Religione e sociologia in Simmel

Roberto Cipriani


RELIGIONE E SOCIOLOGIA IN SIMMEL


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


            Il contributo più noto offerto da Georg Simmel alla sociologia della religione è indubbiamente nella distinzione fra il concetto di religione e quello di religiosità. Ma attorno a questi due riferimenti concettuali ruotano numerose elaborazioni e messe a punto che disorientano più volte gli stessi specialisti del pensiero di Simmel. Le due versioni del suo celebre testo dal titolo Die Religion rappresentano un tour de force per qualunque esegeta pur preparato ed agguerrito in termini di acribia ermeneutica. Helle (1989) in Germania – ma anche altrove, nel mondo anglofono (Helle 1997) – e Mongardini (1994) in Italia sono gli studiosi che in modo particolarmente meritorio si sono cimentati nel districare le complicate maglie del discorso simmeliano sulla religione.


Phillip E. Hammond (1997) nel suo Foreword che precede l’edizione inglese dei saggi simmeliani sulla religione non manca di sottolineare quanto musicale e sensibile fosse l’orecchio ovvero la capacità di Simmel nel cogliere una “particular spiritual quality” come “attitude of the soul”. Appunto l’atteggiamento spirituale dell’animo in quanto disponibilità, permeabilità e capacità attitudinale nei riguardi della religione è da definire piuttosto come religiosità da contrapporre alla religione, che altro non è che un suo esito storico a carattere organizzativo, gerarchicamente strutturato.


Prima di giungere alla sua versione di fatto definitiva pubblicata nel 1912 Georg Simmel aveva più volte “preso le misure” sulle connotazioni sociologiche della religione, già pronunciandosi in occasione del primo Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi a Parigi nel 1900 durante l’Esposizione Universale. Ma si trattava di un secondo tentativo. In precedenza, appena due anni prima, si era cimentato proprio sull’oggetto della sociologia della religione (Simmel 1898).


I punti essenziali dell’approccio simmeliano alla religione


            Fra gli altri è stato Zygmunt Bauman (1992) a sintetizzare e riprendere la questione del ridotto interesse di Simmel per la chiesa (come pure per lo stato). Il sociologo polacco ricorda opportunamente che il più fiero avversario di Simmel, quando questi prese la cattedra nel 1908, sia stato Dietrich Schäfer, che ebbe a sottolineare il peso preponderante attribuito dal neo cattedratico alla società come principale agente formatore della comunità umana. Bauman dal canto suo rincara la dose ed arriva a dire che la stessa società non ha che un ruolo secondario in tutta la sociologia simmeliana. Non sarebbe che “una forma incostante, fugace e sfuggente, radunata e smantellata nel corso della socializzazione. Se la sociologia dei grandi sistemi religiosi è stata, durante tutta la sua vita, la più grande preoccupazione di Weber, la filosofia del denaro è stata il magnus (sic!) opus di Simmel” (Bauman 1992: 7). Bauman non si lascia sfuggire l’occasione per un confronto immediato e diretto fra Simmel e Durkheim, giacché il sociologo francese aveva “consacrato la maggior parte della propria vita allo studio della religione. Ma quale differenza! Agli occhi di Durkheim, la religione non era che una maschera della spinta fondatrice della società, un velo di pressione collettiva volto a mettere l’individuo al passo, il cemento sacro dell’unità profana. Se Weber voleva capire la società attraverso la religione che ne aveva determinato la forma e l’ordine, Durkheim comprendeva la religione attraverso la società che l’utilizzava” (Bauman 1992: 7-8).


