La Chiesa cattolica in Italia, oggi

La Chiesa cattolica in Italia, oggi

Roberto Cipriani

Abstract

1. Premessa

A tre lustri di distanza dalla prima ed unica (almeno sinora) indagine completamente dedicata al fenomeno religioso in Italia, per di più sulla base di un campione realmente statisticamente rappresentativo dell’intero territorio nazionale[1], non è agevole rendere conto della situazione odierna relativa alla Chiesa cattolica nel nostro paese. Sono molte le dinamiche sociologiche intervenute nel frattempo a livello sociale, politico, economico e culturale, nonché attitudinale e comportamentale, che andrebbero debitamente analizzate ed interpretate[2]. Com’è noto, la ricerca scientifica in questi ultimi anni ha subito pesanti restrizioni economiche che non hanno consentito il decollo di progetti d’indagine pur necessari.

Ci si deve dunque ridurre a trarre indicazioni da indizi e dati di diversa provenienza e natura, per potere tentare – in assenza di elementi più probanti – di offrire un quadro della situazione in termini sufficientemente plausibili, ma non certo del tutto soddisfacenti, rispetto a quello che la vasta problematica in esame meriterebbe.

Non sono mancati invero alcuni contributi anche significativi, ma si tratta di studi parziali, territorialmente circoscritti e dunque non in grado di fornire una visione complessiva relativa all’intera popolazione nazionale.

2. Chiesa cattolica e Stato italiano

Un punto cruciale che condiziona il tipo di presenza del cattolicesimo in Italia è rappresentato dall’esistenza di un apposito accordo istituzionale, in forma codificata e legittimata, fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Ernesto Galli Della Loggia ha scritto in proposito che la storia dello Stato italiano «appare troppo inestricabilmente intrecciata alla vicenda del Cristianesimo e della Chiesa romana perché sia realmente plausibile immaginare un reciproco disinteresse, una reale indifferenza dell’una rispetto all’altra all’insegna dell’unilateralità»[3]. La formula pattizia risale all’epoca del fascismo, in data 11 febbraio 1929, ma è stata recepita anche nell’articolo 7 della costituzione italiana della repubblica, nata dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e ribadita successivamente con l’Accordo del 18 febbraio 1984, auspice il governo presieduto da Bettino Craxi. La legge 222 del 1985 veniva poi a dare un sostegno decisivo alla Chiesa cattolica attraverso la destinazione delle somme provenienti dall’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Nelle complesse vicende che hanno accompagnato il declino del socialismo craxiano prima e l’avvento di Berlusconi e di Forza Italia poi, in buona misura erede dei voti già democristiani, un peso rilevante ha avuto la presidenza della Conferenza Epsicopale Italiana, in particolare sotto la gestione ultraquindicennale (1991-2007) del cardinale Camillo Ruini, vicario del Papa per la diocesi di Roma. Quest’ultimo ha di volta in volta cercato ulteriori appoggi da parte del governo italiano su questioni di varia natura. Al termine del suo lungo mandato, la Segreteria di Stato del Vaticano ha voluto avocare a sé la competenza diretta per gli affari italiani, anche in forza delle normative vigenti che vedono come interlocutore la stessa Santa Sede e non certamente la conferenza nazionale dei vescovi.

Anche nella prospettiva affacciatasi più di recente, con l’ipotesi della costituzione di un centro partitico-politico di marca cattolica, l’influenza del Segretario di Stato vaticano non appare secondaria. Venuto meno, per molteplici ragioni, l’affiancamento rispetto alla coalizione governativa berlusconiana, si pensa ora a nuovi scenari, resi probabili da un prevedibile esaurirsi dell’esperienza in corso, per cui si immagina la possibilità di un recupero di un ruolo specifico dei cattolici in campo politico.

Alcuni eventi di questi ultimi tempi comproverebbero l’esistenza di operazioni tese a sganciarsi dal carro degli ex-vincitori per trovare invece nuove soluzioni di convenienza. Ma nell’incertezza del momento i passi sono cauti, prudenti, in attesa di sviluppi più chiari.

Nel frattempo alcuni intellettuali cattolici stanno promuovendo azioni di rivisitazione storica di alcuni fatti del passato: dalle crociate all’inquisizione, dalla rivoluzione francese al risorgimento italiano. L’obiettivo è una rivalutazione dell’azione della Chiesa e dei cattolici in generale, in relazione ad avvenimenti strategici nella storia dell’Italia cattolica.            

Si riapre a questo punto l’annosa diatriba sulla laicità dello Stato e della politica, già riemersa in modo diffuso in occasione del centenario della legge francese del 1905, che aveva portato a molti espropri di beni ecclesiastici ed all’abolizione di vari benefici a favore della Chiesa cattolica. Su questo tema ho già avuto modo di intervenire, per cui mi limito a ribadire una mia lettura della questione in termini sintetici: «la stessa religione fornisce strumenti analitici e definitori per distinguere sacro e secolare, anima e corpo, sentimento e ragione, spirituale e temporale, ragion per cui le soglie di laicizzazione sono facilmente rinvenibili e praticabili come punti-limite, per evitare invasioni di campo, colonizzazioni, espansioni indebite. Ma d’altro canto lo stato laico proprio perché tale non può negare diritto di cittadinanza alle varie esperienze religiose dei suoi cittadini. L’autonomia del soggetto non può non stare a cuore allo stato, chiamato invece ad allontanare quanto possa arrecare danno. Nessun rappresentante di uno stato democratico può negare ai cittadini-membri il diritto alla credenza (o alla non credenza) religiosa. Per non dire poi di quello che una o più religioni possono rappresentare per la storia di un paese come la Francia (od anche la Germania e l’Italia), in relazione alla conservazione dell’appartenenza territoriale e della memoria locale. All’orizzonte c’è una prospettiva che contempla non più la strumentalizzazione o la mera contrapposizione ma una possibile sinergia, nel rispetto reciproco, fra stato e religione/i»[4].

Posta una premessa formulata in tali termini c’è da chiedersi fino a che punto sia laica un’attività di lobby esercitata da gerarchie ecclesiastiche nei riguardi dello Stato ed in particolare del suo governo. E soprattutto vale la pena di domandarsi se le carenze delle formazioni partitico-politiche giustifichino l’intervento diretto di una Chiesa (cattolica e non) nelle questioni di gestione della struttura statale, nell’attività legislativa, nell’accesso alle risorse pubbliche. Se anche è reale l’incapacità delle culture politiche italiane di affrontare in modo adeguato la complessa e delicata querelle sull’autonomia dello Stato e su quella delle Chiese organizzate, che diritto ha una specifica struttura religiosa di occupare anche il ruolo che spetta di diritto e di fatto alla sua controparte statale?

Che la religione cattolica sia la religione diffusa per eccellenza, nel nostro paese è indubitabile[5] ma un conto è riferirsi a dei valori che orientino l’agire nella sfera pubblica un altro conto è l’iniziativa mirata su esponenti del governo, per ottenerne vantaggi normativi ed economici.      

Il discorso si allarga poi ad altri ambiti, per i quali si richiede un orientamento preciso ed operativo: dalla presenza del crocifisso nelle scuole al finanziamento delle scuole private, dal riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa al diniego dell’eutanasia, dal rifiuto dell’aborto all’opposizione nei riguardi dell’inseminazione artificiale e di altre sperimentazioni genetiche.

