“Religione e secolarizzazione”, Religioni e Società, XXXII, 85, maggio-agosto 2016, pp. 102-33.


di Roberto Cipriani


Alla memoria


di Sabino Samele Acquaviva (29.4.1927-29.12.2015),


antesignano della sociologia della secolarizzazione


Premessa


L’otto dicembre 2015 papa Francesco ha aperto la Porta Santa della basilica di San Pietro in Vaticano per dare inizio all’anno santo della misericordia. In verità l’apertura “ufficiale” aveva avuto luogo una settimana prima proprio in quel continente dove sempre più viene provato che abbia avuto origine la nostra compagine umana. La scelta dell’Africa come incipit non è di natura geo-antropologica ma di carattere socio-economico: partire da un paese tra i più poveri al mondo per segnalare a tutti la necessità di farsi carico di un problema basilare, correlato allo sfruttamento delle persone e dell’ambiente. Questo certamente fa riguadagnare terreno e credibilità ad una Chiesa come quella cattolica scossa da vari traumi: dalla pedofilia all’uso improprio delle risorse finanziarie, dal carrierismo all’invadenza in campo politico. Il tutto, invero, si colloca entro una cornice che da secoli ha un carattere ed un andamento difficili da definire ma innegabili sul piano sociologico: il processo di secolarizzazione, in atto a partire ancor prima del periodo illuminista e della contrapposizione tra la “dea” ragione ed il divino della religione (o delle religioni).


Le origini della secolarizzazione


Nella lingua latina antica non esisteva una parola corrispondente al termine italiano “secolarizzazione” per indicare un processo di progressivo ridursi dell’esperienza religiosa nelle società. Nondimeno il termine secolarizzazione deriva dal latino saeculum, che significava la durata della vita di un uomo oppure il periodo di tempo legato ad una generazione. Ma esso poteva anche designare la situazione della vita sociale in un dato momento storico, così come si può capire da quanto scriveva Cicerone nelle sue Orationes Philippicae (9, 13) a proposito di Servio Sulpicio il quale disprezzava l’insolenza appunto del tem­po (saeculi). “Mirifice enim Servius maiorum continentiam diligebat, huius saeculi insolentiam vituperabat”.


Ma un’altra derivazione va aggiunta: è quella dell’opposizione, già presente nella lingua latina, fra sacro (sacer) e secolare (saecularis), cioè fra ciò che era consacrato ad una divinità e che era intoccabile e venerato e ciò che invece non apparteneva alla reli­gione e che era dunque profano (letteralmente: posto fuori dal tempio). Il profano, il secolare, è tutto ciò che non si trova nel recinto sacro ed appartiene al mondo. I profani, i secolari, sono anche i “non iniziati”, i non consacrati alla religione, cioè a1 rapporto privilegiato con la divinità ed in particolare al ruolo sacerdotale.


Più tardi Lattanzio, scrittore latino cristiano del IV secolo dopo Cristo (circa 250-dopo 317 d. C.), definì (nel De mortibus persecutorum: 10, 3) profani, cioè non iniziati alla verità, i lontani dalla “vera” religione: “verum identidem mactatae hostiae nihil ostendebant, donec magister ille aruspicum Tagis seu suspicione seu visu ait idcirco non respondere sacra, quod rebus divinis profani homines interessent”. Sant’Avito (450-circa 530 d. C.) due secoli dopo definì saecularii gli autori pagani, cioè non cristiani, ma già prima di lui Eustazio Afro nel V secolo aveva chiamato saecularii proprio tutti i pagani. Altrimenti l’aggettivo “secolari” era attribuito ai non monaci, a quanti cioè non avevano fatto professione di dedizione completa al­la vita religiosa (tale testimonianza ci viene da San Girolamo, padre della Chiesa, vissuto fra il 340 circa ed il 420 d. C.).


Di fatto si nota che sovente quando si parla di saeculumsae­culare, lo si fa con una connotazione piuttosto negativa, che mette in luce la superiorità del sacro rispetto al secolare, del cristiano rispetto al pagano, del religioso rispetto al mondano. È sintomatico che quando San Cipriano (circa 210-258 d. C.), vescovo di Cartagine nel III secolo, deve condannare un certo modo di vestirsi (e non solo) ricorre più volte proprio all’avverbio saeculariter (cioè alla maniera del mondo, in modo mondano, secondo la moda del tempo) per mettere in rilievo la differenza fra un abbigliamento o costume o comportamento opportuno, lecito, e quello invece non adatto, non coerente con la condotta cristiana: “has divitias possidere non potest quae se divitem saeculo mavult esse quam Christo” (De habitu virginum, capitolo X); “a Deo per saeculi delitias recedentes” (De habitu virginum, capitolo XIII); “apud martyras non est carnis et saeculi cogitatio” (De habitu virginum, capitolo XXI); “vos resurrectionis gloriam in hoc saeculo iam tenetis, per saeculum sine saeculi contagione transitis” (De habitu virginum, capitolo XXII); “nemo quicquam de saeculo iam moriente desideret, sed sequatur Christum” (Epistulae, 58, 2).


Ma tale carattere negativo non è tipico solo dei cristiani, perché già Virgilio nelle Georgiche (verso 468) definiva perversi i tempi (“impiaque aeternam timuerunt saecula noctem”) e Tacito vi accennava scrivendo della corruzione: “nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur (De origine et situ Germanorum, 19). Dunque l’espressione di Tertulliano, l’apologista cristiano che scriveva “accedunt etiam saecularia exempla” (Exhortatio ad castitatem, 13), non rappresenta un fatto nuovo rispetto all’uso precedente del termine “secolo”, quasi sempre assimilato al male, al non auspicabile, a ciò che reca danno e corrompe.


L’altro senso di solito attribuito a saeculum è più neutrale, in quanto si riferisce – come già sottolineato –  alla durata, alla serie di anni, all’età più che allo spirito dei tempi, alla moda del momento, alla vita mondana, od al paganesimo. È importante notare come attraverso i secoli si sia mantenuta quasi intatta la tendenza a giudicare negativamente il se­colo e tutto quanto vi è collegato come costume, usanze, atteggiamenti e comportamenti. Occorre però ribadire che nella lingua latina non esisteva affatto il termine secolarizzazione, usato per la prima volta solo assai più tardi.


Il primo uso del concetto


Molti studiosi sono concordi nel ritenere che il termine secola­rizzazione[1] sia stato utilizzato per la prima volta oltre oltre tre secoli e mezzo fa, esattamente nel 1648, in occasione delle trattative per la pace detta della Westfalia perché firmata a Münster e Osnabrück, due centri di quella regione. I tre trattati di pace concludevano la cosiddetta guerra dei trent’anni (1618-1648), che era scoppiata, fra l’altro, anche per motivi di ordine religioso: nell’impero asburgico vi era stata una forte pressione cattolica, in chiave controriformistica, per contrastare la diffusione del protestantesimo; in Germania, in particolare, le lotte fra protestanti e cattolici erano divenute sempre più aspre, giacché i calvinisti intendevano godere di una certa libertà (già concessa peraltro ai luterani dall’imperatore con la pace di Augusta); taluni esponenti ecclesiastici cattolici erano passati al protestantesimo senza perdere i loro precedenti benefici, contravvenendo così agli stessi principi della suddetta pace; erano fieramente avverse fra di loro una “lega cattolica” da una parte ed una “unione evangelica” dall’altra; in Boemia era stato impedito ai protestanti di organizzassi e di professare li­beramente la loro fede, sicché si era giunti alla famosa “defenestrazione di Praga” ( 1618), con i messi dell’imperatore buttati fuori delle finestre del castello reale perché minacciavano l’esercizio della libertà religiosa; con l’avvento del nuovo sovrano Ferdinando II (1619-1637), fervente cattolico, i dissapori erano aumentati per cui i boemi elessero loro signore il capo dell’unione evangelica, Federico, ma questi fu sconfitto e sostituito dal capo della lega cat­tolica, il che ovviamente non fu gradito agli stati protestanti; la Spagna aveva aiutato gli imperiali cattolici e si era inimicata la Francia, che cercava ogni motivo per contrastare gli Asburgo; in Valtellina, infine, i cattolici avevano fatto scempio di protestanti con il “sacro macello” dei Grigioni.


Le sorti sembravano capovolgersi con la discesa di Gustavo Adolfo re di Svezia, protestante, che giunse fino in Baviera con l’idea di radunare intorno a sé tutto il mondo luterano e calvinista. Nella battaglia di Lützen nel 1632 gli svedesi vinsero ma persero il loro re e subito dopo furono ricacciati verso le loro terre.


Intan­to la Francia di Richelieu aiutava i protestanti. Tale politi­ca del celebre cardinale fu proseguita dal suo successore, il Mazzarino, che ebbe ragione degli imperiali costringendoli appunto alla pace della Westfalia. Così gli Asburgo videro fallire il loro sogno di soffocamento del protestantesimo, al cui interno peraltro ebbe a diffondersi il principio “cuius regio eius et religio” che consacrava le differenze territoriali esistenti.


Ma, soprattutto, la pace della Westfalia riconosceva le secolarizzazioni, cioè le usurpazioni dei beni ecclesiastici avvenute prima del 1624. Il termine secolarizzazione fu un’invenzione del legato francese, Enrico II d’Orléans, duca di Longueville, che voleva così designare l’espropriazione dei possessi religiosi appartenenti alla chiesa cattolica. In pratica anziché dire in termini troppo espliciti che ai cattolici si sottraevano alcuni beni, domini, vescovadi, edifici, conventi, terreni, si escogitò la parola secolarizzazione per attenuare nominalisticamente il senso reale dell’operazione. In effetti la secolarizzazione poteva suonare meno pesante che non l’esautorazione, la soppressione, l’espropriazione.


I cattolici partecipanti alle trattative per la pace si accorse­ro ben presto della sottigliezza terminologica e contestarono come non legittima la perdita delle proprietà ecclesiastiche.


La questione era nata dal fatto che occorreva dare all’elettore di Brandeburgo una ricompensa per aver ceduto alcune sue terre agli svedesi. Si pensò allora ad alcuni territori ecclesiastici, che però erano già abitati da protestanti. Per evitare di far decadere la qualifica di principati ecclesiastici come parte del Sacro Romano Impero si pensò proprio al termine séculariser (secolarizzare), che avrebbe mascherato la reale na­tura dell’operazione, cioè l’abolizione del dominio ecclesiastico. Ec­co dunque che la secolarizzazione rientrava nel contesto del vocabolario di matrice religiosa e non negava completamente la qualifica religiosa originaria. In altri termini secolarizzazione doveva voler dire che si rispettava formalmente lo statuto dei territori ecclesiastici, anche se di fatto essi venivano del tutto laicizzati passando sotto il possesso di altri.


Il più acuto studioso di questo processo storico-­linguistico fondamentale è Martin Stallmann[2] che così scrive in proposito: “quel che è secolare può anche servire a fini ecclesiastici e ricevere una ratifica religiosa. La parola secolarizzazione era particolarmente indicata perché così la trasformazione dei domini religiosi non appariva come alienazione del loro pa­trimonio dai fini cui era destinato, o sovvertimento violento del loro statuto, ma anzi faceva pensare ad una utilizzazione temporanea e non tale da mettere in questione la possibilità di un uso diverso della proprietà”. Si trattava dunque di un raggiro terminologico sotto le parvenze del provvisorio e del formalmente corretto, ma celava in verità ben più pesanti conseguenze, dato che il cambio della proprietà significava una perdita completa di diritti. La stessa possibilità della ratifica religiosa, del resto, era solo ipotetica ma soprattutto ineffica­ce – in generale – sul piano politico ed economico. Secolarizzazione dunque equivaleva in concreto ad appropriazione indebita e come tale fu intesa dai cattolici. In realtà “il concetto di se­colarizzazione serviva meno per chiarire che per velare i veri motivi. Secolarizzare significa laicizzare – aggiunge ancora Stallmann – ma si era contenti di poter parlare di questa laicità con una terminologia che sembrava rappresentare ancora e di nuovo, almeno giuridicamente, il sistema sacrale dell’ordine medievale dell’impero che proprio dalla guerra dei trent’anni era stato distrutto”. Vi era dunque la convinzione di cambiare la sostanza dei fatti, pur nel rispetto di un formalismo religioso di facciata, e che quindi i principati potessero continuare ad essere definiti ecclesiastici (cioè cattolici) pur appartenendo in realtà a “signori” protestanti.


Non sembra dunque accettabile l’interpretazione di Larry Shiner[3], secondo cui anche nel trattato di Westfalia il concetto di secolarizzazione aveva un significato neutro. Anzi, a voler sottilizzare, esso aveva piuttosto un carattere neutralizzante solo nel senso di camuffare un mutamento di possesso, che nel caso specifico rappresenta in effetti un’alterazione dei possedimenti ecclesiastici.


