La complessificazione del lavoro e dell’economia
Lavoro ed economia sono cambiati, all’inizio del nuovo millennio, in misura di gran lunga maggiore rispetto a quanto fatto registrare all’epoca della rivoluzione industriale. In effetti il periodo posteriore all’affermarsi e diffondersi della società industriale sta già facendo intravedere nuovi scenari, di cui la flessibilità del lavoro e la complessificazione dell’economia sono i primi e sempre più evidenti segnali. Sociologi ed economisti sono in particolare difficoltà nel tracciare un’analisi della presente società e soprattutto sembrano avere pochi strumenti per ipotizzare quali possano essere gli sviluppi futuri.
Si parla di società flessibile e liquida, di lavoro sgranato, divenuto un particolato sfuggente a qualificazioni precise.
Intanto in Italia ed in Europa però le conseguenze sono evidenti: il calo demografico è solo in parte compensato dalla nascita di neonati stranieri, i giovani rinviano l’età del matrimonio, il lavoro è in genere caratterizzato dalla precarietà e dall’incertezza, ogni nuova impresa appare rischiosa anche per la costante mutevolezza della normativa in materia.
Le soluzioni non mancano. Molte sono allo studio. Alcune sono già in atto ma i risultati non appaiono chiari.
Il punto cruciale è riuscire ad amalgamare le istanze soggettive con gli interessi collettivi, il lavoro con la sicurezza, la prestazione d’opera attuale con le previdenze del futuro, gli imprevisti (incidenti, malattie, ecc.) con le provvidenze del caso.
Ancora una volta si tratta di cercare intensamente e scientificamente il punto di convergenza più adatto, di volta in volta, ad affrontare le emergenze.
Il ruolo del tempo
In questo quadro così difficile da leggere ed interpretare c’è una categoria concettuale che può svolgere un ruolo-chiave: il tempo. Si deve infatti ad accelerazioni temporali il nuovo scenario costituito dal mercato del lavoro dove la rapidità delle informazioni, per esempio, fa agio sulle competenze di settore e dove le durate dell’impiego incidono direttamente sui risultati. Com’è noto, in alcuni ambiti l’obsolescenza non solo dei prodotti ma anche – è una constatazione – delle risorse umane (o, meglio, delle persone) è un dato di fatto che si considera ormai scontato.
Un atteggiamento lamentevole, però, non paga, di fronte a problematiche che hanno già una loro configurazione ben radicata, modelli di comprensione sofisticati, prassi consuetudinarie e routines immarcescibili.
Ecco dunque delinearsi la necessità di studi mirati al problem solving, nell’interesse congiunto delle persone e della loro collettività di appartenenza.
Su questo terreno è evidente che hanno un ruolo strategico le reti solidaristiche di intervento, orientate allo scopo in forma responsabile, condivisa, partecipata, consapevole.
Ed anche qui emerge, una volta di più, la questione formazione, ovvero la cultura della sociabilità come caratteristica diffusa, innervata nelle agenzie educative (dalla famiglia alla scuola, dalla cooperazione aziendale alla sportività di squadra e così via).
In ogni caso il fulcro resta la dimensione temporale, con particolare riferimento all’uso ed alle scelte del tempo, caso per caso, momento per momento, azione per azione.
In un mondo globalizzato permane comunque la struttura fisica di soggetti umani la cui esistenza fa continuamente i conti con le possibilità di accesso o meno alle potenzialità offerte dall’economia, dalle condizioni peculiari di un territorio, dalle chances di una rete informatica, dalle abitudini di tipo inventivo-innovativo.
Insomma il tempo appare la chiave di volta di molte soluzioni nel campo dell’economia e del lavoro. E dunque un’adeguata didattica del tempo o, meglio, del suo utilizzo può offrire nuovi inputs in chiave di inserimento nel sociale e di corretta gestione della sociabilità umana.
Intanto occorre prendere atto che gran parte dell’economia contemporanea si basa sulla velocità come vera e propria sfida, nonché strumento di concorrenza. Ma l’eccesso di velocità produce anche errori, fa vittime, soprattutto non consente recuperi e modifiche in corso d’opera. Se poi la struttura aziendale è di dimensioni notevoli è ancora più difficile rimediare ad una cattiva qualità del prodotto. Gli interventi di assistenza e di riparazione diventano impraticabili in assenza di un’adeguata ed efficiente organizzazione. E quando manca un’analisi preventiva delle possibilità di guasti ed errori le conseguenze sono pagate, anche drammaticamente, dagli stessi lavoratori.