Il tutto peraltro è accompagnato da una scarsa dimestichezza del popolo cattolico con la teologia, con la dottrina sociale della Chiesa, con le problematiche scientifiche di maggio rilievo. Il che lascia ampio spazio all’agire dei vertici ecclesiastici che per un verso perdono consenso fra la base ecclesiale e per un altro verso cercano presso gli attori politici un credito che però di fatto viene usato strumentalmente in una sorta di scambio politico-elettorale: da una parte si chiede appoggio per mettere a segno qualche risultato legislativo o per ricevere qualche sovvenzione economica, dall’altra si domanda il favore di organizzazioni, strutture ed associazioni d’impronta cattolica in occasione di scadenze elettorali.

Sintomatico è il rapporto, per esempio, con il partito della Lega Padana, che ricorre a simbologie neo-pagane ma non disdegna la non belligeranza della Chiesa cattolica. Fra l’altro è da immaginare una certa pressione del partito padano per quanto concerne pure le nomine dei vescovi, che si auspicano ben legati al territorio, insomma padani in Padania. Esemplare è quanto sostiene Renzo Guolo, un sociologo che è un profondo conoscitore e dell’immigrazione islamica in Italia e della realtà leghista, in particolare di Treviso: «città di forte tradizione cattolica, dove la Dc aveva le stesse, altissime, percentuali di consenso  che oggi ha la Lega,la Chiesa è sempre stata vicina ai più deboli. Così è stato sul fronte degli immigrati e della libertà di culto per i musulmani. Scelte che hanno provocato a partire dalla metà degli anni novanta un duro scontro con la Lega. Uno scontro che ha visto il Carroccio contrapporsi ai cosiddetti “preti rossi”, un ossimoro politico che i leghisti hanno coniato per stigmatizzare i sacerdoti più impegnati su quel versante. Sacerdoti che sono stati difesi strenuamente dal loro vescovo; almeno sino a quando la Lega è diventata forza di governo nazionale e vi è stato un mutamento della guida episcopale. Si è giunti così a una sorta di tacito compromesso, ispirato alla realpolitik, che ha profondamente diviso il mondo cattolico locale. Un compromesso che sul piano nazionale vede la Chiesa guardare oggi al carroccio come a un partito affidabile sul piano dei “valori non negoziabili”, in particolare sul terreno della bioetica e della famiglia»[6].

Più problematico è il rapporto con il Partito Democratico (nato il 14 ottobre 2007), dal quale si sono staccati alcuni esponenti cattolici, fra cui la parlamentare Paola Binetti, ma che vede pure una cattolica, Rosy Bindi, alla sua presidenza. Il dialogo avviato in tempi ormai lontani fra Enrico Berlinguer, segretario dell’allora Partito Comunista Italiano, ed il vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi, non ha avuto sviluppi degni di nota. Politici cattolici hanno militato nei Democratici di Sinistra e nella Margherita (fino al 2007) ma per ragioni personali o per limitazioni poste dalle rispettive segreterie politiche non hanno avuto un impatto rimarchevole, almeno a livello diffuso. Così il dialogo fra mondo cattolico e sinistra politica è parso interrompersi. Si può dire, invero, che neppure tra i vertici vaticani ci sia stata una particolare attenzione, che invece non è mancata – sia pure a corrente alternata, per qualche intemperanza del premier Berlusconi – nei confronti di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi. Segnatamente negli ultimi anni ne è stato protagonista lo stesso cardinale Tarcisio Bertone, nella sua veste ufficiale di Segretario di Stato del Vaticano. Ma anche altri hanno dato man forte: si pensi a monsignor Rino Fisichella, dapprima rettore della Pontificia Università Lateranense e poi presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

Intanto qualche esito appare già evidente: quello che un tempo era il cattolicesimo democratico ha oggi perso molta lena, tanto da non essere quasi più riconoscibile a livello di presa di parola in pubblico; di converso non sembra più avere molto seguito il cosiddetto progetto culturale promosso dal cardinale Camillo Ruini nella sua qualità di presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Le azioni e gli interventi di soggetti rappresentativi dell’intellettualità cattolica democratica e di sinistra non hanno prodotto gli effetti desiderati. In pratica si può dire che la scomparsa di uomini come lo storico Pietro Scoppola ed il sociologo Achille Ardigò abbiano segnato altresì la fine di un’epoca, quella del confronto dialogante, favorendo invece lo sviluppo di discussioni teoricamente meno fondate, quasi tutte orientate come sono al da farsi quotidiano, anzi orario data la forte accelerazione dei cambiamenti in atto nella politica italiana. In definitiva l’ipotesi di una politica di rapporti sia pure laici fra sinistra politica e Chiesa cattolica e/o Vaticano è ancora di là da venire e non presenta neppure i prodromi che possano avviare la discussione in merito. Ovviamente non si pensa a ristabilire forme di collateralismo quali i Comitati Civici (galoppinaggio elettorale a favore della Democrazia Cristiana), promossi da Pio XII nel 1948 e messi in atto (fino al 1974) da Luigi Gedda, presidente generale dell’Azione Cattolica Italiana. Si tratta più verosimilmente di raccordare sensibilità diverse ma anche cospicue per la loro diffusione tra la popolazione italiana. Come a dire: non un cartello di intese politico-elettorali ma posizioni di ascolto reciproco in vista del bene comune dei cittadini.

3. L’adesione religiosa dell’otto per mille

L’accordo stipulato nel 1984 con lo Stato italiano ha dato adito alla Chiesa cattolica di acquisire risorse importanti, specialmente grazie alla legge successiva, promulgata nel 1985, sul cosiddetto otto per mille. Tale operazione ha dato indubbiamente linfa vitale alle strutture ecclesiastiche italiane, che se ne sono giovate ampiamente, come mostrano le cifre e segnatamente l’andamento sostanzialmente costante delle entrate a loro favore.

L’entrata in vigore della normativa approvata non è stata immediata ma ha avuto inizio nel 1990, allorquando per la prima volta si sono contate le scelte operate dai contribuenti italiani tra le opzioni possibili, che elencavano, fra l’altro, sia lo Stato che la Chiesa cattolica.

L’andamento nel corso degli anni è stato altalenante, con incrementi e decrementi di volta in volta, senza che si potesse individuare una chiara linea di tendenza a lunga gittata, ma in linea di massima si è registrata una discreta tenuta dei flussi. Però fare ora delle previsioni per quanto concerne l’immediato futuro rischia di essere fallace. Giova comunque tenere presente la dinamica del numero delle firme (o, meglio, delle quote percentuali riconosciute dallo Stato) in favore della Chiesa cattolica, di anno in anno:

Tab. 1

QUOTE COMPLESSIVE* DELL’8‰ PER LA CHIESA CATTOLICA

AnnoQuote per la Chiesa cattolica % *Differenza in aumento (+) o in diminuzione (-) rispetto all’anno precedente
199076,17=
199181,43+
199284,92+
199385,76+
199483,60
199583,68+
199682,56
199781,58
199883,30+
199986,58+
200087,17+
200187,25+
200288,83+
200389,16+
200489,81+
200589,82+
200686,05

* Va considerato che l’ammontare delle somme attribuite

deriva dalle firme effettivamente apposte ma anche dalla ridistribuzione in percentuale

della quota parte non assegnata (per mancanza di firme).

Pertanto il numero reale di firme per la Chiesa cattolica

è di fatto inferiore alle percentuali indicate in tabella.

