Per la costruzione di una teoria degli eventi collettivi

Roberto Cipriani


Premessa


La sociologia non può fare a meno dei dati empirici, ma neppure di un apporto teorico utile all’interpretazione delle informazioni raccolte. Di solito si parte dalla teoria e si affrontano le risultanze emerse dal lavoro sul campo. Ma nel nostro caso il percorso, non meno arduo ma neppure meno scientifico, ha seguito il senso inverso. Si è data preminenza alla ricerca sul terreno e dopo si sono effettuati i primi tentativi ermeneutici. Ma, invero, solo ora si giunge al culmine dell’indagine, per tentare di delineare una teoria che, dopo essere apparsa applicabile ai casi specifici qui esaminati, possa estendersi successivamente ad altri ambiti di fenomeni aventi come carattere condiviso quello di una peculiare mobilità collettiva, di stampo religioso o meno.


È la prima volta che il nostro gruppo di ricerca si cimenta fino in fondo con la sfida del theory building e corre dunque il rischio di pagarne qualche scotto in chiave di messa a punto dei contenuti, di chiarezza delle interazioni teorizzate, di validità degli assunti teorici.


Innanzitutto va individuato il fatto o l’insieme di fatti cui ricollegare le diverse specificazioni insite nel voler disegnare il profilo complessivo della teoria. Nel nostro caso l’evento del pellegrinaggio a Roma per l’Anno Santo del 2000 è l’elemento di base per inquadrare i contenuti della ricerca. Ma la fenomenologia giubilare non è una manifestazione a carattere solo religioso. Essa include aspetti di più vasta portata, che ruotano attorno all’asse portante della mobilità, cioè del viaggio, dello spostamento, del trasferimento di milioni di persone da un posto verso un altro, per celebrare qualcosa che si presenta con una configurazione spirituale ma che implica e fa emergere varie altre connotazioni.


Dunque il Giubileo è un dato di fatto relativamente all’azione intrapresa dai pellegrini, cioè alla decisione di muoversi dai loro luoghi abituali di residenza e di lavoro per raggiungere una meta diversa da quella della solita routine quotidiana.


Però tale mobilità non è in genere implementata isolatamente dal singolo individuo senza alcuna consultazione e compartecipazione dei suoi familiari, degli amici, dei pari età, dei colleghi di lavoro, dei correligionari. E dunque nei fatti la mobilità di questo particolare tipo assume decisamente la qualificazione di un comportamento collettivo. Quest’ultimo termine, in forma aggettivale, ha già una sua tradizione nel campo della storia della sociologia. Come non ricordare, fra l’altro, la lettura  durkheimiana relativa all’idea di “coscienza collettiva”?


In definitiva la scelta di riferirci teoricamente ad un evento di mobilità collettiva è quanto mai giustificato e – si presume – condivisibile.


Prolegomeni per la costruzione di una teoria


Formulare una teoria, sociologica nella fattispecie, significa giungere alla predisposizione di alcune affermazioni che costituiscono il tessuto connettivo, la trama e l’ordito dell’intera proposta di teorizzazione. Dunque non si può pensare a frasi generiche e neppure ad espressioni solo ipotetiche, giacché l’intero impianto teorico ha bisogno di basi salde, non equivoche, presentate chiaramente.


Quindi una teoria si prospetta in primo luogo come qualcosa di univoco, monorientato, volto a fornire una particolare illustrazione della realtà. Tale certezza di partenza è una difesa essenziale nei riguardi di fraintendimenti, equivoci, mistificazioni, usi difformi degli enunciati posti in premessa. Questo rende la teoria meglio definita, meno discutibile, più omogenea e dunque in grado di competere alla pari con altre e diverse proposte teoriche.


La ricerca della compattezza assertoria non può tuttavia andare a detrimento del rinvio alla realtà empirica. Il circolo virtuoso fra teoria e dati deve sempre rimanere in vigore, pena l’inutilità dell’operazione sociologica. Vi è dunque da reperire un set di asserzioni a livello alto ma non del tutto virtuale, cioè irrelato con la situazione di fatto.


La connessione con la fenomenologia di riferimento è necessaria perché è da lì che provengono gli spunti essenziali che danno sostanza alla teoria.


Occorre astrattezza sì, ma non del tutto, nel redigere un prospetto teorico di fondo. Essa procura dei vantaggi se limitata, in qualche modo, da altre condizioni. Ad esempio le affermazioni contenute in una teoria devono essere anche esplicite, comprensibili, senza riserve, senza arrière pensée, insomma senza ciambelle e scialuppe di salvataggio che consentono facili cambiamenti di programmi e di rotta nel processo teorico-interpretativo.


