Dalla Big Society alla Bigger Society

Premessa

L’idea di Big Society nasce, da evidenti ragioni di natura politico-elettorale, come concetto-guida del programma del partito conservatore britannico, in vista delle elezioni del 2010, che hanno poi portato alla coalizione fra tories e liberal democrats, cioè fra il primo ed il terzo partito più votati. La proposta originale resta però di matrice conservatrice e fa parte dell’Invitation to join the Government of Britain. The Conservative Manifesto 2010, datato aprile 2010. Il tema viene poi ripreso, ad elezioni concluse, nel Conservative-Liberal Democrat Coalition Agreement del 12 maggio 2010 e riproposto da David Cameron in suo intervento del 19 luglio 2010 presso la Liverpool Hope University. Successivamente, nel febbraio 2011, si torna a parlare ancora di Big Society in un documento ministeriale dal titolo Growing the Social Investment Market: A vision and strategy, a firma di Francis Maude, ministro per il Cabinet Office e Paymaster General, e di Nick Hurd, ministro per la Società Civile. Ma in quest’ultimo caso la posta in palio sembra ancora più elevata, giacché si parla di una Bigger Society.

Le quattro aree scelte per la sperimentazione iniziale del progetto-pilota sono Eden (Cumbria), Liverpool (Merseyside), Sutton (Greater London), Windsor e Maidenhead (Berkshire), ma nel febbraio del 2011 Liverpool ha rinunciato.

I contenuti e gli obbiettivi

Già le prime indicazioni di partenza sulla Big  Society appaiono eloquenti: si sta facendo riferimento ad un programma elettorale, cioè ad una materia facilmente disattesa storicamente (ed a qualunque latitudine) nelle realizzazioni successive; inoltre la proposta originaria è costretta a fare i conti con il nuovo scenario di un accordo politico con un altro partito, diverso da quello conservatore (primo proponente) e che non si era affatto posto il problema di contribuire a creare una Big Society. Inoltre la formula di avvio, Big Society,non riemerge come tale in prosieguo di tempo, tanto che non più lo stesso David Cameron, principale esponente di governo per i conservatori e primo presentatore della Big Society in un suo discorso del 10 novembre 2009, ma due suoi ministri rilanciano un progetto che nel frattempo sembra aver incontrato difficoltà, dato che non viene più riconsiderato in termini piuttosto espliciti ed unici (in effetti si cita la Big Society ma solo in chiave di Big Society Bank, nel quinto dei sei capitoli del documento del 2011) ma rilanciato come Bigger Society.

Poste tali premesse, non vi è chi non veda uno slabbrarsi del progetto iniziale, un venire a patti con esigenze interpartitiche ed un indebolimento della carica iniziale, tali da costringere a chiedere un aiuto alle banche per sostenere il passaggio da una Big ad una Bigger Society.

Esaminiamo più da vicino i contenuti della proposta cameroniana ufficiale, cioè il programma dei conservatori per le elezioni del 2010. L’obiettivo è di “ridurre la povertà, combattere la disuguaglianza ed incrementare il benessere generale” raggiungendo “livelli più alti di responsabilità personale, professionale, civica e collettiva (corporate)”, insomma facendo in modo che “la gente si metta insieme per risolvere i problemi e migliorare la propria vita e quella delle proprie comunità”, in una società in cui “la forza guida per il progresso è la responsabilità sociale, non il controllo dello stato”. Per costruire la Big Society occorre “riformare i servizi pubblici, ricostruire (mend) la nostra società frammentata (broken) e ridare fiducia nei confronti della politica”. Per ottenere ciò va “ridistribuito il potere dallo stato alla società, dal centro alle comunità locali, offrendo alla gente l’opportunità di avere un maggiore controllo sulle proprie vite”. Pertanto “lo stato è chiamato a stimolare l’azione sociale, sostenendo le imprese sociali nel rendere servizi pubblici ed addestrando i nuovi organizzatori di comunità ad accompagnare la realizzazione della nostra ambizione che ogni cittadino adulto sia un membro di un gruppo attivo di vicinato”. A tale scopo si darà un “finanziamento diretto a quei gruppi che rafforzano le comunità nelle aree deprivate”. Lo strumento di tale operazione sarà l’introduzione del National Citizen Service,“inizialmente per i sedicenni, per aiutare a mettere insieme il nostro paese”. Pertanto si vorrà “rendere capaci le imprese sociali, le organizzazioni caritatevoli ed i gruppi di volontariato di svolgere un ruolo guida nello svolgimento dei servizi pubblici e nell’affrontare i problemi sociali dalle radici profonde”. Si pensa ad una Big Society Bank, “finanziata dai conti bancari dormienti, per disporre di nuove risorse finanziarie per i gruppi di vicinato, le organizzazioni caritatevoli, le imprese sociali ed altri enti non governativi” (p. 37).