Le potenzialità dell’informatica
È vero però che il tempo gioca pure a favore di soluzioni agevolate, rapide, immediate, specialmente quando esiste una rete informatica che favorisce la ricerca di un posto di lavoro, di canali di distribuzione e vendita, di provvidenze assicurative e previdenziali tra cui scegliere a ragion veduta. Le nuove risorse in proposito provengono, fra l’altro, da EURES (EURopean Employment Services – Servizi europei dell’occupazione), che consente sia la circolazione dei lavoratori in Europa mediante forme di consulenza, assistenza ed informazione, sia l’operatività dei datori di lavoro che vogliono accogliere manodopera straniera. Grazie ai servizi pubblici di ciascuno stato membro dello Spazio Economico Europeo (SEE), chi cerca lavoro accresce le sue competenze e fa esperienze utili, anche con esiti immediati. Una rete di consulenti è a disposizione dei lavoratori e dei datori di lavoro. Tale rete è territorialmente ben distribuita ma poco conosciuta e dunque scarsamente sfruttata.
Molte volte prende lo scoraggiamento quando non si hanno a disposizione gli elementi di base: le notizie essenziali, le linee di orientamento, l’attività di collocamento. In particolare il bisogno riguarda la conoscenza del mercato del lavoro, delle possibilità di alloggio, delle offerte formative specialmente per le generazioni più giovani, delle risorse sanitarie ed ospedaliere, dei prezzi relativi ai beni di consumo primario, del sistema di tassazione, delle provvidenze per la sicurezza sociale, delle qualifiche previste, delle relazioni sociali praticabili, delle forme di associazionismo disponibili sul territorio.
La modalità di accesso alle offerte di lavoro comporta di solito la compilazione di un curriculum vitae da cui può dipendere, almeno in parte, il buon esito della ricerca di occupazione. Il dato di fatto è che non molti sono in grado di predisporre una buona presentazione di se stessi attraverso lo strumento curricolare. Dunque anche a questo livello minimale occorre porre specifica attenzione, per diffondere alcune linee essenziali, che mettano tutti gli aspiranti lavoratori in grado di provvedere a se stessi, senza dover ricorrere a terzi per la redazione di un documento di partenza tanto rilevante. Ben più complesso è poi l’itinerario che conduce ad inserire in rete il proprio curriculum: quali canali privilegiare? Preferire le formule a pagamento o quelle assolutamente free, sostenute da istituzioni pubbliche?
C’è poi il problema ricorrente degli eccessi di manodopera in alcune aree e di carenza in altre, senza che si crei l’opportunità di una relazione del tipo “vasi comunicanti”. Anche in questo caso l’opzione informatica può giovare per risolvere le necessità di riduzione dell’esubero da una parte e di incremento dell’occupazione dall’altra. La questione non riguarda solo la dimensione territoriale ma più spesso concerne peculiari settori di attività, che possono essere quelli dell’alta tecnologia o dei servizi per la salute.
Le nuove prospettive internazionali
Se conviene oramai non tenere più conto solo dei confini provinciali e regionali, ed anche nazionali, perché siamo tutti cittadini dell’Europa allargata ad una trentina di stati (e nel futuro anche di più), è opportuno parimenti non trascurare del tutto le problematiche riguardanti le zone frontaliere, che comportano difficoltà di varia natura (amministrativa, finanziaria, legislativa, comunicativa, ecc.). Nella misura in cui pure tali questioni vengono affrontate e risolte risulterà poi più percorribile la strada dell’intercultura piena, delle relazioni fra eguali, dei rapporti socio-politico-economici alla pari.
Sono le forme di cooperazione intersettoriale, intercomunitaria ed interaziendale che possono creare ricchezze per tutti, mercati maggiormente condivisi, lavori più gratificanti, organismi socio-economici fondati sulla libera partecipazione degli interessati. L’ideale sarebbe poter praticare libere forme di discussione e condivisione attraverso tavoli comuni fra lavoratori e datori di lavoro, fra cittadini comunitari e stranieri, fra ambiti diversi di esperienza lavorativa.
