di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)
Premessa
Quando Francesca Sacchetti (2012) ha investigato i “percorsi della soggettività tra fenomenologia ed ermeneutica” ha individuato un filone preciso di pensiero che da Husserl (1922, 1929, 1963) conduce a Schütz (1932) e poi a Paul Ricoeur (2002). Ma altrettanto si può dire per quanto riguarda il percorso da Husserl (1922, 1929, 1956, 1963, 1973) a Kurt Wolff (1972a, 1976, 1984, 1984a) come punto di arrivo e di consonanza con Ricoeur stesso, vista la comune matrice fenomenologica e la conoscenza che il sociologo della Brandeis University ha delle opere di Ricoeur (1967, 1970), come si evince dal suo saggio sul rapporto fra “resa e cattura” e fenomenologia (Wolff 1984).
Surrender and Catch: Experience and Inquiry Today (Wolff (1976) è un testo che denota una chiara influenza dovuta all’insegnamento di Karl Mannheim, maestro di Kurt Wolff negli anni Trenta. L’origine della formula “resa e cattura” ha evidenti radici classiche greche nell’idea di ἐποχή, che riguarda l’attesa, la sospensione, una sorta di scetticismo metodologico, ma poi anche nell’espressione latina assensionis retentio (rinvio della decisione). “Surrender and catch” è pure una sorta di “sociologia comprendente” che risale alla nota verstehende Soziologie di matrice tedesca, distinguendo fra “surrender” (resa generica) e “surrender to” (resa a qualcuno o qualcosa). Detto altrimenti non si tratta solo di una teoria ma anche di una metodologia.
La valenza qualitativa della resa e della cattura
Kurt Wolff ha dedicato ben quattro pubblicazioni alla sua inestricabile connessione fra “resa e cattura”. Il primo libro è del 1972 ed ha come titolo Surrender and Catch: A Palimpsest Story (Wolff 1972). Il secondo (Wolff 1976) è pubblicato come volume di una serie di filosofia della scienza. Il terzo (Wolff 1978) è una riedizione in brossura del precedente. Il quarto (Wolff 1995) è una ripresa del tema di “resa e cattura” a suggello di 23 anni di rielaborazioni dal 1972 al 1995, che hanno visto l’autore impegnato su più fronti disciplinari. Soprattutto gli articoli pubblicati su riviste insistono specificamente sulla tematica della resa declinata sotto diverse angolature: fenomenologica (Wolff 1972a, 1984), filosofica (Wolff 1979), conoscitiva (Wolff 1982, 1982a, 1983) ed ermeneutica (Wolff 1984a). Appare difficile individuare un possibile ambito al quale Kurt Wolff non abbia tentato di applicare il suo strumento teorico, rappresentato principalmente dalla disponibilità alla resa, all’avere fiducia nell’altro e nella sua alterità sostanziale (Wolff 1994). Ne consegue che il taglio principale della sua epistemologia e metodologia di fondo rimane appunto la rinunzia ad esprimere posizioni in prima persona, da ricercatore, fatta eccezione ovviamente per la scelta operativa iniziale, che in maniera precipua appare un’opzione dichiaratamente qualitativa (Corradi 1987). Il che è ampiamente documentato anche nei Kurt Wolff Papers, Robert D. Farber University Archives della Brandeis University di Waltham (Massachusetts), che contengono un box intitolato Surrender as a Response to Our Crisis, datato 1962 (Wolff 1962), ed un altro denominato Surrender and Catch, Hermeneutics, Phenomenology, Critical Theory, senza indicazione di data.
A ben considerare, tutta l’esistenza stessa di Kurt Wolff si muove lungo le coordinate della resa da una parte e della cattura dell’altra (Stehr 1981) e dunque la sua sociologia esistenziale è anche un volere la resa prima e la cattura poi ma proprio per sfuggire specularmente, a posizioni rovesciate dunque, al rischio della resa incondizionata al nemico ideologico e politico ed altresì della cattura, cioè della privazione di ogni libertà di pensiero ed azione. Tutto ciò si tramuta per Wolff in una scelta epistemologica e metodologica insieme che riflette da presso il suo stesso itinerario biografico: un continuo arrendersi ad ogni possibile forma di sapere per poi impossessarsene, fosse una lingua straniera, la storia, la filosofia, la poesia e non ultima la sociologia e di conseguenza il pensiero di Mannheim – di cui fu studente attento ed assiduo (Wolff 1991, 57-79) -, Simmel e Durkheim.