La struttura della teoria deve altresì evitare la genericità ma preservare un livello di generalità che eviti di sottomettere quanto faticosamente prodotto a continui smacchi, magari solo perché un dettaglio troppo minuto nell’insieme della composizione teorica poi non tiene affatto nel momento di applicazione di una medesima teoria a situazioni tanto complesse quanto imprevedibili. La generalità invece torna vantaggiosa perché conserva un livello cosi alto da inglobare, minimizzare, rendere innocui alcuni “buchi” secondari, non particolarmente significativi rispetto all’insieme della proposizione teorica.


La teoria inoltre non può cedere a formule rapsodiche, estemporanee, isolate fra loro, prive di collegamento, disorganiche rispetto al quadro globale. Appare perciò quanto mai provvidenziale una stretta, solida, puntuale sequenza di postulati, con l’indicazione delle relazioni che ne scaturiscono, dei legami che si possono rintracciare. Insomma una teoria è tale nella misura in cui è ben coordinata al suo interno, organizzata mediante nessi autoevidenti oppure opportunamente segnalati. In tal modo la formulazione teorica appare come un meccanismo ben funzionante, senza intoppi ed impacci, debitamente ben registrato in ogni sua parte, piuttosto calibrato nelle sue connotazioni caratteristiche.


In definitiva alla teoria valida e plausibile si arriva mediante espressioni certamente astratte ma allo stesso tempo esplicite, sicuramente orientate secondo una schematizzazione generale ma abbastanza correlate tra loro sul piano logico, per offrire dunque il meglio possibile a livello metodologico. Si potrebbe anche dire che una teoria è come una costellazione, fatta di tanti astri celesti ognuno al suo posto per dare corpo ad una configurazione unica, a sé stante, non confondibile con altre. Non di meno ogni stella ha un suo posto ben definito ad una certa distanza dalle altre, ma in forte relazione con esse. Lo spostamento (o la scomparsa) di una sola di esse non può non avere influenza su ciascuna parte dell’intera costellazione. Nel corso di lunghi periodi di tempo, si può assistere a mutazioni che appaiono come minime, ma le cui conseguenze possono essere macroscopiche. Allo stesso titolo, in una teoria le singole enunciazioni hanno un ruolo definitorio e regolatore in pari tempo. Ogni affermazione teorica è conformata in modo da conservare una sua organicità rispetto a tutto il resto dell’insieme teorico.


Ecco dunque che una teoria riesce a spiegare i fenomeni proprio in virtù della sua compattezza di fondo. Conviene tuttavia sottolineare il carattere quasi insiemistico che riveste ogni formulazione teorica di tipo generale. E come tale occorre trattare una teoria, facendo attenzione ad ogni passaggio nelle diverse fasi della sua costruzione. In primo luogo ci sono i termini da usare, vere cellule fondanti di tutta la struttura. Dato il loro carattere preliminare e fondativo, risulta indispensabile procedere innanzitutto ad una puntuale definizione degli stessi termini. Poi si dovranno usare appunto tali termini, previamente definiti, per stilare affermazioni che possono avere diversi contenuti: ipotetici (ma senza confonderli con le più classiche ed abituali ipotesi di lavoro), discriminatori (laddove un elemento è prevalente, un altro sarà minoritario; oppure se un certo elemento è marginale lo sarà anche un altro, chiaramente individuato; ovvero se un particolare elemento è preminente lo sarà pure un altro; ed ancora se un elemento specifico è secondario sarà invece secondario un altro, ben segnalato). Chiariti i termini di partenza e stabilite le affermazioni di base, si deve passare ad una serie di argomentazioni, che sono un’elaborazione successiva e più appropriata in chiave teorica. Proprio la fase argomentativa è forse la più delicata di tutto il processo di costruzione della teoria. Essa è fatta di semplici proposizioni, oppure di assunzioni o presunzioni, ovvero di premesse a carattere introduttivo, ed anche di veri e propri postulati, oppure di assiomi. Da tutto questo insieme raziocinativo si giungerà in ultima istanza a trarre conseguenze, precipitati finali, derivazioni, conclusioni, persino teoremi, insomma un set di aspetti orientati a fornire una spiegazione dei fenomeni che sono oggetto della teoria.


Vi è però un corollario ineliminabile dell’andamento di building. La teoria non può essere generica, deve piuttosto sottostare a sue condizioni di applicazione, cioè ancora una volta a delle affermazioni, in questo caso preferibilmente provvisorie, utili a stabilire appunto le condizioni di utilizzabilità della teoria.