Si farà inoltre un bando “per contratti governativi o lavoro in cambio dello svolgimento di servizi da pagare in base ai risultati raggiunti”. Il che fa anche leva sulla “tradizione di carità” presente nel mondo culturale britannico da lungo tempo (oltre 16.000 enti e 475.000 addetti). Si prevedono altresì “contributi per dare alle organizzazioni del settore del volontariato una maggiore stabilità” e si cercherà di fare in modo che “i genitori facciano decollare nuove scuole, rinvigoriscano le comunità assumendo in proprio la gestione di loisirs come i parchi e le biblioteche che sono in difficoltà (under threat), dando ai vicinati un maggiore controllo del sistema di pianificazione e rendendo capaci i residenti di avere la polizia” ed aiutando “le aree più povere ad assumere un ruolo guida nel ricostruire la società civica” (si badi bene non si parla di società civile ma “civica”). Si prevede di “trasformare il servizio civile in un servizio civico” cosicché “la partecipazione nell’azione sociale sia riconosciuta nelle valutazioni dei funzionari civili” (p. 38). Si celebrerà anche una “giornata annuale della Big Society”.

Inoltre si svilupperà ed incoraggerà “il concetto di servizio reso con spirito pubblico (public spirited service)”. E si offriranno “denaro e tempo per le buone cause” con lo scopo di far “crescere la filantropia” e “la partecipazione comunitaria su base regolare”. Pure la lotteria nazionale verrà ricondotta alle origini per mettere a disposizione “denaro per le buone cause”. “Gli sports – anche -, il patrimonio culturale e le arti riavranno il loro contributo originario del 20 per cento”. In merito si pensa in particolare ai Commonwealth Games previsti a Glasgow nel 2014, alla Rugby League del 2013 ed alle Rugby Union World Cups del 2015 e si spera nella Coppa del Mondo di calcio nel 2018 (p. 39). Insomma ben poco è trascurato fra le diverse possibilità di implementazione della Big Society. Ma nel documento ufficiale non mancano ripetizioni e ridondanze, che denotano una certa carenza di proposte valide e convincenti.

La nuova proposta

A seguito poi della coalizione fra il partito conservatore ed i democratici liberali il progetto della Big Society è stato riformulato il 12 maggio del 2010 e pubblicato il 20 maggio dello stesso anno, portando alla messa a punto di ulteriori contenuti condivisi da entrambi i partiti dell’accordo politico-governativo. Il documento avrebbe dovuto essere seguito da un’intesa finale di coalizione, riguardante “l’ambito completo della politica ed includente i temi politici interni e della difesa”. Ma di tale ulteriore dichiarazione ufficiale di intenti non vi è traccia.

La riformulazione, frutto dell’accordo fra i due citati partiti, investe la “riduzione del deficit” e “piuttosto delle spese invece di aumentare le tasse”, per “proteggere i bassi redditi” e “porre termine alla tassa del partito laburista sulle occupazioni”, onde “sostenere ancora di più la creazione di occupazione” e l’“investimento ecologico”. Si prospetta una “revisione delle spese (spending review) totale”.

Nel secondo punto si parla anche di un “rilevante premio, al di fuori del budget scolastico, per gli allievi svantaggiati”. Si prospetta “una revisione totale della sicurezza strategica e della difesa”, insieme con un “continuo avanzamento nel disarmo multilaterale”. Nel campo previdenziale è ipotizzata una “commissione indipendente per rivedere la sostenibilità delle pensioni del settore pubblico”.

Nel terzo punto dell’accordo si dice di voler “aiutare coloro che hanno un reddito basso e medio”, “ridurre la tassa ereditaria”, ma anche “tassare i profitti da capitale non-business”.