La disponibilità di una moneta comune, di una rete di trasporti in superficie a vasto raggio (su ferro e su gomma) – per non dire delle vie aeree – permette di esperire soluzioni inusitate e percorsi del tutto innovativi. D’altra parte lo stesso ricorso a modalità di basso costo non fa che aumentare le potenzialità e le vie di accesso a mercati ed aree in precedenza quasi irraggiungibili.
C’è altresì un dato culturale da valutare in tutti i suoi riflessi: la propensione a restare legati al proprio municipio di origine. Questo non è certo un vantaggio in una società sempre più complessa, articolata, flessibile, frattalica. Il rischio è indubbiamente quello di un difficile radicamento altrove, ma se il discorso sulla sociabilità va oltre – pur senza dimenticarli – gli affetti familiari, i legami amicali, le reti associative adolescenziali, allora nuove situazioni possono presentarsi ed offrire altrettanta relazionalità.
Le prospettive occupazionali e di progressione professionale non si giocano in un unico, ristretto cerchio di riferimento quasi solo ombelicale, ma si allargano sino all’intero continente europeo ed anche ben oltre.
D’altro canto il lavoro ha un carattere sempre più interculturale, differenziato, molteplice, plurilingue. Il che, invece di rappresentare uno svantaggio, può essere persino giocato in termini di opportunità ulteriore, di allargamento delle sfere di azione, di ampliamento dei contatti umani. In tal modo non saranno più solo la concorrenza e la velocità di intervento ad avere la meglio ma la capacità di interazione fra le persone, tutte (o quasi) coinvolte nella medesima progettualità sociale, fondata sempre più sulla persona umana, sui suoi diritti e sui suoi doveri.
Senza più frontiere
Lavoro ed economia sembrano non conoscere più frontiere, dopo gli accordi di Schengen e le successive normative in materia. Nonostante alcune limitazioni tuttora in vigore, è pur vero che la libera circolazione dei lavoratori in Europa è un dato di fatto, un esercizio reale di libertà, che non necessita di un permesso particolare, poiché si tratta di un diritto comunitario. Da un punto di vista normativo, comunque, molto ancora dipende dagli accordi bilaterali fra gli stati, non sempre disponibili a stipule tempestive. Insomma si è ancora in una fase di transizione, prima dell’accettazione completa del principio.
Fra l’altro il tasso di disoccupazione, in Italia come in Europa, rimane ancora alto, ma vi sono variazioni stagionali accentuate che vedono mutare l’andamento dell’offerta di lavoro, segnatamente in alcuni settori, dal turismo all’agricoltura, dall’edilizia alla sanità.
Ci sono poi i problemi di adattamento, non sempre risolvibili in un breve lasso di tempo, soprattutto quando vi sono differenze linguistiche, culturali, religiose, fiscali. Per non dire del riconoscimento delle competenze già possedute, non sempre annoverate fra quelle omologabili con le professioni già consolidate nei paesi di accoglienza. Per ora esiste una lista europea delle equivalenze professionali ma in diversi casi non vi è alcun riconoscimento. In proposito è già in funzione una piattaforma interattiva cui accedere per ottenere le informazioni necessarie, ma ben pochi ne sono a conoscenza. Dunque una volta di più solo chi è aggiornato sopravanza tutti gli altri e consulta in modo mirato i vari portali informatici. Ciò porta invero a risultati positivi in chiave di mobilità socio-professionale, soprattutto quando a visite informatiche seguono altre visite più personalizzate presso gli esperti del settore ed i consulenti messi a disposizione dall’Unione Europea.
Un buon servizio per chi cerca lavoro è offerto pure dalla stampa specializzata, riviste, mensili e settimanali che pubblicano annunci di posti vacanti e di ricerca di personale. Ma ci si può rivolgere anche ad agenzie pubbliche e private che operano (a titolo gratuito o meno), fra l’altro anche per la disponibilità di lavoro interinale.
Non tutti sanno, poi, che è possibile, a determinate condizioni, ottenere il trasferimento dell’indennità di disoccupazione pure all’estero fino a tre mesi. Queste ed altre facilitazioni rendono possibile un periodo iniziale di esperienza, prima di trovare un lavoro non precario.
