La Religione dei valori diffusi

Premessa

Non è facile definire una volta per tutte che cosa sia la religione: in linea di massima si distingue fra un approccio sostantivo ed un approccio funzionale. Sarebbe sostantivo quello di Durkheim[1] che parla di «credenze e pratiche» come base costitutiva della «comunità morale» detta «chiesa», sarebbe funzionale quello di Luckmann[2] che si riferisce agli «universi simbolici» come «sistemi di significato socialmente oggettivati», attraverso« processi sociali» – considerati «fondamentalmente religiosi» – «che conducono alla formazione dell’Io» ed alla «trascendenza della natura biologica».
Ma a ben scavare nei testi durkheimiani ed in quelli luckmanniani ci si accorge che Durkheim è anche attento alla funzione (infatti la religione serve per la solidarietà) e che Luckmann non bada solo alla funzione (in effetti la religione è una concezione del mondo costituita da contenuti specifici).
Dunque già coloro che vengono citati come campioni esemplari dell’una o dell’altra prospettiva in realtà risultano alla fine più orientati verso soluzioni meno rigide, polivalenti. Insomma contenuti e funzioni non sono separabili ed anzi vanno considerati come un unicum, il che consente l’implementazione di percorsi analitici ed interpretativi ben più complessi.
Si potrebbe partire, per esempio, dall’idea che il riferimento metaempirico nell’attribuzione di significato all’esistenza umana sia un carattere peculiare della religione, ma in pari tempo è opportuno lasciare un varco aperto anche a soluzioni che non contemplino un esplicito rinvio alla dimensione della non verificabilità empirica e della impraticabilità dell’esperienza diretta. Insomma il riferimento metafisico avrebbe solo un carattere meramente orientativo, «sensibilizzante» per dirla con Blumer[3]. «In tal modo non si ha un contrasto fra livello trascendente e livello reale. In sostanza è come se da due diversi punti di vista si guardasse ad un medesimo oggetto: l’innervamento di una presenza non umana nella realtà ed il radicamento di un significato esplicativo all’interno della stessa realtà. L’una delle due visioni non esclude l’altra, non vi si oppone, anzi vi può essere talora una convergenza che approdi al medesimo risultato: la comprensione-spiegazione della vita in chiave religiosa»[4].