La definizione di resa
Wolff è uno studioso poliedrico e quindi anche le sue concettualizzazioni risentono di tale caratteristica. Inoltre il modello della resa è qualcosa che si sperimenta esistenzialmente in vari campi: dalla natura all’indagine empirica, dall’arte alla riflessione teoretica, dalla politica alla poesia, dalla filosofia alla storia ed alla sociologia.
Da un punto di vista strettamente metodologico i dati vanno accettati per quelli che sono, quasi un fatto naturale, scontato, cui affidarsi senza remore. In pari tempo occorre rinunciare a formulare ipotesi previe ed aspettative di qualunque genere. Anzi l’unica aspettativa ha da essere quella dell’attesa degli sviluppi in corso. L’alterità non si coglie a prima vista. Non si può pretendere di capire, “catturare” l’altro appena al primo incontro esplorativo. Altrimenti prevalgono le esperienze dello studioso rispetto a quelle dell’intervistato, il quale a sua volta si lascia catturare solo assai lentamente, comunque parzialmente, anzi molto parzialmente. Pertanto non è lecito e non conviene fare supposizioni sulla natura, sul profilo degli altri.
La cattura arriva ben dopo, allorquando si è instaurato un dialogo che permette la conoscenza e l’esperienza comune fra intervistatore ed intervistato, in una nuova prospettiva reciproca che appare come un nuovo inizio, un nuovo modo di essere nel mondo. Wolff, per completezza di discorso, arriva pure a dire che la cattura non è necessariamente un concetto, perché può essere ben altro: da un’opzione ad un’opera d’arte, da un cambiamento di atteggiamento ad un chiarimento, come pure un avvicinamento alla resa.
La relazione fra resa e cattura è quanto mai complessa, perché ha un andamento senza fine, senza limite alcuno. Invero, come riconosce lo stesso Wolff (1994a, 371), lo spunto iniziale proviene da una distinzione mannheimiana fra interpretazione ideologica ed interpretazione sociologica (Mannheim 1926), poi divenuta rispettivamente, in chiave wolffiana, interpretazione intrinseca, che cioè usa i termini propri di quanto deve essere interpretato senza fare alcun ricorso a risorse esterne, ed interpretazione estrinseca che si serve dell’ausilio di tutto il contesto storico-sociale.
Successivamente, nello sviluppo del pensiero di Wolff, sono diventati cinque gli aspetti della resa. Il primo concerne la massima sospensione della socializzazione ricevuta, facendo tutto il possibile per potere capire qualcuno o qualcosa, un po’ come avviene per uno studente che si cala al massimo nella disciplina che studia, trascurando gran parte di quanto già sa.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che la comprensione anche di un’esperienza unica non può esaurire tutta l’esperienza, che dunque è ancora da acquisire.
Il terzo ambito attiene alla duplice verità: scientifica ed esistenziale. Quest’ultima è la verità della resa, che è in linea con l’esame rigoroso delle più importanti esperienze.
In relazione con la verità esistenziale c’è l’estasi come quarta componente della resa, al di fuori della vita di ogni giorno e con uno spirito che non è molto diverso da quello poetico, nel suo lasciarsi condurre oltre la realtà.
La quinta caratteristica della resa è infine il rispetto per il mistero, nella dialettica fra interminabilità dell’analisi e riconoscimento indefettibile del misterioso. Ne deriva una labilizzazione, cioè un indebolimento o persino una scomparsa di norme, principi, orientamenti o tradizioni, ormai labili appunto. Da qui la necessità di un nuovo inizio della ricerca di ciò in cui credere, dopo aver messo da parte il precedente patrimonio culturale. Ma non ci si può affidare ad un’indagine senza fine senza accettare al contempo l’idea di un’inesauribilità del mistero. E dunque la cattura non pone termine al processo conoscitivo ma anzi presuppone che essa conduca ad un’altra resa e così via. Insomma resa e cattura sono indissolubilmente congiunte fra loro.
Sullo sfondo di questo itinerario è operante il pensiero di Mannheim, emergente anche nell’idea del Sich-Haben, cioè del possedere se stessi, che si realizza nell’azione della resa, la quale si coniuga altresì con il perdere se stessi (è in fondo anche il sé come un altro di Ricoeur). Pertanto il possedersi ed il perdersi fanno parte di un unico e medesimo processo. In tal modo grazie all’esperienza fatta si possono stabilire norme.