Shiner ha ragione di ricordare la duplice versione del termine latino saeculum, come nozione di tempo e come “mondo” nelle mani di Satana. Ma l’annotazione prevalente pare essere quella negativa così come si è storicamente determinata. E se anche le dizioni di “clero secolare” e “braccio secolare” non risultano a prima vista in opposizione con 1’istituzione religiosa, anzi vi si collegano direttamente, nondimeno esiste una latente differenziazione che attribuisce superiorità e maggiore dignità a tutto ciò che secolare non è.


Che poi la Chiesa stessa decida di fare interventi di secolarizzazione non può sembrare singolare, specie se ai considera che tale scelta è strumentale in vista di ulteriori sacralizzazioni. Così avviene nel caso della fondazione dell’Università di Münster: secolarizzati, sì, un convento benedettino ed alcuni pos­sessi gesuitici ma in vista dell’istituzione di un ate­neo al cui interno avrebbe trovato spazio più che adeguato l’insegnamento religioso. Dunque non desta meraviglia che il pontefice dell’epoca (1773), Clemente XIV, abbia dato il suo consenso a tali secolarizzazioni, favorite altresì dalla soppressione dell’ordine dei gesuiti.


In definitiva, la secolarizzazione non cessando di portarsi dietro i suoi connotati tendenzialmente negativi assume talora la dimensione di male minore o di mezzo per raggiungere obiettivi rilevanti.


Lo stesso può dirsi della secolarizzazione intesa come passaggio dal clero “regolare” a quello “secolare”: pur di mantenere il religioso all’interno della struttura organizzativa di Chiesa gli si concede una normativa meno rigida, meno restrittiva, più accondiscendente nei riguardi delle esigenze di tipo secolare.


L’uso del termine secolarizzazione nei trattati di Westfalia non segna dunque una frattura rispetto al passato ma mantiene quasi intatte talune caratteristiche negative di fondo, pur nelle sfumature delle vicissitudini e delle ermeneutiche diplomatiche che assai spesso giocano proprio sulle possibili ambiguità dei concetti ma non possono d’improvviso capovolgere significati ed interpretazioni già fissate nell’arco della storia.


La secolarizzazione secondo le trattative condotte dal delegato Monsignor duca di Longueville non si diversifica affatto dal modo di concepire il “braccio secolare”, il “clero secolare”. In tutti questi casi più che di neutralità concettuale si deve parlare di continuità dell’uso tendenzialmente negativo o quanto meno riduttivo del concetto di “secolare”. L’astuzia di Monsignor di Longueville non riuscì ad ingannare i cattolici, i quali – come si è detto – ben afferrarono la vera portata della proposta.


E non è neppure casuale che la stessa, anzi più dura reazione si ebbe con la grande secolarizzazione del 1803, allorquando in diverse parti d’Europa si provvide a tutta una serie di incameramenti e di espropri dei beni ecclesiastici. Fu allora che la dimensione negativa latente emerse con chiarezza ed il lemma secolarizzazione cominciò a significare per i cattolici ingiustizia, oppressione, usurpazione, confisca, appropriazione illegittima. Ciò fu possibile perché in tale caso non era più la Chiesa stessa a gestire e controllare i limiti della secolarizzazione, ma altri, assolutamente estranei ad essa, del tutto laici, “secolarizzati” al massimo, senza più alcun legame con l’istituzione religiosa: era principalmente lo Stato, stavolta avversario e non più “braccio secolare”, a stabilire le regole del procedimento, senza più alcuna interferenza ecclesiastica.


Lo sviluppo della secolarizzazione


Se il 1648 è la data presunta d’inizio dell’uso terminologi­co, sono i secoli successivi a vedere gli esiti di eventi cruciali che hanno favorito o rallentato lo sviluppo del fenomeno sociologico definito come secolarizzazione.


Il sociologo inglese David Martin[4] individua alcuni fattori storico-geografici fonda­mentali sotto questo aspetto. Egli accenna alla relativa sicurezza


del protestantesimo inglese, nonché del protestantesimo nordeuropeo, protetto dalla gran­de distanza rispetto alle zone cattoliche più tipiche. A ciò occorre aggiungere l’influenza di altri fatti strategici: l’esito della guerra civile inglese (1642-1660), della rivoluzione americana (1776), di quella francese (1789), russa (1917), nonché della Riforma protestante in Svizzera e in Scozia e da ultimo la mancata rivoluzione politica nelle zone luterane (fatta eccezione per la Ger­mania dell’Est).


Da tutti questi avvenimenti derivano differenti modelli di se­colarizzazione. In quello americano prevale l’aspetto etico anziché quello relativo alle istituzioni ed alle credenze. Nel modello bri­tannico c’è un’erosione a livello istituzionale ma le credenze restano salde. Nel caso franco-latino vi è uno stretto rapporto fra politica e religione, con una diffusione del secolarismo che minaccia istituzioni e credenze. In Russia si assiste alla priva­tizzazione della fede religiosa, in seguito anche al massiccio con­trasto tra ortodossia marxista da una parte e istituzioni e/o credenze religiose dall’altra. Nel sistema calvinista poi c’è una parzia­le secolarizzazione dei principi morali, ma le istituzioni religio­se reggono meglio di quelle luterane e anglicane ma non di quelle cattoliche. Nel modello luterano solo il connubio secolarismo-marxismo riesce a scalfire le istituzioni religiose. Nel contesto latino-americano infine vi è un incontro tra socialismo/comunismo e religione.


Ma come definire in termini correnti il fenomeno della secola­rizzazione? In questo ci aiuta Charles West[5], il quale sostiene che “la secolarizzazione è la sottrazione di settori della vita e del


pensiero al controllo del religioso e del metafisico, e il tentativo di comprendere quei settori e di viverci in termini che rispondono a ciò che essi sono in se stessi”. Questa spiegazione non si discosta molto, in sostanza, dall’uso del termine “secolarizzazione” in vista della pace della Westfalia. Ancora oggi infatti secolarizzazione significa togliere qualcosa al predominio ecclesiastico, con la sola differenza che mentre nel passato si trattava di beni materiali ora invece l’oggetto del trasferimento è costituito da aspetti più impalpabili ma anche più influenti quali sono i valori, i principi dell’azione, gli orientamenti di vita, le scelte etiche, gli atteggiamenti ideologici. La vec­chia frase usata durante la rivoluzione francese “tutti i beni ecclesiasti a disposizione della nazione” oggi va intesa nel senso che i setto­ri appartenenti un tempo all’egemonia della chiesa (morale, politica, economia, ecc.) passano nelle mani stesse dei cittadini che provvedono in prima persona ad assumere decisioni ed a stabilire le azioni considerate più opportune in campo familiare, comunitario e statale.


Secolarismo e secolarizzazione


È importante sottolineare quali siano le convergenze e le diffe­renze fra secolarismo e secolarizzazione[6]. Di quest’ultimo termine si è indicata in qualche modo, e per così dire, la data di nascita (1648). Per secolarismo invece la questione è più complessa ma almeno si può far riferimento a George Jacob Holyoake[7] che nel 1846 fondò la Londoner Secular Society. L’idea del fonda­tore di tale società fu che si potesse fare completamente a meno della Chiesa e della religione. Egli parlò infatti del secolarismo come filosofia pratica del popolo. E si battè per l’emancipazione assoluta da ogni forma religiosa, sostenendo che gli affari non pertinenti alla chiesa andassero trattati come completamente secolari. Il suo obiettivo fu pertanto di diffondere il secolarismo ad ogni possibile livello: nelle scuole, nella politica, nella cultura.


Tale azione non fu senza conseguenze, come spiega A. J. Nijk[8] che sintetizza compiutamente la questione: “nella introduzione del termine séculariser vi sono aspetti che ci ricordano la parte che ebbe la parola séculariser nelle trattative di Westfalia. Anche nel termine séculariser è racchiuso sia un attacco alla religione dominante sia un riconoscimento di essa. Il termine suggerisce da una parte che ci sono vasti settori della vita umana nei quali si tratta soltanto di cose ‘secolari’ e non c’entra affatto la confessionalità, dato che la religione si occupa di cose che trascendono la sfera secolare. Con ciò non solo il profano diventa più profano, ma anche lo spirituale diventa più spirituale”.


Dunque si riconosce il valore della religione dominante, tan­to che Holyoake ebbe anche ad affermare che il secolarismo non comporta necessariamente un atteggiamento ostile verso la teolo­gia. Ma i suoi seguaci superarono tale posizione e resero più conflittuale il loro atteggiamento nei confronti della religione, considerandola in ogni caso un inganno.


Poste queste premesse, la conseguenza è stata che successiva­mente ogni forma di secolarismo sia stata avversata dalle Chiese cristiane, che hanno visto in esso un fenomeno pericoloso. Ma col passar del tempo anche nei confronti del secolarismo si sono registrate prese di posizione più caute.


La teologia della secolarizzazione


Proprio a partire dalla differenza fra secolarizzazione e se­colarismo il teologo Friedrich Gogarten, in un suo saggio del 1953[9], riconobbe alla secolarizzazione un ruolo positivo, in quanto modalità per conoscere il mondo nella sua realtà con­creta. Anzi la secolarizzazione era da considerare, secondo lui, uno sbocco naturale della religione, perché la natura stessa del cristianesimo impone il rapporto con il mondo. Il secolarismo sarebbe invece la degenerazione della secolarizzazione. Ma questa, mantenuta entro certi limiti, consente di vivere la propria fede pure in un contesto profano.


Dice Lübbe[10] in proposito: “il fatto di considerare la secolarizzazione come una condizione e una conseguenza della fede rendeva più facile alla chiesa il compito di ‘ammodernarsi’ nella sua veste esteriore”. In altri termini, e per fornire una im­magine esemplificativa, la secolarizzazione appare come uno strumento, quasi un cordone ombelicale che permette di formare e alimentare qualcosa che è differente ma non del tutto estraneo. La recisione, il distacco di tale cordone dà luogo al secolarismo, cioè all’allontanamento definitivo dalla “madre Chiesa”.


Gogarten non si limita a queste affermazioni ed è ancora più esplicito. Per lui la secolarizzazione sta ad indicare anche la libertà del cristiano nel mondo contemporaneo. Ciò significa in pratica che il credente è libero di rinunziare all’ipotesi di una cristia­nizzazione della politica attraverso la creazione di un partito cristiano che abbia come obiettivo una strutturazione della società secondo principi rigidamente confessionali.


Precisa inoltre Lübbe: “il compito della fede in rapporto al mondo è dunque quello di vegliare affinché nelle sue istituzioni e nei suoi ordinamenti secolari ci sia posto per quel senso dell’umano che è minacciato dalla pretesa totalitaria di dominio politico e sociale delle varie ideologie…, compresa la cristiana”. Così il mondo secolare risulta legittimo e la Chiesa può aprirsi ad esso senza molte remore.


In verità ancor prima di Gogarten un altro teologo aveva aperto la strada a tale interpretazione: Dietrich Bonhoeffer[11] con la sua “interpretazione non religiosa dei concetti biblici in un mondo diventato adulto”. La sua convinzione profonda è che si debba vivere co­me se Dio non ci fosse[12]: “non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere come uomini che sanno cavarsela con una vita senza Dio. Iddio che è con noi è Iddio che ci abbandona (Vangelo di San Marco, capitolo l5, versetto 34). Davanti a Dio e con Dio noi viviamo senza Dio. Dio si lascia spingere fuori dal mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e proprio e soltanto così è con noi e ci aiuta”.


Vi è quasi una difesa della secolarizzazione da parte di Bonhoeffer che se la prende con certi teologi nemici giurati di ogni elemento secolare, di ogni realtà del mondo profano. Egli considera i loro interventi senza senso, poco nobili e poco cristiani. E si esprime con queste puntuali riflessioni in proposito: “senza senso, perché mi pare il tentativo di riportare uno che è diventato uomo al periodo della pubertà, cioè di renderlo dipendente da cose dalle quali di fatto egli non dipende più, di imporgli dei problemi che di fatto per lui non sono più problemi. Poco nobile, perché si cerca di approfittare della debolezza d’un uomo per fini a lui alieni, da lui non liberamente accetta­ti. Poco cristiano, perché si scambia Cristo con un determinato gradino della religiosità dell’uomo, cioè una legge umana”.