Per una definizione flessibile di religione

Se si dovesse precisare ulteriormente (almeno per quanto riguarda il contenuto), per una definizione flessibile di religione si potrebbero prendere in considerazione le seguenti variabili: «In primo luogo la religione è fatta di relazioni interpersonali con altri soggetti umani e/o con una o più divinità. Tali relazioni sono costituite principalmente da convinzioni (credenze), sentimenti (emozioni), principi (valori) e pratiche (riti, cioè atti cultuali, ma anche azioni, sia quotidiane che straordinarie), interconnesse fra loro in modo più o meno coerente. La libertà del soggetto nella sua imprevedibilità produce eventi non usuali e congiunzioni singolari. Intanto però la tradizione delle religioni storicamente riconosciute continua a consolidare i suoi tratti più significativi attraverso nozioni, precetti, cerimonie, secondo le contingenze temporali ed ambientali. Non rientra nella ricerca sociologica stabilire l’esistenza di un dio, l’immortalità dell’anima, il ciclo della reincarnazione, il sistema premiale o sanzionatorio del comportamento umano, la vita ultraterrena, la rivelazione divina all’uomo, ma ciascuno di questi elementi può essere qualificante per l’una o l’altra religione e rientrare dunque in uno schema definitorio (debitamente contestualizzato) non suscettibile però di prova empirica. Va poi da sé che nessuna delle religioni appare come la religione per antonomasia, per cui vengono a cadere anche le remore sull’uso della dizione sociologia della religione invece di sociologia delle religioni.
In secondo luogo la religione si estrinseca come legame con la divinità, che tiene uniti gli uomini fra loro in chiave universale anche attraverso il sentimento di devozione verso un dio, per il rispetto che gli è dovuto. Pertanto l’oggetto di tale venerazione diventa qualcosa di sacro, di altamente diverso, intoccabile, superiore. Verso di esso ci si fa scrupolo di osservare con deferenza e reverenza ogni buona norma e prassi secondo precetti prestabiliti.
In terzo luogo la religione è manifestazione di un credere profondo e convinto, è professione di fede anche accentuata e non del tutto riflessiva, non necessariamente critica, in rapporto a concezioni della vita che hanno il carattere di cogenza, di valore paradigmatico, con un’accettazione quasi incondizionata. La fede si esprime appunto nell’affidamento ai valori ritenuti fondamentali, indefettibili. Essi presiedono quasi ad ogni scelta, per quanto minima.
In quarto luogo la religione è fervore, impegno, dedizione, pratica continua, comportamento devoto, pietà, in fondo religiosità manifestata esteriormente nel raccoglimento, nella compunzione, nella meditazione, nella riflessione, nel silenzio»[5].
Va tuttavia detto che questi connotati della religione rappresentano semplicemente una traccia dialogica ed aperta, in funzione di guida per la ricerca teorica ed empirica, e non altri elementi catalogatori da aggiungere al gran novero di definizioni già esistenti.
Intanto però ogni religione propende ad autoconsolidarsi sempre più, salvaguardando la sua autonomia, la sua indipendenza da ogni forma di stato ma pure da altre religioni concorrenti. Oggi però con i processi globali in atto e con l’aumento dei flussi migratori da un paese all’altro il confronto a livello sociale, politico e religioso comporta l’assunzione di nuove strategie da parte delle chiese, delle denominazioni e dei movimenti religiosi. Inoltre si sta per affermare in diversi luoghi pure una nuova concezione della laicità, intesa come spazio comune, luogo pubblico di convivenza e di condivisione, che mette in crisi le identità di partenza, le tradizioni plurisecolari, le frontiere ed i confini consolidati.
L’andamento reale, tuttavia, rimane a due velocità. Mentre in alcuni contesti si è preso atto dell’avvento di nuove dinamiche altrove si registra una tendenza a ripercorrere soluzioni inveterate, con il tentativo di restaurare prospettive autoreferenziali, monorientate, centralizzate, non disponibili alla dialettica imposta dai fatti e dalle istanze degli attori sociali protagonisti della realtà.