Fonte: Elaborazione su Comunicazioni dello Stato italiano alla Conferenza Episcopale Italiana

Lo Stato italiano ha versato ogni anno alla Chiesa cattolica un’anticipazione, prima di provvedere ad un conguaglio negli anni successivi, una volta accertata la ripartizione dovuta delle quote.

Nel 1989, prima dell’entrata in vigore della legge 222, la Chiesa cattolica aveva ricevuto per l’ultima volta la somma di 406 miliardi di lire in relazione alla congrua, per 399 miliardi di lire, ed all’edilizia per il culto, per 7 miliardi. Per gli anni 1990, 1991 e 1992 aveva ottenuto un pari anticipo annuale di 406 miliardi di lire, nella medesima misura dunque della somma percepita nel 1989. Per il 1993 l’ammontare dell’anticipo, in lire, è stato pari a ciò che oggi corrisponde a 303 milioni di euro, per il 1994 a 363 milioni di euro e per il 1995 a 449 milioni sempre di euro.

A partire dal 1996 sono stati attribuiti i conguagli relativi a tre o più anni precedenti. Ecco dunque il quadro dettagliato degli introiti dal 1990 al 2009, calcolati sempre in milioni di euro per ragioni comparative (anche se i versamenti sono avvenuti in lire, nei primi anni di applicazione della legge e dunque fino all’introduzione della nuova moneta europea):

Tab. 2

ANTICIPI E CONGUAGLI DELL’8‰

(in milioni di euro)

AnnoAnticipoConguaglioTOTALE
1990210210
1991210210
1992210210
1993303303
1994363363
1995449449
1996491260751
1997476238714
1998494192686
1999539216755
200055588643
2001630133763
2002726184910
20037882281.016
2004783154937
2005854130984
200685971930
2007887104991
2008928741.003
200991354968*
1990-200911.6682.12613.796*

* Tutte le cifre sono arrotondate, per cui il totale non corrisponde alle somme effettive.

Per esempio il totale effettivo del 2009 è di 967 milioni e 538.000 euro.

Fonte: Elaborazione su Comunicazioni dello Stato italiano alla Conferenza Episcopale Italiana

Uno dei vantaggi derivanti dalla legge 222 è connesso al fatto che l’entità del sussidio statale non è più commisurato al numero dei sacerdoti secolari e regolari (che è andato diminuendo, nel suo complesso, in questo ultimo ventennio) ma al totale delle firme a favore della Chiesa cattolica, cui si aggiunge la percentuale derivante (in misura proporzionale al numero di firme) dalle quote non assegnabili per mancanza di scelta da parte del contribuente fra le alternative possibili. Insomma anche chi non firma risulta offrire comunque un vantaggio al maggiore destinatario, appunto la Chiesa cattolica.

Le opzioni in forma di firma a favore della medesima Chiesa hanno segnato un costante aumento in percentuale dal 1990 al 1993 e dal 1998 al 2005, mentre riduzioni – rispetto all’anno immediatamente precedente – si sono registrate negli anni 1994, 1996 e 1997, nonché nel 2006. Se si prescinde dalle percentuali, gli anni per così dire in sofferenza, per minori entrate, sono il 1997, il 1998, il 2000, il 2004, il 2006 ed il 2009. Riesce difficile stabilire le ragioni di tali riduzioni, legate probabilmente a fattori piuttosto contingenti (per esempio, sia durante il pontificato di Giovanni Paolo II che quello di Benedetto XVI si sono registrati talora qualche calo talora qualche incremento). Forse la differenza di risultati può derivare anche dal tipo e dal contenuto della campagna pubblicitaria effettuata a livello di mezzi di comunicazione di massa oppure da eventi internazionali, nazionali e persino locali che possono aver condizionato le scelte.   

Vanno poi prese in considerazione le utilizzazioni delle somme percepite, le quali vengono devolute per tre finalità: il sostentamento del clero, le necessità di culto e le attività pastorali, e l’azione caritativa in Italia ed all’estero.

Vi sono state nel corso degli anni rimarchevoli differenze, specialmente nell’ambito di alcune voci per la ripartizione dei fondi. Quelle specifiche per il sostentamento del clero sono più che raddoppiate dal 1990 al 2009, giacché sono passate da 145 milioni di euro nel 1990 a 381 milioni nel 2009.

Quelle caritative a favore del Terzo Mondo erano 15 milioni di euro nel 1990 ma sono divenute 85 milioni di euro nel 2009, cioè risultano moltiplicate di quasi sei volte (i progetti finanziati dal 1990 al 2009 sono stati 9.955). Nel contempo le provvidenze di carità ad uso delle diocesi italiane sono aumentate di nove volte, visto che erano appena 10 milioni di euro nel 1990 e sono risultate essere 90 milioni nel 2009. Tale dato fa pensare che la carità da esercitare nel nostro paese sia da preferire a quella da destinare ai paesi terzomondiali.

Sono poi predominanti le spese diocesane per il culto e la pastorale, che attingono la cifra di 156 milioni di euro nel 2009 mentre erano di soli 18 milioni nel 1990: l’aumento è di quasi nove volte.

Inoltre sono stati anche accantonati 50 milioni di euro nel 2003 per culto, pastorale e carità, di cui sono stati spesi per culto e pastorale 5 milioni di euro e per carità 10 milioni di euro nell’anno 2004, ma nel 2005 vi è stata un’integrazione del medesimo accantonamento per 3 milioni di euro; infine nel 2009 all’assegnazione statale di 967 milioni e 538.000 euro si sono aggiunti 42 milioni di euro provenienti dagli accantonamenti degli anni precedenti, “a futura destinazione per esigenze di culto e pastorale e per interventi caritativi”.

In realtà, in base ai nostri conteggi ed alle informazioni ufficiali rese note, si dovrebbe trattare di 38 milioni di euro, ma probabilmente il fondo è stato incrementato di altri 4 milioni di euro. Sta di fatto che su questo aspetto particolare il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa offre informazioni contraddittorie, in quanto nella documentazione ufficiale si parla anche di un fondo di riserva, che però potrebbe anche essere il già citato fondo di accantonamento.

Orbene nell’ambito delle iniziative di rilievo nazionale si fa riferimento appunto ad un fondo di riserva, «costituito nel 2000 con 8 milioni di euro, integrato poi nel 2002 con 15 milioni di euro e nel 2003 con 30 milioni, e destinato ad essere utilizzato in futuro per le iniziative di culto e pastorale»[7].

A questo punto, con buona probabilità accantonamento e fondo di riserva riguardano la medesima operazione. Ma i conti non tornano, anche a voler considerare gli effetti di eventuali arrotondamenti. Infatti per l’accantonamento del 2003 viene indicata la cifra di 50 milioni di euro ma per il fondo di riserva, sempre del 2003, il totale sarebbe di 53 milioni di euro, derivanti dagli 8 milioni di euro messi da parte nel 2000, cui si sono aggiunti 15 milioni di euro nel 2002 ed altri 30 nel 2003, dunque per un totale di 53 milioni di euro.

In definitiva delle due l’una: o 50 o 53 milioni. Un arrotondamento di ben 3 milioni non è verosimile. Comunque il quadro che ne emerge non è affatto chiaro o quantomeno non vengono forniti elementi sufficienti per una comprensione dei calcoli effettuati e delle somme in questione).