Un altro contributo importante per un approccio non negati­vo nei confronti della secolarizzazione è quello del vescovo in­glese John A. T. Robinson[13], autore nel 1963 di Honest to God (tra­dotto poi in italiano col titolo Dio non è così). Secondo questo teologo “ciò che oggi si richiede… è una revisione ben più ra­dicale, che non esiti ad affrontare rinnovandole, anche le cate­gorie fondamentali della nostra teologia, come i concetti di Dio, di soprannaturale, e perfino di ‘religione’… Vi è ormai una frattura, sempre più ampia, tra il tradizionale soprannaturalismo or­todosso e le categorie che il mondo ‘laico’… reputa valide e vitali… Molti cristiani si trovano dalla parte di quelli che non lo sono e… fra i nostri amici non cristiani molti sono ben più vicini al Regno dei Cieli di quanto essi stessi probabilmente immaginano. Essi pensano infatti di aver rifiutato il Vangelo, ma in realtà hanno respinto soltanto una concezione del mondo che, giustamente, ritengono ormai inaccettabile”.


Nel corso della storia religiosa molti concetti si sono così logorati sino a non significare quasi nulla per molti uomini. Per que­sto occorrerebbe una revisione, una reinterpretazione di tali termi­ni di riferimento. La lettura tradizionale del Vangelo non appare più soddisfacente; sono necessari nuovi schemi interpretativi; va auspi­cata una diversa sensibilità umana, più secolare.


Due anni dopo il fortunato volume di Robinson esce The Secular City (La città secolare) di Harvey Cox[14], un libro che ha segnato un’epoca, quella della riflessione – non solo teologica – sulla secolarizzazione. Indubbiamente il successo di quest’opera – non paragonabile affatto al più difficile e complesso saggio (1963) di Paul van Buren[15] dal titolo The Secular Meaning of the Gospel (Il significato secolare del Vangelo) – è dovuto non solo ad una certa novità del discorso sulla secolarizzazione quanto piuttosto al felice intreccio creato con un’altra importante tematica sociologicamente rilevante quale è quella dell’urbanizzazione ed in particolare della cosiddetta tecnopoli.


Cox ritiene che Dio stesso non sia interessato alla Chiesa ed alla religione ma in primo luogo al mondo ed alla politica. A suo giudizio la soluzione migliore è “stare con un piede nell’Antico Testamento e con l’altro nella lotta politica del nostro tempo”. Non si deve perciò partire dalla Chiesa per andare nel mondo, ma cominciare da quest’ultimo per giungere poi alla Chiesa e capire il suo ruolo nel mondo.


Il teologo battista di Harvard pensa inoltre che la scomparsa delle re­ligioni, nella loro forma tradizionale, è l’ultimo ostacolo oltre il quale i cristiani potrebbero presentarsi al mondo con un volto nuovo, nella realtà secolarizzata che ha l’uomo come protagonista.


La secolarizzazione altro non sarebbe allora che la lotta contro gli appesantimenti e le scorie di ordine metafisico, trascenden­te. L’uomo va liberato da tutto ciò, come già avvenne con la creazione, l’esodo, l’alleanza sul monte Sinai.


Lungi dall’essere un esponente della cosiddetta “teologia della morte di Dio”, che ha spesso accompagnato il dibattito sulla secolarizzazione, lo studioso statunitense considera innegabile la presenza di una realtà superiore all’uomo, nonostante la continua caduta di miti e di simboli sacri che caratterizza la società contemporanea.


La storia è concepibile allora come opera dell’uomo e non più come fatalità; il mondo stesso è il campo di azione degli uomini secolarizzati le cui prospettive di azione sono totalmente “profane”.


Nonostante l’affossamento di molti valori religiosi, la se­colarizzazione e la crescente urbanizzazione non porterebbero al crollo del cristianesimo. In particolare “la secolarizzazione, fenomeno caratteristico dell’epoca, segna un mutamento nella maniera in cui gli uomini concepiscono e intendono la loro vita in comune, e si è verificato solo quando le possibilità di confronto cosmopolita offerte dalla vita delle grandi città hanno reso evidente la relatività dei miti e delle tradizioni che gli uomini un tempo ritenevano indiscutibili”.


L’uomo secolare inoltre pensa l’universo come la sua città, da cui è scomparsa ogni forma di religione. In effetti “l’uomo contemporaneo è divenuto il cosmopolita, il mondo è divenuto la sua città e la sua città si è estesa fino ad includere il mondo. Il nome del processo mediante il quale ciò è avvenuto è ‘secolarizzazione’”. Per di più proprio la “secolarizzazione è l’uomo che distoglie la sua attenzione dall’oltremondo e la rivolge a questo mondo e a questo tempo (saeculum = ‘questo tempo presente’)”.


L’immersione nel secolo consente al cristiano di continuare a nutrire la sua speranza per il futuro. E questo avviene anche al di là dell’insistenza di taluni teologi ancora propensi a parlare di Dio solo in termini metafisici, dunque con un linguaggio del tutto inadeguato agli uomini di un’era secolarizzata. Cox invece propone di parlare di Dio come protagonista della storia della metropoli secolare.


Questo autore non è chiaramente un sociologo ma la sua attenzione al dato sociale è tipicamente sociologica e denota una solida capacità di analisi. Forse la sua visione appare piuttosto ottimistica, ma non manca di cogliere nel segno, almeno negli aspetti di carattere generale. Qualcuno lo ha persino accusato di “ingenuità sociologi­ca”, ma certo non sarebbe stato facile per questo teologo districarsi abilmente fra la lunga serie di teorie sociologiche sul fenomeno della secolarizzazione.


La sociologia della secolarizzazione


L’analisi sociologica della secolarizzazione ha visto una folta schiera di studiosi impe­gnata sul tema. Renderne conto in breve è un’impresa quanto mai ardua. Per questo è più opportuno partire da qualche tentativo di sintesi del discorso, in modo da coglier­ne gli aspetti essenziali. Uno degli approcci più attenti e riu­sciti per definire secondo categorie sociologiche il processo di secolarizzazione si deve a Larry Shiner[16], che esamina sei ambiti concettuali.


Il primo contesto riguarda il venir meno della religione, che perde vieppiù significato dato che i suoi simboli e le sue istituzioni non farebbero adeguata presa sulle masse.


La seconda categoria si riferisce all’adattamento delle Chiese al mondo, con una attenzione maggiore ai problemi morali del presente. Le nuove condotte di vita avrebbero cancellato gli schemi tradizionali di comportamento, favorendo al massimo soluzioni di tipo concreto, pragmatico, operativo.


Il terzo tipo ha a che vedere con l’allontanamento stesso della società dalla religione: si cerca così un’autonomia di azione nel settore pubblico, ritenendo la credenza tutt’al più un fatto privato, individuale, non influente. La religione non può eserci­tare quindi alcun potere in campo profano. Pure la filosofia e la scienza acquistano una propria dimensione che prescinde da premesse di fede.


A proposito del quarto significato della secolarizzazione Shiner parla di un superamento della interpretazione solo religiosa di tutta la realtà. L’uomo secolare si rende conto di essere il protagonista del suo mondo e contesta la fondazione divina di strutture e istituzioni sociali. La religione viene pertanto antropologizzata, cioè ridotta a misura umana. Il caso più esem­plare è dato dall’analisi di Max Weber sull’etica prote­stante[17], la cui secolarizzazione avrebbe favorito lo sviluppo dello spirito capitalistico.


L’eliminazione di ogni intrusione a livello di mistero e di mito caratterizza la quinta alternativa. La società appare desacralizzata, poiché tutto è spiegato in chiave razionale, causale, senza rimandare al carattere sacrale della vita umana. Così il mondo subisce un’opera di disincantamento, che libera l’uomo dalla sudditanza verso ciò che è ritenuto sacro.


L’ultima categoria si ricollega al mutamento sociale, che registra il passaggio dalla società di tipo sacrale a quella secolarizzata. Quanto più la società è razionale e utilitaristica tanto più essa si secolarizza.


Queste sono le linee generali del fenomeno, lungo le quali numerosi cultori di scienze sociali si sono mossi con proposte teoriche e tentativi di verifica empirica.


La teoria più nota e discussa è senz’altro quella di Thomas Luckmann[18] sulla “religione invisibile”, non istituzionalizzata, priva di qualsiasi modello uf­ficiale. In particolare sarebbero alcuni “nuovi temi” a stabilirsi come alternative immediate alla religione tradizionale. Essi sono soprattutto l’autonomia individuale, l’auto-espressione, l’auto-realizzazione, la sessualità, il familismo, il tempo libero. Questi spazi del vissuto sociale si sono resi sempre più autonomi nei confronti del sistema religioso sicché “il declino della religione ecclesiastica tradizionale può essere visto come una conseguenza della diminuita rilevanza dei valori (istituzionalizzati nella reli­gione ecclesiastica) favorevoli all’integrazione e alla legittimazione della vita quotidiana nella società moderna”[19].


Ma erosa la struttura istituzionale religiosa emerge una nuova forma sociale di religione. Scomparsi i valori sacri tradizionali altri significati si affacciano sulla scena sociale. Il nuovo cosmo sacro è dato appunto dai nuovi temi “religiosi”, di cui si è già detto. Senza più alcun modello ufficiale da seguire, la scelta avviene fra elementi diversi non riconducibili alle forme religiose preesistenti. Questo nuovo sistema di valori assolve la stessa funzione della religione di vecchio tipo. Si tratta inoltre di un fatto sempre più interiorizzato ma presente, una sorta appunto di “religione invisibile”.


Anche in Italia il dibattito sulla secolarizzazione è stato piuttosto vivace. Lo spunto iniziale è venuto, sin dal 1961, a partire dal volume di Sabino Acquaviva[20] su L’eclissi del sacro nel­la civiltà industriale, una ricerca a livello internazionale basa­ta soprattutto sulla pratica religiosa, cioè sul numero di coloro che andavano a messa e assolvevano altri obblighi rituali. L’au­tore ha in più luoghi ed in diverse occasioni modificato il suo punto di vista sulla secolarizzazione ma, pur fra dubbi ed incer­tezze[21], la sua ipotesi è che “l’eclissi del sacro è connessa con una svolta nello sviluppo della società e della psicologia umana, come tale non può essere considerata contingente, ma destinata a trascinare nella rovina, temporanea o definitiva che sia, una serie di tradizioni, di culture, di valori religiosi”.


Su posizioni diverse si è collocato successivamente Franco Ferrarotti[22]. Questi rifiuta ogni tentativo di operare suddivisioni dicotomiche nella realtà sociale, per esempio fra razionale e irrazionale, fra sacro e secolare e così via. A suo giudizio dietro que­sto modo di procedere si cela il desiderio di mantenere la situazione esistente e di “aggredire” ogni possibile sviluppo diverso, nuovo, non ortodosso. Richiamandosi a Weber ed al suo superamen­to di ogni contrapposizione netta, Ferrarotti accusa di etnocentrismo, e di eurocentrismo nella fattispecie, le tesi sulla secolarizzazione quasi sempre impostate tenendo conto del contesto europeo, occidentale, se non solamente cattolico e italiano. Pertanto “lungi dall’essere in eclissi, il ‘sacro’ mostra di ave­re una funzione sociale vitale, benché complessa e di ardua interpretazione. Nuove forme di razionalità premono dietro la facciata chiusa e dogmatica delle strutture istituzionali formali della tradizione. Solo un ragionare dicotomico e aprioristico può espungerle ed esorcizzarle come ‘opera del demonio’. La crisi della religione di chiesa e l’eclissi del sacro come materia prima amministrata dalle strutture ierocratiche formali non toccano, anzi paradossalmente stimolano il sorgere e l’affermarsi di nuove forme associative di base, extra-ecclesiali ed anti-ecclesiali, in cui si va riscoprendo nel profondo l’esperienza religiosa come religiosità personale, contatto irriducibile del singolo con l’extra-quotidiano, 1’‘irruzione di grazia’ come dono non mediato, carisma gratuito, razionalmente inesplicabile ma non per questo privo di sue funzioni razionalmente intellegibili e socialmente importanti”.


La religione-di-chiesa non esaurisce perciò tutte le pos­sibilità del sacro, giacché altre esperienze, personali e responsabili, sembrano contraddire le tesi della secolarizzazione. Ferrarotti conclude sostenendo la possibilità di una concezione non religiosa del sacro, per cui non vi sarebbe un’eclissi del sacro dato che “la crisi della razionalità burocratico-funzionale allarga lo spazio del sacro, lo esalta come alternativa, occasione e strumento di sopravvivenza umana”.


