Sociologia visuale e religione

Roberto Cipriani


Sociologia visuale e religione


Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


Le riflessioni sociologiche e metodologiche di Durkheim secondo il quale «essere una cosa … è tutto ciò che è dato dall’osservazione»[1] venivano offerte presso l’università della Sorbonne di Parigi più o meno nello stesso momento in cui sull’altra riva della Senna, in un locale di Boulevard des Capucines, non molto lontano dall’Opéra Garnier, i fratelli Lumière incantavano il pubblico cui veniva presentata per la prima volta, il 28 dicembre 1895,  la magia del cinematografo. Tale coincidenza temporale trova solo oggi, ad oltre un secolo di distanza, la possibilità concreta e diffusa di un medesimo approccio che sia sociologico e visuale insieme. A lungo nel passato, salvo pochissime eccezioni, gli intellettuali della società hanno pensato bene di non sporcarsi le mani con gli strumenti (ritenuti meramente tecnologici) della cinematografia e/o della fotografia, considerate poco affidabili, piuttosto artificiali e generatrici di dati artefatti, costruiti, perciò non rispondenti alla realtà, facilmente modificabili, ovvero non oggettivi e non orientati allo scopo di operazioni scientifiche, che invece non dovrebbero essere facilmente suscettibili di riserve e di critiche accentuate.


Di solito si qualifica come arte la fotografia o la cinematografia (ed oggi la videografia). E certamente lo sono. Ma ciò non esclude la possibilità che esse siano pure strumenti scientifici in piena regola e che anzi rappresentino un’opzione scientifico-metodologica a sé, con un bagaglio concettuale ed operativo proprio, specie nel caso in cui il loro uso trascenda il mero livello descrittivo (che tuttavia – è bene precisarlo – non rimane mai del tutto neutrale) e ponga questioni analitiche ed interpretative mirate ad una migliore conoscenza della realtà sociale.


Specialmente adesso che la parola d’ordine in campo metodologico sembra essere quella della triangolazione, della prospettiva multi-metodo, della connessione fra taglio quantitativo e qualitativo, la sociologia visuale presenta delle opportunità altrimenti impraticabili in precedenza.


Fra l’altro, il maggiore sviluppo della sociologia visuale si sta accompagnando ad una continua riscoperta dell’analisi qualitativa, dopo la lunga parentesi quantofrenica che ha interessato sia la sociologia nord-americana che quella europea. Con questo si potrebbe corroborare altresì un’ipotesi di sviluppo ulteriore: il futuro della sociologia sarà sempre più caratterizzato da scelte di natura qualitativa ed anche iconica (segnatamente per il peso che il linguaggio delle immagini ha assunto nelle culture contemporanee, senza distinzioni di latitudine e di longitudine). Un indizio palese proviene dalle politiche editoriali di alcune case editrici, specializzate nel campo delle scienze sociali, che ormai stanno investendo a tutto spiano appunto nel settore della qualità e dell’immagine.


Una constatazione va subito resa esplicita: così come per il qualitativo sino a qualche tempo fa, così pure per il visuale c’è molto terreno da recuperare. Vanno messe a punto le questioni teoriche di fondo, vanno studiate le metodiche da implementare, occorrono numerose esperienze empiriche di ricerca sul campo per poter definire i punti-chiave da risolvere e soprattutto per stabilire quale contributo possa essere apportato dalla sociologia visuale alle indagini. Se poi il discorso concerne in particolare la fenomenologia religiosa è sorprendente notare quanto poco spazio sia stato dato sinora alle disamine a carattere visuale in un campo che è così ricco di elementi simbolici, di riti, di liturgie, di comportamenti manifesti, esteriorizzati, di strutture visibili di potere e legittimazione, di segnali allusivi alla stratificazione delle appartenenze e della partecipazione. Pochissimi sono in effetti i sociologi della religione in grado di contemperare soluzioni numeriche e ricorsi al digitale, incroci statistici e dissolvenze incrociate, interviste focalizzate e riprese video con la messa a fuoco sullo sguardo di una persona intervistata. Insomma non solo, in generale, pare assente un minimo di competenza tecnica sull’uso e sul significato di ciò che si vede, ma manca in primo luogo una sensibilità di fondo nei riguardi di una metodologia che non è reputata classica anche se qualche autore classico ne è stato un esemplare antesignano: si tratti della coppia Gregory Bateson-Margaret Mead[2] o dell’intuizione pionieristica di Howard (Howie, per gli amici più simpatetici) Becker[3] od anche di un classico contemporaneo come Bourdieu[4].   