L’attività costruttiva non si conclude però qui. Vanno infatti operate delle verifiche, affinché la teoria nel suo complesso abbia un alto tasso di credibilità. Innanzitutto essa non deve contenere contraddizioni, poi deve evitare ambivalenze ed ambiguità, deve inoltre riguardare un vasto ambito di fenomeni (ma evitando altresì un’eccessiva astrattezza), deve mantenere per di più una prospettiva piuttosto generale (tale da prevedere molte applicazioni, diversi contesti, più prove di tenuta), deve altresì tendere ad una certa qual precisione (almeno in riferimento ai luoghi ed ai tempi di applicabilità), deve infine usare un grado di condizionabilità possibilmente aleatorio, vago (senza entrare in descrizioni minuziose ma accennando appena al contenuto delle condizioni). Non è facile attingere una qualità sempre elevata ed inoppugnabile per ciascuno dei passaggi indicati ma occorre tendere a salvaguardare almeno l’essenziale nel difficile tentativo di theory building.


Primi elementi per la costruzione della teoria


Prima ancora di giungere ad una teoria generale degli eventi di mobilità collettiva (si pensi alla fenomenologia dei flussi migratori, turistici, culturali, commerciali) la base dei dati a nostra disposizione permette, per il momento, di prospettare una sorta di teoria a medio raggio concernente la mobilità collettiva di matrice primariamente religiosa. Nella fattispecie l’approccio è circoscritto alla modalità del pellegrinaggio (in linea di principio non solo cattolico, dunque ben al di là del riferimento giubilare romano). Detto altrimenti il tentativo da operare è di una teoria applicabile agli eventi collettivi religiosi.


Orbene, occorre prima di tutto stabilire quali termini adoperare per iniziare a costruire la teoria. Considerata la particolarità della prospettiva religiosa cui fa riferimento la mobilità collettiva non si può non partire dal termine religione. Ma quest’ultimo è così ampio, pluricomprensivo e variegato che implicherebbe una trattazione ad hoc per stabilirne confini, accezioni, utilizzi. Invero la categoria della religiosità non è da meno, ma ha il pregio di essere più “localizzabile”, cioè empiricamente rilevabile nei comportamenti di fatto. Simmel la contrapponeva alla religione, definendo quest’ultima come storicamente costituita nella organizzazioni religiose (principalmente la chiesa istituzionale). Ma la suggestione simmeliana porterebbe un po’ lontano dalla nostra prospettiva empiricamente fondata, perché presupporrebbe una certa qual naturalezza scontata dell’atteggiamento religioso, ipotizzato come presente a livello universale. Il nostro concetto di religiosità rientra invece in un certo contesto più ridotto per luoghi e tempi, che ha a che vedere con i riti, la gestualità, la comunicazione, la percezione, l’emozione, il rinvio ai valori, il ricorso alla preghiera, il richiamo dei simboli, la distinzione fra il bene ed il male, il significato della vita e della morte, l’agire quotidiano fatto di attività lavorativa e di esperienze familiari. In questo arco così vasto di orizzonti tematici la religiosità rappresenta un filo conduttore, a volte esplicito a volte implicito.


Ma tentiamo comunque di fornire una approssimazione definitoria di avvio, pur consapevoli dei limiti che ad essa sono imputabili. La religiosità sarebbe dunque una manifestazione palese e/o latente di una particolare concezione del proprio essere soggetti umani, secondo una prospettiva che fornisce un senso all’esistenza, in quanto esperienza non conchiusa nei limiti temporali della durata della vita, o almeno non interpretabile secondo criteri esclusivamente materiali, concreti, utilitaristici. In sintesi la religiosità può manifestarsi o come indicatore di una visione meta-esistenziale o come opzione attitudinale e comportamentale che travalica la dimensione meramente fattuale, reale, oggettiva, pragmatica.


Il secondo termine chiave da definire è evidentemente quello dell’evento, nel caso specifico della nostra indagine appunto il giubileo. Quest’ultimo si presenta essenzialmente come una celebrazione che si snoda lungo un tragitto, più o meno lungo, che approda ad un momento conclusivo altamente simbolico e conclusivo, la meta per cui si è compiuto il viaggio di pellegrinaggio, l’obiettivo reale e metafisico di una marcia di avvicinamento che guarda a Roma (o alla Mecca, o alla confluenza del Gange, o al monte Fujiyama). Tale percorso è solitamente affrontato in gruppo, in carovana, in comunità pre-costituite o formatesi per l’occasione, talora anche in forma del tutto individuale ma senza trascurare punti di convergenza e confluenza con altri soggetti individuali o gruppi più o meno numerosi.