E non è neppure detto che la secolarizzazione qualora sia collegata ad esempio al fenomeno di urbanizzazione comporti sempre un declino della pratica religiosa. In alcuni paesi il numero dei credenti dichiarati è andato aumentando, con una maggiore diffusione della pratica festiva, dei matrimoni religiosi, della partecipazione in generale ai riti. È probabile che altre ragioni, non sempre di natura puramente socio-religiosa, abbia­no influito su tale fenomeno, tuttavia è importante rilevare come la crescita delle città – fattore tipico di secolarizzazione – può persino favorire un più intenso attaccamento alle forme re­ligiose tradizionali, specie fra le religioni minoritarie in ambiti dove prevalgono altre religioni più diffuse e storicamente consolidate[23].


Ciò può avvenire anche in taluni contesti (per esempio negli Stati Uniti ma anche a Roma) dove le città pullulano di gruppi e movimenti religiosi con un pluralismo di esperienze che non fanno certo pensare ad un declino della religione. Vi è persino chi asserisce che “una base essenziale per il rapido sviluppo della Chiesa in America nella nostra epoca è la crescente secolarizzazione della società americana” (David O. Moberg[24]), precisando che i membri stessi delle Chiese sono fautori e protagonisti del pro­cesso di secolarizzazione. Anche Howard Becker[25] sin dagli anni ‘50 aveva parlato della secolarizzazione come via per una rinascita della religione. Nonostante queste ipotesi e verifiche, non mancano in verità altre risultanze che inducono a credere che la società contemporanea ritenga sempre meno indispensabile la religione.


Il fatto è che il concetto di secolarizzazione è multidimensionale, ha cioè molte particolarità di uso, come è stato soste­nuto (1981) nel più completo studio sul fenomeno, curato da Karel Dobbelaere[26], il quale ha consultato ben 248 pubblicazioni al riguardo, in una rassegna internazionale di teorie e ricerche sulla secolarizzazione, che vanno dal Belgio agli Stati Uniti, dalla Francia all’Italia, dal Giappone ai paesi dell’est europeo.


Dobbelaere rileva una prima significativa peculiarità. Il termine secolarizzazione è usato più spesso nella lingua tedesca, italiana, olandese e inglese che non in quella francese, dove di solito si preferiscono altri termini quali “laicizzazione”, “scristianizzazione”, “mutamento religioso”.


È davvero uno strano de­stino quello di questo concetto. Nato come tale proprio in lingua francese (per opera del già citato Monsignor duca di Longueville, inviato per le trattative preliminari della pace della Westfalia), il lemma viene continua­mente surclassato da altri sinonimi. La spiegazione è forse nel fatto che esso è troppo ambiguo, abbastanza carico di significati, assai impreciso per poter essere utilmente adoperato senza dar luogo ad equivoci.


Al di là di questa riserva di fondo, è comunque possibile rintracciare, con Dobbelaere, varie dimensioni del concetto, che pertanto si presenta con una connotazione appunto pluridimensionale.


Innanzitutto la secolarizzazione appare connessa ad un processo di autonomizzazione delle istituzioni sociali, le quali si diversificano fra loro e assumono – ciascuna per sé – un proprio cosmo sacro, non più unico per tutte le realtà sociali. In tal modo la religione, pur non cessando di essere anche un’istituzione, si trova sullo stesso piano di altre forme di organizzazione sociale, senza avere più l’egemonia esercitata nel passato. È questa la laicizzazione delle istituzioni sociali.


Un altro fenomeno legato al concetto di secolarizzazione è quello della riduzione del numero del fedeli praticanti e degli iscritti ad associazioni di ispirazione religiosa, insieme con il calo di credibilità delle istituzioni religiose e delle loro dottrine. Questi risultati si avrebbero in conseguenza del già ricordato processo di laicizzazione, che in questo caso prende il carattere di scristianizzazione. È un indebolimento, in realtà, dell’integrazione e dell’appartenenza religiosa.


Vi è poi da spiegare il caso, citato sopra, degli Stati Uniti (ma anche di altri paesi) in cui la società appare abbastanza secolarizzata nel senso di una laicizzazione delle istituzioni sociali ma nello stesso tempo risulta anche fra le meno secolarizzate dal punto di vista della pratica religiosa (mettendo altresì in evidenza la cosiddetta eccezione europea[27]). Per superare tale contraddizione si è anche parlato di una “secolarizzazione interna” o dall’interno. Si tratterebbe in pratica di un mutamen­to religioso che si attuerebbe nel solco stesso del fatto fidei­stico, senza dar luogo a gravi fratture, anzi favorendo un recu­pero sostanziale dei livelli di credenza.


La secolarizzazione in Italia, a partire da un’analisi sulla realtà giovanile del passato


Di solito si guarda ai giovani per scoprire quali siano le tendenze in atto nella società. Anche nel campo dell’analisi socio-religiosa applicata alla secolarizzazione sono stati condotti numerosi studi per accertare quale sia lo sviluppo delle credenze, della pratica, dei comportamenti, degli atteggiamenti. Un confronto intergenerazionale, poi, consente di fare comparazioni fra andamenti registrati alcuni lustri fa e la situazione attuale, in modo da individuarne convergenze e divergenze, evidenze e latenze.


Una vasta indagine sulle classi di età giovanile, abbastanza anticipatrice di futuri sviluppi, era stata condotta da Giancarlo Milanesi e completata nel 1981. I ri­sultati vennero raccolti nei due volumi che hanno per titolo Oggi credono così[28]. La ricerca era iniziata nel 1977 ed aveva interessato tre campioni di giovani dai l8 ai 25 anni, con un primo insieme di 4020 soggetti appartenenti a 320 gruppi. Un secondo campionamento aveva riguardato 905 giovani non appartenenti ad alcuna organizzazione. Altri 50 avevano poi raccontato la loro “storia re­ligiosa”. Da tutto questo universo erano emerse alcune indicazioni in tema di secolarizzazione.


Un primo dato riguardava la “domanda di religione”, che apparve piuttosto scarsa nell’ultima generazione di allora. Solo il 9% dei giovani legati a qualche forma di associazionismo e meno dell’1% di tutti gli altri dichiararono esplicitamente di sentire un bisogno religioso. Anche i “valori religiosi” non attraevano molto, perché al meglio interessavano meno del 20% degli intervistati.


Il far parte di un’associazione sembrava aiutare lo sviluppo della componente religiosa, che in verità era assente in media fra il 67% e l’85% dei casi. Prevalevano invece i temi di portata personale (cioè autonomia, autorealizzazione, individualismo) e di carattere solidale ristretto (cioè famiglia, gruppo di amici, compagni di scuola). Anche la “domanda di religione” risentiva di queste condizioni.


Il “vissuto religioso” come tale offriva invece risultati più consistenti. La pratica religiosa aveva una certa diffusione e confermava un attaccamento alle forme tradizionali di religiosità. Il che smentiva le ipotesi di una larga presenza di nuove aggregazioni reli­giose.


Persino fra i non affiliati a nessun tipo di aggregazione la pratica regolare della messa toccava percentuali non trascurabili (il 26%), se si considera che non si discostavano molto dal­la media generale della popolazione.


Al contrario il senso di appartenenza alla Chiesa era piuttosto debole e talvolta problematico. Ciò si manifestava soprattutto nella mancata adesione all’insegnamento ecclesiale in materia di morale sessuale, campo in cui il 70% dei giovani non accettava la visione del magistero ecclesiastico.


In definitiva si trattava di una religiosità giovanile piuttosto soggettivizzata e frammentaria, privatizzata e soprattutto incoerente perché faceva registrare diversità notevoli fra credenza e pratica. 


Così concludeva l’autore del vasto studio empirico: “esiste tra i giovani di questa generazione un’esplicita domanda di religione, anche se essa non si può considerare maggioritaria; il ‘ritorno al sacro’ e la ‘ripresa della religione’ sono fenomeni rilevanti più sul versante qualitativo che su quello quantitativo, cioè più per quello che viene espresso dal bisogno di protagonismo e di radicalità evangelica dei pochi che per quello che viene evidenziato nel tradizionalismo religioso della maggioranza relativa dei praticanti”.


La religiosità secolare diffusa


Si deve ad Ulrich Beck[29] l’aver corso il “rischio” di una nuova proposta interpretativa della diffusione della religione sotto forma di esperienza di un Dio personale. In fondo anche in questo caso si tratta di un effetto indesiderato, che però ha una sua rilevanza sociologica. Chi vuole sottrarsi alle gerarchie, ai dogmi, alle pratiche, alle credenze ufficiali, alle valutazioni ideologiche, all’autoritarismo delle strutture stabilizzatesi nel tempo, si costruisce un suo modo di essere religioso (o non religioso) – che nondimeno si rapporta alla religiosità proposta da Chiese e da movimenti e gruppi, da comunità ed organizzazioni – e fa i conti con le verità pretese e propagate dalle diverse confessioni religiose, sia a livello locale che globale. L’opzione che ne deriva, quella di un Dio personale, sembra molto funzionale alle esigenze individuali di attori sociali alle prese con problematiche molteplici e complesse, rischiose ed imprevedibili, che non sempre trovano risposte adeguate nelle ricette proposte dalle religioni storiche, tradizionali, consolidate.


Si apre così uno scenario che fa intravedere un caleidoscopio di variazioni sul tema religioso, non necessariamente in conflitto fra loro e neppure con i modelli classici, che tuttavia restano sullo sfondo a rappresentare un orizzonte a largo raggio, dove continuano ad operare sistemi di socializzazione più o meno efficaci nei risultati. Questi utlimi seppure sembrano ridursi nel tempo restano comunque influenti, magari a distanza di anni ed in circostanze-chiave a livello esistenziale.


Il precipitato storico di tutto questo è il ritorno di una sorta di politeismo di matrice weberiana[30] ma riproposto da Beck secondo la chiave interpretativa di un individualismo religioso che sfocia in un duplice orientamento, favorevole sia alla soluzione religiosa sia alla sua negazione, senza rinunciare per questo alla ricerca di una trascendenza, presumibilmente declinabile anche per categorie fra loro differenziate, secondo la lezione offerta da Luckmann[31].


E qui l’intento di Beck pare congiungersi appunto con quello di Luckmann[32], per cui l’“individualizzazione della religione” di Beck quasi coincide con l’idea della religione cosiddetta “invisibile” di Luckmann, basata su “temi religiosi moderni” da considerare tipicamente individuali per il riferimento, come già ricordato, alla sfera privata, all’autonomia, all’indipendenza, all’autoespressione, all’autorealizzazione, alla sessualità, al familismo, alla mobilità personale.


La morte invece si sottrae a questo genere di considerazioni e non viene fatta rientrare nel novero di ciò che si qualifica come “significanza ultima”, attribuita piuttosto al mondo privato, individuale. Sulla medesima lunghezza d’onda pare muoversi Beck, che a sua volta ha dovuto scontrarsi con la realtà dell’evento ultimo proprio un anno prima di queste riflessioni sul suo pensiero (è venuto a mancare il 1° gennaio 2015).     


Occorre dire che per Beck l’individualizzazione della religione si presenta come un paradosso, giacché la religione promuove memoria, rinsalda legami, favorisce identità collettive, diffonde riti fortemente socializzanti. Ma è dalla stessa religione che prende le mosse l’individualizzazione, in quanto essa si fonda sulla fede del singolo soggetto e sulla sua libertà di scelta.


La stessa promessa di una vita eterna come forma di sconfitta per la morte fisica è definita da Beck un’invenzione inquietante ed isolante al medesimo tempo. Inoltre essa è una sorta di esame che conduce o meno alla vita eterna, secondo il tipo di vita vissuto. Conviene sottolineare, ad ogni buon conto, che l’individualizzazione della religione quando e se approda alla religiosità del Dio personale non solo è ben diversa dall’individualizzazione nella religione protestante di cui parla Weber[33] ma potrebbe peraltro creare problemi alle forme religiose istituzionalizzate, a meno che queste ultime non cerchino soluzioni di compromesso, adattamento, conciliazione.


Per rendere ancora più esplicita la sua lettura della realtà religiosa Beck propone dieci tesi fondamentali che ben si attagliano al tema della religione diffusa[34]: in primo luogo la diffusione della fede religiosa è direttamente proporzionale alla presenza di motivi di incertezza nei percorsi esistenziali; senza andare verso la scomparsa della religione, si affaccia all’orizzonte una nuova modalità anarchica di religione irrispettosa dell’esistente e delle sue norme abituali; l’individualizzazione della religione si collega a quella della società tutta: famiglie e classi e sociali; perdono rilevanza le immagini istituzionali, che cedono il posto a nuove parole ed a nuovi simboli; mentre cala la pratica religiosa si amplificano nuove forme più fluide, liquide, sfuggenti direbbe Bauman[35]; c’è una privatizzazione della religione ma allo stesso tempo essa recupera terreno nello spazio pubblico (Casanova[36]); la cosiddetta verità religiosa si trasforma sia a livello istituzionale che individuale; la religione individualizzata ripercorre i medesimi sentieri simbolici della sfera religiosa istituzionale in un evidente continuum sostanziale; lo stesso Dio personale giunge al termine di un itinerario che è stato istituzionale, tradizionale, quasi senza soluzione di continuità con il passato; il futuro presenta vari scenari, tra i quali l’avversione alla religione individualizzata, l’affermarsi della religione nella sfera pubblica (Habermas[37]) ed una prospettiva inclusiva di ciascuna religione, che si mette in relazione con le altre confessioni, ne riconosce l’apporto ed accetta un confronto continuo ed aperto.


