aperta, assiale e selettiva in Corbin, invece iniziale, focalizzata, assiale e teorica in Charmaz, che presenta chiaramente e dettagliatamente i vari passaggi della codifica iniziale, focalizzata, assiale e teorica (Charmaz 2006, pp. 42-71) nonché le modalità di scrittura dei memo (Charmaz 2006, pp. 72-95). Obiettivo comune resta comunque il far emergere una core category concettuale, cioè un concetto od un gruppo di concetti affini in grado di organizzare l’area di ricerca e dunque di fare da base di partenza per la costruzione finale della teoria. Una citazione a parte merita anche un’altra coppia di “scuole” di pensiero che si ispirano alla Grounded Theory: si tratta, in primo luogo, della cosiddetta analisi situazionale di Clarke (2005), che studia in particolare il contesto dell’azione, mediante “mappe situazionali” che possono essere orientate a reperire aspetti umani e non umani insieme con le relazioni che intercorrono fra essi, ad esaminare attori collettivi ed elementi non umani in situazione di patteggiamento ed infine ad osservare le posizioni assunte o meno dai soggetti sociali a fronte di specifiche questioni; in secondo luogo è da registrare uno sviluppo della Grounded Theory denominato “analisi dimensionale”, dovuto soprattutto a Schatzman (Bowers, Schatzman 2009).


8. L’indagine computer-assistita


     Da diversi anni alcuni teorici e metodologi di larghe vedute, anticipatrici di sviluppi futuri, avevano colto nel segno presagendo una stagione straordinaria per la ricerca sociologica supportata dalle nuove tecnologie informatiche (Yamashita, Besser, Duster and Piazza, Hout, 1997; Seale 2002).


     Al momento attuale proliferano programmi di ogni sorta, adatti a varie finalità, ad applicazioni nemmeno immaginabili fino a qualche tempo fa. Certamente il computer aiuta molto nel lavoro di analisi nella misura in cui è in grado di gestire molti dati contemporaneamente e di cercare rapidamente un’informazione da elaborare nonché di connettere fra loro elementi diversificati di un approccio e riferimenti a persone e loro caratteristiche. Ma sarà sempre il ricercatore a decidere il da farsi, gli incroci da effettuare, le connessioni da scegliere, le sperimentazioni da implementare (Flick 2009; Silverman 2013).


     Per chi era abituato a lavorare con forbici, colla e pennarelli colorati si tratta di un salto notevole di qualità ma soprattutto di un cospicuo risparmio di tempo. Ma occorre sapere bene che cosa fare, che cosa cercare, come organizzare il lavoro.


     Forse il momento più delicato è quello della scelta del programma adatto al nostro ambito di ricerca. Dopo gli inizi dominati dal ricorso a The Ethnograph, un software statunitense “dedicato” al trattamento delle note raccolte sul campo dagli etnografi e dagli antropologi, attualmente i prodotti di maggior successo e diffusione sono l’australiano NVivo (Bazeley 2013), giunto alla sua decima versione, ed il tedesco Atlas.ti. Ma non mancano altre ottime soluzioni, meno accreditate solo perché meno pubblicizzate e poco distribuite. Ovviamente vi sono preferenze consolidate, per cui è difficile che uno studioso dopo aver cominciato a lavorare con un particolare tipo di software si convinca poi a passare ad un altro programma. La fatica dell’apprendimento di una procedura non viene replicata, di solito, per non sottoporsi agli imprevisti, sempre possibili, di una nuova soluzione informatica. Anche per ragioni di tempo si opta per proseguire lungo la medesima modalità già conosciuta, a meno che non vi siano segnali rilevanti di una scarsa efficacia del mezzo prescelto in precedenza. Solo allora, con molta più prudenza, ci si avventura lungo un altro percorso. Conviene, ad ogni buon conto, raccogliere pareri e suggerimenti fra i colleghi, gli esperti di programmazione elettronica, i tecnici specializzati ed altri studiosi che abbiano già sperimentato a fondo quello che si sta per scegliere a propria volta.


     Fra i tanti strumenti in circolazione ha una buona affidabilità T-LAB,che ha la caratteristica di unire insieme possibilità analitiche di tipo linguistico ed elaborazioni statistiche. Si possono esplorare, comparare e trasformare in mappe i contenuti di vari testi: trascrizioni di articoli, discorsi, libri, documenti, interviste, risposte libere a domande di un questionario ed altro ancora. T-LAB consente di gestire i dati in modo “amichevole”, facile, per esempio con l’analisi delle co-occorrenze di termini, le comparazioni fra coppie di parole, la creazione di mappe concettuali, le concordanze. Si può altresì condurre un’indagine tematica sulle unità di contenuto (frasi e/o paragrafi), un’analisi delle corrispondenze multiple, una cluster analysis. Il necessario (demo, manuale ed introduzione) è disponibile in quattro lingue: inglese, francese, italiano e spagnolo. In proposito si può consultare il sito: www.tlab.it.