Nel punto seguente si prevede una “riforma del sistema bancario”, con particolare riferimento ai “bonus inaccettabili nel settore dei servizi finanziari”, per “far avanzare la differenziazione (diversity), promuovere forme di mutualità (mutuals) e creare un’industria bancaria più competitiva”, offrire “uno schema di maggiore garanzia per il prestito e l’uso di obiettivi di tasso netto ufficiale di prestito (net lending) per le banche nazionali”, pensando pure a “ridurre il rischio sistematico nelle banche” ed alla creazione di “una commissione indipendente per indagare sul complesso problema del separare le banche al dettaglio (retail) e quelle di investimento in un modo sostenibile”. Si vuole affidare alla “Banca d’Inghilterra il controllo della regolazione macro-prudenziale”. E da ultimo si esclude di ricorrere alla “moneta unica europea”. Si regola inoltre il “limite annuale del numero dei migranti economici non EU ammessi”. In pari tempo si vuole porre “fine alla detenzione di bambini per motivi di immigrazione”.

Il punto sei riguarda la durata del mandato parlamentare da fissare a cinque anni e la frode elettorale da ridurre. Per il lobbismo si propone di porre un argine creando un “registro dei lobbisti”. Inoltre si limiteranno le donazioni ai partiti e se ne riformerà il sistema di finanziamento. Soprattutto però si ritiene di “promuovere una devoluzione del potere ed una maggiore autonomia finanziaria al governo locale ed ai gruppi comunitari”.

Nel settimo punto del programma concordato fra i due partiti si propone di fissare a 66 anni l’età pensionabile. In pari tempo si provvederà a creare un programma di welfare che sostenga il ritorno dei disoccupati ad un’attività lavorativa. Si propone di offrire un programma di welfare anche a giovani al di sotto dei 25 anni che dopo sei mesi di ricerca di un lavoro non siano stati in grado di trovarlo.

Più avanti, al punto 8, si dice che la scuola sarà sottoposta a riforma, nuove proposte di offerta formativa potranno essere integrate nel sistema scolastico statale su richiesta dei genitori e le scuole potranno avere una maggiore libertà nell’organizzare i loro percorsi curricolari. Nell’ambito dell’alta educazione, poi, si mirerà ad incrementare la mobilità sociale, a finanziare il settore universitario, a migliorare la qualità dell’insegnamento e ad aumentare il numero degli studenti provenienti da contesti svantaggiati.

Per quanto concerne l’Unione Europea si assicura una collaborazione fattiva per migliorare la competitività globale ed affrontare il problema della povertà ma senza rinunciare ad alcuna sovranità e potere in favore dell’Unione Europea. Inoltre mentre si conferma di non accedere all’uso dell’euro nel corso della legislatura in atto si pensa piuttosto a difendere gli interessi del Regno Unito nelle negoziazioni di tipo budgetario. Si chiederà altresì di avere un’unica sede dell’Unione Europea a Bruxelles. A livello di giustizia si affronteranno le questioni di natura criminale caso per caso e non si prenderà parte all’insediamento di un unico pubblico ministero.

Nel penultimo punto, il decimo, si ritiene di attivare un programma di misure contrarie alla riduzione delle libertà civili, un registro di identità nazionale ed un passaporto di tipo biometrico. Non si potranno prendere a scuola le impronte digitali degli allievi senza il permesso dei genitori. Verrà esteso l’obiettivo del Freedom of Information Act in vista di una maggiore trasparenza. Saranno garantiti i diritti alla protesta non violenta ed alla libertà di parola. Anche la legislazione antiterrorismo sarà oggetto di particolare attenzione per evitare abusi. Lo stesso dicasi per le registrazioni abusive di comunicazioni elettroniche via Internet. Verrà infine escogitato un sistema che impedisca il proliferare di offese non necessarie.

L’ultimo punto, l’undecimo, tratta dell’ambiente e prevede un’economia che non lo danneggi e riduca il ricorso al carbone, insieme con una diminuzione delle tariffe elettriche. Si programma una banca di investimento “verde”. Si favorirà il ricorso all’energia marina. Si svilupperà la rete dell’alta velocità ferroviaria. Sarà cancellato il progetto di una terza pista ad Heathrow, nonché di quelle previste a Gatwick e Stansted. Si sostituirà il diritto aereo per passeggero con il diritto aereo per volo. Si favoriranno spazi verdi e corridoi naturali. Si creerà una rete per la ricarica di veicoli elettrici e misti. Si svilupperanno soluzioni di energia rinnovabile. Infine i democratici liberali manterranno la loro opposizione all’energia nucleare ma permetteranno al governo di procedere con la possibilità di nuovi impianti nucleari. Il governo si impegna altresì a mettere a punto una dichiarazione per la pianificazione nazionale.