            Riesce arduo individuare i punti essenziali dell’approccio simmeliano alla religione (Séguy 1964), anche perché – come ricorda ancora lo stesso Bauman – “questo sociologo tedesco affrontava la realtà sociale secondo prospettive mutevoli, mettendo ogni volta a punto un ulteriore fenomeno, tipo o processo. Sottoposta ad un simile trattamento, la realtà non emergeva mai sino a raggiungere il livello di una totalità coesa ed armoniosa. Essa appariva invece come un insieme diffratto di schegge di vita e di briciole di sapere troppo lontano da modelli completi, inglobanti e sistematici che gli altri sociologi offrivano con zelo e che erano considerati come obbligatori e di rigore da ogni sociologo di quell’epoca. Secondo le differenti prospettive di Simmel, la realtà si disaggregava e sembrava cadere a pezzi. Ancor peggio, essa si opponeva ad ogni tentativo da parte di un potere supremo – fosse la chiesa, lo stato o il Volksgeist. Il che ha infastidito molto i lettori, e segnatamente i suoi colleghi (confrères) universitari. Oggi noi ci rendiamo conto che la generazione di Simmel non poteva, o non voleva capire che lo ‘sbriciolamento’ della realtà sociale secondo l’interpretazione simmeliana era la misura stessa della condizione umana moderna e misura universale vieppiù. Diversamente dalla maggior parte dei suoi pari, Simmel ha ascoltato – al di là degli schemi totalizzanti sostenuti dalle autorità del momento – questa realtà stessa che sorge oggi sotto i residui di sogni autoritari in tutta la verità di un modo d’essere scisso, frammentato ed episodico. Si può dire che Simmel abbia messo la ‘totalità’ immaginaria al muro; e l’abbia demistificata in un’epoca in cui gli altri, sempre abbagliati dalla sua promessa grandezza, continuavano a cantare le sue lodi” (Bauman 1992: 11).            


Il pensiero simmeliano sulla religione


            Le osservazioni baumaniane servono da viatico efficace per entrare nel merito del pensiero simmeliano sulla religione e della sua “valanga di idee” (espressione che risale al sociologo Kurt Wolff). Si tratta di riflessioni asistematiche, che risultano anche disordinate ma non prive di un certo garbo, di un’erudizione elegante, accompagnata da un modo di ragionare assai profondo. Questi tratti non dispiacevano ad un pubblico colto ma non accademico. Per questo la produzione sociologica di Simmel trovava spazio su periodici a carattere divulgativo. E per 15 anni rimase Privatdozent prima di diventare nel 1901 Aussenordentlicher Professor, cioè docente straordinario.


            Fu anche per questa situazione di stallo, fra arena pubblica e scranno universitario, che Simmel si trovò a muoversi con “salti anche bruschi di stile e di tono, conservando tuttavia, al di là di una vivacità e mobilità quasi mercuriali su argomenti apparentemente contraddittori, la fondamentale coerenza di un pensiero itinerante ma non gratuitamente errabondo. Sono lampi fulminei, illuminanti, anche se la ‘costruzione’ del libro, nel senso che i francesi attribuiscono alla frase ‘faire le livre’, resta nel suo insieme oscura, di difficile percezione” (Ferrarotti 1993: 23). Per questo – di fatto sottintende Ferrarotti – il sociologo tedesco fa pensare ad un’architettura ardita, ma temeraria, asimmetrica, ad una casa che non invita ad abitarvi e che offre, ciò malgrado, un rifugio e insieme un’aspirazione o una sosta alle anime che non abbiano rinunciato a cercare. Simmel “non presume di poter definire, una volta per tutte, la religione”. Tale indefinibilità ed indeterminabilità si ricavano peraltro chiaramente dal saggio del 1898 sulla sociologia della religione. “Si può ritenere che la radice più profonda della religione sia il timore o l’amore, la venerazione degli antenati o l’autodivinizzazione, l’impulso morale o il sentimento di dipendenza dagli altri: ognuna di queste teorie è sicuramente del tutto erronea nel caso in cui si pretendesse di indicare la origine, ma corretta se si propone di indicare una origine della religione” (Simmel 1993: 57).