Nell’ambito del totale delle spese per culto e pastorale (che includono anche quelle per i 19 Tribunali ecclesiastici regionali, sovvenzionati con 4 milioni di euro nel 2000 e con 10,5 milioni di euro nel 2009 per rendere meno onerose le spese giudiziarie relative all’annullamento dei matrimoni), la stessa Conferenza Episcopale Italiana ha potuto accertare che per il culto in particolare la percentuale media diocesana di utilizzo è il 24%, per la cura delle anime il 49%, per le attività in diocesi il 13%, per la formazione del clero secolare e regolare il 9%, per la catechesi e l’educazione il 4%, per le missioni l’1%.

Un’ultima non meno importante voce concerne la nuova edilizia di culto, che prevedeva 15 milioni di euro nel 1990 e che ha attribuito 122 milioni di euro nel 2009, cioè una somma più di otto volte maggiore di quella iniziale.

In definitiva edilizia e culto e pastorale sembrano le destinazioni privilegiate. Insomma strutture edilizie e organizzative hanno la meglio su tutto il resto.

Un discorso a parte merita la voce “tutela beni culturali ecclesiastici”, del tutto assente nel 1990, inaugurata nel 1996 con 52 milioni di euro, ridotta a soli 3 milioni di euro nel 2000 (presumibilmente in concomitanza con altre provvidenze pubbliche, in occasione dell’Anno santo) e passata a 65 milioni di euro nel 2009.

L’incremento maggiore è quello riguardante le iniziative di rilievo nazionale nell’ambito delle esigenze di culto della popolazione: all’inizio, nel 1990, erano finanziate con soli 4 milioni di euro ma alla fine, nel 2009, hanno ottenuto 80 milioni di euro, dunque un aumento venti volte superiore a quello di diciannove anni prima.

Più contenuto è l’incremento degli interventi di rilievo nazionale per la carità: vanno dai 2 milioni di euro del 1990 ai 30 milioni di euro nel 2009, per cui dopo venti anni la somma si moltiplica per quindici.

Ecco le varie voci in dettaglio, suddivise per anno e per destinazione:

Tab. 3

DESTINAZIONI DELL’8‰ DA PARTE DELLA CHIESA CATTOLICA

(in milioni di euro)

AnnoCulto e pastoraleEdilizia di cultoBeni culturaliIniziative nazionaliCarità diocesanaTerzo mondoCarità nazionaleCleroTOTALE
19901815410152145210
19912323915264108210
19922326915284103210
199331301021303177303
199433381521395212363
199546653631655201449
199611874527568725287751
199711877528068725241714
199811873416968624249686
1999118766211168654250755
20001185435865547284643
2001134832681696516290763
200215012050107757030308910
2003150130501227580303301.016
20041501307092808030320937
200515513070116858030315984
20061551176364858030336930
20071601176888908530354991
200816011768809085303731.003
20091561226580908530381968*
1990-20092.1341.6177401.3061.1891.2383045.26413.796

* Tutte le cifre sono arrotondate, per cui il totale non corrisponde alle somme effettive. Per esempio il totale effettivo del 2009 è di 967 milioni e 538.000 euro.

Fonte: Elaborazione su Rendiconti della Conferenza Episcopale Italiana allo Stato 1990-2008

 e Assegnazioni dell’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana 2009

In definitiva culto, attività pastorale e sostentamento del clero assorbono più della metà dell’intero ammontare dell’otto per mille. Dunque prevalgono le destinazioni a livello organizzativo della Chiesa cattolica. Il resto è in subordine. E la nuova edilizia cultuale ha la meglio sulla conservazione dei beni, pur cospicui.

La distribuzione delle somme alle diocesi per culto e pastorale viene effettuata sulla base di un doppio criterio: una prima metà dell’intero ammontare va a costituire un plafond comune per tutte le 226 diocesi, grandi o piccole che siano; l’altra metà del finanziamento è proporzionato al numero di abitanti residenti in diocesi.

Per quanto riguarda il finanziamento degli edifici di culto la Conferenza Episcopale Italiana offre alle diocesi solo una parte di quanto necessario (fino al 75% per nuova edilizia e fino al 50% per vecchia edilizia). L’intento di questa modalità di cofinanziamento è coinvolgere i fedeli, perché anch’essi contribuiscano in parte a sostenere le spese relative alla propria comunità.

Il patrimonio culturale ed artistico della Chiesa cattolica è notevole: circa 85.000 templi su un totale di 90.000 sono ritenuti un patrimonio culturale. Vi sono inoltre 1.535 monasteri, quasi 3.000 monumenti, 26.000 archivi, 5.500 biblioteche, 700 musei e collezioni. Difficile è, per di più, riuscire ad enumerare sculture, dipinti ed altre preziose opere d’arte in possesso della Chiesa cattolica italiana.

Un precipuo interesse presentano i dati sul sostentamento del clero. Nel 2008 un giovane sacerdote neo-ordinato ha ricevuto mensilmente 862,86 euro ed un vescovo quasi al termine del suo mandato ha riscosso mensilmente 1.341,90 euro. Il totale dei sacerdoti in servizio è stato di 37.689 unità, di cui 34.649 in attività nelle diocesi italiane o nelle missioni estere (in cui sono stati impegnati 548 preti) e 3.040 in previdenza integrativa, per ragioni di età o di salute.

Il sostentamento del clero non deriva esclusivamente dall’otto per mille. Infatti ci sono sacerdoti che hanno già un’attività retribuita, come insegnanti di religione o cappellani negli ospedali e nelle carceri, oppure come operatori pastorali nelle diocesi e nelle parrocchie. Si aggiungono poi le rendite degli Istituti diocesani per il sostentamento del clero. A sua volta l’Istituto Centrale Sostentamento Clero contribuisce in parte con le offerte ricevute (deducibili dall’Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche) ed in parte con i fondi provenienti dall’otto per mille. La distribuzione percentuale delle fonti di finanziamento del clero risulta dalla tabella che segue.

Tab. 4

MODALITÀ DI FINANZIAMENTO DEL CLERO

                Fonte di finanziamentoMilioni di euro%
Retribuzioni dei sacerdoti insegnanti o cappellani112,9  20
Retribuzioni dei sacerdoti operatori pastorali45,7  8
Rendite degli Istituti diocesani sostentamento clero                                 47,3  8
Offerte deducibili (da Istituto Centrale Sostentamento Clero)16,8  3
Otto per mille (da Istituto Centrale Sostentamento Clero)                                     343,361
                                                                                     TOTALE 556,0       100

Nella documentazione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana si legge che nel 2008 occorrevano 566 milioni di euro per il sostentamento del clero, l’IRPEF, la previdenza, l’assistenza e l’assicurazione sanitaria. Quando però si passa a quantificare nel dettaglio (cfr. Tab. 4) la somma si riduce, senza giustificazione alcuna, di 10 milioni di euro (ed anche qui non vale, data l’entità, il discorso degli arrotondamenti). Se si prende comunque per valida la somma di 556 milioni annui, invece di 566, però il dato di 343,3 milioni di euro relativo all’otto per mille non corrisponde a quanto esposto nella Tab. 3 per l’anno 2008 sotto la voce clero (sostentamento), dove la somma indicata è di 373 milioni di euro, con una differenza quindi di 30 milioni di euro. Ancora una volta i dati sono incerti e non reggono neanche ad una semplice verifica aritmetica. A meno che nei calcoli effettuati non vi siano operazioni non evidenziate o sottintese o piuttosto complesse o non ancora sottoposte a resoconto.