In tal modo le religioni acquisiscono una cittadinanza universale mai sperimentata prima. La maggiore diffusività delle religioni legittima poi la stessa espressione di “universalismo religioso” e conferma la propensione segnatamente cattolica (ma non solo tale) verso il cosmopolitismo.


Ancora una volta il processo di secolarizzazione mostrerebbe dunque il verificarsi di un andamento inverso rispetto a quello prospettato di solito. Del resto è un proprium della religione superare i confini, debordare, allargarsi.


La diatriba teorica


Fra gli studiosi della secolarizzazione vi è chi pensa ad una totale riduzione dell’importanza della religione nell’ordine sociale (Bryan Wilson[38]). Pertanto le chiese sarebbero in declino, specie nel mondo occidentale. Tale incremento della secolarizzazione sarebbe da spiegare pure con la crisi del senso comunitario e l’aumento




i

 della mobilità sociale e della impersonalità dei rapporti interpersonali. Né sarebbe da credere che i nuovi culti, soprattutto fra i giovani, abbiano particolare rilievo e influenza. Essi sarebbero piuttosto marginali e non del tutto significativi.


Altri autori parlano invece di una persistenza della religione, anzi si dicono certi della sua sopravvivenza (G. Baum[39]): “la nuova esperienza religiosa dell’umanità, così largamente diffusa tra diversi gruppi, ha rivelato una notevole vitalità sociale ed è diventata una  sorgente di rinnovamento entro le Chiese cristiane. Sta qui il segno che indica lo sviluppo futuro della religione”.


Per altri scienziati sociali la questione della secolarizzazione si pone in termini ancora più problematici, sulla base dell’osservazione che ad una teorizzazione del fenomeno pur ampia e convincente non sempre corrisponde un’adeguata verifica empirica con dati probanti. La secolarizzazione altro non sarebbe allora che una specie di mito sociale – dice Peter E. Glasner[40] – costruito e sostenuto da motivi ideologici.


Una chiarificazione di carattere generale viene da Talcott Parsons[41]: “se il concetto di secolarizzazione ha un significato generale, esso probabilmente è quello di un mutamento…


Nel mondo occidentale, e specialmente nelle cerchie religiose, il concetto è stato ampiamente inteso come un cambiamento a senso unico, cioè come il sacrificio di esigenze, obblighi e impegni religiosi a favore di interessi ‘secolari’. Non si dovreb­be tuttavia dimenticare l’altra possibilità, e cioè che l’ordine ‘secolare’ possa mutare nel senso di una maggiore approssimazione ai modelli normativi forniti da una religione, o più in generale dalla religione”. In termini più espliciti e con riferimento fra l’altro al contesto nordamericano Parsons puntualizza: “io assumo in parte una posizione deliberatamente paradossale quando attribuisco al concetto della secolarizzazione ciò che spesso è stato ritenuto il suo contrario, e cioè non la perdita di devozione nei valori religiosi e simili, ma l’istituzionalizzazione di tali valori e di altre componenti dell’orientamento religioso in sistemi socio-culturali in evoluzione”. La secolarizzazione sarebbe in pratica l’istituzionalizzazione di categorie religiose nel mondo profano. Tuttavia – aggiunge ancora Parsons – “i ‘modelli’ vecchi non scompaiono, ma continuano a funzionare, anche se in forma modificata, il che spesso significa entro limiti più ristretti di prima”.


Piuttosto contrario alla teoria della secolarizzazione è infine Robert N. Bellah[42], il quale esprime l’opinione che “la reli­gione, anziché divenire sempre più periferica e obsoleta, stia tornando al centro delle nostre preoccupazioni culturali”.


Ma, al di là di queste ipotesi, sono ancora molti gli interrogativi che restano aperti. La secolarizzazione, in generale, è un fenomeno irreversibile? È proprio vero che ogni forma religiosa è destinata a finire? Anche per il sacro vale lo stesso discorso?


Sostiene Luca Diotallevi[43], attento e costante osservatore ed analista della religione e della religiosità in Italia: “il mutamento in corso è tanto radicale che anche laddove si ripercorre la strada della riproposizione di modelli di religiosità confessionale o non confessionale lo si fa con la consapevolezza di proporre qualcosa di non scontato e se ne affida il successo non ad una superiore legittimità ma al gradimento del pubblico. Anche le autorità religiose ecclesiastiche accettano l’assioma che l’offerta di una religiosità confessionale o neo confessionale per avere una qualche chance di successo deve avvenire in  forme simili a quelle con cui viene proposta la religione post- ed anti-confessionale. Anche in campo religioso il ‘vecchio’ deve essere riproposto come il ‘nuovo’, divenendo esso stesso qualcosa di diverso dal passato e dunque qualcosa di ‘nuovo’”. In tal modo il sociologo dell’Università Roma Tre traduce l’idea di “religione a bassa intensità” (low intensity religion) di Bryan S. Turner[44], secondo il quale vi sarebbe un adattamento della religione alle modalità dello stile di vita contemporaneo ovvero una commodification (propensione alla commercializzazione ed alla mercificazione) rispetto alla cultura consumistica segnatamente di matrice statunitense, già stigmatizzata da George Ritzer[45] con la sua ripresa weberiana della tesi sulla razionalizzazione, declinata emblematicamente nel sistema del fast food in chiave di predittività, calcolabilità, efficienza e controllo.                                                                         Qualcosa di simile è adombrato anche nella “teoria della scelta razionale” (rational choice theory) che, avallata in campo socio-religioso soprattutto da Rodney Stark[46], fa leva sull’idea di scambio e quindi di “compensatore” in quanto attesa di un compenso futuro, rinviato. I soggetti umani operano in base a scelte razionali, per cui soppesano e mercificano i “compensatori” secondo la propria convenienza del momento, appunto in base ad una scelta motivata, ragionata e perciò razionale, come superamento del modello tradizionale, ormai obsoleto ed inefficace.                                        In pratica la teoria della scelta razionale applicata al fenomeno religioso frena ed allontana sempre più la dinamica tendente alla secolarizzazione, mentre favorisce l’affermarsi della tesi sulla persistenza della religione, come sostituto funzionale del prestigio e del privilegio.                           Il tutto confluisce in un mercato religioso in cui i credenti sarebbero i clienti, le organizzazioni religiose sarebbero le aziende, pronte a servire il mercato, ovvero a fornire i prodotti adatti ad esso, facendo nel contempo crescere la domanda. Lo stesso pluralismo che ne deriva non indebolisce la religione ma la rinvigorisce. E soprattutto non sarebbe debole la domanda religiosa bensì l’offerta di provenienza ecclesiale.


La situazione italiana: i dati precedenti (fino al 2003)


In Italia è anche l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti a raccogliere e diffondere dati ed informazioni sull’andamento della religiosità e dell’ateismo (http://www.uaar.it/ateismo/ statistiche/religiosita/) sulla scorta di varie indagini. Fra le risultanze fornite dalla Fondazione Italiana per il Volontariato nel 2001 compare la percentuale di associazioni cattoliche di volontariato, scese dal 40,4% del 1993 al 36,3% del 1997; gli atei sarebbero aumentati dal 5,2% del 1987 (secondo un’indagine della Fondazione Agnelli, pubblicata nello stesso anno) al 18% del 2003; le coppie che usano metodi contraccettivi permessi dalla Chiesa cattolica passano dal 14% del 1980 al 5% del 1998; il tasso dei matrimoni civili è cresciuto dal 13,9% del 1985 al 26,8% del 2001; sono in decremento i messalizzanti regolari (ogni domenica), giacché sono il 36% nel 1981 (indagine European Value System, 1981), il 32,5% nel 1985 (indagine su I consumi culturali degli italiani, a cura dell’Università di Trento, 1985), il 29,8% nel 1987 (indagine della Fondazione Agnelli, 1987), il 25,8% nel 1999 (Rapporto ISTAT, 2000).


Il 69% degli italiani non condanna, o condanna poco, i rapporti sessuali prematrimoniali (studio IARD, 2000). Nel medesimo studio il 68,9% dei credenti attribuisce la propria fede all’ambiente di vita di provenienza. Ancora lo stesso gruppo degli intervistati dallo IARD dice di preferire, nella misura del 61%, un’unica religione con poche credenze condivise da cristiani, musulmani, buddisti ed altri e non ritiene, nel 58,5% dei casi, vi sia un’altra vita dopo la morte.


Una ricerca Eurisko del 2000 ha accertato che il 50% dei sacerdoti intervistati ritiene che “il prete non lo vuole fare più nessuno”.


Nel 2003 il 51,6% degli intervistati riconosceva ad una coppia gay il diritto di sposarsi con rito civile.


Un’inchiesta del Pontificio Consiglio della Cultura (2004)


In Italia la non-religione risultava toccare il tasso dell’8,9% nel 1995[47], cui si accompagnava un livello di religiosità assente per il 10,0% della popolazione intervistata. La non-religione riguardava l’11,4% degli uomini ed il 6,3 % delle donne. I tassi per classi di età andavano dal 12,3% (18-21 anni) al 12,8% (22-29 anni), per poi scendere al 10,0% (30-49 anni), 4,7% (50-64 anni) ed al 4,1% (65-74 anni). Un’indagine successiva[48] concerneva il pluralismo religioso e morale ed accertava una dichiarazione di cattolicità da parte del 97,5% degli intervistati, ma il 7,8% di essi era su posizioni negative rispetto alla religione. Se però si guardava all’appartenenza il 79,3% si diceva cattolico ed il 18,8% si dichiarava non appartenente ad alcuna religione.


I non-credenti in Italia hanno un carattere prevalentemente individuale. Sono pochi i gruppi organizzati di ateismo, non-credenza, indifferenza religiosa. Esistono movimenti miranti allo “sbattezzo”, cioè a far cancellare il proprio nome dai registri parrocchiali dei battezzati. La Chiesa cattolica italiana ha stabilito le norme per provvedere a questa cancellazione. La richiesta di “sbattezzo” viene, fra l’altro, dalla già citata Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.


Tra i fattori che alimentano la non-credenza è da annoverare una serie di atteggiamenti sfavorevoli alla morale cattolica, insieme con il rifiuto di subire costrizioni e controlli ideologici da parte della religione istituzionale.


Un ruolo decisivo è svolto dall’educazione religiosa. Sovente il suo peso poco rispettoso della libertà individuale può avere creato insofferenze nei riguardi di ogni forma istituzionalizzata e di ogni principio imposto dall’alto.


L’influenza, poi, della fine dei regimi comunisti non è facilmente valutabile. Forse un peso maggiore può essere esercitato dalla globalizzazione con le sue aperture verso altri mondi ed altre realtà non tradizionali.


L’opposizione più marcata è quella di soggetti già credenti e già praticanti che però ad un certo punto della loro vita hanno deciso di prendere le distanze dalla Chiesa cattolica e dalla credenza religiosa. Va sottolineata, fra l’altro, la forte resistenza in ambito universitario, statale e laico, verso l’attivazione di insegnamenti a contenuto religioso, pur in una prospettiva essenzialmente scientifica.


Nonostante qualche dichiarazione altisonante di sociologi poco avvertiti, la fenomenologia dei nuovi movimenti religiosi è abbastanza contenuta in termini numerici e scalfisce poco la religione cattolica dominante in Italia. Si tratta di situazioni marginali alle cui origini sono vicende del tutto singolari legate a caratteristiche individuali e non invece di cultura generalizzata. Poiché è difficile accertare la reale portata di questi movimenti, se ne deduce che non rilevandosi fatti eclatanti e vistosi le linee di tendenza in atto siano piuttosto stazionarie, senza incrementi e senza decrementi apprezzabili (http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/cultr/documents/rc_pc_cultr_20021612_doc_iv-2002-ple_en.html)


Alcuni dati generali al 2010


L’Annuario Statistico Italiano consente di conoscere l’andamento di un importante indicatore di secolarizzazione: il rapporto fra matrimoni religiosi e civili. I dati sono disponibili a partire dal 1930, con una lacuna in parte del periodo bellico e di quello immediatamente postbellico, tra il 1943 ed il 1947. I matrimoni civili erano 3,1% nel 1930 e 0,8% nel 1942. Dal 1948 fino al 1970 il tasso dei civili si è mantenuto sotto il 3%. Dopo è andato aumentando: dal 3,1% del 1971 al 12,4% del 1980 ed al 37,2% del 2009. Se il trend permane anche negli anni futuri, vi sarà quasi un appaiamento fra le due percentuali di riti civili e religiosi. In pratica la secolarizzazione sarà sempre più evidente.