Tra la religiosità che motiva e l’evento cui prender parte c’è un rapporto diretto che chiaramente individua la prima come fonte generatrice ed il secondo come relay implementativo. Già solo soffermandosi su questo singolo aspetto si è entrati nella tappa successiva di costruzione della teoria, in quella delle affermazioni basilari. Tuttavia prima di proseguire con altre affermazioni conviene sgomberare il campo da alcune questioni preliminari. La teoria contempla come lemma qualificante quello della mobilità, cioè di un andamento dinamico, mobilitante appunto, che vede singoli e gruppi muoversi lungo traiettorie talora predefinite talora casuali, ma pur sempre con qualche obiettivo cui almeno mentalmente si mira. In effetti la casualità in tale evenienze appare solo come una dichiarazione di principio, una formula di comodo, che maschera finalità più profonde, una ricerca problematica di risposte, curiosità da soddisfare, interrogativi da risolvere. E così si sono reperite anche le affermazioni da connettere al tema della mobilità.


Nondimeno occorre considerare che la stessa mobilità non di rado è agita da una sola persona senza comunità di intenti e di movimenti con altri soggetti umani. In genere, quindi, la mobilità è collettiva e di conseguenza costituisce un fenomeno di precipuo interesse per il sociologo. In definitiva la mobilità collettiva ha tutti i crismi per poter essere oggetto della costruzione di un’apposita teoria.


A questo punto si inserisce la nostra particolarità della matrice religiosa, che però è una risultante scontata, se si fa capo ad un evento come il pellegrinaggio o più precisamente come il viaggio giubilare a Roma.


A dire il vero oltre i due termini principali della religiosità e del giubileo la nostra ricerca ha fatto emergere altri due elementi significativi: fede e Chiesa. Entrambi però sono intrinsecamente riconducibili all’esperienza cristiana (invero più la Chiesa che la fede). Pertanto, per conservare un carattere tendenzialmente astratto e generale alla teoria, è preferibile non farne uso come termini di base ma recuperarli nell’ambito delle fasi successive della costruzione della teoria, su di un piano teoricamente meno impegnativo, più aperto a soluzioni non prefigurate totalmente al livello teorico iniziale.


Dalle affermazioni alle argomentazioni


In linea di massima se c’è una religiosità di fondo è abbastanza probabile che si registri una partecipazione ad un evento quale il pellegrinaggio. E dunque se si è cattolici è piuttosto verosimile che si prenda parte all’evento giubilare. Il contrario avviene di rado, per cui un non credente può ritrovarsi ad essere un giubilante, ma tale evenienza non è in effetti una costante.


Inoltre più alta è la religiosità più facilmente si interviene ad una manifestazione che è anche occasione di mobilità collettiva. In pari tempo un minor tasso di religiosità fa prevedere un ridotto interesse per celebrazioni a carattere pellegrinante, ma ciò non può essere considerato una sorta di automatismo comportamentale.


Risulta difficile presumere che una religiosità accentuata non produca anche attenzione alle modalità di pellegrinaggio. In realtà l’azione del soggetto sociale ha pur sempre una sua quota di imprevedibilità.


La tenuta reciproca fra religiosità ed evento di mobilità collettiva è indubbiamente una peculiarità della nostra teoria. In via prioritaria è l’evento-giubileo a costituire il fulcro, ma più in termini di tramite che non di origine. L’argomentazione relativa alla religiosità è essenziale per far muovere il pellegrino. Ma, specialmente nell’ambito cristiano (e cattolico in particolare), è la fede che funge in prima battuta da supporto ulteriore. Se la religiosità si diparte dalla pratica, dalla spiritualità, dalla pietà, dalla devozione, dal culto, dal rito, dal riferimento al perdono ed a figure religiose eccezionali (da San Francesco a Padre Pio), la fede è estrinsecata principalmente come credenza in Dio e in Gesù Cristo, nella grazia, nello stato di grazia, nella Madonna, nel Vangelo, nelle Sacre Scritture, nell’anima, nei miracoli, nello Spirito Santo; essa inoltre è accompagnata dalla speranza, dalla conversione, dal desiderio, dal conforto, dal dono, dalla preghiera.