Un dato, anche se imprecisato (non si hanno informazioni chiare e puntuali al riguardo), resta comunque certo: il numero dei contribuenti che sceglie con apposita firma l’attribuzione dell’otto per mille alla Chiesa cattolica non si attesta sulle percentuali complessive fornite ufficialmente e dallo Sato italiano e dalla Chiesa cattolica. Verosimilmente si è ben al di sotto delle percentuali che danno un tasso costantemente superiore all’80%: il numero effettivo delle firme è di qualche decina di punti percentuali in meno, comunque meno della metà (per esempio nel 2004 le dichiarazioni dei redditi sono state 40.316.692, di cui 16.290.418 ovvero il 40,40% avevano una scelta valida relativa all’otto per mille ripartita tra Chiesa Cattolica, Stato, Chiesa evangelica valdese, Unione delle comunità ebraiche italiane, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia). Insomma la Chiesa cattolica in Italia non gode di consensi straripanti, come lascerebbero invece intendere le cifre messe a disposizione ed una loro ulteriore elaborazione. 

4. La religione diffusa come religione dei valori

Nel corso degli ultimi due decenni si è constatato che le relazioni fra Chiesa cattolica e Stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso, fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova per la capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane.

Peraltro il nucleo essenziale della religione cattolica diffusa è rinvenibile proprio nell’insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento.

La religione diffusa oggi in Italia non sembra accentuatamente diversa da quella di un quindicennio fa. Anzi proprio la sua persistenza ne costituisce una caratteristica peculiare. Se qualcosa è cambiato ciò è avvenuto a livello secondario, in aspetti di dettaglio e non di sostanza. Dunque la religione diffusa continua ad essere il risultato di una vasta azione di socializzazione religiosa che pervade anche tuttora la realtà italiana e non solo. Come spiegare altrimenti la tenuta massmediatica di un personaggio come il papa (anche indipendentemente dal suo carisma personale)? Il carattere di religione diffusa resta perché nasce comunque dalla religione, è intriso fortemente di religione e non è certo un fenomeno anticattolico, come del resto non è antireligioso neppure negli altri contesti in cui una religione è dominante e risulta diffusa (nel caso dell’islam o dell’induismo, dello scintoismo o del buddismo).

Solitamente l’appartenente alla religione diffusa è poco praticante e poco attento agli insegnamenti direttamente legati a conseguenze pratiche immediate più che ad orientamenti di massima.

Inoltre nel caso italiano va pure considerato che appunto la presenza del riferimento al cattolicesimo, rintracciabile pure nei discorsi degli uomini politici, è la riprova dell’esistenza di una religione il cui peso non sfugge certo a quanti sono alla ricerca di leve potenti per accrescere il loro consenso politico-elettorale. Invero la religione diffusa può essere soggetta a strumentalizzazioni facili giacché il richiamo a valori religiosi ha sempre un suo fascino, un suo appeal. Più che di termini biblici, infatti, alcuni esponenti politici fanno uso di richiami semplici, usuali: Padre Pio come il papa, una Madonna protettrice di un luogo o un santo ritenuto grande taumaturgo.

E così allora non è molto facile distinguere fra religione diffusa e religione dei valori: la prima è inclusa nella seconda, che abbraccia un più largo settore della popolazione caratterizzata da diversi livelli di credenza. Le contingenze politiche e soprattutto i risultati elettorali non si spiegano solo con gli appoggi confessionali o con i rinvii a tematiche religiose: molti e complessi fattori interferiscono, al di là delle apparenze e dei pronunciamenti religiosi ufficiali e/o privati.

Indubbiamente la presenza di valori è una costante delle religioni storiche, più radicate a livello culturale. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.

Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice ovvero di opzione ragionata), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.

Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei gruppi di soggetti aventi pari età). In effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.

Intanto è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, partendo dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, si approda poi ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.

Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis che aggrega gruppi di individui con caratteristiche simili). Peraltro la diversificazione della religione diffusa rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico.

Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali[8].

In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di Chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how. Dell’efficacia di tali azioni la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche.

Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.    

La religione diffusa potrebbe anche essere classificata come una “religione invisibile”[9] sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una “semiappartenenza” o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi)[10].

Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è però presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa.

Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra.

Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei criteri valoriali laici però vagamente ispirati od ispirabili a modelli religiosi.

Anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa religione diffusa. Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti della religione diffusa anche l’approccio sociologico si modifica, mette a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scava più a fondo nella realtà e cerca verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.

Invero sino alla fine degli anni ’80, non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque anche sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori[11] alla già citata indagine nazionale su La religiosità in Italia[12], a quella a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism[13].

5. La geografia socio-religiosa dell’Italia

In attesa di una nuova indagine a carattere nazionale sulla religiosità in Italia, conviene far riferimento a qualche più recente studio[14] che offra alla considerazione dei sociologi alcuni dati dotati almeno del pregio di una certa affidabilità, in quanto elaborati a partire, nel caso specifico, dalle indagini aventi un carattere “multiscopo” condotte sulle famiglie italiane da parte dell’Istituto Centrale di Statistica, nel periodo 1993-2009.  

Roberto Cartocci non è nuovo a nutrire interessi per il fatto religioso in Italia. Già in precedenza aveva collaborato, in particolare sul tema dei valori, con Carlo Tullio-Altan [15], il quale aveva rilevato la presenza di «giovani serissimi, anche se poco loquaci, pieni di fede e di convinzione nelle istanze di valore che loro si dischiudono»[16] ed in altra sede aveva aggiunto che «le idee, le credenze, i pregiudizi, le norme di vita che fanno parte di una cultura, quando si traducono in concreti comportamenti, cessano di appartenere al puro regno dei simboli e dei concetti, e si fanno “cose” e cose di eccezionale durezza e consistenza, con le quali bisogna fare i conti come con la più feroce realtà»[17].

In vari lavori di Cartocci vengono usati concetti-chiave di natura geografica: territori, zone, città, atlante, mappe, ecc.. Nel 2011, come autore unico, ha pubblicato un testo di geografia statistica dell’Italia religiosa[18], il quale pur presentando qualche dato che meriterebbe maggiori approfondimenti nondimeno rappresenta un ulteriore punto di vista sulla situazione attuale e dunque merita adeguata discussione.

Si prendano due elementi in qualche modo correlati: il declino della pratica religiosa e l’aumento dei matrimoni civili. Entrambi sarebbero da attribuire al processo di secolarizzazione in atto. Ma intanto è già dubbia la percentuale, registrata nel 2009, di una pratica religiosa almeno settimanale da parte del 32,5%, contrapposta ad una totale assenza di frequenza ai riti domenicali da parte del 19,1%. La diminuzione sarebbe avvenuta in misura significativa rispetto al 1995 allorquando era del 38,1%. Intanto altre indagini provano che i tassi di frequenza sono ben diversi, in entrambi i casi: è stato documentato nell’indagine nazionale sulla religiosità – i cui esiti sono stati resi noti appunto nel 1995[19] – che i praticanti regolari settimanali erano quasi il 31%. Che tale risultato possa essere cambiato sostanzialmente e persino aumentato, dopo quattordici anni, non pare verosimilmente fondato, perché sarebbe in contraddizione palese con gli esiti di varie altre indagini svolte nel frattempo. Ed anche il tasso di non frequenza assoluta della messa appare alto rispetto a percentuali più contenute accertate nel 1995 che presentavano quasi una decina di punti in meno.

Non va dimenticato infine che da parte degli intervistati c’è di solito una tendenza (data abbastanza per scontata fra gli specialisti del settore socio-religioso) per cui si afferma di fare molto di più di quello che realmente si fa: per esempio si dice di andare a messa ogni domenica ma in realtà la frequenza è di una volta in un mese.