     Particolarmente consigliabile è un ottimo sussidio predisposto da Giuliano e La Rocca (2008), che presentano in forma ampia e ben documentata la Grounded TheoryAtlas.tiNVivoLexico3, TaLTAC (quest’ultimo provvede sia all’analisi lessicale che a quella del contenuto).


9. La ricerca visuale


     Un’altra prospettiva che fa presagire un futuro ben promettente ha radici quanto mai salde nella storia delle arti visive ed ora procede a ritmi sempre più accelerati sino a diventare essa stessa protagonista sulla scena scientifica. Si era abituati ai classici documentari storico-geografici che puntavano molto sulla dimensione estetica, sull’enfatizzazione del bello artistico, fotografico e cinematografico, videografico e computergrafico. Da un po’ di anni si stanno affermando proposte dichiaratamente volte a presentare esiti di ricerca, appunti di campo, intuizioni per immagini, contenuti seri ammantati con una sceneggiatura accattivante e costellati di frasi ammiccanti ed allusioni dotte. Insomma il vecchio prodotto d’arte alla maniera della documentaristica di Folco Quilici non rientra più negli obiettivi da raggiungere da parte delle nuove generazioni di studiosi, piuttosto attenti a voler cogliere la datità del terreno d’indagine ed a riproporre squarci di realtà attraverso strumenti più semplici e privi di sofisticazioni estetizzanti.


     Si prenda ad esempio l’opera di Bourgois e Schonberg (2009) sugli eroinomani senza fissa dimora. Si è di fronte ad una narrazione fortemente impregnata di visualità, quasi altrettanto quanto le immagini che aprono il volume, ben dodici (ma molte altre seguono all’interno del testo) senza soluzione di continuità dopo la pagina del titolo, e/o quanto il film Sidewalk, una sorta di epopea della miseria e della tossicodipendenza, un’ora di sequenze che lasciano il segno e che fanno da sostegno visivo a tutta una serie di riflessioni che si leggono nel testo. Per Spike Lee è affascinante e commovente il vedere i personaggi passare dal testo originale al documentario, prendere vita per strada, offrendoci dettagli della loro vita, che prende letteralmente corpo dando un taglio diverso al senso del libro, che corroborato dall’apporto visuale quasi assume un altro significato. Le storie di Ron, Mudrick, Ishmael e Butteroll divengono un filo conduttore di prim’ordine che giunge sino nelle aule universitarie e nei congressi dei sociologi.


     Dopo il contributo pionieristico di Leonard M. Henny (1986) la sociologia visuale ha conosciuto progressi significativi di cui danno conto Faccioli e Losacco (2010), fra i primi in Italia a sostenere la linea di un approccio sociologico visuale che formula una teoria dell’immagine e del processo di visione, lavorando con le immagini e sulle immagini, nonché restituendole come narrazioni visuali e dunque produzioni di film e video. In particolare i due autori distinguono fra una versione tutta metodologica orientata ad usare l’immagine come strumento di raccolta dei dati ed una versione disciplinare, autonoma, indipendente, che studia i processi visuali e l’uso che gli individui sociali fanno delle immagini.


     Anche gli enti televisivi e le case di produzione stanno scoprendo il valore della visualità a connotazione scientifica. Dopo le iniziali proposte di rassegna internazionale promosse da Jean Rouch al Musée de l’Homme a Parigi e dalla RAI in Italia con l’International Festival of Ethnographic Film, ora sono numerose le iniziative che sorgono in diverse località italiane ed estere. Ma non sempre è facile stabilire quanto scientifico siano un certo impianto ed un certo risultato. Ci ha provato con acume e lungimiranza Howard S. Becker (1995), per cui le fotografie assumono il loro significato dal modo in cui le persone coinvolte le comprendono, le usano ed attribuiscono loro un significato, mentre la sociologia visuale ha un carattere prettamente professionale, accademico. Ma nella pratica – aggiunge Becker – si può leggere un’immagine di un documentario come sociologia visuale o come fotogiornalismo, oppure si può leggere un’immagine sociologica come giornalismo e come documentario od infine si può leggere un’immagine giornalistica come sociologia visuale e come documentario. Per altri (Kissmann 2009; Mitchell 2009) la sociologia visuale ha un carattere precipuamente interdisciplinare.      


     Non mancano tentativi di coniugare la sociologia visuale con la Grounded Theory (Konecki 2011). In pratica molto è in movimento, per cui le discussioni metodologiche si susseguono senza soste (Pauwels 2011; Pink 2013). Non a caso la rivista L’Homme ha dedicato un numero monografico all’approccio visuale (De l’Anthropologie Visuelle 2011). Insomma tanto fervore, dal biografico sino al visuale, è qualcosa di inedito nella storia delle scienze sociali.          


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