In definitiva se la religiosità apre la strada alla partecipazione giubilare è la fede a motivare significativamente la mobilità collettiva. La stessa Chiesa è marginale nell’intero processo, ma è in relazione primaria con la fede, mentre i valori, la dimensione emozionale ed anche il male intrattengono un rapporto sostanzialmente “alla pari”, senza tuttavia il primato che la Chiesa esercita come sorgente appunto di fede. La Chiesa è dunque una sorta di premessa della fede perché è esattamente il suo insegnamento, ovvero la sua catechesi, ad indicare gli oggetti cui la fede può far capo. La Chiesa offre le spiegazioni di cui la fede si sostanzia, nonché i postulati che costituiscono i principi di orientamento dei fedeli. Nonostante queste funzioni non secondarie, la Chiesa non occupa un posto di rilievo nel reticolo di rimandi, presupposizioni, richiami espliciti nelle argomentazioni dei giubilanti. Essa esula dalle riflessioni più ricorrenti, non giustifica e non esercita un suo controllo sull’agire individuale e sociale. Gli assiomi che danno una ragione alle azioni dei pellegrini non appartengono al repertorio tipico dell’organizzazione e del magistero ecclesiali.


Le derivazioni rilevabili negli atteggiamenti e nei comportamenti dei partecipi agli eventi di mobilità collettiva a matrice religiosa hanno radici complesse e non facilmente decifrabili. Tra le supposizioni teoriche da formulare si può anche pensare ad una lontana origine delle motivazioni come radicate nella socializzazione religiosa di Chiesa. Ma tale continuità diacronica con il passato non traspare del tutto, non è autoevidente, anzi è messa fra parentesi, obnubilata da altri motivi più contingenti. La conclusione è dunque di una funzione latente del termine Chiesa e di una funzione manifesta del termine religiosità, con l’evento giubileo a fare da cartina di tornasole delle presenze contenutistiche più rilevanti nel corso delle manifestazioni di mobilità collettiva. Insomma è più la religiosità come precipitato storico che argomenta e motiva, non la Chiesa come input iniziale.


Le condizioni di applicazione della teoria


Una teoria del tipo grounded, cioè fondata sui dati, se si basa su una sola indagine empirica rischia di risultare alquanto debole, per quanto attiene la sua capacità di durata ovvero di applicabilità. Occorrono più ricerche e dunque più operazioni di equilibratura e calibratura, per mettere a “registro” ogni particolare. Non è dunque pensabile che dal solo nostro primo tentativo do costruzione di una teoria possa scaturire un impianto teorico già affidabile e degno della massima considerazione. Ancora una volta si deve procedere per tentativi ed errori, mirando peraltro ad obiettivi graduali ed al tempo stesso cumulativi delle conoscenze pregresse.


È dunque con estrema cautela che si intraprende e porta a termine la strada di una prima provvisoria proposta teorica sugli “eventi collettivi di mobilità” (anche questa denominazione è plausibile, in quanto le stesse manifestazioni da studiare, o già esaminate, contengono la dimensione collettiva, proprio come la include la mobilità nel suo insieme; pertanto non vi è differenza nel parlare di “eventi di mobilità collettiva a matrice religiosa” oppure di “eventi collettivi – e religiosi – di mobilità”).


Or dunque le affermazioni provvisorie relative alle condizioni di applicazione della nostra teoria, per così dire iniziale, hanno da essere semplici e poco numerose, in modo da consentire facilmente sia ulteriori ampliamenti, sia modifiche (anche minime) nel corso degli studi successivi, in particolare al momento della costruzione di nuove proposte (nondimeno sempre in progress). In realtà il theory building è un’attività scientifica costantemente in corso d’opera, senza soluzione di continuità.


Conviene pertanto non usare precisazioni minuziose, accurate, particolareggiate, per segnalare le condizioni di applicabilità della teoria qui suggerita. E torna utile parlare di una condizionalità generale, non di condizioni specifiche. Ecco perché ci si limita solo a qualche accenno, volutamente non puntuale e non del tutto definito.


La teoria qui in oggetto di costruzione e di esame può essere utilizzata in situazioni che vedono, periodicamente ed in forma numericamente cospicua, mobilitarsi, per spostamenti fisici, personali (a livelli pluri–individuale e/o di gruppo), insiemi di soggetti umani che hanno come scopo il raggiungimento di una meta, solitamente ben nota o ancora da conoscere ma ben presente nella percezione e nella esperienza di altri compartecipi della medesima mobilità.


La periodicità può anche non essere fissata una volta per tutte e magari mutare secondo precipue circostanze. Ma di solito essa ha un significato simbolico connesso al giorno dell’evento, alla stagione, alla contingenza di natura astronomica, alla periodizzazione per intervalli (di giorni, settimane, mesi, anni, ecc.).