            Ancora Ferrarotti (1993: ivi)nota che Simmel “non cerca una definizione chiusa, bensì una fenomenologia aperta” e che “si fa strada in Simmel il riconoscimento di una autonomia relativa del fenomeno religioso”. Ma intanto “la divinizzazione dell’uomo è da respingersi al pari dell’umanizzazione di Dio”. Insomma il fenomeno religioso mantiene una sua autonomia relativa.


            Secondo quanto scrive il nostro Autore (Simmel 1993: 173), “così come non è la conoscenza a creare la causalità, bensì la causalità a creare la conoscenza, così non è la religione a creare la religiosità, ma la religiosità a creare la religione”. E la religiosità sarebbe invero una “determinata disposizione d’animo interiore”, uno stato, una condizione, un trovarsi (Befindlicheit), in contrapposizione alla religione come prodotto culturale. Del resto “la religione nel suo stato terminale, l’intero insieme spirituale che si lega all’essere trascendente, appare come la forma assoluta e ricondotta ad unità di sentimenti e impulsi che già la vita sociale, nella misura in cui essa – in quanto disposizione d’animo o funzione – è orientata religiosamente, sviluppa nei suoi approcci e procedendo in qualche modo per tentativi” (Simmel 1993: 174). Dunque la vita religiosa è in pari tempo una relazione intersoggettiva ma pure una modalità istituzionale di chiesa e/o collettiva di movimenti, gruppi ed associazioni. Il quadro complessivo è tale per cui “una delle forme più tipiche della vita sociale, una di quelle salde norme di vita attraverso cui la società si garantisce il comportamento conforme ai propri scopi da parte dei suoi membri, è il costume”. Orbene “costume, diritto, libera eticità del singolo costituiscono i diversi tipi di collegamento degli elementi sociali che possono essere tutti per contenuto precetti perfettamente identici e averli anche nell’ambito di popoli diversi e in diverse epoche. Tra queste forme attraverso cui la collettività si procura una garanzia del corretto comportamento dell’individuo, rientrano le religioni. Il fatto che determinate relazioni assumano carattere religioso caratterizza spesso uno dei loro stadi di sviluppo. Quel medesimo contenuto che in precedenza o in seguito viene sostenuto da altre forme del rapporto tra gli esseri umani assume in una fase la forma del rapporto religioso” (Simmel 1993: 175).    


            Il discorso simmeliano si precisa ulteriormente quando l’Autore (1993: 166-167) puntualizza che “ci sono forse tre segmenti della sfera vitale nei quali in primo luogo emerge la trasposizione nella totalità religiosa: il rapporto dell’uomo con la natura esterna, il destino, il mondo umano circostante”. Ed in definitiva “le cose sono rilevanti dal punto di vista religioso e si elevano a prodotti trascendenti perché e nella misura in cui esse sono assunte fin dal principio nell’ambito della categoria religiosa e questa ha determinato la loro formazione, prima che esse assumano in modo consapevole e completo una valenza religiosa” (Simmel 1993: 168).


Sociabilità e religione


In questo intreccio di rinvii fra religione e religiosità non può sfuggire il peso che assume la sociabilità quale elemento liminale, alla maniera di Victor Turner (1969).  La sociabilità comporta reciprocità, spersonalizzazione, collaborazione, uguaglianza. Sono tutte caratteristiche non dissimili da quelle di una religiosità di fondo, condivisa, comune. Ma sociabilità e religiosità convergono su un’altra caratteristica: sono in grado di connettersi ma anche disconnettersi rispetto alla quotidianità, insomma riescono a trascenderla. In effetti con il concetto di Vergesellschaftung (preferito a Geselligkeit) Simmel allude alla capacità di rinuncia alle istanze personali, in uno spirito di disponibilità, di attenzione agli altri, con un afflato che travalica la mera socievolezza e tocca livelli di maggiore efficacia per il mantenimento dell’ordine sociale e della comunità. Sembra quasi un riecheggiamento del rapporto durkheimiano fra solidarietà e religione (Durkheim 1912), in termini di convivialità da pasto totemico, di collante sociale fatto di interessi compartecipati, di impegno sociale, di conoscenze vicendevoli, di frequentazioni reciproche.