Fonte: ISTAT


Dati ancora più recenti mostrano che vi è una certa stabilizzazione dei matrimoni civili, pur a fronte di quelli religiosi che continuano a diminuire. I matrimoni con rito religioso dal 2008 al 2014 sono stati nell’ordine degli anni: 155.972; 144.842; 138.199; 124.443; 122.297; 111.545; 108.054. Quelli con rito civile, sempre dal 2008 al 2014, sono stati rispettivamente: 90.641; 85.771; 79.501; 80.387; 84.841; 82.512; 81.711. Nel 2014 al Nord (55%) e al Centro (51%) i matrimoni civili hanno superato quelli religiosi.


Fonte: ISTAT


Secondo l’Annuarium Statisticum Ecclesiae i dati degli anni dal 2000 al 2009 sono tali per cui in Italia i sacerdoti diocesani sono diminuiti dell’11% ed i religiosi del 14%.


Fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae e https://dallapartedialice.wordpress.com/


Per quanto concerne le ordinazioni dei sacerdoti diocesani i dati vanno dal 1969 al 2010. Non risulta una dinamica costante. Si registrano alti e bassi che non servono da indicatori di un processo di secolarizzazione.


La linea sovrapposta indica il valore medio.


Fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae e https://dallapartedialice.wordpress.com/


I sacerdoti diocesani dal 2002 al 2012 sono passati da 34.376 a 32.619 (- 1757); i sacerdoti religiosi (ordini, congregazioni) dal 2002 al 2012 sono passati da 18.501 a 15.672 (- 2829). La tendenza è più stabile fra i preti diocesani. Le religiose (suore) dal 2002 al 2012 sono passate da 108.175 a 86.431 (-21.744). Le ordinazioni dal 2002 al 2012 sono passate da 502 a 376 (- 126).


Le previsioni per il futuro variano di molto soprattutto in base alle capacità di reclutamento, ma in linea di massima si pensa che verso il 2025 i sacerdoti diocesani in Italia possano essere circa venticinquemila (ma anche quasi trentatremila se si mantiene una densità costante di ordinazioni). Si ritiene anche che a quell’epoca sarà possibile contare su circa 1500 giovani sacerdoti in più rispetto a quelli computabili con un tasso costante di reclutamento. Insomma se le regioni pastorali ora in sofferenza per carenza di vocazioni (e dunque di ordinazioni) dovessero impegnarsi maggiormente nella loro azione si potrebbero registrare risultati ancora più cospicui a livello complessivo. Molto, come nel passato, dipenderà dagli andamenti ciclici nel numero annuale delle ordinazioni (per esempio si sono avuti picchi numerici dal 1963 al 1971 e cali notevoli dal 1979 al 1983, ma poi qualche ripresa nel 1999 e nel 2000). In media nel ventennio 1983-2002 vi sono state 461 ordinazioni annue di sacerdoti diocesani in Italia, ma se si considera il solo decennio 1993-2002 la media è stata leggermente più alta: 494 nuove ordinazioni per anno.


La religione all’italiana secondo Garelli (2011)


Da molti anni le ricerche di Franco Garelli sulla religione e sulla religiosità in Italia sono un punto di riferimento imprescindibile. Tra i diversi contributi pubblicati rimane ancora valido quanto contenuto nel testo intitolato, non casualmente, Religione all’italiana[49], frutto di un’inchiesta svolta nel 2007 su 3160 soggetti fra i 16 ed i 74 anni. Il punto di vista sulla secolarizzazione è espresso in modo chiaro, inequivocabile. Non si è di fronte ad un processo irreversibile. I cambiamenti sono innegabili ma gli andamenti sono incerti. Infatti[50] si tende ad ipotizzare che “il processo di secolarizzazione sarebbe così profondo da aver cancellato dalle coscienze il dilemma della fede, il dubbio che Dio esista, l’interrogativo se la religione sia una risorsa o un condizionamento, un retaggio della tradizione o un principio di convinzione. Eppure i dati della presente ricerca indicano che i giochi non sono affatto chiusi, che la questione se aderire o meno a un orizzonte di fede coinvolge ancora ampie quote di popolazione, dal momento che il vissuto religioso delle persone è altalenante, si compone di momenti di luce e di buio, di crisi e di allontanamento. Come sì è visto, non sono pochi gli italiani che hanno mantenuto una posizione religiosa stabile nella propria biografia, ma i più l’hanno modificata, in rapporto alle circostanze della vita, foriere quindi di riflessioni, ripensamenti, tensioni interiori, andirivieni: dunque, stati d’animo che cambiano, si modificano, che non si spiegano con la semplice categoria dell’indifferenza religiosa. L’indifferenza semmai è il risultato di un processo di maturazione e di distacco da un orizzonte religioso, non la condizione base o di partenza che nega l’interesse per le questioni della fede”.


Ecco, appunto la categoria dell’indifferenza sembra cruciale in questo discorso e pare rievocare una vecchia polemica nell’ambito della sociologia italiana della religione, a proposito dell’indagine svolta da Silvano Burgalassi[51] sulle cosiddette cristianità nascoste. All’epoca si contestò[52] al prete-sociologo pisano di aver allargato troppo la categoria dell’indifferenza sino ad attribuire una percentuale inusitata, intorno al 55%, che omologava diversi atteggiamenti e comportamenti senza riconoscerne le fratture interne, le diversità intrinseche, le opzioni multiple. In effetti non ci si può rifugiare in una generica categoria dell’indifferenza mentre la realtà empirica offre sfaccettature molteplici delle azioni sociali possibili e rilevabili.


Dunque ha ragione anche Garelli quando osteggia l’uso improprio del concetto di indifferenza. D’altro canto i dati non offrono spazio a dubbi, se sono soprattutto le condizioni di vita e vari altri fattori a creare situazioni problematiche e difficoltà nei rapporti con la Chiesa. In effetti gli intervistati parlano di “esperienze e problemi personali” (40%), “maturazione di nuove posizioni e cambio di idee” (32,7%), come elementi che sono all’origine delle loro crisi di fede. Non si tratta dunque precipuamente di “disaccordo con la morale religiosa” o di “difficili rapporti con la chiesa”, che invece si attestano come motivi addotti entro un range quasi dimezzato, cioè fra il 18% ed il 23%. Sintomatico è il fatto che appena il 6,1% degli interpellati assegni al “venir meno del bisogno di Dio” l’origine della propria incertezza o negazione della fede.       


Inoltre, in consonanza con i risultati di altre ricerche empiriche, si verifica una certa anticipazione dell’età in cui si manifestano i primi dubbi, le prime crisi in materia religiosa[53]: “di generazione in generazione l’esposizione alle crisi religiose diventa sempre più precoce, a testimonianza del fatto che via via che ci si addentra nella modernità avanzata aumenta la riflessività anche sulle questioni religiose”.


La secolarizzazione dell’Italia cattolica secondo Cartocci (2011)


Roberto Cartocci[54], ordinario di Scienza politica nell’Università di Bologna, ha messo insieme diverse fonti di dati, dalla Conferenza Episcopale Italiana all’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto ed all’Istituto Centrale di Statistica, per procedere ad una serie di elaborazioni statistiche anche raffinate che lo inducono a vedere un “intreccio tra processi di secolarizzazione e desecolarizzazione in un contesto come quello italiano, segnato dalla presenza del centro della chiesa cattolica”[55]. Sulla correttezza procedurale dell’analisi non è qui il caso di ritornare, avendo espresso altrove varie riserve[56]. L’approccio di Cartocci parte da un presupposto: il calo della pratica religiosa è caratteristica principale del processo di secolarizzazione[57]: “intendiamo rilevare la secolarizzazione come recessione della pratica religiosa cattolica”. Poi specifica meglio, ove fosse necessario[58]: “dunque ‘secolarizzazione’ e ‘cattolici’ sono termini che possiamo definire operativamente in maniera coerente: il grado di secolarizzazione che intendiamo rilevare, sia a livello nazionale sia a livello regionale e provinciale, consiste nel circoscrivere l’area dei cattolici, intendendo questi come coloro che hanno un legame significativo, anche se con gradi di intensità differenziati, con la chiesa. Maggiore è la diffusione di questi legami, minore è il grado di secolarizzazione, intesa stricto sensu. Minore la diffusione di questi legami con la chiesa-istituzione, maggiore il grado di secolarizzazione”. L’andamento sarebbe per cerchi concentrici più o meno distanti dal centro che è rappresentato dalla Chiesa: i più vicini sono i devoti (o militanti) che costituiscono circa il 10% della popolazione e sono seguiti da presso da un altro 20% di praticanti regolari, nell’insieme dunque assommando ad un 30% di cattolici di minoranza. Vi è poi il mondo dei cattolici di maggioranza, intorno al 50% (ma invero le stratificazioni interne sono anche abbastanza differenziate). Rimane un 20% di non cattolici, che non vanno mai in chiesa e che annoverano in modo disomogeneo figure contrarie al cattolicesimo: un 10% di non praticanti ma rispettosi della Chiesa come istituzione ed un 10% di fedeli di altre religioni, atei, indifferenti, anticlericali, agnostici, non credenti, insomma un’area di “piena secolarizzazione” come la definisce Cartocci[59], che la collega al ridursi della pratica religiosa, dei matrimoni con rito religioso e della fiducia nella Chiesa.


La ricerca sui valori (2011)


Uscire dalle crisi. I valori degli italiani alla prova[60] è un volume che presenta i dati della ricer­ca svolta nel 2008 e nel 2009 sugli orientamenti di valore dei cittadini italiani, nell’ambito del programma European Values Study. Risulta che il 78% degli intervistati si dichiara cattolico ma dubita del­l’inferno, del paradiso e di una vita ultraterrena. “La religiosità in Italia: ascesa o declino?” è il capitolo redatto da Clemente Lanzetti, che dopo aver rilevato un calo del 3,1% fra i cattolici, in un decennio, mette in evidenza che i problemi insorgono quando si affrontano temi dottrinali e morali. Il 59% degli italiani crede in un Dio persona­le e creatore che ama l’essere umano ed il 24,6% in un Dio come spirito o forza vitale. Inoltre il 14,8% non si esprime. Il 20,1% crede in una sola vera religione, il 26% reputa che anche altre religio­ni contengono elementi di verità. Per il 40,6% non c’è una sola religione vera, ma tutte le grandi religioni contengono alcune verità fon­damentali. Tra i soggetti religiosi il 67,3% crede nella vita dopo la morte. Tra i praticanti ci crede il 75,5%. Sempre tra i praticanti credono il 70,5% al paradiso ed il 58,3% all’inferno. Tra i soggetti orientati religiosamente il 60,6% al paradiso ed al 49,7% all’inferno. Infine il 17,1% dei praticanti crede nella reincarnazio­ne.


“Il pro­cesso di individualizzazione del credere non sta portando a una pro­gressiva irrilevanza della dimensione religiosa, ma ad un diverso modo di rapportarsi a essa”[61]. L’importanza che le persone dan­no alla religione è molta nel 32,8% dei casi ed abbastanza per il 38,9%.


Gli i­taliani non appaiono comunque molto secolarizzati, anche per quanto concerne la partecipazione ai riti religiosi. Nondimeno “la sicurezza e la fiducia nella propria religione viene sempre più radicata nella sua ‘validità’, aspetto che anche il comune fedele può cogliere sia nel proprio vissuto religioso, sia nei messaggi veicolati dalla sua e dalle altre religioni”[62].