Ha ben visto Arlene Goldbard (arlenegoldbard.com/2008/12/13/surrene-and-catch/) nel definire la proposta di Wolff un nuovo paradigma, opera di uno studioso che pratica quel che predica. A suo parere la resa è arte, innovazione, che mira alla comprensione ed all’integrazione. Ma soprattutto si tratta di un “amore cognitivo, che fa vedere, non rende ciechi”, secondo l’espressione di Wolff stesso, che a sua volta individua cinque elementi: 1) il coinvolgimento totale, per cui chi ama si sente tutt’uno con chi è destinatario/destinataria del suo amore, in una situazione del tutto simile a quella della resa, che comporta uno stato di tensione o comunque di concentrazione; 2) il superamento di quanto si è appreso in precedenza; 3) la pertinenza di ogni aspetto che giunga all’attenzione del ricercatore, per cui l’amante si interessa ad ogni cosa che riguardi il suo amato o la sua amante; 4) l’identificazione, per cui chi ama si perde nel suo amore ma per ritrovare se stesso; 5) il rischio di dover subire qualche effetto dannoso, in quanto chi procede alla resa desidera il cambiamento, non senza conseguenze a livello relazionale, intersoggettivo, nonché di stima, per cui insieme con la resa si devono affrontare anche offese di vario tipo.
Il ricorso alla resa è stressante e va controcorrente rispetto alle tradizioni ed alle convenzioni, gestite da chi detiene il potere di controllo su di esse. La resa è secondo Wolff (1977) l’esercizio più radicale della ragione umana. La ribellione è al servizio dell’amore per una società più umana. In fondo l’amore per la conoscenza è la prosecuzione della plurimillenaria azione della filosofia nel corso della storia.
Una metodologia per l’analisi qualitativa
L’esperienza della resa e della cattura è totalizzante anche nel senso di abbracciare più dimensioni, da quella filosofica a quella psicologica, da quella fenomenologica a quella esistenziale, dalla critica radicale all’esistenzialismo e non da ultimo alla metodologia essenzialmente qualitativa.
I materiali di riflessione offerti da Wolff sono molteplici e non tutti riproponibili nel campo dell’analisi sociologica, ma servono a fornire un’aura, un’atmosfera, un atteggiamento di fondo che diventa asse portante, chiave di volta dell’approccio conoscitivo. Nondimeno è possibile rintracciare spunti significativi, suggerimenti operativi, che poi possono rifluire nell’attività di ricerca come veri e propri strumenti d’indagine. Così per esempio la modalità di scrivere riflessioni sui materiali di ricerca non può non rappresentare un prodromo, un’anticipazione di quella che sarà poi una caratteristica dell’analisi qualitativa: scrivere memos sui dati della ricerca in maniera tale da farli diventare ulteriori oggetti di ricerca, veri e propri dati da considerare a pieno titolo come suscettibili di approfondimento. Anche la diaristica, com’è noto, rientra giustamente fra gli elementi abituali sottoponibili ad indagine ed anzi ne costituisce un riferimento spesso imprescindibile e piuttosto fertile di risultati, come mostra fra l’altro, in Italia, il successo dell’iniziativa di una raccolta archivistica appunto di diari, ad opera di Saverio Tutino prima e di Duccio Demetrio (1996) ora ad Anghiari, con la Libera Università dell’Autobiografia, ed a Pieve Santo Stefano, con la Fondazione Archivio Diaristico.
Anche lo studio delle lettere, della documentazione personale, rientra nel filone classico della sociologia qualitativa, a partire dal classico e fondativo lavoro di Thomas e Znaniecki (1918-1920) sul contadino polacco in Europa ed in America. Ma forse il rinvio più emblematico e ricco di convergenze va fatto alla linea metodologica ed allo stile di ricerca contenuti nella Grounded Theory di Glaser e Strauss (1967), in cui la resa nei confronti del dato è altrettanto assoluta come in Wolff.