Il sostegno a livello locale
Il livello di impegno dell’Unione Europea nel campo della ricerca si aggira attorno al 2% del Prodotto Interno Lordo, mentre altrove si registra un punto in più di percentuale (non solo in Giappone ma anche in Corea). A risentirne è la capacità d’innovazione, che, priva della ricerca, non è in grado di raggiungere validi traguardi economici ed occupazionali, competitivi con le altre economie mondiali. Non vi è in effetti un’adeguata crescita economica, la produttività è contenuta, non si creano molti altri posti di lavoro.
Il sostegno di integrazione può giungere dalle politiche locali (municipali, distrettuali, provinciali, regionali, nazionali), finalizzate ad ottenere risultati di rilievo nell’ambito di un processo economico di sviluppo, collegato ad un quadro più ampio in chiave comunitaria. Si tratta di far acquisire anche ai soggetti locali la consapevolezza di contribuire al progresso globale dell’Unione Europea. Le strategie per l’occupazione non funzionano se circoscritte al contesto periferico. Ormai la partita si gioca su altri piani, per accedere alle risorse necessarie alla ricerca ed all’innovazione. Se torna utile la propensione a costituire distretti locali mirati ad un certo tipo di produzione, nondimeno il loro esito economico ed occupazionale dipende anche dalla loro connessione con il più vasto quadro internazionale, almeno europeo.
Non si può non constatare in proposito che gran parte della ricerca (due terzi) e dell’innovazione è concentrata in tre paesi: Francia, Germania e Regno Unito. In Italia ed altrove in Europa, ben poco si fa e per di più quasi tutto è concentrato in aree abbastanza limitate e limitrofe a grandi aree metropolitane (si pensi al caso esemplare di Roma e Milano).
Nel primo decennio neo-millenario i fondi strutturali europei hanno destinato oltre 10 miliardi euro per infrastrutture d’indagine, innovazione, progetti, trasferimenti di know how, formazione dei ricercatori. Fino al 2013 saranno incrementati gli interventi a livello regionale per ricerca ed innovazione (sviluppo), con specifica predilezione per iniziative di collaborazione fra imprese e ricerca pubblica, creando distretti regionali ed interregionali tesi a favorire in primo luogo le piccole e medie imprese, una prerogativa cioè tipicamente italiana nel campo dell’economia e del lavoro. Ma l’attenzione sarà posta – si dice – principalmente sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), onde valorizzare le infrastrutture di ricerca ed in primo luogo il capitale umano.
In Italia è il Lazio con Roma l’area che investe maggiormente in ricerca e sviluppo. Segue poi gran parte dell’area centro-settentrionale-occidentale (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana, Abruzzo e Campania). I dati delle rimanenti regioni sono quasi trascurabili.
Ecco perché una quota significativa dei fondi strutturali fino al 2013 sarà destinata alle regioni del cosiddetto obiettivo “Convergenza” (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) per “ricerca e sviluppo tecnologico, innovazione e imprenditorialità, incluso il potenziamento delle capacità di ricerca e sviluppo tecnologico e loro integrazione nello Spazio europeo della ricerca (infrastrutture comprese); sostegno alla ricerca ed allo sviluppo, segnatamente nelle piccole e medie imprese (PMI), e al trasferimento di tecnologie; miglioramento dei legami fra le PMI, l’istruzione universitaria, gli istituti di ricerca e i centri di ricerca e sviluppo tecnologico; creazione di clusters e reti di imprese; partenariati pubblico-privato; sostegno alla prestazione di servizi commerciali e tecnologici a gruppi di PMI; promozione dell’imprenditorialità e finanziamento dell’innovazione per le PMI attraverso nuovi strumenti di ingegneria finanziaria”.
Invece rientrano come regioni di phasing-in (sostegno provvisorio) la Sardegna e di phasing-out (esclusione progressiva) la Basilicata. Tutte le altri regioni italiane sono coinvolte per l’obiettivo “competitività regionale e occupazione”, cioè “innovazione e economia della conoscenza, tramite il sostegno alla creazione e al potenziamento di efficaci sistemi regionali di innovazione in grado di ridurre il divario tecnologico e che tengano conto delle esigenze locali”.
Le azioni europee per il lavoro e l’economia
I prossimi anni vedranno un forte impegno europeo attraverso l’Ottavo Programma Quadro (FP8) per la cooperazione fra università, industria, centri di ricerca ed autorità pubbliche; per la creatività e l’eccellenza nella ricerca di base e di “frontiera”; per la formazione, la mobilità e lo sviluppo; per il miglioramento delle infrastrutture e dei distretti regionali di ricerca, delle PMI, dei contatti fra scienza e società, della cooperazione internazionale.