La condizione numerica poi legata all’evento collettivo non è definibile in modo aprioristico. Questo aspetto quantitativo della condizionalità risponde ad un criterio di conoscenza diffusa della modalità e della finalità del viaggio, del pellegrinaggio. Detto altrimenti se si tratta di una partecipazione a carattere del tutto personale o familiare (o poco più) non ricorre la condizionalità di implementazione della nostra teoria. Laddove un’intera comunità, piccola o grande che sia, o comunque almeno una parte importante di essa, intraprende un’iniziativa mirata di mobilità con motivazione religiosa, si dà appunto il caso di poter applicare la teoria qui suggerita.


Peculiarità della teoria derivante dalla ricerca sui giubilanti del 2000


Le interviste effettuate nel corso dell’indagine svolta nell’anno 2000 e le successive elaborazioni ed analisi presentate nei capitoli precedenti offrono il destro per teorizzare che soprattutto la religiosità dei soggetti intervistati informa di sé gran parte della percezione dell’evento giubilare. Infatti abbastanza spesso nei loro percorsi di vista riferiti agli intervistatori i pellegrini giubilanti hanno creato una sorta di ponte fra il loro essere religiosi ed il loro prender parte alla celebrazione dell’anno santo. La Chiesa ha avuto una sua rilevanza soprattutto come fonte per taluni contenuti affrontati, ma in genere essa non è stata molto citata.


La religiosità invece sopravanza altri termini dei discorsi fatti ed appare essenzialmente come devozionalità, religiosità piuttosto popolare nel senso tradizionale dell’aggettivazione (sociologicamente rilevante ed oggetto di tanti studi e ricerche). In particolare la religiosità dei giubilanti non è un fatto estemporaneo, momentaneo. Essa è di lunga durata e svolge funzioni ora consolatorie, ora identitarie. Ma essa è ricca pure di elementi valoriali propri. Non mancano inoltre aspetti carismatici (rinvenibili nel ruolo massmediatico svolto dalla figura di Giovanni Paolo II in occasione del giubileo). Infine è la dimensione escatologica, relativa al destino finale degli esseri umani, a farsi presente nella trascrizioni delle interviste raccolte. La capacità del giubilante devoto ha potenzialità notevoli. Qualcuno di essi è in grado di costruire spiegazioni sulla funzione del male. Altri arrivano a cercare “protezione” in più di una religione. Se il flusso tra religiosità e giubileo è autoevidente altrettanto netto è il legame diretto tra religiosità e fede. Quest’ultima diventa esplicita, manifesta, palese nell’esperienza del pellegrinaggio. Ed assume anzi presenta nettamente il carattere dell’attitudine solida e duratura, quasi una sorta di religione diffusa estrinsecata attraverso il viaggio giubilare. Oltre l’attitudine la fede appare anche come risposta in consonanza con la religiosità ma altresì quale percorso innervato in chiave di approfondimento della disposizione religiosa. Ed infine essa è una vera e propria ricerca, in senso pieno, per trovare risposta agli interrogativi esistenziali più diversi. Talora corrisponde a quella che Franco Ferrarotti ha identificato attraverso la definizione di “fede senza dogmi”, che non tiene conto dei principi di fede impartiti e propugnati dalla Chiesa. In quanto ricerca, la fede è anche espressione della necessità di un dialogo, di una comunicazione a contenuto spirituale. In fin dei conti, essa risulta certamente più prossima al sacro che non alle forme organizzate di religione. Ed in definitiva lo stesso giubileo si trasforma in un crogiuolo adatto a riattivare la fede stessa.