Stasi e dinamica della sociologia visuale (della religione)


Le pratiche dei decenni scorsi avevano indotto alcuni studiosi di sociologia attenti al fatto religioso a scattare e raccogliere foto e realizzare riprese filmiche (dapprima su pellicola e poi su nastro magnetico o in forma digitale) riferite ai fenomeni oggetti del loro studio: dalle feste ai pellegrinaggi, dai riti di religiosità popolare alle sontuose liturgie pubbliche, dalle forme di possessione a quelle di processione. Il tutto con l’intento, piuttosto evidente, di dar lustro ai dati risultati dall’indagine, proprio grazie al supporto di belle immagini a colori, volti di soggetti significativi e pure intriganti nelle loro espressioni singolari, panoramiche di masse in azione nel corso di una manifestazione. L’assenza di intenzionalità teorico-metodologiche risultava però evidente dalla presentazione piuttosto superficiale dei materiali iconici, corredati al massimo di rapide se non fuorvianti didascalie. Detto altrimenti, appariva chiaro che nessuno sforzo teoretico preliminare era stato compiuto in relazione alle immagini da riprendere, alla lettura-spiegazione da fornire, alla comprensione motivata da proporre, all’uso da farne attraverso la disseminazione dei dati iconografici, al coinvolgimento degli stessi soggetti-protagonisti nella rilettura dell’evento in esame.


Se in campo antropologico si registra qualche tentativo apprezzabile[5] non si può dire altrettanto per i sociologi, nonostante tutta una serie di suggestioni provenienti da altri ambiti scientifici. Un caso a sé è quello di Leonard Henny[6], editor di International Journal of Visual Sociology e promotore di una sociologia visuale impegnata criticamente ed attivamente nel sociale (dalla guerra in Vietnam all’uso legittimatorio del video da parte dei governanti, dalla pace all’ecologia, dal black power all’uso interattivo del video, dai mass media come arma di lotta a strumento di diffusione delle idee): «video as an organizing tool has proven to be useful, provided that it plays only a part in a well thought-through strategy of community work. ‘Instant video’ as has happened in the sixties, has less and less of a chance of succeeding, since people have become used to sophisticated video programmes on television. Very few people will now watch a programme just because it is on video (as a novelty). They tend to only really watch it as long as it is watchable and/or relevant to their concerns» [7].


L’osservazione poi di Peter Berger[8] secondo cui «the relation between what we see and what we know is never settled» non ha avuto gran seguito nella sociologia visuale dei decenni successivi, se non in qualche raro caso in Italia come altrove[9]. Gli sviluppi più significativi riguardano peraltro gli aspetti metodologici ed applicativi[10]. A tal riguardo gli aggiornamenti e le discussioni trovano spazio soprattutto nelle riviste specializzate del settore: Studies in Visual CommunicationVisual Anthropology Visual Anthropology Review (organo della Society for Visual Anthropology, che è una sezione dell’American Anthropological Association; anche nella British Sociological Association opera un Visual Sociology Study Group; nell’International Sociological Association è nato nel 2009 un Thematic Group, TG5, intitolato ‘Visual Sociology’); Visual Studies (rivista dell’International Visual Sociology Association, organismo nato nel 1981: http://www.visualsociology.org/). Ma è soprattutto attraverso Internet che è possibile avere un quadro sommario dello sviluppo della sociologia visuale in questi ultimi anni (per un esempio piuttosto utile per il carattere di ipertesto che collega fra loro teorie, concetti, metodi, autori, ricerche, esperienze, si veda VisualWikipedia ovvero VisWiki: http://www.viswiki.com/en/Visual_sociology; per un forum di Visual Sociology gestito da due studiosi italiani, Giuseppe Losacco e Nicola Vivarelli dell’Università di Bologna: http://www.comte.tv/visual_sociology_forum.htm ). 


Non mancano infine prodotti audiovisuali che trattano specificamente di tematiche relative all’approccio visuale[11], nonché la disciplina stessa della sociologia della religione, presentandone metodi ed interpretazioni attraverso Comte, Durkheim e Weber[12].