L’aumento delle coppie di fatto passate dal 3,5% al 5,5% in dieci anni non si lega, peraltro, necessariamente alla secolarizzazione: possono essere mutati i costumi relazionali, vi possono essere ragioni economiche ed occupazionali (o, meglio, di mancata occupazione), può interferire un modello giovanile diverso da quello in voga in precedenza. Insomma la scelta civile, invece che religiosa, in campo matrimoniale non vuol dire necessariamente un’opzione antireligiosa o atea o indifferente.

Cartocci, inoltre, parla di un «cattolicesimo di maggioranza» che attingerebbe circa metà della popolazione. Una tale percentuale di poco più del 50% ricorda da vicino un’altra categoria, assai criticata, usata da don Silvano Burgalassi nel 1970[20]: quella dell’indifferenza, ammontante al 55% della popolazione. In entrambi i casi le categorie appaiono troppo ampie e troppo onnicomprensive. Chi fa indagini con l’approccio della cluster analysis sa bene che gruppi così numerosi presentano in genere delle diversificazioni al loro interno, tali da rendere necessaria un’ulteriore procedura almeno di dicotomizzazione dell’insieme qualificato «di maggioranza» o «indifferente».

La minoranza, sempre per Cartocci, sarebbe rappresentata dai cattolici militanti, nella misura del dieci per cento. Anche in questo caso l’esperienza di ricerca sul campo fa propendere per altre quantificazioni: se per esempio è vero che l’associazionismo a carattere religioso riguarda circa l’8% della popolazione non è detto che la militanza cattolica si limiti a questo. Ed anzi la stessa pratica religiosa regolare domenicale è appena un indicatore fra gli altri.

Insomma occorre fare i conti con altre evidenze: sei su dieci matrimoni avvengono in chiesa, otto bimbi su dieci nascono a matrimonio avvenuto, l’otto per mille per la Chiesa cattolica non è plebiscitario ma ha pur sempre una sua consistenza (massima in Puglia e minima in Emilia-Romagna), una larga maggioranza degli alunni opta per l’insegnamento scolastico della religione (coloro che non si avvalgono sarebbero l’8,8%, cioè una percentuale abbastanza vicina a quella dei non praticanti in assoluto già nota dal 1995[21]).

Fra l’altro il docente bolognese si avvale pure dello studio di Garelli sull’Italia cattolica[22], in cui l’associazionismo, compreso quello nella Caritas e nella pastorale parrocchiale, risulta attestato sul 10% («cattolici militanti»), ma in aggiunta si segnala tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che comprendono il 20% di persone («cattolicesimo di minoranza») che vanno regolarmente a messa la domenica, quelle assai più numerose (attorno al 50%, «cattolicesimo di maggioranza») la cui pratica è saltuaria, quelle infine (circa il 10%) che non praticano ma firmano a favore dell’otto per mille destinandolo alla Chiesa cattolica ed optano per l’insegnamento della religione cattolica da impartire ai loro figli. La quota rimanente (ancora 10%) è fatta di soggetti indifferenti, agnostici, atei, anticlericali, non cattolici in generale. Quest’ultima categoria risulta ancora una volta piuttosto generica. Sarebbe auspicabile un’adeguata indagine ad hoc, per comprendere meglio le dinamiche in atto nel variegato mondo che non si richiama alla Chiesa cattolica.

In definitiva nella visione prospettica di Cartocci appaiono un po’ troppo ampia la categoria maggioritaria e, di converso, un po’ troppo ristretta quella minoritaria (a dire il vero, Cartocci più volte ha insistito, nel corso dei suoi studi, sull’idea di bipolarismo[23] applicata al caso italiano, fino a distinguere anche fra un nord laico ed un nord cattolico[24], memore forse della lezione di Tullio-Altan, il quale nella sua ricerca sui «valori difficili»[25] aveva parlato di valori in contrapposizione, di dualismo non solo generazionale ma anche geografico, con orientamenti più tradizionalistici nel sud).

Il dato di fatto è che la credenza e la pratica di matrice cattolica non sono limitate a circa un terzo della popolazione italiana. E comunque se è vero che c’è una tendenziale compattezza dei cattolici è altresì un dato di fatto la loro diversificazione su temi politici, etici, comportamentali, ideologici. D’altra parte anche il numero dei non praticanti in assoluto va forse ridimensionato, come si è già detto, più verso il 10% che non il 15% od anche più.

Andrebbero poi enfatizzate alcune dimensioni storico-culturali, come nel caso dell’alta frequenza religiosa in Campania e dei matrimoni religiosi tra i palermitani. Da anni gli studiosi di sociologia della religione, specialmente coloro che hanno condotto ricerche in Campania ed in Sicilia, vanno sostenendo che in tali contesti il frequentare la chiesa ogni domenica è essenzialmente un tratto culturale ben radicato, che travalica la sostanza stessa della motivazione religiosa (lo stesso discorso vale per la celebrazione del matrimonio religioso). A proposito di quest’ultimo il differenziarsi dei dati, nel tempo, fra Napoli e Milano è dovuto probabilmente non ad un’inversione di tendenza ma ad una diversa velocità di diffusione di una prassi, anche a seguito dell’approvazione della legge sul divorzio, a partire dunque dagli anni ‘70. Così il fatto che a Napoli nel 1951 i matrimoni civili toccassero il 17,7% ed a Milano il 5,4% era dovuto, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, a ragioni forse di natura economica (il matrimonio in chiesa e la successiva offerta di convivialità potevano costare assai più di una semplice celebrazione in municipio, magari neppure seguita dal pranzo di nozze). Comunque all’epoca non era ancora così accentuato il divario socio-economico fra le due metropoli, entrambe reduci dal disastro bellico. Successivamente lo sviluppo industriale milanese e le abituali difficoltà di tenuta economica nella città partenopea hanno fatto sì che si amplificasse la differenza fra le due città, anche in termini di modernizzazione delle rispettive culture urbane, per cui Milano potrebbe aver subito una maggiore accelerazione in fatto di costume e modelli comportamentali mentre Napoli potrebbe aver mantenuto la tendenza già in atto (infatti i matrimoni civili sono comunque aumentati fino al 26,3% di tutti i matrimoni; invece a Milano il mutamento è stato maggiore, anche in questo campo, ed ha portato la celebrazione civile delle nozze a costituire il 57,6% del totale; insomma Napoli è giunta ad avere un matrimonio civile ogni quattro e nel contempo Milano è passata a nozze civili più frequenti, cioè oltre la metà di tutte quelle celebrate). Nondimeno la questione resta aperta, dato che l’autore con rara umiltà scientifica dichiara l’impossibilità di riuscire a spiegare il caso napoletano: «chi scrive non è in grado di dare una spiegazione di questo crollo dei matrimoni civili nel comune di Napoli»[26].

Ancora lo stesso Cartocci sottolinea che un certo livello di mancato sviluppo va di pari passo con una maggiore, più intensa pratica religiosa (per esemplificare: nel sud, religiosamente più osservante, non si fa la raccolta differenziata dei rifiuti e quando occorre si fa ricorso agli ospedali settentrionali). E d’altro canto la religiosità parrocchiale tradizionale del meridione non mostrerebbe una particolare capacità nel contrastare l’illegalità, il degrado, la corruzione.