            Rispetto a Weber (1920-21) la sociabilità simmeliana sembra non condurre necessariamente alla chiesa come luogo di Vergesellschaftung o ad altre strutture sociali sedi di potere ed autorità, come lo stato. Dunque la sociabilità resterebbe appannaggio dell’associazionismo spontaneo, volontario, extra-ecclesiastico, non istituzionale, fondato sulla specificità delle interazioni sociali, implementate nei diversi luoghi ed esperienze del vissuto sociale che non siano direttamente e neppure indirettamente di chiesa. Detto altrimenti è dovuta alla sociabilità la propensione a stare insieme con gli altri specie in forma pubblica non organizzata, con relazioni di familiarità e di amicalità che usufruiscono anche di sublimazioni realizzate attraverso scambi generosi e non strumentali, senza aspettative di rimborso, risarcimento, restituzione, insomma in chiave di dono (Mauss 1925) assoluto, sciolto da vincoli di scambio necessario. Non a caso di tale sociabilità senza passaggi di beni materiali Simmel (1997: 43) ha detto che ha un carattere giocoso, quasi di divertissement, perché basato sulla “forma ludica della sociazione”.


            Se il punto di partenza della sociabilità è la propensione a creare e mantenere rapporti intersoggettivi il punto di approdo è costituito da forme più o meno organizzate ma tendenzialmente non istituzionali che vanno dal gruppo alla comunità, dal movimento all’associazione. Ma non è detto che la sociabilità abbia sempre e solo un carattere associativo giacché può produrre altresì dissociazione ovvero conflitto e separazione, ma questi sono prodromi di altre modalità di sociabilità da giocare su altri e diversi piani dell’agire sociale.


            Opportunamente Watier (1986: 240) osserva che “la sociabilità è una interazione che si pone di fronte all’alternativa semplicistica tra l’individualismo esacerbato da una parte, la fusione nel tutto o il comunitario dall’altra, oppure in termini psicologici fra il narcisismo e la schizofrenia”.         


Religiosità e religione


            Il presupposto iniziale di Simmel è, com’è ben noto, che non sia la religione a dar luogo alla religiosità quanto piuttosto quest’ultima a generare la religione. Non a caso, del resto, vi sarebbero “nature” religiose che fanno a meno della religione stessa, come a dire che la religiosità intrinseca della vita non avrebbe alcuna necessità della “caricatura” dell’andare in chiesa.


            A Simmel non interessa risolvere il problema dell’esistenza o meno di Dio. Ciò che lo intriga è invece la “particolare qualità del sentimento” che proviene dalla religiosità e sfocia, anche se non sempre, nella religione. L’obiettivo perseguito dal Nostro è di accertare, secondo l’espressione felice di Helle (in Simmel 1993: 44), la “sperimentabilità (Erfahrbarkeit) religiosa”, vedere cioè se “qualcosa viene vissuto come presente oppure no”. Al limite lo stesso Dio potrebbe esistere anche senza essere percepito a livello umano. Dunque il significato sociologico da indagare concerne come quella supposta realtà metafisica venga attivata, appunto resa “attiva”, “vissuta” dalle persone.


            Orbene il vissuto religioso appare come una componente quasi coscienziale della persona, costituita da contraddizioni quali l’anelito verso l’altruismo e quello orientato all’individualismo, oppure quali l’istanza a favore del materialismo e, in direzione opposta, la tendenza allo spiritualismo. Partendo da queste contraddizioni, che divengono vere e proprie tensioni, si gioca la partita dell’individuo sociale fra religiosità e religione. Insomma il fatto che l’esperienza religiosa produca azioni è di precipua rilevanza per l’analisi sociologica.