Dall’etnografia descrittiva all’ermeneutica visuale


Non scarseggiano in effetti le risorse per l’avvio di nuovi percorsi teorici e metodologici e per il successivo dibattito ed aggiornamento sulle novità del settore. Ma intanto è ancora da superare l’ostacolo di una metodologia classica rigida, statica, tutta incentrata sulle procedure e che non consente sperimentazioni ‘altre’, bollandole come non scientifiche, prive del necessario rigore, rapsodiche nella conduzione, erratiche se non erronee nei risultati. Insomma il baluardo della tradizione sociologica affermata ancora resiste di fronte all’innovazione ed all’ampliamento di metodi e tecniche. Il monopolio della ‘vera’ e riconosciuta sociologia è ancora in salde mani. Fanno perciò fatica le nuove linee ad affermarsi e consolidarsi.


Eppure i problemi rimangono gli stessi delle regole metodologiche di durkheimiana derivazione. Se il dato visuale è da considerare alla pari di altri dati non sussiste alcun problema particolare di trattamento: ha lo stesso peso di una risposta ad un questionario o di una informazione tratta da una storia di vita. Se però lo si deve soppesare diversamente sorge effettivamente la questione relativa alla sua natura, alla sua affidabilità, al suo carattere peculiare: un conto è una frequenza o una percentuale, un conto è un’istantanea fotografica o un fotogramma video. Tra le une e gli altri intercorre una differenza sostanziale: il dato quantitativo in linea di massima è un punto di riferimento definito in modo abbastanza omogeneo per qualunque studioso (anche se non mancano eccezioni), mentre il dato iconico, fondato cioè sull’immagine, è di per sé foriero di ambiguità, si presta a letture molteplici, apre una miriade di percorsi anche opposti fra loro.


Si prenda ad esempio la rilevazione videografica effettuata da una telecamera fissa nel corso di una manifestazione religiosa: appare un personaggio che compie una determinata azione, che sembra essere di preghiera dato l’atteggiamento percepibile a prima vista. Ma chi ci dice che la reale intenzione di chi si mostra orante sia quella dell’invocazione rivolta ad una divinità, ad un essere superiore, ad un santo? Non potrebbe essere invece una postura abituale del soggetto ripreso dalla telecamera il quale dunque non sarebbe in preghiera ma impegnato piuttosto in un’altra azione di cui non si coglie il significato perché estraneo al nostro modo abituale di pensare all’atto del pregare? Certo abbiamo altre certezze – dando per scontato che il materiale videografico non abbia subito alcuna manipolazione nel frattempo – ma queste sono limitate a pochi aspetti: il soggetto era lì presente, sembrava appartenere ad un genere (maschile o femminile, salvo mascheramenti o camuffamenti), era in piedi (o meno), si trovava da solo (o attorniato da altri), guardava verso una direzione (ammesso che tale aspetto fosse chiaramente individuabile), indossava un certo abito caratterizzato da un cromatismo unico (o molteplice), pareva essere un adulto (o magari un giovane od invece piuttosto anziano). Al di là di queste annotazioni, non è possibile aggiungere molto, a meno che il protagonista inquadrato non fosse già noto a chi svolgeva la ricerca, per averlo incontrato, intervistato, interpellato in precedenza.


Ecco allora che il frammento iconico ci fornisce qualche dettaglio ma non un’informazione completa, sociologicamente rilevante di per sé. Occorre in effetti tutto un lavorío ulteriore per contestualizzare l’immagine, inserirla in una dinamica più vasta, al fine di leggerla congiuntamente con altre immagini e/o dati di qualsivoglia natura, in modo da procedere successivamente ad un’interpretazione in maniera sufficientemente motivata, fondata, credibile.


L’itinerario scientifico che conduce dal dato visuale alla sua collocazione, in un quadro complessivo di spiegazione prima e di interpretazione poi, non è unico e nemmeno necessario come se fosse stato messo a punto in forma canonica ed una volta per tutte.


Innanzitutto c’è da definire l’intenzione di ricerca rispetto al dato visuale: accettarlo così come esso si presenta, o cercare di elaborarlo (consapevoli tuttavia del rischio di interferenza cui ci si espone)?


E poi: si lavora su dati visuali raccolti, o messi a disposizione da altri (siano essi i soggetti stessi coinvolti nell’indagine o i ricercatori che in precedenza hanno frequentato lo stesso terreno d’indagine), oppure si preferisce privilegiare le proprie conoscenze dirette, i propri materiali visivi?