Qui però il discorso si fa ancora più complicato, perché rischia di prescindere da dati di contesto, e di tipo storico e di tipo culturale. Tornano utili dunque le parole, ancora una volta, di Carlo Tullio-Altan: «una certa mentalità pubblica è il prodotto di una combinazione storica di fattori economici, sociali, politici, e specificamente culturali, combinazione nella quale tale mentalità prende forma, in armonia e in relazione alle esigenze che quella combinazione  stessa globalmente esprime. Ma una volta formatasi, e consolidatasi in una certa guisa, tale mentalità diviene una realtà vischiosa e resistente, che sopravvive alle condizioni che l’hanno generata, e agisce a sua volta come uno dei fattori rilevanti, sugli eventi successivi, economici, sociali e politici»[27].

Non va dimenticato peraltro che in Italia la ruralità ha ancora un suo peso nel mantenimento delle tradizioni consolidate e che la realtà territoriale è fatta in buona parte proprio di piccoli agglomerati residenziali (molti comuni rurali e meridionali sono al di sotto di mille abitanti).

Sono poi ben note nel sud le ambiguità delle relazioni Chiesa-mafia ma altrettanto note sono le lotte condotte in proposito da alcuni esponenti della Chiesa cattolica[28].

La propensione di Cartocci a dividere la fenomenologia religiosa in due soli aspetti o quasi si applica non solo alla relazione fra praticanti e non praticanti, come pure fra matrimoni civili e religiosi, ma investe l’intera realtà italiana che parrebbe più secolarizzata al centro-nord che non al centro-sud, dove perdurerebbe la religiosità di tipo tradizionale.

Anche gli indicatori della scelta dell’insegnamento della religione a scuola e della firma dell’otto per mille a favore della Chiesa cattolica paiono rientrare nella medesima logica bipartitoria. Ed allora la non scelta scolastica della religione riguarda più il nord che il sud in ogni ordine e grado. Pure l’assenza di firme per l’otto per mille a favore della Chiesa cattolica è più frequente nel settentrione (specie in Emilia e Romagna) che nel meridione (dove Calabria, Campania e Sicilia contribuiscono con la quasi totalità delle firme per la Chiesa cattolica).

Particolarmente utile è la tabella 7.1 predisposta da Cartocci[29] sulle scelte dell’otto per mille. I dati provengono da Monsignor Mauro Rivella, sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, e si riferiscono al 2004. Un’ulteriore elaborazione della tabella offre un quadro più dettagliato sulla ripartizione delle firme, anche in termini percentuali effettivi.

Tab. 5

FIRME E SCELTE VALIDE DELL’OTTO PER MILLE NEL 2004

DestinatarioDichiarazioni I.R.PE.F. presentateFirme considerate come scelte valide% delle firme considerate come scelte valide  sul totale delle dichiarazioni presentate% delle quote assegnate sul totale dell’otto per mille
Chiesa Cattolica 14.628.79536,28,446889,8
Stato 1.254.3623,11,12517,7
Chiesa evangelica valdese 228.066  0,57,56831,4
Unione delle comunità ebraiche italiane 65.1620,16,16240,4
Chiesa evangelica luterana in Italia 48.8710,12,12170,3
Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno 32.5810,08,08120,2
Assemblee di Dio in Italia 32.5810,08,08120,2
Totale40.316.96216.290.418 (16.480.730*)40,4100,0

* comprese 190.312 scelte non valide

In conclusione la maggioranza dei contribuenti italiani non ha preso affatto in considerazione la possibilità di scelta offerta con l’otto per mille ma in pratica ha favorito sensibilmente i destinatari cui non avrebbe voluto assegnare alcuna somma: sono 23.836.232 i soggetti che non hanno fatto alcuna opzione sull’otto per mille e costituiscono più della metà (59,12%) dei dichiaranti l’imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.Pe.F.). .

Per Cartocci, dopo aver riconosciuto che «la tradizione cattolica appare così come il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del paese»[30], segnatamente l’azione esercitata dal Regno delle Due Sicilie non sarebbe estranea alla religiosità più tradizionale e stabile rintracciabile nel meridione italiano. L’ipotesi potrebbe avere qualche fondamento, ma occorre considerare che la Sardegna non rientrerebbe nel discorso formulato, nonostante sia poco secolarizzata, stando agli indicatori sociologici utilizzati dallo studioso fiorentino. D’altro canto per la maggiore secolarizzazione del centro-nord si potrebbe pensare alla presenza del socialismo e del comunismo come pure di varie forme di laicismo. Ma pure in questo caso giova ricordare invece la forte presenza dello Stato della Chiesa in vasti territori dell’Italia centrale (e non solo). Come combinare influenze così diverse? La storia invero ha tracciati assai lunghi, che travalicano i secoli e che si combinano in modo assai differenziato con le situazioni con cui entrano in contatto.   

A completamento del discorso il politologo dell’Università di Bologna riconosce che «in Italia esiste una rete di diocesi e parrocchie senza paragoni rispetto a tutti gli altri paesi cattolici, una presenza istituzionale che non è minimamente avvicinata da nessun’altra organizzazione, a parte lo stato. Sul piano dei comportamenti si registrano poi tassi di religiosità più elevati della maggior parte degli altri paesi»[31]. Appunto questa capillarità e reticolarità della Chiesa cattolica italiana consente di verificare la presenza di forti dosi di religiosità anche in aree del nord ritenute piuttosto secolarizzate, ma altresì un basso livello di religiosità e di pratica religiosa pure in qualche enclave del sud e delle isole.

Se però lo strumento statistico viene adoperato per classificare le differenziazioni territoriali (come fa Cartocci per regioni e province) esso mostra abbastanza la corda perché basato su pochi indicatori (appena quattro: pratica religiosa festiva, matrimoni ed unioni di fatto, insegnamento della religione ed otto per mille). E dunque c’è da chiedersi quanto possa aiutare il rating fondato su basi non particolarmente solide, visto che il fenomeno religioso è ben più articolato delle quattro componenti analizzate da Cartocci. Oltretutto la classifica per province e per regioni non fa altro che confermare talune interpretazioni ed elaborazioni statistico-sociologiche ampiamente acquisite da tempo e quindi non segnala particolari sorprese: il laicismo dell’Emilia-Romagna come la bassa frequenza della messa a Siena (già studiata da Silvano Burgalassi molti anni fa, nell’ambito delle ricerche sulla Toscana[32]).

Entrando nel merito, Cartocci giustamente mette in guardia rispetto a facili conclusioni che assimilerebbero la religiosità meridionale allo scarso sviluppo socio-economico e dunque respinge l’ipotesi della «variante anticlericale» che vede nella Chiesa cattolica l’origine del mancato sviluppo[33].   

Un’altra suggestione da ritenere foriera di sviluppi futuri nella campo della ricerca socio-religiosa sul cattolicesimo italiano deriva dall’individuare una categoria di individui pienamente secolarizzati o indifferenti o anticlericali o appartenenti ad altre confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica: sono il 10% e rappresentano il cerchio più lontano dal mondo cattolico[34].

In definitiva «il 60% delle coppie si sposa in chiesa, i bambini nascono per l’80% dopo il matrimonio, il 90% sceglie la chiesa come destinazione dell’otto per mille, il 91% degli scolari frequenta le lezioni di religione nelle scuole. Coloro che non mettono piede in chiesa sono meno del 20% degli italiani. E comunque, anche tra questi, una buona metà ha più fiducia nella chiesa che nello stato, quanto meno come istituzione educativa e di carità»[35]. Queste affermazioni sono certo fondate sui dati ma in qualche caso anche discutibili, a partire dal 90% che sceglie la Chiesa nell’otto per mille (la consistenza reale è del 36,28% in rapporto al numero totale dei contribuenti dell’I.R.Pe.F.).