Verso una religione dei valori diffusi

Indubbiamente la presenza di valori è una costante sia delle religioni storiche, più radicate a livello culturale, sia dei nuovi movimenti religiosi, ancora in fase di crescita ed assestamento. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.
Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza – anche in termini di rational choice[6]-, la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.
Detto altrimenti, ogni celebrazione di un rito svolge funzioni molteplici, ma soprattutto mette a fuoco l’insieme di valori che una certa religione promuove e diffonde attraverso i suoi membri, i quali più partecipano e più si convincono della loro scelta come giusta.
Quest’ultimo effetto è di tale pregnanza che permane, seppur indebolito, anche in assenza di una successiva, ulteriore partecipazione costante. Dunque l’esperienza della pratica (e della credenza) religiosa induce di per sé un habitus[7] ideale e valoriale che tende a persistere ben al di là di una religiosità visibile. Infatti anche chi non è più praticante e magari è anche sempre meno credente conserva una sorta di imprinting, non facilmente cancellabile, che lo vede come membro disaffezionato ma con legami ancora significativi con l’ex gruppo di riferimento.
Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale, nell’ambito dei peer groups). La lezione berger-luckmanniana[8] in proposito rimane magistrale: in effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere ‘religioso’ dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.
Ora però, invece di distinguere fra una religiosità tradizionale, legata alle strutture di chiesa ed abbastanza visibile nelle sue forme, da una parte, ed una religiosità più individualizzata[9], privatizzata e dunque meno visibile, dall’altra, può essere più opportuno far leva su una disarticolazione interna alla fenomenologia religiosa in chiave di dinamiche più stratificate, dalle sfaccettature molteplici. In pratica non è detto che vi siano solo una religione di chiesa ed una religione invisibile alla Luckmann[10], è ipotizzabile piuttosto un’altra soluzione che preveda categorie intermedie più o meno vicine ai due poli definiti in termini di visibilità/invisibilità.
Una prima interpretazione post-luckmanniana venne presentata a Londra, nel 1983, ed applicata alla situazione italiana, in occasione della diciassettesima Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione[11].
Il punto di partenza era rappresentato dall’influenza della religione cattolica sulla politica in Italia. Si trattava di un indicatore casuale ma rivelatosi assai illuminante in seguito, anche perché sempre più è stato possibile verificare che una simile influenza riguardava e riguarda ambiti ben più ampi della politica. Anzi, oggi, dopo quasi un ventennio, sembrerebbe che il peso della religione si sia ridotto nei riguardi delle decisioni di natura partitica e governativa ma che sia rimasto piuttosto saldo nei confronti della società in genere e dell’opinione pubblica, su cui contare per interventi di natura giuridico-politica. Nel contempo si è attenuato lo spirito antistituzionale, visto che la chiesa cattolica è l’istituzione meno osteggiata dai cittadini italiani, che peraltro le assegnano quote non trascurabili delle loro tasse (con il cosiddetto ‘otto per mille’ dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche).
Venuta meno l’incidenza preponderante del cattolicesimo ufficiale non si sono però immediatamente sostituite ad esso altre confessioni religiose. Semmai solo l’ebraismo è riuscito in qualche occasione particolare ad ottenere rispetto per le proprie scadenze festive e per le proprie consuetudini. Del tutto trascurabile appare per ora la capacità degli islamici, dei ‘Testimoni di Geova’ ed altri insiemi religiosi organizzati di farsi ascoltare a livello politico.
Invece è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, dopo essere partiti dal concetto di «religione diffusa»[12] in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, si è giunti poi ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.
Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema, ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa (altrimenti definita di tipo ufficiale) sarebbe parte fondamentale (all’origine) della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis). Peraltro la sua diversificazione rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse, rispetto al modello ufficiale cattolico. Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico, e quindi culturale, della religione praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice, svolta capillarmente sul territorio, da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali. In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how relativamente efficace. Di tale efficacia la prova migliore è data dal proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche. Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, non particolarmente attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono in genere poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento, ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non condivisi.    
Anche la religione diffusa rischia di essere classificata come una «religione invisibile» sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una ‘semiappartenenza’ o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi).
Si potrebbe persino parlare di religione diffusa come effetto quasi ‘perverso’ dello stesso sistema religioso dominante, che genera dunque – in continuità con se stesso – ciò che è altro da sé. La maggiore libertà nel porsi al di fuori della «chiesa ufficiale» consente spazi di azione altrimenti impediti. Insomma non vi è una netta opposizione ma neppure una decisa adesione della religione diffusa alla religione di chiesa.
Nonostante la sua pervasività, la religione diffusa non è presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa. Se si guarda in particolare alla collocazione politica, tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra[13]. Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei principii laici, però vagamente ispirati od ispirabili a modelli ortodossi sul piano della confessione di appartenenza. Sembra dunque che la religione diffusa quand’anche fosse destinata a restare talora in balia di altre confessioni mantenga il suo richiamo maggiore nei confronti dei valori immessi dalla socializzazione pregressa.  
Una ventina di anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa «religione diffusa»[14]. Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti religiosi anche l’approccio sociologico si modifica, mettendo a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scavando più a fondo nella realtà e cercando verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.
A dire il vero, sino alla fine degli anni ’80 non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili, che fossero frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative, sul piano statistico, in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque anche sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori[15] all’indagine nazionale su La religiosità in Italia[16], a quella a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism[17].
Soprattutto nel corso di questi ultimi decenni, si è constatato che le relazioni fra chiesa cattolica e stato italiano – anche se non del tutto scomparse, come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso, fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 e ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche o sul testamento biologico) – non sono più un test di prova della capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane. Una volta regolate – in forma solenne il 18 febbraio 1984 e poi con una legge il 20 maggio 1985 – le questioni maggiori sul piano diplomatico, mediante il rinnovo del Concordato del 1929 fra stato italiano e gerarchia vaticana, la cosiddetta «questione cattolica» sembra aver perduto mordente ed interesse, almeno nei termini già noti. Anche il movimento definito come contestazione cattolica ha da tempo tirato i remi in barca e sembra ridursi ora a qualche sporadico tentativo di dissenso rispetto all’establishment. Neanche l’occasione dell’Anno Santo del 2000 ha offerto particolari occasioni di ripresa in chiave critica, prendendo spunto dagli eventi collegati al giubileo.
In qualche misura proprio quella che si potrebbe oramai definire come «religione dei valori diffusi» rappresenta anche una sorta di sostituto funzionale della divergenza dalla struttura ecclesiastica. Tale differenziazione si manifesta attraverso altri modi di credere e praticare, sebbene la base di fondo rimanga impregnata di cattolicesimo.
Il nucleo essenziale della «religione dei valori diffusi» è rinvenibile appunto nell’insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano i cattolici ma anche i non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società (si pensi al fenomeno tutto italiano dei cosiddetti «atei devoti»). Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico, dopo qualche tentativo più proteso ad una maggiore presenza nell’arena pubblica, sembra oggi restare sullo sfondo, intervenendo in modo piuttosto mediato. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come orientamento di massima. Appunto questo consente una certa collaborazione fra stato italiano e chiesa cattolica, senza grandi turbative e con un’intesa anche formale e legittimata, che dura da ottanta anni.
Come già sottolineavano Calvaruso ed Abbruzzese[18], la religione diffusa appare come un antidoto al processo di secolarizzazione, di cui però è in pari tempo un’espressione significativa quale presa di distanza dalla religione di chiesa[19]. Un esempio peculiare veniva poi fornito pure dai dati generali di un’indagine socio-religiosa condotta nella Sicilia centrale[20], largamente premonitrice di sviluppi successivi:

                Religione di chiesa acritica                                              101 (14,0%)

                Religione di chiesa critica                                                261 (36,3%)

                Religione critica come divergenza                                 79 (11,0%)

                Religione diffusa come condizione                                190 (26,4%)

                Religione critica come allontanamento                          47   (6,5%)

                Non religione                                                                         41   (5,8%)

                TOTALE                                                                            719 (100%)

Sulla base di questi risultati si era sostenuto che la religione dei valori abbracciasse le quattro categorie centrali della tabella presentata sopra. In particolare l’ambito ascrivibile alla religione dei valori andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata come religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Risulterebbe così un ampio quadro di religiosità non istituzionale, fondata su valori condivisi e rappresentati essenzialmente dalle scelte operate (fino ad un massimo di quattro risposte) dagli intervistati, in termini di principi-guida della loro vita, a partire dall’educazione ricevuta fino all’età di diciotto anni:

                Valori particolaristici

                               Attaccamento alla famiglia                              450 (62,6%)

                               Amore per i figli                                                 232 (32,3%)

                               Buon uso del denaro                                           69 (  9,6%)

                               Fare da soli                                                            66   (9,2%)

                               Guadagnare molto                                               32   (4,5%)

                Valori universalistici

                               Onestà, serietà                                                    532 (74,0%)

                               Fede in Dio                                                          386 (53,7%)

                               Rispetto degli altri                                              213 (29,6%)

                               Aver la coscienza a posto                                 131 (18,2%)

                               Attaccamento al lavoro                                     120 (16,7%)

                               Amicizia, solidarietà                                         105 (14,6%)

                               Accontentarsi del poco                                       99 (13,8%)

                               Generosità, carità                                                 96 (13,4%)