Soprattutto va stabilito con chiarezza il ruolo dell’indagine visuale nell’insieme dello studio empirico da condurre.


Vi è chi è abituato ad operazioni storico-diacroniche per la raccolta di documenti pre-esistenti per poi trarne suggestioni di ordine scientifico. Ma vi è pure chi opta per un’azione del tutto scevra dal già dato, dall’esistente, ed intraprende dunque completamente ex novo un suo percorso investigativo, per cui se perde la ricchezza di un patrimonio acquisito e suscettibile di cumulatività forse però guadagna in chiave di neutralità, in quanto il visuale prodotto da altri è pur sempre costruito, ideologicamente orientato, frutto di scelte effettuate a monte, selettive e perciò omissive.


C’è d’altra parte un altro nodo da sciogliere. La ricerca ha da essere basata solo sugli elementi visuali o deve far ricorso ad altre fonti, ad altri strumenti? Indubbiamente la sola indagine sul visuale è abbastanza complessa e difficile da gestire; nondimeno conviene allargare l’orizzonte metodologico sino a comprendere altre soluzioni investigative, sia quantitative che qualitative, in chiave di triangolazione, di approccio misto, di multi-metodo, facendo leva su diverse possibilità, in modo da ottenere risultanze più convincenti e meno deboli sul piano dell’affidabilità scientifica.


L’approccio visuale, per di più, si presta assai bene a rispettare alcuni criteri di fondo della ricerca scientifica in generale e sociologica in particolare: si pensi alla ripercorribilità dei dati della ricerca, o alla loro modificabilità in progress, e così via. Una volta acquisito un patrimonio di immagini, esso resta a disposizione di chiunque e consente altri approfondimenti, altre risultanze, interpretazioni aggiuntive o persino contrastanti rispetto a quanto già sostenuto dal medesimo studioso e/o da altri ricercatori.  


La religione visibile[13]


Com’è noto, a lungo si è discusso sulla visibilità o meno della religione, in chiave di atteggiamenti non sempre percepibili e comprensibili e di comportamenti non sempre univoci nel loro significato intrinseco. Sull’invisibilità della religione, d’altro canto, a lungo i sociologi del settore hanno dovuto misurarsi su una problematica non posta come tale dall’autore cui veniva attribuita la teoria della religione invisibile, Thomas Luckmann: la scelta del fortunato titolo del volume era stata della casa editrice e non trovava alcun riscontro testuale nel contenuto della pubblicazione. La tesi così espressa sinteticamente nell’intitolazione del libro appariva fuorviante e neppure sostenibile sociologicamente, in chiave di non manifestazione (come è possibile studiare qualcosa che non si vede? La sociologia tutto è fuorché uno studio di ciò che è astratto).


Ora la sociologia visuale offre la possibilità di sviluppare discorsi diversi da quelli tradizionali proprio perché ha la possibilità di andare ancora più a fondo su questioni di solito messe ai margini. Infatti la strumentazione visuale, dalla fotografia al video, dal documentario al film di ricerca, apre nuovi orizzonti di analisi, rispetto ai quali sono da tempo disponibili metodi appropriati e risultati condivisibili a livello scientifico.            


La stessa crescita esponenziale delle risorse metodologiche nel campo della sociologia qualitativa ha incrementato le occasioni di ricerca e le esperienze empiriche[14], specie sull’abbrivo fornito (sin dagli anni sessanta del secolo passato) dalla nuova formulazione teorica definita Grounded Theory[15], che elimina il ricorso alle ipotesi iniziali di lavoro, parte dai dati per costruire la teoria e consente elaborazioni computer-assistite che hanno nel software chiamato NVivo il supporto più adatto perché ‘dedicato’. Di recente con la nuova versione denominata NVivo 8 è stata offerta la possibilità di condurre indagini anche attraverso le immagini. In definitiva un nuovo promettente orizzonte sembra aprirsi anche per la sociologia della religione, magari con il sussidio di nuovi studi interdisciplinari[16] [Morgan 2007, 2008]. 



[1] É. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, Paris, Alcan, 1895, p. 27.


[2] G. Bateson, M. Mead, Balinese Character. A Photographic Analysis, New York, New York Academy of Sciences, 1942.


[3] H. S. Becker, Art Worlds, Berkeley, University of California Press, 1982; H. S. Becker, Doing Things Together. Selected Papers, Evanston, Northwestern University Press, 1986.


