Non c’è più religione: la crisi delle vocazioni in Italia e nel mondo
Tutti i numeri di un fenomeno in atto da tempo, ma che sembra destinato ad accentuarsi ulteriormente. Le testimonianze di due giovani consacrati e l’analisi dell’esperto
di Alessandro Vinci
Il parere dell’esperto
Al di là dei percorsi di fede individuali, non si possono non analizzare le dinamiche socioeconomiche che negli ultimi cinquant’anni hanno reso così infrequenti casi come quelli di don Alessandro Viganò e suor Nicole Francescato. A fornire alcune chiavi di lettura utili in tal senso è il professor Roberto Cipriani, ordinario emerito di Sociologia presso l’Università Roma Tre ed ex presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, che rigetta anzitutto ogni scenario apocalittico relativo al futuro della Chiesa e del sacerdozio. «Tutte le grandi religioni – spiega – hanno alle loro spalle una storia plurimillenaria, che non può crollare all’improvviso. Ci sono testi, radici, strutture, retaggi culturali e patrimoni immensi, anche sul piano artistico. Quindi è senz’altro da attendersi una generale resilienza al fenomeno della secolarizzazione».
Il quale, effettivamente, viene indicato come la principale minaccia per l’avvenire della fede cristiana.
«Certo, infatti è indubbio che abbia avuto effetti importanti. Tuttavia, gli studiosi che nella seconda metà del secolo scorso profetizzavano l’“eclissi del sacro” e la “morte di Dio”, oppure parlavano di “vangeli e città secolari”, hanno dovuto ricredersi. Oltretutto non è da escludere che, in un certo senso, la secolarizzazione abbia anche giovato alla Chiesa, in quanto l’ha spinta ad adattarsi, a rivedere alcuni suoi aspetti. Ma è sempre stato così, fin dai tempi dell’Impero romano».
Ci sono altri fattori che incidono in maniera significativa sul calo delle vocazioni?
«Certamente. Penso all’urbanizzazione, perché l’attività preparatoria al ministero sacerdotale tende ad avvenire più facilmente nelle piccole comunità che nei grandi centri. Da una parte troviamo infatti contesti in cui ci si conosce un po’ tutti, il rapporto è “faccia a faccia” ed è più semplice proporre e coltivare una vocazione alla cura pastorale; dall’altra agglomerati “di massa” che offrono più possibilità di impegno, di svago e di utilizzo delle proprie risorse.
Un meccanismo simile è quello della globalizzazione, che attraverso la partecipazione al villaggio globale di cui parlava McLuhan mette “tutto a disposizione di tutti”. Ma dove c’è globalizzazione c’è anche, per converso, localizzazione. In alcuni casi, quindi, la possibilità di trovare soggetti vocati al sacerdozio si gioca anche sul numero di quanti cercano rifugio nelle proprie radici e nelle proprie identità culturali».
Questi elementi spiegano anche i numeri positivi registrati in molti Paesi asiatici e africani?
«In linea di massima sì, perché ci sono aree in cui il trapasso da quella che potremmo definire “protomodernità” verso la modernità avanzata e la postmodernità sta avvenendo molto lentamente. Quindi permangono ancora tempi e spazi utili per soffermarsi a considerare la possibilità di dedicarsi alla religione. Lontano dal turbinio derivante dall’eccesso di messaggi e informazioni a cui siamo abituati per esempio in Italia, è naturale che fasi di riflessione sul senso della vita e sul mondo che ci circonda trovino terreno fertile».
Dalle interviste realizzate è emerso come il provenire da ambienti già legati alla dimensione religiosa giochi un ruolo molto rilevante in questo tipo di scelta. Quanto contano, dunque, i background individuali?
«Tantissimo, e la mia teoria della “religione diffusa” lo ribadisce. Come sosteneva Piaget, contano soprattutto i primi anni di vita: già a cinque anni ormai è tutto deciso, una persona ha un carattere, un temperamento, uno stile. Insomma, è orientata verso quello che sarà da adulta. Allora è evidente che se in una famiglia sono presenti determinati input, poi le probabilità che i figli li introiettino aumentano. In casi più rari accade invece l’inverso, e le due componenti – genitori atei e figli religiosi – entrano in contrasto. Può bastare poco: un incontro, una lettura, un’occasione particolare».
E come mai, secondo lei, sia in Italia che nel resto del mondo la diminuzione delle religiose è più marcata di quella dei sacerdoti?
«Storicamente, dall’antica Grecia fino a pochi decenni fa, la condizione femminile non è stata certo privilegiata. Non dimentichiamo che in Italia le donne hanno potuto votare soltanto dopo la Seconda guerra mondiale. Di conseguenza, il fatto di averle sempre tenute in disparte ha generato scarsa partecipazione, scarsa consapevolezza e quindi una più facile accettazione di eventuali proposte esterne. Oggi invece, anche grazie alle varie ondate femministe, la loro coscienza è maturata: c’è più attenzione, più capacità critica, più cautela nel valutare determinate opzioni e resistere ai condizionamenti. Ecco perché, complici dinamiche quali il maggiorascato (nell’antico sistema successorio, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare, ndr) in passato il numero delle religiose era straordinario. Anzi, eccessivo. Un riassestamento generale delle cifre è quindi da considerarsi fisiologico».
Se la sente di azzardare previsioni a lungo termine?
«Come accaduto fin qui, si può anche immaginare che si verifichino ulteriori cali, ma non fino all’azzeramento. In linea di massima, quindi, ci sarà una tenuta. Dovessi fare un’ipotesi astratta, in Italia tra cinquant’anni i religiosi potrebbero aggirarsi intorno ai 20 mila. Meno degli attuali, certo, ma sempre 20 mila. E magari i laici collaboreranno con loro. Poi molto dipenderà dagli eventi storici. Prendiamo il tema della pedofilia: oggi è certamente dannoso per l’immagine della Chiesa, ma è possibile che avvengano anche fenomeni decisamente più positivi. Tutto dipenderà insomma da un bilanciamento complessivo. Quell’equilibrio su cui, a ben vedere, questa struttura si regge da millenni».