Come è facile desumere dalle percentuali fatte segnare dai diversi elementi valoriali, è plausibile sostenere che non solo siamo di fronte ad una vera e propria religione dei valori, cioè basata su valori largamente condivisi, ma tali valori possono essere considerati di per se stessi quasi una sorta di religione con venature laiche, profane, secolari. In definitiva si è passati da una religione di chiesa dominante ad una religione diffusa maggioritaria e quindi ad una religione articolata principalmente attraverso valori: la conclusione è che la religione può essere definita una modalità di trasmissione e diffusione dei valori, anzi che essa svolge peculiarmente tale compito funzionale e lo svolge in modo tendenzialmente efficace.
Si risolve così anche la diatriba fra definizioni sostantive e definizioni funzionali: in chiave sostantiva gli elementi costituenti di una religione sono i valori che essa insegna e propala, mentre in chiave funzionale il compito della religione – specialmente quando essa appare come prevalente in un dato quadro storico-geografico – è quello di offrire punti nevralgici di aggancio per la vita comunitaria, per l’agire sociale, per le scelte ‘razionali’ da compiere sulla scorta di linee-guida acquisite e da porre in essere nella vita quotidiana e nelle scelte esistenziali fondamentali. 

Il caso di Roma

Emblematico è il caso di Roma, chiamata città sacra per eccellenza eppure fortemente secolarizzata. La capitale mondiale del cattolicesimo, luogo di convergenza universale per più di una decina di milioni di pellegrini in occasione del giubileo del 2000, presentava invero livelli piuttosto bassi di pratica religiosa: quella dichiarata come regolare, cioè una volta per settimana, era del 23,3%[21] mentre il 22,1% non andava mai a messa; ma era consistente il tasso di coloro che pregavano, in quanto si trattava del 71,5% degli intervistati, i quali si dedicavano alla preghiera magari anche solo qualche volta in un anno (14,9%) o ben più spesso (cioè una o più volte ogni giorno), come faceva il 32%. Dunque si registravano nel contempo uno scarso attaccamento alla pratica ma altresì un ampio interesse per la preghiera. Ciò significava che la ritualità non era tutto nella religione e che anzi il legame più frequente con la divinità passava attraverso l’orazione, cioè un colloquio diretto, a livello interpersonale.
Si potrebbe a tal proposito sostenere che mentre la pratica della messa festiva è più legata ad una religione di chiesa quella del ricorso alla preghiera ha un carattere più spontaneo, libero, sottratto al controllo sociale, ma comunque indicatore, rivelatore di una credenza, di un legame, di una sensibilità a livello religioso. In pratica, se Roma non appariva certo come una città di tanti praticanti non lo era neppure di molti atei, agnostici o indifferenti sul piano religioso (va tuttavia tenuto presente che il 21,3% dei soggetti intervistati – il tasso più alto in assoluto di tutto il Paese – non mostrava alcun segnale di religiosità). La capitale italiana presentava, accentuate, alcune caratteristiche rilevate nel campione nazionale della ricerca svolta nel 1994-95 sulla religiosità in Italia: per esempio, in un intero anno appena il 7,6% aveva partecipato a pellegrinaggi ed il 13,6% aveva fatto o soddisfatto un voto. In definitiva la religiosità dei romani sembrava bifronte: per un verso si mostrava come pervasa da una crisi drammatica, per un altro appariva anche piuttosto vitale (sebbene a debita distanza dalle consuetudini della chiesa ufficiale). Anche oggi il trend religioso della città eterna sembra destinato a procedere lungo queste due direttrici divergenti ma anche tendenzialmente parallele. Ulteriori indagini andrebbero però svolte per approfondire questo aspetto.
Lo stesso può dirsi in linea di massima per l’Italia, sia pure con qualche differenza sostanziale: la religione di maggioranza si innervava nella coscienza individuale guidata dalla legge di Dio secondo il 40,4% degli intervistati, su un campione ponderato di 4500 individui[22], nella sola coscienza individuale per il 36% dell’universo campionato ed esclusivamente nella legge di Dio per il 22,1%. Sul piano dei valori vissuti con soddisfazione si trovava al primo posto la famiglia su cui contare (nel 73% del campione), seguita dal lavorare con onestà ed impegno (secondo il 68% degli intervistati), dall’avere amici (per il 38% degli interrogati in proposito), dall’avere un buon rapporto affettivo (nel 35% dei casi), dall’essere sicuri del posto di lavoro (a detta del 34% dell’universo d’indagine). Più contenuti apparivano il dedicarsi agli altri (25%) e l’impegnarsi per modificare la società (22%).
Il quadro complessivo che ne risultava era variegato ma consolidava l’immagine di una religiosità diffusa e frattalica, frastagliata, con profili eterogenei. Secondo gli esiti della cluster analysis venivano classificati come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.