Inoltre la Banca europea per gli investimenti promuove due iniziative: la Jaspers (Joint Assistance for Preparing Projects in European Regions, Assistenza congiunta ai progetti nelle regioni europee) e la Jeremie (Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises, Risorse europee congiunte a favore delle microimprese e delle piccole e medie imprese).
Nell’ambito del Programma quadro per la competitività e l’innovazione, poi, sono programmate tre attività: la prima rivolta all’innovazione ed all’imprenditorialità delle PMI; la seconda che concerne il sostegno alla politica dell’ICT, cioè delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; la terza che riguarda il programma “Energia intelligente-Europa”.
Infine viene promossa una politica comunitaria in materia di concorrenza e aiuti di stato, per stabilire regole relative ad un maggiore impegno delle imprese nella cooperazione transfrontaliera, al partenariato pubblico-privato, alla sicurezza giuridica per gli enti di ricerca senza fini di lucro.
Investire nel sociale
Investire nel capitale economico è certamente necessario per condurre la ricerca e promuovere lo sviluppo e l’occupazione ma non basta per garantire un’equa distribuzione fra gli aventi diritto, fra i cittadini ed i lavoratori partecipi. Sorge dunque un’ulteriore necessità: quella di investire nel capitale sociale, sul territorio, sulle risorse culturali, sulla formazione, sull’aggiornamento, sulla mediazione sociale, sulla concertazione socio-sindacale e politica, senza trascurare la centralità del lavoro come risorsa umana primaria non cedibile sottocosto ed a qualunque condizione ambientale, temporale, gestionale.
Di recente è stata sperimentata la soluzione di una “flessibilità dolce”, differenziata secondo necessità soggettive e territoriali. Si è altresì coniato il termine di flexsecurity per trovare un punto di convergenza fra esigenze di flessibilità espresse dai datori di lavoro ed esigenze di sicurezza sostenute dalle forze del lavoro. Più che sul dissenso e sulla contrapposizione vi è una tendenza a puntare a soluzioni consensuali, che contemplino in pari tempo diritto alla formazione permanente e contratti a termine su progetto, allungamento del periodo di prova e maggiori garanzie sulla sicurezza sia del posto di lavoro che della previdenza post-periodo lavorativo.
Tutto ciò significa altresì un cambiamento di mentalità e di cultura nelle relazioni industriali. Insomma la libertà di espressione delle istanze fondamentali non può essere espunta dalla codificazione vigente in materia di lavoro. Un punto di convergenza può essere sempre trovato fra ottiche anche contrapposte. Imprese economiche e forze-lavoro sono cointeressate alla costruzione di ricchezza, al progresso economico ed al pieno sviluppo in chiave di occupazione.
All’orizzonte non mancano nuove ed interessanti prospettive: il futuro pare fortemente caratterizzato dalle problematiche di gestione dell’ambiente. Dunque un nuovo campo di ricerca e sviluppo è già prospettato, ma occorrono nuove sinergie, nuove convinzioni, nuovi adattamenti a livello economico, culturale, formativo. I talenti non mancano, è invece carente lo spirito di collaborazione, in grado di superare i personalismi e le difficoltà dovute ai mutamenti tecnologici e commerciali. Nuove soluzioni non si inventano se non c’è capacità di auto-imprenditorialità a fronte di crisi e nuove sfide. In Italia è ancora tutta da sviluppare una mentalità aperta alla ricerca ed all’innovazione. Ad esempio il cosiddetto spin off, cioè la trasposizione delle conoscenze acquisite dentro l’università verso soluzioni imprenditoriali all’esterno degli atenei, è poco praticato: solo poche centinaia di casi in tutta Italia. Insomma i tentativi sono minimi rispetto alle potenzialità reali. Occorre pertanto riflettere sulle motivazioni di una così scarsa propensione alla novità, al rischio, all’investimento sul proprio capitale umano e sociale. In definitiva ci si arresta sulla soglia del provvisorio, del precario, senza dare consistenza ad un progetto serio, a lunga gittata, capace di crescere ed offrire soluzioni occupazionali di largo respiro, per sé e per gli altri