A dire il vero il taglio degli scritti del Nostro è largamente filosofico, ma anche sociologico in modo non convenzionale. Anzi, in questa scelta di fondo, è da mettere in evidenza lo spirito con cui l’autore affronta la problematica della conoscenza dell’alterità intersoggettiva: egli si serve di una esposizione letteraria, retorica quasi, per addurre prove convincenti sulla praticabilità e sull’affidabilità della sua opzione primigenia: sospendere i giudizi previi, rinunciare alle basi ed ai principi culturali di riferimento, ma con l’obiettivo di riuscire meglio a capire l’altro ed il mondo sociale circostante.
Se anche Wolff non fornisse alcuna indicazione di metodo – il che evidentemente non è – tuttavia il suo messaggio è chiaro: occorre fare tabula rasa dell’abituale modo di procedere (e dei criteri che l’orientano), al fine di rendersi disponibili all’accoglienza di qualunque indicazione provenga dal terreno di ricerca, dalle persone e dalle cose, dalla natura e dall’ambiente, dalle relazioni sociali e dai fenomeni sociali. Peraltro anche la forma scelta da Wolff per entrare in comunicazione con i suoi lettori, come già con i suoi allievi, è tipicamente evocativa più che esplicativa, allusiva più che esplicita, esistenziale più che accademica, colloquiale più che regolativa, aperta più che dogmatica.
Se Peter Berger e Thomas Luckmann (1966) con il loro lavoro sulla costruzione sociale della realtà hanno analizzato in modo sistematico l’influenza dei processi di socializzazione, Kurt Wolff (1976) ne ha stigmatizzato il peso impediente rispetto ad una conoscenza adeguata della realtà sociale. Gli uni e l’altro apportano contributi ormai divenuti classici, ma senza che la considerazione prestata ai primi pregiudichi l’attenzione da rivolgere al secondo. Invero entrambe le prospettive risultano strategiche per ogni impostazione relativa ad una sociologia di tipo qualitativo. Tuttavia è necessario dosare sapientemente i riferimenti alle due correnti di pensiero al fine di trovare un giusto equilibrio tra formule parimenti valide ed accettabili. Ove ve ne fosse bisogno, basterebbe richiamare la circostanza, non secondaria, del rifarsi di tutti e tre al pensiero magistrale di Alfred Schütz (1962-1966, 1996), con la sua fenomenologia di base, segnatamente in riferimento al rapporto con quel che si presenta o meglio si dà come “appresentazione” (Appräsentation) allo studioso-ricercatore (Schütz 1932).
Per un verso Berger e Luckmann segnalano la tendenza a “pensare come il solito” e per un altro verso Wolff proprio a ciò vorrebbe che si rinunziasse, onde permettere una più ampia comprensione dell’alterità, specialmente attraverso l’esperienza della discussione in comune, non a caso tipica di un’altra opzione metodologica di matrice qualitativa, secondo l’approccio ermeneutico di Oevermann (1979). Insomma tutto torna, il circolo virtuoso di una certa tradizione sociologica mitteleuropea si riaffaccia di continuo ed offre risorse essenziali per l’analisi sociologica basata sulla dimensione qualitativa.
Si può dire che quando Wolff pensa ad un’altra persona mette in atto la sua resa alla cattura, in quanto egli parte dal presupposto che la comprensione si raggiunge in misura adeguata solo e se si prescinde almeno inizialmente (e per un po’ di tempo ancora e fino ad un certo punto) dal proprio quadro di riferimento. Però una volta raggiunta la meta della comprensione mediante la cattura questa è da ritenere solo un’ulteriore tappa lungo un percorso mai esaurito e mai esauribile, in quanto rimane sempre sullo sfondo l’imperscrutabilità del mistero.
Questo procedimento di resa è accompagnato da presso da una sorta di “amore cognitivo” che aiuta a superare le difficoltà iniziali della resa e permette di raggiungere la presa, la conoscenza, la comprensione, grazie a dei risultati che sono cognitivi ed esistenziali allo stesso tempo. In altre parole la resa è anche una conversione (che consente peraltro l’estasi), come pure una ribellione verso il passato e la tradizione, per guardare piuttosto al futuro, in chiave creativa ed acquisitivadi ulteriori saperi. Si potrebbe pure dire che si tratta di un’ingenuità necessaria e foriera di esiti imprevedibili. Il “perdersi” nella resa prelude alla salvezza nel momento della cattura, anche se poi è solo una tappa lungo un tragitto ancora lungo.