Tra le risposte cercate poi dalla fede non manca quella sul senso del male, altro termine da annoverare nell’insieme della teoria. Esso ha una forte risonanza emotiva e pone il soggetto umano nell’agone delle differenze intercorrenti tra le diverse confessioni religiose, le quali offrono soluzioni non omogenee per giustificare la presenza e l’azione del male. Nel pluralismo del mercato delle fedi, si colloca il protagonismo giubilare di Giovanni Palo II, che al tema del male ha dedicato attenzioni non trascurabili. Il male è visto pure come una elaborazione attivamente presente in qualità di agente di socializzazione, a livello di contenuti appresi e comportamenti conseguenti. Non è detto però che il male abbia solo effetti negativi quando si propala in termini ampi e ben visibili. Qualche volta il male diventa un mezzo di conversione, di ritorno alla fede. Ed allora religiosità e religione riprendono vigore proprio grazie all’esperienza del male. Un altro elemento emerso  precipuamente nel corso dell’indagine e delle successive elaborazioni è quello emozionale. L’emozione è anche amata, ricercata di per se stessa. Può essere una forma gratificante, soddisfacente, a livello soggettivo, interpersonale, collettivo (si pensi all’emozione delle grandi folle giubilari, specialmente in attesa di attraversare la porta santa). E l’emozione è enfatizzata, rafforzata, appunto perché è condivisa, contestuale, plurima, convergente (l’arte convoglia emozione ed il mistero religioso suscita attese e commozioni; l’una e l’altro divengono dunque una miscela straordinaria: la “Pietà” di Michelangelo ne rappresenta un esempio, non a caso immediatamente godibili dai giubilanti, appena attraversata l’agognata meta della porta santa). Si creano in tal modo alcune correnti emozionali che s’innescano nei cortei, nelle lunghe code di attesa, nei viaggi, nei percorsi dei giubilanti. Si possono peraltro catalogare specifiche categorie  di emozioni, ricorrenti fra pellegrini d’una medesima lingua, cultura, coorte di età. Se poi si aggiungono i dati ulteriori della convivialità e della solidarietà tra i giubilanti si comprende agevolmente come l’esito ultimo non possa non essere altamente coinvolgente, cosicché emozione, fede, religiosità e giubileo appaiono come un tutt’uno coeso ed avvincente. Un altro termine, come l’emozione, attraversa più volte le dinamiche autobiografiche dei pellegrini–romei del 2000: i valori, che mostrano connessioni solide con altri termini–chiave dell’indagine, in particolare con la famiglia e con il male. Nel caleidoscopio di interconnessioni di diversa portata qualitativa e quantitativa primeggiano alcuni andamenti tipici che vanno dai valori al giubileo, oppure dai valori alla fede, alla religiosità, al giubileo, ovvero dai valori alla fede (ed al male), od infine dai valori alla fede, al Giubileo. In questo quadro così variegato risultano come rilevanti le relazioni che partono dai valori e si dirigono verso la fede ed il giubileo. In altre parole sono appunto i valori che toccano la fede e raggiungono poi l’esperienza dell’evento–pellegrinaggio. Segnatamente i valori lasciano presupporre che la celebrazione dell’anno santo sia qualificabile come fatto sociale totale, da  cui desumere sociologicamente indicazioni decisive per l’interpretazione delle azioni sociali in atto nella mobilità collettiva religiosa.


Non è un caso che i valori, come già sottolineato, siano direttamente collegati con la dimensione familiare, nelle sue diverse espressioni e forme di socializzazione, più o meno flessibili, adattate, innovative, tradizionali. Se il nesso tra famiglia e valori è quasi scontato appare un po’ meno saldo quella tra famiglia e lavoro. Nondimeno è attraverso la famiglia che passa la connessione del lavoro con i valori. Una fenomenologia quasi a sé è invero quella dei polacchi, fra i quali è decisamente maggiore il tasso di relazionalità fra religiosità e famiglia.


Infine vale la pena di segnalare il singolare percorso che si constata nel caso del lavoro, che come elemento materiale si collega all’immmaterialità della fede, della religiosità e dei valori e in senso inverso riceve inputs sia dalla fede che dai valori. Ed a ben pensarci pure il pellegrinaggio è una forma di realizzazione del lavoro, inteso come ricerca, esplorazione, fatica del percorso, richiesta di senso, domanda di significato. In fondo si spera di potersi “caricare” d’altro; per questo in pellegrinaggio ci si reca leggeri, senza troppi attrezzi di lavoro.


Una proposta finale


La nostra costruzione della teoria rientra in un insieme di accezioni già individuate da Robert King Merton (1949) in Social Theory and Social Structure ed in particolare nell’ambito sia dell’analisi dei concetti (ovvero termini), sia delle interpretazioni post factum (da intendersi dunque come successive alla ricerca empirica, fattuale), sia delle generalizzazioni empiriche (derivanti in effetti dallo studio sul campo), sia della derivazione (in quanto provenienza dei corollari presenti in proposizioni formulate in precedenza), sia della codificazione (che per induzione dal particolare permette di enunciare proposizioni di carattere generale), sia infine della teoria in senso stretto costruita con proposizioni che costituiscono qualcosa di sistematico. Il che produce conseguenze da mettere a confronto con i dati empirici, chiudendo così il cerchio virtuoso che parte dall’analisi empirica, conduce alla teoria e da questa ritorna ai dati raccolti. È esattamente il percorso da noi compiuto nel corso della nostra ricerca. E la teoria cui facciamo riferimento si diversifica dal paradigma perché non si ferma al livello tutto metaforico del linguaggio ma si rivolge più direttamente alla stessa realtà sociale che rappresenta il ground  irrinunciabile della teoria stessa, il suo punto di partenza, lo scenario di sfondo.