Nel dettaglio l’articolazione della religiosità italiana mostrava la seguente tipologia:

                1) Religione di chiesa orientata (eterodiretta)                9,4%

                2) Religione di chiesa riflessiva (autodiretta)              22,6%

                               Totale della religione di chiesa (1+2)          32,0%

                3) Religione modale (diffusa) primaria                         16,5%

                4) Religione modale (diffusa) intermedia                     21,6%

                5) Religione modale (diffusa) perimetrale                    21,0%

                                Totale della religione modale

                             o diffusa (3+4+5)                                         59,1%

                               Totale della religione continua

                            (1+2+3+4+5)                                                 91,1%

                6) Non religione                                                                    8,9%

                               Totale generale (1+2+3+4+5+6)              100,0%

Come si vede dalla consistenza percentuale delle sei classi attitudinali e comportamentali, la religione in senso lato (sia di chiesa che modale o diffusa) era largamente preponderante ed era ovviamente quasi tutta di matrice cattolica. Percentualmente, era minoritaria la religione di chiesa ed era maggioritaria quella diffusa (chiamata modale perché statisticamente è in pratica la moda, cioè il carattere al quale corrisponde la massima frequenza). Ma tra minoranza e maggioranza non c’era frattura, anzi spesso era difficile stabilire il discrimine fra l’una e l’altra, in particolare poi fra religione di chiesa riflessiva (più autonoma, più individualizzata, meno propensa ad accogliere le direttive del magistero ufficiale ecclesiastico) e religione modale o diffusa primaria (più diversificata rispetto all’appartenenza di chiesa). Infatti religione di chiesa e religione modale o diffusa erano in stretta relazione fra loro, anzi la seconda scaturiva dalla prima, per cui si poteva parlare di una vera e propria religione continua che concerneva il 91,1% degli intervistati, senza interruzioni del discorso religioso e dei suoi contenuti, specialmente in campo valoriale.
Ancora più convincente, se possibile, era quanto emergeva da una successiva indagine internazionale comparata fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism, che in Italia aveva visto impegnate le università di Torino, Padova, Trieste, Bologna e Roma. Il campionamento italiano era stato messo a punto dalla Doxa ed aveva riguardato 2149 interviste (1032 maschi e 1117 femmine, a partire dai diciottenni ed oltre), realizzate per 742 casi in comuni capoluoghi e per altri 1407 in centri non capoluoghi.
Il 97,5% si era dichiarato cattolico; il 31,2% si era detto molto vicino alla chiesa; il 45,5% si era proclamato vicino ad essa. Il 51,1% aveva ricordato che all’età di dodici anni andava in chiesa almeno una volta ogni settimana, ma c’era pure il 21,7% che aveva parlato di più di una volta per settimana ed il 6,7% di una partecipazione quotidiana alle funzioni religiose.
Conferme significative sul gradimento della religione provenivano dalla valutazione se essa fosse più o meno importante rispetto a venti anni prima: il 29,6% aveva sostenuto che essa era ugualmente importante, il 22,2% che lo era un po’ di più, mentre il 12,8% aveva ritenuto che lo fosse molto di più.
Quanto poi al rapporto fra educazione e religione, era dato per scontato un nesso assai stretto soprattutto se si tiene conto che il 35,9% degli intervistati appariva molto influenzato dall’educazione ricevuta.
Va poi considerato che ben l’81,2% dell’universo indagato aveva ammesso esplicitamente di appartenere ad una chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa.
Infine l’86,4% aveva detto di dedicarsi alla preghiera, sebbene con diversificazioni sia quantitative (una o più volte) che temporali (ogni giorno o durante l’anno). 