            Inoltre tali azioni sono il frutto di un’opzione consapevole, ovvero di una coscienza – da parte del soggetto – di quanto egli stesso ha inteso fare, dando vita ad una realtà, ad una attività, ad un vissuto. Ma intanto da questo dato di fatto scaturisce anche una relazione diretta fra il soggetto ed il suo agire, per cui s’instaura una forte connessione fra l’attore e l’atto, fra l’agente e l’azione, detto altrimenti fra colui che pensa qualcosa e questa medesima cosa pensata, nel caso specifico appunto la religiosità. Lo sviluppo storico-culturale di quest’ultima porta alla religione, nelle sue diverse espressioni concrete, empiricamente rilevabili, che invero conservano pur sempre qualcosa del pregresso.


            La dimensione religiosa fa parte delle relazioni sociali e favorisce varie modalità di interazione, alla cui base è sempre la persona, che si avvale della sua libertà di pensiero per riconoscere o meno la divinità e rapportarsi con la trascendenza. Quest’ultima in chiave di verità non è definita dal soggetto, che si limita a fornire nel suo vissuto una trasposizione empirica di quanto costituisce la sua percezione. È soprattutto questa la realtà analizzabile dal sociologo della religione perché ha il carattere di un’esperienza vissuta dalla persona e dunque è conoscibile, accessibile agli strumenti dell’approccio scientifico.


Il modello dell’antagonismo culturale


Per meglio comprendere la portata della relazione fra religiosità e religione conviene rifarsi alle basi del pensiero simmeliano sulla cultura ed in particolare ai suoi tre modelli: quello dell’antagonismo culturale, quello dell’ambivalenza culturale e quello del dualismo culturale, secondo l’illuminante schema predisposto da Birgitta Nedelmann (1991: 172) e qui di seguito riportato in forma semplificata.   



 


Antagonismo culturale


Ambivalenza culturale


Dualismo culturale


Polo individuale


Individuo come creatore di cultura (“vita”)


Individuo come consumatore di cultura o gestore dello stile di vita


Individuo come ricettore di cultura (soggettiva)


Polo culturale


Cultura come sistema sociale (“forma”)


Cultura come sfera estetica


Cultura come struttura sociale (oggettiva)


Principio analitico


Antagonismo fra “vita” e “forma”


Ambivalenza dell’orientamento all’azione


Cultura soggettiva vs. cultura oggettiva


Problema culturale


Individualizzazione


Soggettivismo accentuato


Incommensurabilità fra cultura soggettiva e oggettiva


            È bene precisare che il primo modello, definito dell’antagonismo culturale, si basa su un saggio simmeliano del 1918 (Simmel 1976), dunque posteriore alla doppia versione (1906 e 1912) del saggio sulla religione, ma di fatto i contenuti teorici fondamentali si rifanno alla medesima prospettiva sociologica che sostiene epistemologicamente (come teoria della conoscenza) i due lavori dal titolo Die Religion. Non sussiste alcun problema, invece, in relazione alla datazione degli altri saggi che ispirano il secondo ed il terzo modello e che risultano pubblicati prima del 1912. Per il modello dell’ambivalenza culturale il riferimento va a “Il problema dello stile” (Simmel 1908), mentre per quello del dualismo culturale Nedelmann rimanda a quanto pubblicato da Simmel nel 1911 con il titolo “Il concetto e la tragedia della cultura” (Simmel 1968).


            Secondo il modello dell’antagonismo culturale, individuo e cultura si contrappongono in quanto rispettivamente “vita” e “forma”, così dunque la vita sarebbe la religiosità e la forma sarebbe la religione. Nella religiosità vigono i rapporti, le relazioni, mentre nella religione prevale il peso della forma, della struttura, dell’organizzazione. Ma è nella religiosità che si offre un potenziale maggiore di cambiamento culturale, che si giova della capacità derivante dall’azione collettiva degli individui. La “forma”, ovvero la religione, tende ad una certa rigidità istituzionale che frena la creatività e l’originalità degli individui. La “vita”, cioè la religiosità, costruisce “artefatti” (la religione) che poi assorbono il flusso vitale dandogli contenuto, scopo ed ordine.