I giovani del Nord Est (2011)


L’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto ha condotto nel 2011 un’ampia indagine nel Nord Est su un campione di 2136 intervistati. Ne dà conto Alessandro Castegnaro, con Giovanni Dal Piaz ed Enzo Biemmi[63], quasi riecheggiando gli esiti della già citata inchiesta di Milanesi sui giovani[64]: “la religiosità trova oggi più di un tempo altre vie, la preghiera ad esempio. I giovani pregano molto meno degli adulti e degli anziani, soprattutto se maschi, ma quelli che lo fanno sono più numerosi di quelli che dicono di andare a messa tutte le domeniche. Nel Nord Est questi ultimi sono il 13,4%, ma quelli che sostengono di pregare qualche volta durante la settimana o anche di più sono il 17,6%. Due terzi di questi a messa non ci va che assai raramente. Se mettiamo insieme quelli che ci vanno con regolarità e quelli che pregano con una certa frequenza otteniamo ancora una minoranza (31%), ma di un certo peso e di un’entità maggiore di quella percepibile. Molti di loro infatti sono poco visibili perché, come abbiamo detto, in chiesa si fanno vedere poco. Essi manifestano una religiosità personale, a sostenere la quale può bastare essere presenti in qualche occasione particolare. E per il resto ‘ce la vediamo noi direttamente  con Dio’. Di loro i preti e i parroci sanno ben poco”[65]. Ma anche sulla pratica religiosa emerge qualcosa di significativo[66]: “chi dice di andare a messa con una certa frequenza (almeno una volta al mese) passa dal 47% al 26%; chi prega almeno qualche volta durante la settimana dal 58% al 28%. Se si fa la differenza tra chi dice di avere visto crescere il proprio interesse per le cerimonie religiose e chi indica invece un calo, otteniamo un valore negativo anche tra i ‘genitori’ (meno 6 punti percentuali). Ma tra i ‘figli’ il saldo è straordinariamente passivo (meno 43 punti percentuali)”. L’incidenza sui mutamenti è segnatamente femminile[67]: “le donne, a dirla tutta, avevano già cominciato a modificare il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica con la generazione delle madri, pur essendo i giudizi critici nei confronti di essa assai meno frequenti che tra le figlie. Già in loro gli atteggiamenti di disaffezione per la Chiesa erano diffusi tra le donne quanto tra gli uomini”. Ne scaturisce una conclusione che appare fondata[68]: “il fatto che i mutamenti in corso interessino soprattutto le donne è la principale ragione per cui siamo indotti a pensare che quei ‘riavvicinamenti’, dopo il passaggio alla vita adulta, che in passato avvenivano di frequente, contribuendo a riempire le chiese, saranno d’ora in avanti meno numerosi”. In definitiva si prende atto che “c’è in sostanza un distacco in atto di una parte non trascurabile del mondo giovanile dall’universo religioso che la Chiesa cattolica rappresenta”[69].


I dati sulla scuola e la socializzazione religiosa (2014)


A livello giovanile religione e religiosità sono sempre apparse problematiche, anche sul piano dell’approccio sociologico sia a livello teorico che metodologico. L’avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica a scuola è un indicatore usato di frequente nell’analisi del fenomeno religioso e della secolarizzazione in particolare, come prova anche un articolo di Lorenzo Di Pietro per L’Espresso in data 10 luglio 2015


(http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238)


Si riferisce che sono oltre un milione (soprattutto al Centro-Nord e nelle secondarie di secondo grado) gli studenti non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica, dunque il doppio di circa due decenni fa. Un incremento si ha invece nelle scuole dell’infanzia e primarie: dal 2,7% al 9,2%. Specialmente in Emilia Romagna e Toscana è circa il 20% a non seguire l’insegnamento della religione cattolica.


Estratto da: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238


La presenza della scuola cattolica in Italia, nonostante difficoltà gestionali ed economiche, è tuttora rilevante, come emerge dalla tabella che segue.


     Dati statistici scuola cattolica 2013



 


Infanzia


Primaria


Sec. 1° grado


Sec. 2° grado


Totale


Numero di scuole


7.049


1.133


588


601


9.371


Numero di classi o sezioni


19.573


7.618


2.926


3.362


33.479


Numero di alunni


453.757


156.687


66.325


63.867


740.636


Rapporto alunni/scuola


64.4


138.3


112.8


106.3


79.0


Rapporto alunni/classe o sezione


23.2


20.6


22.7

 


19.0


22.1

 


Rapporto classi o sezioni/scuola


2.8


6.7


5.0


5.6


3.6


Fonte: FIDAE e MIUR


Il mancato ricorso alla formazione religiosa dei figli è un altro punto cruciale per stabilire quale sia il livello di secolarizzazione in atto. Le percentuali disponibili vanno dal 1994 al 2013: il battesimo è ancora molto praticato, pur facendo registrare diminuzioni significative. È dal 1995 che comincia il calo, fino a giungere al 79% nel 2013. In crescita appare il numero dei battezzati dopo i sette anni di età. Il cospicuo dato relativo al 2000 è da considerarsi un’eccezione, legata alla celebrazione dell’anno santo. Sono in diminuzione pure le comunioni (-15%) e le cresime (-27%).


Estratto da: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238


In base ad un’indagine dell’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica), condotta nel 2014 su 4000 giovani fra i 13 e i 19 anni, si dice cattolico praticante un giovane su quattro. Dal 1986 al 2014 vi sono 10 punti percentuali in meno tra le ragazze. Invece è costante il tasso maschile. Risulta cattolico non praticante circa il 36 per cento di tutti i giovani intervistati, ma nel 1986 erano quasi il 50%. Nel 1986 gli indifferenti nei riguardi della religione risultavano il 21% dei maschi ed il 14% delle femmine, ma nel 2014 sono il 31% ragazzi e 33% ragazze.


Estratto da: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238




L’indagine Doxa (2013-2014)


L’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) ha commissionato alla DOXA un’indagine su religiosità ed ateismo svolta tra il 30 novembre e l’8 dicembre 2013 e tra il 17 ed il 31 gennaio 2014 (www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/).


Sono state 2.016 le interviste svolte a casa degli intervistati (da 15 anni in su). Si è usato il sistema Doxabus ® C.A.P.I. (Computer Assisted Personal Interviewing), attraverso intervistatori specialisti, debitamente addestrati e controllati. Il campione nazionale era rappresentativo della popolazione italiana residente in vari tipi di comune e di ogni classe sociale.


Si sono definiti cattolici circa 3 italiani su 4. Inoltre il 10% è risultato di credenti senza riferimenti, il 5% di credenti in altre religioni ed il 10% di agnostici e di atei (entrambe queste due ultime categorie risultano quasi alla pari percentualmente). Circa il 25% degli italiani non è cattolico ed  il 20% non è religioso. Più o meno il 10% non è credente.


Vi sarebbero due Italie: le donne sono più cattoliche, specie se anziane e meridionali, tutti gli altri sono più spesso uomini, giovani e settentrionali. Atei e agnostici appartengono più di frequente a classi sociali alte. Il 62% dei cattolici si dichiara più o meno praticante, chiaro segno di una religione diffusa prevalente. Il 36% pensa di poter vivere bene anche senza Dio. Il 61% è d’accordo nel battezzare i figli. Il 54% non è favorevole alla modalità attuale d’insegnamento.


Il dato sui credenti che non appartengono a nessuna religione è piuttosto nuovo. I nones (categoria sociologica di vecchia data[70] ora riemersa come problematica di grande interesse) sono credenti senza una specifica religione e non credenti.


Estratto da: www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/


Estratto da: www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/


Estratto da: www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/


La situazione attuale: il Dossier Statistico Immigrazione ed il Rapporto Eurispes 2015


Secondo le stime del Dossier Statistico Immigrazione del Centro Studi e Ricerche IDOS (vedi tabella finale: Stima dell’appartenenza religiosa degli immigrati residenti: valori assoluti e percentuali al 31.12.2014), nel periodo 1991-2014 in Italia si è passati da circa 800.000 a 5.000.000 di immigrati[71] e da 256.000 a 1.613.500 di musulmani (con una consistente presenza femminile[72]). Per i seguaci di religioni orientali l’aumento è stato maggiore: da 19.000 a 335.400 unità. Non vi sarebbe dunque un’invasione di musulmani, che rappresentano in Italia il 2,7% (ma in Europa il 4,6%). Peraltro l’appartenenza religiosa degli immigrati che risiedono in Italia è molto variegata e non contribuisce certo ad un ulteriore processo di secolarizzazione.
























ITALIA. Stima dell’appartenenza religiosa degli immigrati residenti: valori assoluti e percentuali (31.12.2014)


Regioni


 

Cristiani


 

 

ortodossi


 

 

cattolici


 

 

protestanti


 

altri cristiani


 

Musulmani


 

Ebrei


 

Induisti


 

Buddhisti


ALTRE

RELIGIONIORIENTALI


 

              Atei/

AGNOSTICI


 

Religioni

TRADIZIONALI


 

 

 

ALTRI


Totale


%su

Italia


Italia v.a. 2.699.000


1528.500


917.900


216.000


36.600


1.613.500


6.700


146.800


108.900


79.700


221.300


54.700


83.800


5.014.400




Italia %


53,8


30,5


18,3


4,3


0,7


32,2


0,1


2,9


2,2


1,6


4,4


1,1


1,7


100,0


100,0


Piemonte


59,0


38,3


15,6


4,6


0,5


31,7


0,1


1,0


0,8


1,3


3,8


0,9


1,4


425.448


8,5


Valle d’Aosta


53,0


32,1


16,3


4,3


0,3


38,9


0,1


0,8


0,7


0,9


3,6


0,6


1,4


9.075


0,2


Liguria


56,6


18,9


32,8


4,5


0,4


32,8


0,1


1,4


1,5


1,0


3,9


0,5


2,3


138.697


2,8


Lombardia


47,7


21,0


21,9


4,1


0,8


36,4


0,1


4,1


2,7


1,7


4,4


1,1


1,8


1.152.320


23,0


Trentino A.A.


51,1


26,8


18,7


5,3


0,3


38,5


0,1


1,9


0,7


0,7


3,8


0,5


2,8


96.149


1,9


Veneto


52,3


35,3


12,2


4,0


0,8


32,0


0,2


3,1


2,5


1,9


4,6


1,7


1,8


511.558


10,2


Friuli V.G.


58,7


35,5


17,8


4,4


0,9


29,8


0,1


2,2


0,6


1,0


3,9


1,6


2,3


107.559


2,1


Emilia R.


47,0


28,1


14,4


3,7


0,9


39,4


0,2


3,0


1,5


1,6


4,2


1,6


1,6


536.747


10,7


Toscana


49,8


26,6


18,1


4,5


0,6


32,9


0,1


1,6


2,3


3,2


7,4


0,9


1,7


395.573


7,9


Umbria


59,3


35,7


18,3


4,7


0,6


32,2


0,1


1,4


0,5


0,7


3,4


0,8


1,6


98.618


2,0


Marche


48,1


28,3


15,4


3,9


0,5


37,1


0,1


2,8


1,3


2,0


5,8


1,1


1,7


145.130


2,9


Lazio


68,2


39,0


23,1


5,2


0,8


19,4


0,1


3,8


1,8


1,0


3,5


0,7


1,5


636.524


12,7


Abruzzo


58,9


38,9


15,5


3,9


0,5


31,6


0,1


0,9


0,7


1,4


3,4


0,5


2,5


86.245


1,7


Molise


63,4


42,0


16,3


4,5


0,7


26,7


0,1


3,9


0,4


0,8


3,1


0,5


1,1


10.800


0,2


Campania


57,2


36,2


16,2


3,9


0,9


24,4


0,2


3,1


5,6


1,8


5,1


1,3


1,3


217.503


4,3


Puglia


54,2


34,4


15,0


4,0


0,9


34,4


0,1


2,8


1,4


1,3


3,8


0,7


1,2


117.732


2,3


Basilicata


64,3


47,5


11,8


4,3


0,7


24,5


0,1


4,2


0,6


1,4


3,3


0,7


0,9


18.210


0,4


Calabria


62,3


43,1


14,1


3,9


7,2


27,2


0,1


3,8


0,5


1,0


3,4


0,5


1,2


91.354


1,8


Sicilia


48,1


28,6


14,3


4,3


0,9


35,2


0,1


2,9


6,4


1,3


3,5


1,3


1,4


174.116


3,5


Sardegna


57,6


32,6


18,4


6,0


0,6


28,1


0,2


1,3


0,9


2,1


6,7


0,9


2,1


45.079


0,9


FONTE: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati di fonti varie


Secondo il rapporto Eurispes del 2015[73], l’89,6 per cento dei 1041 italiani intervistati valuta come positivo il nuovo pontificato di Bergoglio, papa Francesco. Nel frattempo il favore nei confronti della Chiesa è passato dal 36,6% nel 2013 al 49% nel 2014 ed al 62,6% nel 2015. Il consenso è cresciuto fra i giovani, ed in particolare dal 27,1% al 51,1% fra coloro che hanno da 18 a 24 anni e dal 34,3% al 53,5% tra quanti si trovano fra i 25 ed i 34 anni di età. Spicca soprattutto il seguito che la Chiesa ottiene fra le vedove al 77,3%, gli sposati al 69,9% ed i separati-divorziati al 63,6%. Sui temi etici il papa raggiunge il 79,2% del gradimento dei fedeli, rispetto ai quali il pontefice appare più avanti. Papa Francesco è percepito dall’89% degli intervistati anche come più progressista delle gerarchie ecclesiastiche, le cui resistenze riuscirà a superare secondo il 55,6 dell’universo campionato, mentre il 44% degli interrogati ritiene che non ce la farà ad avere ragione dell’establishment istituzionale.