In definitiva sembrano abbastanza provate due caratteristiche:

  1. i contenuti essenziali della religione sono i valori, ancor più dei riti e delle credenze;
  2. la funzione della religione risulta essere proprio la diffusione dei valori.

Pertanto la religione può essere intesa sostanzialmente come agente diffusore di valori.
Ciò era quanto emergeva fino a qualche anno fa. Nel frattempo non ci sono state altre indagini scientificamente affidabili a livello nazionale. Non vi sono però dubbi sulle dinamiche in atto, interpretabili in chiave di «religione dei valori diffusi». Occorrerebbe tuttavia promuovere quanto prima ulteriori studi empirici per accertare quale sia il livello di accelerazione (o meno) delle tendenze rilevate in precedenza.

Conclusione

Per un ventennio il concetto di religione diffusa è stato più volte adoperato per sperimentarne l’efficacia euristica. A partire da un’originaria applicabilità al caso italiano si è passati anche a proporlo in altri contesti in cui fossero caratteristiche la centralità e la numerosità di una specifica confessione religiosa. L’esito più significativo è dato dalla verifica del ruolo dei valori come base portante di molte espressioni religiose. Al di là della partecipazione (socializzante e consolatoria) alle cerimonie e della credenza-fiducia in qualcosa che, in termini sociologici, sfugge ad ogni analisi empirica, risulta che sono piuttosto i valori a fungere da chiave di volta della Weltanschauung religiosa.

Abstract

L’ambito ascrivibile alla religione dei valori diffusi andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata come religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Secondo gli esiti della cluster analysis vengono classificati come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.

The area that can be ascribed to the religion of diffused values runs from the category defined as religious (church) critical to that described as religious (distancing self from church) critical, and thus includes both a part of church religion (the less indulgent part) and the whole gamut of diffused religion, along with all forms of critical religion. Thus the framework of non-institutional religion appears much broader, being based on shared values which are represented essentially by choices acted upon by those interviewed, in terms of guiding principles of their life, commencing with education received.

Roberto Cipriani è docente ordinario di Sociologia e direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione nell’Università Roma Tre. È stato presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia e presidente del Comitato di Ricerca di Sociologia della Religione nell’International Sociological Association. Ha diretto come Editor-in Chief la rivista International Sociology. Ha condotto studi e ricerche anche in Grecia e Messico. Fra le sue pubblicazioni: Lévi-Strauss. Una introduzione (1988), Sociologie del tempo (1997), Metodologia delle storie di vita (19953), Il pueblo solidale (2005), L’analisi qualitativa (2008). Il Manuale di sociologia della religione (1997) è stato edito anche in inglese, spagnolo, francese, portoghese e cinese. Nel 2009 ha pubblicato presso Borla il Nuovo manuale di sociologia della religione.


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[10] T. Luckmann, The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, cit.

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[14] R. Cipriani‘Diffused Religion’ and New Values in Italy, cit., p. 24.

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[18] C. Calvaruso, S. Abbruzzese, Indagine sui valori in Italia. Dai postmaterialismi alla ricerca di senso, SEI, Torino 1985, p. 79.

[19] Ibidem, p. 80.

[20] R. Cipriani, La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, cit.

[21] R. Cipriani, a cura di, La religiosità a Roma, cit.

[22] V. Cesareo, R. Cipriani, F. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, cit., p. 180.