Le critiche

Sono sostanzialmente due le osservazioni critiche di merito sulle diverse proposte dei conservatori e dei democratici liberali. La Big Society del partito conservatore britannico non nasce da un’apposita indagine di sfondo, da un’inchiesta previa tra gli elettori, da una riflessione ampia ed approfondita sulla situazione socio-economica del momento in Gran Bretagna, ma è frutto di elaborazioni a tavolino da parte di specialisti delle campagne elettorali e della comunicazione, con appena qualche contributo di esperti qualificati (qualcuno dei quali – e non certo un protagonista minore: Nat Wei, fondatore di Teach First Charity – ha poi ritenuto opportuno non essere più della partita, vista forse l’impraticabilità della Big Society, dopo i primi tentativi andati a vuoto).

Occorre poi ricordare che il principale ispiratore della Big Society è un teologo e filosofo politico di buona formazione (a Cambridge), ma con scarsa dimestichezza con la sociologia, per quanto è possibile desumere dalle informazioni disponibili. Si chiama Phillip Blond, nativo di Liverpool, quasi cinquantenne, il quale definisce la Big Societycome “una nuova forma di società che si propone di risolvere due grandi problemi: l’eccessiva concentrazione di potere nello stato e lo strapotere del mercato”. La sua agenzia ResPublica è al servizio del partito conservatore.

In secondo luogo occorre aggiungere che quanto proposto da Cameron e dai suoi non sembra avere nemmeno il carattere delle utopie di grande respiro riformatore ed a carattere socio-politico, cioè di quelle prospettive utopiche tanto care all’analisi ed all’attenzione di Karl Mannheim (Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna, 1974), che, pur avendo dimorato a lungo in suolo britannico, pare quasi non aver lasciato traccia del suo pensiero, almeno presso una certa parte politica. Insomma non si noterebbe nell’approccio convergente di conservatori e democratici liberali quella spinta utopica che rappresenta una costante dei movimenti di larga partecipazione popolare di massa, i quali hanno costellato tanta parte della storia universale.

E dunque il proposito relativo alla Big Society diventa solo un tentativo iniziale, in assenza di adeguata forza propulsiva, di input ideale, di consapevolezza basata sulla realizzabilità almeno di alcuni obiettivi, se non di tutti.

Un primo segnale di avvertimento è venuto subito dall’Arcivescovo anglicano di Canterbury, del tutto avverso alla progettata Big Society. Non sono mancati altri interventi critici, ormai di largo dominio pubblico attraverso la voce di Wikipedia dedicata appunto al tema della Big Society. Ed Miliband la definisce “cloak for the small state”, Brendan Barber immagina che la società ideale di riferimento per Cameron sia la Somalia, Ben Rogers rimprovera allo stato di non aver investito abbastanza per promuovere nelle persone le capacità adatte allo sviluppo di una società partecipativa, Anna Coote si aspetta una società ancor più in difficoltà e mortificata nelle sue potenzialità di intervento, Ed West predice che non vi sarà mai un decollo del progetto cameroniano, Mary Ridell vede una società che rimane ancora povera, fragile, vecchia, malata, Gerald Warner ritiene che l’espressione Big Society sia piuttosto un epitaffio, Unite the Union opina che si tratti di fumo e specchietti per favorire una privatizzazione a tutto spiano, Dave Prentis considera che il governo si stia lavando le mani di tutte le questioni più problematiche.

La Bigger Society e la fine della Big Society

Nel febbraio 2011 viene pubblicato il documento sulla Bigger Society, che ha come sottotitolo “Growing the Social Investment Market: A vision and strategy”. Nel Ministerial Forword si legge, a pagina 5, della volontà di una società più grande e più forte, in cui comunità e cittadini abbiano maggiore peso e siamo migliorati i servizi pubblici, in modo da trasferire il potere dal centro al governo locale. Anche i poliziotti verranno eletti a livello locale e ci saranno organizzatori comunitari. Gli utenti dei servizi avranno una maggiore scelta ed un maggiore controllo. Si formeranno cooperative. Sarà favorito l’accesso al capitale, grazie al sostegno delle maggiori banche del Regno Unito e della Big Society Bank, in modo da rendere disponibile il capitale privato per gli imprenditori sociali. Il mercato sarà in grado di auto-sostenersi senza alcuna interferenza statale.