[4] P. Bourdieu (sous la direction de), Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie, Paris, Minuit, 1965; Photography. A  Middle-b  row Art, Stanford, Stanford University Press, 1990.


[5] C. De France, Cinéma et anthropologie, Paris, Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, 1982; N. C. R. Bogaart, H. W. E. R. Katelaar (a cura), 1983, Methodology in Anthropological Filmmaking, Goettingen, Edition Herodot, 1983; P. Chiozzi, Manuale di antropologia visiva, Milano, Unicopli, 1993; J. Ruby, Picturing Culture. Explorations of Film and Anthropology, Chicago, The University of Chicago Press, 2000; M. Canevacci, Antropologia della comunicazione visuale, Roma, Meltemi, 2001; F. Faeta, 2003, Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia visiva, nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, Franco Angeli, 2003; S. Pink, The Future of Visual Anthropology, London, Routledge, 2005; S. Pink, Doing Visual Ethnography, London, Sage, 2006; S. Pink, Doing Sensory Ethnography, London, Sage, 2009.


[6]L. Henny, Raising Counsciousness through Film (II). The Use of the Audiovisual Media in International Development Education, Utrecht, Sociological Institute-University of Utrecht, 1980; L. Henny, Video and the Community, in P. W. Dowrick, S. J. Biggs (eds.), Using Video. Psychological and Social Applications, London, Wiley & Sons, 1983, pp. 167-177; L. Henny, Theory and Practice of Visual Sociology, «Current Sociology», 34, 3, 1986, pp. 1-76.


[7] L. Henny, Video and the Community, in P. W. Dowrick, S. J. Biggs (eds.), Using Video. Psychological and Social Applications, London, Wiley & Sons, 1983, p. 175.


[8] P. Berger (ed.), Facing Up to Modernity, New York, Basic Books, 1977, p. 7.     


[9] F. Mattioli, Sociologia visuale, Torino, ERI, 1991; F. Faccioli, D. Harper (eds.), Mondi da vedere. Verso una sociologia più visuale, Milano, Franco Angeli, 1999; F. Faccioli, G. Losacco, Manuale di sociologia visuale, Milano, Franco Angeli, 2003; F.Mattioli, La sociologia visuale. Che cos’è e come si fa, Acireale-Roma, Bonanno, 2007; U. T. Kissmann (ed.), Video Interaction Analysis. Methods and Methodology, Frankfurt am Main, Berlin, Bern, Bruxelles, New York, Oxford, Wien, Peter Lang, 2009;  H. Knoblauch, B. Schnettler, J. Raab, H.-G. Soeffner (eds.), Video Analysis: Methodology and Methods. Qualitative Audiovisual Data Analysis in Sociology, Frankfurt am Main, Berlin, Bern, Bruxelles, New York, Oxford, Wien, Peter Lang, 2009; D. Harper, Visual Sociology. An Introduction, London, Routledge, 2010.


[10] M. W. Bauer, G. Gaskell (eds.), Qualitative Researching with Text, Image and Sound,  London, Sage, 2000; G. Rose, Visual Methodologies. An Introduction to the Interpretation of Visual Methods, London, Sage, 2006; G. Stanczak (ed.), Visual Research Methods, London, Sage, 2007; M. Banks, Using Visual Data in Qualitative Research, London, Sage, 2008; C. Heath, P. Luff, J. Hindmarsh, Audio Visual Methods in Social Research, London, Sage, 2009.




[11] R. Coover, From Vérité to Virtual: Conversations on the Frontier of Film and Anthropology, documentario, New York, Insight Media, 58 minuti, 2007.


[12]  Sociology of Religion, DVD, New York, Insight Media, 2007.


[13] T. Luckmann, 1967, The Invisible Religion. The Problem of Religion in Modern Society, New York, Macmillan, 1967.


[14]  G. Losacco, Godstock. I papa boys al giubileo del 2000, Milano, Franco Angeli (con video-cassetta), 2003.


[15]  B. Glaser, A. Strauss, The Discovery of Grounded Theory. Strategies for Qualitative Research, New York, Aldine, 1967; ed. it., La scoperta della Grounded Theory. Strategie per la ricerca qualitativa, Roma, Armando Editore, 2009.


[16]  D. Morgan, The Lure of Images. A History of Religion and Visual Media in America, New York, Routledge, 2007; D. Morgan, Key Words in Religion, Media and Culture, New York, Routledge, 2008.