            La cultura appare come un sistema sociale fatto di forme che sono separate dal ritmo della vita e dal suo cambiamento continuo. Tali forme tendono a stabilizzarsi e ad autonomizzarsi con un loro bagaglio teorico, giuridico, ideologico, piuttosto resistente nei riguardi di quanto ha dato loro avvio, dunque della vita stessa che è alla loro origine.


            Più le forme cercano autonomia più si accresce il divario con la vita. Si ha così una relazione di antagonismo come pure di interdipendenza. Infatti la religione non può sussistere senza la religiosità (il contrario potrebbe essere invece più facilmente praticabile – almeno in linea di ipotesi – e nondimeno Simmel ritiene una condanna il fatto che la vita sia destinata a far sorgere da se stessa la sua opposizione, dunque la forma, e che pertanto la religiosità faccia nascere la religione). Il contrasto è paradossale ma co-essenziale. In realtà la creatività culturale ed il sistema culturale convivono. L’una produce ma l’altro conquista, colonizza, esautora. Nel frattempo il cambiamento culturale procede e fa leva appunto sull’opposizione in atto, sul rapporto bipolare tra vita e morte, nascita e rinascita. Fra la vita e la forma vi è però una significativa differenza di velocità giacché la seconda arranca rispetto all’andamento della creatività umana. E tuttavia c’è una forza dinamica interna che crea e ricrea forme, cioè istituzioni.


            Il rapporto fra individui ed istituzioni non è tuttavia sempre tranquillo, in quanto può sfociare in vere e proprie rivoluzioni, che vedono l’individuo prendere le distanze dalle forme del sistema culturale per una individualizzazione della creatività culturale. In tal modo aumenta l’espressività individuale impedendo però, nel contempo, lo sviluppo di un sistema culturale fondato sugli “artefatti” predisposti dalla “vita”. C’è quindi un annullamento progressivo della creatività individuale, senza più la controparte della socialità delle forme, dei modelli culturali diffusi. Ed alla fine si autodistrugge la stessa cultura individuale. L’autoreferenzialità individuale ed istituzionale interrompe in effetti ogni forma di interazione e conduce all’autodistruzione di entrambi i sistemi (Nedelmann 1991: 178).         


Il modello dell’ambivalenza culturale


Anche sulla scorta del modello dell’ambivalenza culturale Nedelmann consente, con le sue riflessioni, di applicare al rapporto fra religiosità e religione lo schema diadico che contempla individuo e cultura. L’ambivalenza concerne principalmente l’orientamento all’azione. Ma la chiave di volta è nella concezione simmeliana dell’individualità, che quando interagisce con altri soggetti si muove tra la ricerca della sua unicità ed il desiderio di riconoscimento sociale. Lo scopo dell’individuo è divenire una soggettività sociale. La metafora usata da Simmel è quella del cerchio, con l’individuo al centro di vari cerchi concentrici, rispetto ai quali il soggetto si differenzia. Si comprende così come la religiosità si metta in relazione con la religione, l’una avrebbe un carattere intimo, l’altra una connotazione sociale. La distanza fra la prima e la seconda è gestita dall’individuo secondo un principio estetico che deve fare i conti con le diverse norme culturali ed in particolare con l’opposizione fra ciò che è individuale e ciò che è generale, fra l’innovazione e la conservazione, fra l’isolamento e l’integrazione, fra il dissenso ed il consenso. Da tutto questo deriva l’ambivalenza in atto nell’agire individuale e sociale. E la sfera estetica diventa un “campo di battaglia” fra le due diverse posizioni.      