Per avere, infine, altri termini di paragone: è minore il consenso per la scuola, al 62,1%, ma maggiore quello per il volontariato, al 78,8%, e per la protezione civile, al 70%.


L’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) ha rilevato inoltre, dal 1995 al 2010, che i giovanissimi fra  i 6 ed i 13 anni frequentanti la “messa della domenica” si sono ridotti del 25%, mentre tra gli adolescenti dai 14 ai 17 anni il decremento ha raggiunto il 40%.


Infine occorre notare che la Chiesa sempre più si sta rivolgendo alle nuove  tecnologie, diffondendo con successo alcune applicazioni per smartphoneLaudate, per leggere i testi della messa quotidiana, della Sacra Bibbia e del Sacro Rosario; Bibbia CEI, invece, per leggere la Bibbia ufficiale 2008 della Conferenza Episcopale Italiana, con relativo apparato critico; 8xmille, per seguire gli utilizzi e gli sviluppi di una donazione, di un’offerta.


Notevole è anche la presenza in Internet[74], ormai irrinunciabile dato il successo riscontrato: il 69,9% dei parroci si connette ad Internet, il che avviene “sempre” nel 36% dei casi, “spesso” nel 41,9%. Occorre peraltro tenere presente che la rilevazione è già abbastanza datata (risale al 2007) e dunque risente ancora del peso di un largo numero di sacerdoti anziani poco abituati ad avere a che fare con strumenti tecnologicamente avanzati. Si può facilmente desumere che a distanza di quasi un decennio le percentuali siano aumentate di molto, anche in considerazione dell’ingresso di nuove generazioni di preti più avvezzi ad avere dimestichezza con il computer. Tale specifico strumento invero era in possesso in larghissima misura (85,7%) dei parroci intervistati nel 2007, con un uso costante da parte del 56,2% di essi. Ovviamente i più giovani facevano segnare livelli più alti: quelli di età fino a 40 anni possedevano un computer nella quasi totalità: 96,6%.


Conclusione


Ai sociologi contemporanei non rimane che continuare le loro ricerche nei singoli contesti per fornire previsioni scientificamente corrette sul futuro della religione. Qui non resta che una riflessione conclusiva: sul destino delle religioni sono in fondo i singoli attori sociali a decidere, in base a quanto è concesso alla libertà di ognuno. Appunto tali dati di fatto si spera di accertare ed approfondire in una indagine nazionale quali-quantitativa ormai prossima ventura, ad oltre venti anni da quella del 1994-95 su La religiosità degli italiani[75].


















[1] Olivier Tschannen, Les théories de la sécularisation, Genève, Droz, 1992.


[2] Martin Stallmann, Was ist Säkularisierung?, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1960, p. 7.


[3] Larry Shiner, The Concept of Secularization in Empirical Research, «Journal for the Scientific Study of Religion», 6, 1967, pp. 207-220.


[4] David Martin, The Religious and the Secular, New York, Schocken Books, 1969; on Secularization: Towards a Revised General Theory, Burlington, Ashgate, 2005.


[5] Charles West, The Meaning of Secular, Bossey, Report on the Consultation of University Teachers, The Ecumenical Institute, 1959; The Power to be Human. Toward a Secular Theology, London, Macmillan, 1971; Power, Truth, and Culture in Modern Community, Harrisburg, Trinity Press International, 1999.


[6] Gabriele De Rosa, Secolarizzazione e secolarismo, «Civiltà Cattolica», 287, 1970, pp. 417-441;  Piersandro Vanzan, Decantazione semantica-ideologica della secolarizzazione, «Civiltà Cattolica», III, 1976, pp. 209-221.


[7] Christianity and Secularism Report of a Public Discussion Between Rev. Brewin and G. J. Holyoake, London, Ward & co., 1853.


[8] Arend J. Nijk, Secolarizzazione, Brescia, Queriniana, 1973, p. 33.


[9] Friedrich Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit. Die Säkularisierung als theologisches Problem, Stuttgart, Friedrich Vorwerk Verlag, 1953, ed. it., Destino e speranza dell’epoca moderna: la secolarizzazione come problema teologico, Brescia, Morcelliana, 1972.


[10] Hermann Lübbe, Säkularisierung, Freiburg-München, Verlag Karl Alber, 1965; ed.it., La secolarizzazione, Bologna, il Mulino, 1970.


[11] Detrich Bonhoeffer, Letters and Papers from Prison, London,S. C. M. Press, 1954; ed. it., Resistenza e resa. Lettere ed altri scritti dal carcere, Brescia, Queriniana, 2002, pp. 475 e 494.


[12] Lettera del 16 luglio 1944.


[13] John A. T. Robinson, Honest to God, London, SCM Press, 1963; ed. it., Dio non è così, Firenze, Vallecchi, 1965.


[14] Harvey Cox, The Secular City, Macmillan, New York, 1965; ed.it., La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968.


[15] Paul van Buren, The Secular Meaning of the Gospel: Based on an Analysis of Its Language, New York, Macmillan, 1963; ed.it., Il significato secolare del Vangelo, Torino, Gribaudi, 1969.


[16] Larry Shiner, op. cit.


[17] Max Weber, Die protestatische Ethik und der Geist des Kapitalismus, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 20-21, 1904-1905; ed. it., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965.


[18] Thomas Luckmann, The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, New York, Macmillan, 1967; ed. it., La religione invisibile, Bologna, il Mulino, 1969.


[19] Op. cit., p. 46.


[20] S. S. Acquaviva, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Comunità, Milano, 1971; Mondadori, Milano, 1992.


[21] Sabino S. Acquaviva, R. Stella, Fine di un’ideologia: la secolarizzazione, Roma, Borla, 1989.


[22] Franco Ferrarotti, Il paradosso del sacro, Roma-Bari, Laterza,1983; Una teologia per atei, Roma-Bari, Laterza, 1983; Una fede senza dogmi, Roma-Bari, Laterza, 1990.


[23] Roberto Cipriani, Values Heritage and Diffused Religion, in F.-V. Anthony & H.-G. Ziebertz (eds.), Religious Identity and National Heritage. Empirical-Theological Perspectives, Leiden-Boston, Brill, 2012, pp. 213-25.


[24] David Moberg, Die Säkularisierung und das Wachstum der Kirchen in den Vereinigten Staaten, «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», 10, 1958, p. 436.


[25] Howard P. Becker, Through Values to Social Interpretation, Durham, Duke University Press, 1950; ed. it., Società e valori, Milano, Comunità, 1963.


[26] Karel Dobbelaere, Secularization: A Multi-Dimensional Concept, «Current Sociology», 29, 2, 1981.


[27] Grace Davie, Europe: the Exceptional Case. Parameters of Faith in the Modern World, London, Darton, Longman and Todd, 2002.


[28] Giancarlo Milanesi (a cura), Oggi credono così. Indagine multidisciplinare sulla domanda religiosa dei giovani, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 2 voll., 1981.


[29] Ulrich Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Roma-Bari, Laterza, 2009; ed. or., Der eigene Gott. Von der Friedensfähigkeit und dem Gewaltpotential der Religionen, Frankfurt am Main-Leipzig, Verlag der Weltreligionen, im Insel Verlag, 2008.


[30] Max Weber, Science as a Vocation, in H. Gerth, C. W. Mills (eds.), From Max Weber, New York, Oxford University Press, 1958, pp. 148-149.


[31] Thomas Luckmann, Rétrécissement de la transcendance, diffusion du religieux?, «Archives de Sciences Sociales des Religions», 59, 167, 2014, pp. 31-46.


[32] Thomas Luckmann, The Invisible Religion, op. cit.


[33] Max Weber, Die protestatische Ethik und der Geist des Kapitalismus, op. cit.


[34] Roberto Cipriani, La religione diffusa. Teoria e prassi, Roma, Borla, 1988.


[35] Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2003; ed. or., Liquid Modernity, Cambridge, UK, Polity Press, 2000.


[36] José Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica,Bologna, il Mulino, 2000; ed. or., Public Religions in the Modern World, Chicago, The University of Chicago Press, 1994.


[37] Jürgen Habermas, Religion in the Public Sphere, «European Journal of Philosophy», 14, 1, 2006, pp. 1-25.


[38] Bryan Wilson, Religion in Sociological Perspective, Oxford, Oxford University Press, 1982; ed. it., La religione nel mondo contemporaneo, Bologna, il Mulino, 1996.


[39] Gregory Baum, Religion and Alienation, Ottawa, Novalis, 2006.


[40] Peter E. Glasner, Sociology of Secularisation: A Critique of a Concept, London, Routledge & Kegan Paul, 1976.


[41] Talcott Parsons, Sociological Theory and Modern Society, New York, The Free Press, 1967; ed. it., Teoria sociologica e società moderna, Milano, Etas, 1979.


[42] Robert N. Bellah, Beyond Belief. Essays on Religion in a Post-Traditional World, New York, Harper & Row, 1970; ed. it., Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale, Brescia, Morcelliana, 1975. 


[43] Luca Diotallevi, L’ordine imperfetto. Modernizzazione, Stato, secolarizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, p. 155.


[44] Bryan S. Turner, Post-Secular Society: Consumerism and the Democratization of Religion, in P. S. Gorski, D. K. Kim, J. Torpey, J. van Antwerpen (eds.), The Post Secular in Question. Religion in Contemporary Society, New York, New York University Press, 2012, pp. 135-158, in particolare p. 138.


[45] George Ritzer, Expressing America: A Critique of the Global Credit Card Society, Thousand Oaks, CA, Pine Forge Press, 1995; Explorations in the Sociology of Consumption: Fast Foods, Credit Cardsand Casinos, London,  Sage, 2001; Enchanting a Disenchanted World: Continuity and Change in the Cathedrals of Consumption, Thousand Oaks, CA, Sage, 2010; The McDonaldization of Society, 7th ed., Thousand Oaks, CA, Sage, 2013 (ma la formulazione è ben più remota: cfr. «Journal of American Culture», VI, 1, 1983, pp. 100-107).


[46] Rodney Stark, Economics of Religion, in R. A. Segal (ed.), The Blackwell Companion to the Study of Religion, Oxford, Blackwell, 2006, pp. 47-67.


[47] Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, Milano, Mondadori, 1995.


[48] Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (a cura), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, Bologna, il Mulino, 2003.


[49] Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, Bologna, il Mulino, 2011.


[50] Op. cit., p. 98.


[51] Silvano Burgalassi, Le cristianità nascoste, Bologna, Dehoniane, 1970


[52] Roberto Cipriani, Recensione a Burgalassi, Le cristianità nascoste, «Sociologia», 3, 1970, pp. 181-3.


[53] Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, op. cit., p. 101.


[54] Roberto Cartocci, Geografia dell’italia cattolica, Bologna, il Mulino, 2011.


[55] Op. cit., p. 19.


[56] Roberto Cipriani, Quali cattolici in Italia?, «Coscienza», 1-2, 2012, pp. 42-6.


[57] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 18.


[58] Op. cit., p. 20.


[59] Op. cit., p. 25.


[60] Giancarlo Rovati (a cura), Uscire dalla crisi. I valori degli italiani alla prova, Milano, Vita e Pensiero, 2011.


[61] Op. cit., p. 226.


[62] Op. cit., p. 229.


[63] Alessandro Castegnaro, con Giovanni Dal Piaz, Enzo Biemmi, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Milano, Ancora, 2013.


[64] Giancarlo Milanesi, Oggi credono così, op. cit.


[65] Alessandro Castegnaro, con Giovanni Dal Piaz, Enzo Biemmi, Fuori dal recinto,op. cit., p. 32.


[66] Op. cit., p. 36.


[67] Op. cit., p. 38.


[68] Op. cit., p. 39.


[69] Op. cit., p. 40.


[70] Glenn M. Vernon, The Religious ‘Nones’: A Neglected Category, «Journal for the Scientific Study of Religion», 7, 2, 1968, pp. 219-229.


[71] Ivana Acocella, Stranieri in Italia. Fonti e indicatori, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014;  Maurizio Ambrosini, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Assisi, Cittadella, 2014.


[72] Ivana Acocella, Renata Pepicelli (a cura), Giovani musulmane in Italia. Percorsi biografici e pratiche quotidiane, Bologna, il Mulino, 2015.


[73] http://www.eurispes.eu/content/eurispes-rapporto-italia-2015


[74] Rita Marchetti, La Chiesa in internet. La sfida dei media digitali, Carocci, Roma, 2015.


[75] Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, op. cit.