A firmare la parte introduttiva del documento sono Francis Maude, Minister for the Cabinet Office and Paymaster General, e Nick Hurd, Minister for Civil Society. In seguito, nell’introduzione e nel “sommario esecutivo”, a pagina 7, si promette di migliorare le vite dei cittadini, di decentralizzare i servizi pubblici, offrire fondi statali, far scegliere alle famiglie ed ai singoli alcuni investimenti sociali come parte del loro fondo pensionistico. Si ipotizza di avviare le operazioni bancarie a partire dall’aprile 2011, raccogliendo 200 milioni di sterline dai conti correnti bancari non attivi.

Poco più di un anno dopo il manifesto sulla Bigger Society, il quotidiano La Stampa del 4 settembre 2012 ha annunciato che “Cameron ripone nel cassetto i sogni della ‘Big Society’. Disoccupazione e recessione: dopo due anni il premier preparaun rimpasto e rivede il suo programma-manifesto. Al via un piano di opere pubbliche da 50 miliardi”. Il giornalista Andrea Malaguti da Londra scrive che “dei quindici miliardi di tasse previste entro il 2015, undici saranno pagati dalle fasce più deboli: le donne e i dipendenti pubblici”. Cameron è “il leader che ha triplicato le tasse universitarie e tagliato i sussidi per la casa ai giovani con meno di 25 anni”. Inoltre “il servizio sanitario nazionale si sta riempiendo di ‘zero-hours contracts’, i contratti tipici dei fast food. Gente che arriva negli ospedali a chiamata. Cardiologi, psichiatri, fisioterapisti. Assunti per un’ora. Due. Quello che serve. Senza certezza sul futuro. Li chiamano le aziende private a cui è stata appaltata parte dei servizi. ‘Rischiamo di avere ospedali senza personale. Oppure personale poco qualificato. O irrintracciabile’, ha spiegato il laburista Andy Burnham. Non era davvero questa la Big Society promessa. Così, per dimostrare a tutti di non essere diventato uno sparviero dalle ali corte, capace solo di volare basso, Cameron si è giocato una seconda carta: il piano sviluppo. Cinquanta miliardi di investimenti. Case e infrastrutture. E una small bank governativa per aiutare le nuove aziende. Il suo asso. ‘Sono un conservatore liberale. Pratico, ragionevole e radicale se necessario’, ha chiarito”.

Insomma ancora una volta il piano previsto non viene implementato e si passa a nuove proposte, il cui destino non è difficile immaginare.

Le difficoltà

I quotidiani britannici da The Independent al Daily Mail non mancano di rilevare le difficoltà di Cameron, della coalizione governativa conservatrice e democratico-liberale e del progetto di Big Society,tanto da parlare di una “drammatica conversione ad U”, in un titolo cubitale di The Independent del 16 agosto 2012 in prima pagina, mentre in seconda pagina si calcola il costo della spesa universitaria, che ogni studente deve affrontare in media, nell’autunno del 2012: più di 50.000 sterline; ma a Londra si superano le 65.000 sterline, mentre solo in Scozia l’incidenza è più contenuta (per così dire) e supera di poco le 23.000 sterline. Il ripensamento-svolta a 180 gradi di Cameron intende limitare a 35.000 sterline per persona il costo annuo totale in termini di social care. Da ciò deriverebbe la necessità da parte dei cittadini di integrare a proprie spese (fino a circa 10.000 sterline) la somma necessaria, ad esempio, per il loro mantenimento in una residenza assistita (pag. 5). Più avanti a pagina 6 si evidenzia che, se anche la disoccupazione diminuisce, i salari invero non sono in grado di tenere dietro agli aumenti del costo della vita; ma soprattutto viene sottolineato il forte incremento quasi solo dei lavori a tempo parziale. In effetti circa 2.000 lavori vengono creati quotidianamente in Gran Bretagna (Daily Mail, 16 agosto 2012, pag. 14) ma della loro qualità e durata occorrerebbe sapere di più. Una forma di lavoro cui si ricorre abbastanza è quella dell’auto-impiego, che si ottiene inventando in proprio alcune formule lavorative ad hoc. Ciò tuttavia non risolve il problema delle lunghe code di attesa, soprattutto dei più giovani (Daily Mail, 16 agosto 2012, “City & Finance”, pag. 75) alla ricerca di un qualsiasi lavoro. Insomma se Londra e le Olimpiadi hanno favorito il buon andamento delle dinamiche occupazionali nondimeno è da segnalare che il fenomeno è circoscritto quasi solo alla capitale e vede una forte trasmigrazione dal lavoro a tempo pieno a quello con impegno orario ridotto. In verità giusto i giochi olimpici hanno visto una larga partecipazione di volontari nei servizi più diversi, ma si ripropone l’interrogativo sollevato ancora da The Independent (pag. 16): “From the Olympic to the Big Society?” In pratica l’esempio del volontariato olimpico può anche “ispirare una generazione”, secondo l’espressione di David Cameron, ma il problema reale è quello del futuro di tanti volontari, dopo l’incanto del fuoco di Olimpia e delle tante (43) e preziose (d’oro) medaglie conquistate dal Regno Unito in varie discipline sportive. Certo resta la buona immagine offerta di una Londra più accogliente e cordiale del solito, nondimeno un tale spirito non è detto che duri a lungo. Ed è ovvio che il volontariato serio richiede un impegno temporale che sia regolare e di lunga durata. In definitiva è legittimo pensare che “il sospetto in merito alla Big Society – come scrive Mar Dejevsky – è che è guidata dal governo e finirà con il riempire i buchi dello Stato”. Detto altrimenti, volontariato e progetto di Big Society servono solo da tappabuchi per le carenze statali.