            Appunto nella sfera estetica il contrasto è fra arte (principio di individualità) e stile (principio di generalità). Nell’arte la libertà è maggiore, nello stile occorre rispettare delle regole. La percezione individuale dell’oggetto d’arte si fonda sulla sua unicità, che attrae il consumatore di cultura, attraverso un processo di “esteticizzazione”, contrapposto a quello di “stilizzazione” che comporta il rispetto della forma generalizzata. La differenza è evidente quando si distingue fra opera d’arte, più estetizzante, ed oggetto di artigianato, più stilizzato, utile e riproducibile. Quando l’opera data viene moltiplicata in diversi esemplari perde la sua forza estetizzante. Parimenti si può dire della religiosità quando viene riproposta come religione in forma pubblica, liturgicamente normata, ingabbiata nelle maglie strette dell’ortodossia, in uno stile di chiesa che non permette deviazioni per lo sviluppo dell’individualità. Ma intanto è grazie alla religione che l’individuo religiosamente orientato vede riconosciuto socialmente il suo punto di vista. L’ambivalenza dell’orientamento all’azione è proprio qui, in questo stare continuamente in bilico fra individualità e generalità, fra arte ed artigianato, fra esteticizzazione e stilizzazione, in definitiva appunto fra religiosità e religione.


            Il difficile equilibrio fra i due poli crea miscele dovute ad un accentuato soggettivismo che stilizza l’arte ed estetizza l’artigianato. Allo stesso titolo la religiosità individuale quando diventa religione stempera il suo carattere peculiare e diventa oggetto sociale diffuso, perdendo gran parte della sua originalità iniziale. Si potrebbe dunque parlare di una per-versione, di un’alter-azione, che fa mutare rotta all’andamento originario e rende altro da sé la religiosità individuale.


Il modello del dualismo culturale


Infine, nel modello del dualismo culturale l’individualità appare più legata al suo passato ed al suo rapporto con la cultura. Insomma il soggetto è impastato delle diverse influenze ricevute dal mondo esterno, che in qualche modo lo ha “coltivato” mediante i suoi oggetti culturali, che servono a sviluppare l’individualità. Questa influenza culturale esterna permea di sé l’individuo e ne fa un ricettore appunto di cultura per la costruzione della struttura della sua personalità. Qui però cambia il punto di vista e di partenza della dinamica in atto: non è più, come nel modello dell’ambivalenza culturale, il soggetto a gestire il suo rapporto con la cultura, ma è quest’ultima ad esercitare il suo influsso sull’individuo. In altre parole è la cultura oggettiva come struttura sociale che interviene nel processo di “coltivazione” dell’individualità per renderla “coltivata” cioè dispiegata, non più chiusa in se stessa. In definitiva la cultura soggettiva si crea passando attraverso la cultura oggettiva. Il legame fra oggettivo e soggettivo è dunque fondante, perché è un tramite che favorisce lo sviluppo della struttura della personalità. Si hanno quindi una “soggettivizzazione della cultura oggettiva” ed una “oggettivizzazione della cultura soggettiva”. Detto diversamente, la religione entra in relazione con la religiosità per accelerare il processo di acquisizione della cultura preesistente, con tutti i suoi oggetti o significati. Il che ha certamente un effetto, almeno in chiave di persistenza della stessa religiosità (ma pure della religione).            