La resa ha un carattere quasi artistico e religioso, in vista di una procedura cognitiva fatta di amore ed attenzione all’altro. A poco a poco in modo maieutico si fanno venire fuori dall’esperienza i concetti utili per la comprensione (non si può non vedere in questo un processo che appartiene anche ad altre soluzioni metodologiche: la Grounded Theory di Glaser e Strauss come l’ermeneutica oggettiva di Oevermann). L’alternativa è costituita da risultati solo approssimativi e probabili, mentre la “pretesa” di Wolff è di raggiungere ciò che è ineluttabilmente vero, o almeno – a giudizio di altri studiosi – più affidabile di quanto verificabile attraverso la strumentazione classica dell’approccio solo statistico-quantitativo. Sullo sfondo, come obiettivo finale, c’è il desiderio di mutare lo status quo. Dunque la resa non è uno stare fermi ma un altro modo di agire.
Inoltre la distinzione fra offerta ed accettazione della situazione data è solo fittizia, in quanto essa è strumentale per capire la realtà sociale. In effetti la stessa distinzione operata è frutto di quanto avvenuto, del che ci si accorge in un momento posteriore rispetto all’evento in questione.
Il significato della cattura
Alcune anticipazioni sulla dialettica fra resa e presa (o cattura) si trovano sparse in pubblicazioni antecedenti il 1976. Specificamente è il volume dal titolo Trying Sociology (Wolff 1974b, 44-45) che prelude a quello che sarà il libro successivo (Wolff 1976) completamente dedicato al tema della resa e della cattura, quale sviluppo di una particolare concezione della sociologia mannheimiana della conoscenza.
Il termine speculare, rispetto a quello di resa, è cattura (Wolff 1976, 20). Innanzitutto è bene precisare che meglio sarebbe stato da parte di Wolff risalire all’origine latina precisa del termine “concetto”, il quale ha come base il verbo all’infinito cum capere, che letteralmente significa “prendere con”, “prendere insieme”, che esprime compiutamente il pensiero wolffiano in quanto allude direttamente ad una presa congiunta, insieme con l’interlocuzione, l’incontro, l’intervista; ma il cogliere è anche un raccogliere insieme, che può sottendere e sottintendere una messa insieme dei risultati ottenuti con l’opzione iniziale costituita dalla resa, vera e propria finestra sul mondo altro, sull’altrui punto di vista, sui diversi pensieri in atto nella realtà sociale. Il con-prendere è una specie di sintonia creata fra l’io ed il tu, fra due soggetti generalizzati messi l’uno dinanzi all’altro e rispondenti con le loro reazioni, percezioni, attitudini, repliche, deduzioni. La novità delle concezioni, appunto del cum capere continuo messo in moto dalla relazione interpersonale, giustifica ampiamente la decisione iniziale (ed un po’ iniziatica) della resa, dell’affidamento, dell’accoglienza gratuita, senza ricatti né economici, né affettivi o di altra natura. L’esito finale difficilmente non è seguito da un apprezzamento positivo del percorso seguito, nonostante la sua imprevedibilità di fondo e l’assenza di eventuali esperienze previe rassicuranti. Le previsioni non rientrano in questa prospettiva epistemologica e metodologica insieme, altrimenti molto risulterebbe tanto scontato quanto inconcludente, perché non farebbe altro che confermare il già noto, rendendolo ancora più refrattario ad ogni discorso di cambiamento, di trasformazione, di miglioramento dell’esistente.
Conclusione
In fondo la stessa proposta wolffiana mira all’innovazione, alla rivolta di stampo camusiano, al superamento dello status quo. Il sottosopra che è provocato dall’inversione fra resa e cattura prelude ad una trasformazione della società stessa e comunque indica un’alternativa almeno metodologica rispetto ai canoni abituali della ricerca sociologica. Si tratta pure di un cambiamento di mentalità, che comporta l’abbandono delle concezioni pregresse. La coppia resa-cattura funge quasi da vento liberatore e purificatore, che fa cadere pregiudizi inveterati ed apre nuovi orizzonti, anche per quel che riguarda, ad esempio, le relazioni fra ebrei e musulmani. Il ricorso alla soluzione pacifica della resa e cattura potrebbe costituire, fra l’altro, un suggerimento di tipo politico. Così, in definitiva, la resa e la cattura wolffiane portano assai lontano, ben oltre il contesto fenomenologico di origine, comune anche a Paul Ricoeur.
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