Oltre quella del destino dei volontari olimpici, un’altra controversia è sorta a proposito dell’invito rivolto dal primo ministro a vendere i beni di proprietà delle amministrazioni locali per ricavarne risorse per la costruzione o l’acquisto di alloggi popolari a favore dei meno abbienti. L’idea è di “vendere le case di valore molto alto per investire nell’edilizia sociale e trovare case per più gente” (Daily Mail, 21 agosto 2012, pag. 8).

A questo proposito, ma anche a motivo di altre situazioni, Boris Johnson, sindaco di Londra, accusa David Cameron di “inerzia istituzionale” (Daily Mail, 16 agosto 2012, pag. 6) e lo invita ad un maggior impegno nel taglio delle tasse e negli investimenti riguardanti le infrastrutture, con particolare riferimento ad un massiccio programma di edilizia sociale, di ponti sui fiumi, di ferrovie, di nuovi aeroporti (specie nel sud-est). Non a caso il primo cittadino londinese è un serio aspirante fra i tories per prendere il posto di Cameron nel prossimo futuro. Intanto Boris rimprovera a David di non aver capitalizzato a sufficienza il successo delle Olimpiadi londinesi, che invece andrebbero meglio sfruttate.

Intanto il debito totale calcolato per ogni cittadino britannico è il più alto fra tutte le maggiori nazioni, eccezion fatta per l’Irlanda ed il Giappone (Daily Mail, 16 agosto 2012, pag. 14). Allo stesso tempo è reputata come “una disgrazia nazionale” il dato di fatto che “tanta gente anziana che ha lavorato duramente per tutta la loro vita sia costretta a vendere la propria casa per pagarsi l’assistenza”.  Il medesimo quotidiano londinese ha accertato che nell’anno precedente (2011) siano stati più di 24.500 i soggetti indotti a cedere le proprie abitazioni per pagare i loro conti dell’assistenza a lungo termine (Daily Mail, 16 agosto 2012, pag. 1). Cameron intenderebbe trovare una soluzione mettendo in atto il piano dell’economista Andrew Dilnot, che prescrive un’assicurazione obbligatoria per i lavoratori, onde coprire almeno quanto necessario, fino alla soglia di 35.000 sterline. Detto altrimenti, coloro i quali devono andare in una residenza di cura a lungo termine devono pagare l’intero ammontare necessario se il loro reddito annuo supera la soglia di 23.250 sterline. Qualche ministro, tuttavia, vorrebbe alzare la soglia sino a 35.000 sterline.  

Non pare abbia preso consistenza l’idea di fare degli investimenti sociali il terzo pilastro del settore sociale, insieme con le azioni filantropiche e le provvidenze governative. Lo stesso dicasi per i Social Impact Bonds, per l’Investment and Contract Readiness Fund e per Community First (fondo di azione sociale da attivare attraverso gruppi di vicinato, specialmente in contesti sottoposti a forte deprivazione). Pure il programma per gli organizzatori di comunità, che addestra e sostiene 5.000 soggetti, non risulta avviato. Insomma nonostante la sua dichiarazione del 19 luglio 2010, riportata da The Independent del 20 luglio 2010: “my great passion is building the Big Society”, David Cameron non sembra in grado di andare molto al di là di semplici dichiarazioni d’intenti. 