            Simmel osserva tuttavia che il processo di “coltivazione” della cultura soggettiva da parte della cultura oggettiva appare piuttosto ridotto nella società moderna. Ecco il dramma: la cultura oggettiva tende ad isolarsi, ad interrompere ogni tentativo di relazione con la cultura soggettiva, anzi costituisce un ostacolo per lo sviluppo della personalità, non più destinataria di “coltivazione”. La cultura oggettiva diviene autoreferenziale, quasi un sistema sociale a parte, senza più relazioni con le soggettività ma in pari tempo mostra una particolare voracità di accumulazione, di sviluppo quantitativo e di specializzazione interna. Non è difficile riandare allora alla condizione moderna della religione vieppiù attenta a sviluppare le sue potenzialità comunicative, giuridiche, tecnologiche, artistiche, con l’obiettivo di divenire una cultura di massa, che ha bisogno di specialisti nei diversi settori di azione pubblica, per poter resistere alle sfide del mercato delle appartenenze e degli schieramenti. La cultura soggettiva della religiosità non fa registrare invece le medesime tendenze e del resto non ha risorse proprie per promuovere aggregazioni di piccoli e grandi gruppi e per ottenere risultati particolarmente visibili ed esibibili. Si comprende bene come non vi sia possibilità di paragone fra ciò che può fare la cultura oggettiva e quello cui si limita la cultura soggettiva: l’incommensurabilità è un dato di fatto scontato, giacché la cultura oggettiva ha un evidente superpotere. In pratica la religiosità del singolo è impotente di fronte alla potenza della religione. L’individuo rimane pertanto emarginato, alienato (questo termine non è fuori luogo, date le note influenze del pensiero marxiano su Simmel). In conclusione, la tragedia simmeliana della cultura (oggettiva) consiste nella sua potenzialità distruttiva sin dall’origine: essa è destinata a fornire oggetti da includere nella cultura soggettiva al fine di poterli poi trasmettere alle generazioni future, ma in realtà è autodistruttiva per la sua mancanza di significato per l’individuo, che dunque nulla riceve e neppure può contestare, restando perciò in uno stato di impossibilità ad agire. Tutto ciò genera la paralisi, che blocca la religiosità individuale e che impedisce alla religione di svolgere il suo compito di “coltivazione”-socializzazione, di “soggettivizzazione”-“oggettivizzazione”.              


Conclusione


            La fertilità, ancor oggi, di un pensiero così ricco e pregno di spunti originali è indice di una straordinaria capacità di comprensione della realtà moderna (e contemporanea). Peraltro alcune analisi di Simmel sono spesso in anticipo sui tempi di maturazione della riflessione sociologica. Valga come esempio, fra gli altri, un passo – redatto per la versione del 1912 di Die Religion – in cui è chiaramente individuata la valenza simbolica del dono come espressione di sociabilità: “ci sono appunto relazioni sociali, relazioni degli uomini gli uni con gli altri, che per così dire, per la forma che è loro propria, costituiscono dei prodotti religiosi intermedi. Sono i medesimi valori relazionali che – sciolti dal loro contenuto sociale d’interessi ed elevati nella dimensione trascendente – costituiscono una religione nel senso più stretto ed autonomo del termine. Questi nessi sono visibili sotto i molteplici occultamenti e mascheramenti dell’esteriorità. Richiamo alla mente il momento religioso – o, se mi è consentita la mostruosità lessicale: religiosoide – che è forse insito per una sensibilità più profonda in ogni dare e ricevere” (Simmel 1993: 181). Come non vedere in questo passo degli evidenti prolegomeni alla successiva trattazione di Marcel Mauss (1925) nel suo saggio sul dono?


            In ultima analisi l’interesse simmeliano per la fenomenologia religiosa è motivato dal ruolo che essa ha nei processi di socializzazione e per lo sviluppo della sociabilità. Più sensibile all’emozione religiosa che alla struttura religiosa, egli nondimeno sembra parteggiare, quasi emulo di Durkheim, per la solidarietà e l’unità. Non a caso cita a mo’ di esempio l’autore del De Catholicae ecclesiae unitate, Cipriano: “allorché nel III secolo insorse l’aspra controversia relativa a se i cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni dovessero essere riammessi e il vescovo di Roma sosteneva questa tesi, il partito più rigoroso elesse per sé un vescovo contro la cui qualifica nulla poteva essere eccepito. Era anche fuor di dubbio che la coerenza religiosa e l’interna purezza della chiesa esigevano l’esclusione degli apostati o almeno di concedere ai credenti più rigorosi la possibilità di restare per conto proprio. Cipriano invece riuscì ad imporre che l’elezione di quel vescovo fosse dichiarata nulla in ragione del fatto che l’esigenza dell’unità della chiesa veniva percepita alla stregua di un interesse assolutamente vitale” (Simmel 1993: 201-202).         


Riferimenti bibliografici


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