La teoria degli eventi religiosi di mobilità collettiva è una teoria in senso proprio perché prende abbrivio da un set di proposizioni correlate fra loro e produttrici di conseguenze da comparare con le informazioni empiriche disponibili.


Nel nostro caso è opportuno sottolineare che non si premettono ipotesi di lavoro iniziali ma si interviene in corso d’opera facendo ruotare l’analisi e le successive interpretazioni attorno a concetti sensibilizzanti, secondo la prospettiva suggerita da Blumer. Però tali concetti-chiave non sono predefiniti all’inizio dell’indagine ma sorgono solo al termine dell’attività sul campo e dunque hanno origine dalle sollecitazioni concrete emerse durante le operazioni di intervista, trascrizione, conoscenza diretta dei fatti in esame.


In tal modo non hanno avuto vigore, almeno entro certi limiti, le presupposizioni dei singoli ricercatori, mentre sono state assunte in massima considerazione le evidenze empiriche intercettate dall’indagine sul terreno.


In via preliminare e provvisoria cerchiamo dunque di tirare le conclusioni maggiormente utili alla costruzione della teoria, obiettivo del nostro studio. Lo schema che segue può fornire indicazioni sintetiche e chiarificatrici.


PROPOSTA DI UNA TEORIA DEGLI EVENTI DI MOBILITÀ COLLETTIVA RELIGIOSA



Termini primari generali


Termini primari

particolari


Termini secondari

particolari


Proposizioni


Argomentazioni


Condizioni


Eventi (pellegrinaggi)


Religiosità

(pratica religiosa, spiritualità, pietà, devozione, culto, rito, perdono, san Francesco, padre Pio)


Fede

(credenza in Dio e Gesù Cristo, nella grazia, nello stato di grazia, nella Madonna, nel Vangelo, nelle Scritture, nell’anima, nei miracoli, nello Spirito Santo; speranza; conversione; desiderio; conforto; dono; preghiera)


Se c’è una religiosità di fondo è abbastanza probabile che si registri una partecipazione ad un evento quale il pellegrinaggio


La religiosità è la motivazione essenziale per la mobilità dei pellegrini


Applicabilità relativa


Mobilità

(spostamenti, mobilitazioni, trasferimenti, viaggi)


Giubileo

(evento religioso  periodico)


Chiesa

(come istituzione)


Di rado un non credente può ritrovarsi ad essere un pellegrino


Se si è cattolici è abbastanza verosimile che si prenda parte al giubileo


Possibilità di ampliamenti


Collettività

(gruppi od insiemi più ampi)


 


 


Più alta è la religiosità più facilmente si partecipa ad un evento di mobilità collettiva religiosa


Anche la fede è un supporto per intraprendere il pellegrinaggio


Possibilità di modifiche


 


 


 


Il giubileo funge più da tramite che da origine del comportamento collettivo


La fede deriva dal magistero della Chiesa


Uso di una condizionalità generale


 


 


 


La Chiesa è marginale nel processo di mobilità collettiva


Le ragioni che spingono al pellegrinaggio non derivano direttamente dal magistero della Chiesa


Assenza di dettagli sulle condizioni specifiche


 


 


 


 


Le motivazioni dei giubilanti sono complesse


Applicabilità temporanea, localizzata e non definita nella quantità


Questo tipo di teoria non è del tutto incompatibile con altre, per esempio con la teoria processuale della cultura che Victor ed Edith Turner (1997) applicano al pellegrinaggio e con la quale non mancano punti di convergenza. Noi però non arriviamo a classificare la mobilità religiosa (Turner, Turner 1997: 64-67), né intendiamo polemizzare sugli indicatori del declino dei pellegrinaggi, che sarebbe dovuto ad “un aumento dei simboli cerimoniali imposti dall’esterno” (Turner, Turner 1997: 75), o sulla loro natura più o meno democratica (Turner, Turner 1997: 77). Ci è sufficiente, come gruppo di ricerca che ha lavorato per otto anni sul medesimo tema, ribadire il carattere aperto della nostra formulazione teorica, in attesa di nuovi e sempre stimolanti momenti di conoscenza scientifica, di cooperazione interpersonale, di contributo all’interpretazione di una realtà sociale e religiosa sempre più difficile da leggere se non si va oltre la tradizionale prospettiva monorsa di un unico ed esclusivo approccio sociologico.


Riferimenti bibliografici


Merton, R. K., 1949, Social Theory and Social Structure, I, II, III, The Free Press, Glencoe; tr. it., Teoria e struttura sociale, I, II, III, il Mulino, Bologna, 1959, 1966, 1971.


Turner, V., Turner, E., 1997, Il pellegrinaggio, Argo, Lecce (ed. or., 1978)