La società “post-sociale”

Quasi in contemporanea con la proposta di una Big Society è giunta tra le mani dei sociologi un’accorta presa di posizione di Alain Touraine, sempre attento alle dinamiche ed ai movimenti in atto: si tratta del volume dal titolo Après la crise, edito da Seuil proprio nel 2010 e tradotto in Italia nel 2012 (presso l’editore Armando di Roma). Il taglio dato dal sociologo francese al suo esame puntuale ed approfondito coglie abbastanza nel segno, parlando di un superamento della società industriale, della crisi della società capitalista, della decomposizione della vita sociale, delle logiche del profitto messe in azione contro i diritti: sono altrettanti capitoli del suo testo. La seconda parte è più propositiva e fa intravedere una “società possibile”, “post-sociale”, con la “comparsa di attori non sociali” e la nascita di “nuove istituzioni sociali e politiche”, insomma un vero e proprio “ritorno al sociale”, che sembra fare il verso alla Big Society cameroniana ma procede di fatto lungo un’altra e ben diversa strada. “La nuova società vive una separazione sempre più profonda tra un’economia che si organizza a livello mondiale e istituzioni e forme di organizzazione sociale che sono indebolite nella loro capacità di controllare il sistema economico” (pag. 115). Sta appunto qui la differenza con la Big Society, in cui il sistema economico non è affatto messo in discussione ma si invoca una soluzione appena palliativa, che scagioni il complesso di interessi transnazionali dei potentati finanziari, fonte originaria della crisi. Il fatto nuovo è presto delineato: “per la prima volta nella storia, il mondo della produzione, delle banche e delle tecnologie è separato dal mondo degli attori” (pag.115). Il risultato più significativo di tutto ciò è che “gli attori non possono essere definiti come attori sociali, perché la loro legittimità deriva da piani più elevati” (pag. 116), che ovviamente non sono controllati e controllabili. Ecco dunque che Touraine invoca, con Hannah Arendt, il diritto degli attori sociali di avere il “diritto di avere diritti”.

Ma ancor più perspicace è l’approccio tourainiano nel confronto fra le riforme britanniche e le rivoluzioni francesi. Le prime sono in continuità con l’esistente, le seconde hanno invece un carattere di rottura, di discontinuità. E, soprattutto, appare lucidissima l’analisi dei rischi insiti nelle due diverse realtà: “la continuità permette di distinguere tra ciò che bisogna cancellare e ciò che occorre conservare del passato, ma essa può essere resa possibile solo dall’efficacia di un sistema politico capace di evitare il tutto o niente, sempre troppo costoso. La rottura ha come inconveniente più importante di far facilmente perdere di vista la trasformazione da realizzare. Può anche condurre alla creazione di un potere assoluto che rompe i legami con il passato, ma al prezzo della dittatura esercitata da chi guida questa rottura, si tratti di un individuo o di un partito” (pag. 119).

Evidente è inoltre la contrapposizione, se si vuole, fra Touraine e Cameron, lì dove si legge: “bisogna che dappertutto non si formino solamente dei simpatici gruppi di vicinato o di riunioni familiari in cui i cugini lontani imparano a conoscersi, ma gruppi di protesta e nello stesso tempo di affermazione di principi universali” (pag. 146). Insomma la formula della Big Society non risolve, non allontana la crisi, in quanto occorre un impatto più forte, dirompente nella sua tensione verso “i diritti umani, la giustizia e la libertà” (pag. 147).Sul piano operativo il sociologo francese indica poi due forti leve di cambiamento, la scuola ed il lavoro (pp. 148-150), e rinvia a Robert Putnam di Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community (Simon & Schuster, New York, 2003; ed. or. 2000) e di Better Together: Restoring the American Community (Simon & Schuster, New York, 2003), scritto insieme con Lewis Feldstein e Dan Cohen. Ma si potrebbe anche citare la forte spinta comunitarista che Amitai Etzioni (Law in a New Key: Essays on Law and Society, Quid Pro Books, New Orleans, 2010) va proponendo da più anni, con tante pubblicazioni ed in diversi luoghi. Per concludere, in Touraine, Putnam ed Etzioni la musica è tutt’altra rispetto ai clangori della Big Society ed anche della Bigger Society.