Semmai è da tenere presente anche quanto ha sostenuto Giancarlo Zizola, commentando il lavoro di Cartocci: «la Chiesa che affiora da questi grafici è una grande e gloriosa istituzione fortemente stanca e assopita sulla propria potenza burocratica, ma che è coinvolta suo malgrado in un processo di mutazione storica dovuta più ancora ai cambiamenti sociologici e culturali che ai problemi interni dell’istituzione»[36].        

Infine non va trascurata l’acculturazione degli immigrati di matrice cattolica giunti nel nostro paese e inseriti a vario titolo nelle attività della Chiesa cattolica italiana. Ne parla precipuamente Enzo Pace[37] segnalando la presenza di 40.000 filippini a Roma, 30.000 a Milano, 20.000 a Torino. In molti casi essi operano a pieno titolo nelle parrocchie.

6. La preghiera come forma religiosa non istituzionale

In Italia è stato soprattutto Franco Garelli[38] ad evidenziare il ruolo del sentire religioso fra tensione spirituale ed espressione religiosa, esaminando i risultati di un’inchiesta sul pluralismo, statisticamente rappresentativa a livello nazionale. In merito alla «coscienza di essere una persona religiosa e percezione di avere una vita spirituale» vengono individuate sette categorie: l’ateo/agnosticismo cioè né religiosità né spiritualità (12,3%), la religiosità etnico/culturale cioè medio-alta religiosità e scarsa-nessuna spiritualità (17,3%), la spiritualità critica cioè scarsa-nessuna religiosità e medio-alta spiritualità (8,8%), la credenza debole cioè religiosità media e spiritualità media (23%), la religiosità maggiore della spiritualità cioè alta religiosità e media spiritualità (10,3%), la spiritualità maggiore della religiosità cioè alta spiritualità e media religiosità (9,5%) ed infine la fedeltà cioè alta religiosità ed alta spiritualità (18,8%).

Da tale scenario risulta che «a) In primo luogo, il termine religiosità desta nella popolazione più consensi del termine spiritualità, in quanto sono più numerose le persone che si definiscono religiose di quelle che ritengono di avere una vita spirituale. […] b) Tra i vari tipi di religiosità individuati quello della spiritualità critica desta particolare interesse, sia per l’orientamento culturale sotteso sia per i soggetti che più lo esprimono. […] c) Sulle due dimensioni qui rilevate (religiosità e spiritualità) quanti esprimono posizioni di marcata congruenza ammontano a circa il 50% della popolazione, mentre il 26% dei casi palesa un atteggiamento di sensibile incongruenza. […] d) In margine a quanto rilevato, si può ancora notare che la quasi totalità della popolazione riconosce il significato di termini quali religiosità e spiritualità ed è in grado di definire il proprio grado di coinvolgimento in queste due dimensioni»[39].

Inoltre il peso del contesto socio-culturale appare evidente dal dato relativo all’apporto dell’insegnamento scolastico della religione cattolica ai fini dell’alfabetizzazione religiosa, in quanto l’ora di religione nelle scuole fa «incrementare i livelli di conoscenza dei gruppi con minori occasioni di conoscere la religione cattolica, rispetto ai livelli manifestati dai gruppi che dispongono di un maggior numero di fonti di socializzazione a ciò orientate. Le conoscenze specifiche proposte dall’Insegnamento della Religione Cattolica ‘arrivano’ infatti ai ragazzi in proporzione maggiore delle conoscenze religiose generali. L’insegnamento sembrerebbe dunque effettivamente in grado di ridurre in una certa misura le differenze nei livelli di alfabetizzazione che la socializzazione extrascolastica determina»[40].

Non è senza significato che sin dall’indagine nazionale sulla religiosità in Italia si sia accertato che «gli italiani di 18-74 anni che dichiarano di aver pregato almeno qualche volta durante l’anno sono l’83%. Pregano anche i non credenti, soprattutto se sono in un atteggiamento di ricerca (49%) e coloro che credono in un essere supremo ma non appartengono ad una specifica religione (44%). Perfino tra coloro che si dichiarano atei c’è una quota, seppur piccola (8%), che prega»[41].

Le motivazioni della preghiera ripercorrono puntualmente la tipologia classica che annovera la categoria del misticismo (ricerca di relazione con la divinità: 44%), quella dell’impetrazione-perorazione per ottenere un sostegno nei momenti di difficoltà (44%), quella mista che vede insieme il desiderio di rapporto con Dio e la richiesta di un suo intervento, quella di ringraziamento (circa il 25%) che contempla sia la gratitudine che il pentimento per qualche colpa, quella fatta per tradizione ovvero per insegnamento ricevuto, quella dovuta ad una ricerca personale ed infine quella per domandare grazie (che sarebbe la meno frequente in Italia: 10%).

Le conclusioni sono che la preghiera «sia una modalità di espressione del proprio sentimento religioso ancora saldamente radicata e quindi destinata a permanere nel tempo, anche se circoscritta ad una minoranza della popolazione»[42].

Tale carattere minoritario previsto per il futuro non presenta ancora indicatori consolidati. Ma è anche vero che «le generazioni a noi più vicine e le persone più istruite rifuggono da comportamenti ascrittivi (pregare perché è un dovere o perché così è stato insegnato loro) e privilegiano più degli altri intervistati la forma di preghiera che forse meglio si addice all’uomo contemporaneo: quella intenzionata a far chiarezza dentro di sé»[43].

Senza soluzione di continuità anche ricerche successive sono rimaste nella medesima linea ed hanno confermato i modi tipici del pregare: come ringraziamento, come pentimento; privato-individuale-separato/pubblico-collettivo-unito; orale-detto/silente-mentale; laudativo/perorativo; fiducioso/supplice; spontaneo/fondato su testi.

Nonostante questa ampiezza di possibilità non è detto che vi sia sempre consapevolezza da parte dei soggetti intervistati. Per esempio nell’arcidiocesi urbinate la preghiera è posta al sesto posto fra le azioni da privilegiare da parte di un credente: la predilige appena l’11% dei rispondenti[44]. Ma quando si passa alla domanda sulla frequenza della preghiera risulta che il 10,4% prega ogni giorno, il 31,3% circa una volta al giorno, il 15% qualche volta la settimana, il 10% qualche volta in un mese, l’11,7% qualche volta durante l’anno ed il 21,6% mai. E giustamente si osserva preliminarmente che «l’importanza di analizzare la preghiera esercitata al di fuori dei riti religiosi deriva dal fatto che tale comportamento è presente in tutte le religioni e spesso riguarda anche chi si dichiara non credente»[45].  Ma è opportuno sottolineare il fatto che «gli intervistati, per la maggior parte, quando pregano utilizzano le tradizionali formule di preghiera trasmesse attraverso il processo di socializzazione religiosa e ascoltate frequentando i vari riti e culti»[46].

Pure fra i giovani l’influenza della socializzazione religiosa pregressa rimane: se il 30% non prega mai, il 26% lo fa una o più volte al giorno, il 16,2% una o più volte ogni settimana ed il 13,4% qualche volta in un mese[47]. «Le modalità della preghiera riguardano principalmente la recita di formule conosciute (59,2%), stando in silenzio, in ascolto o in contemplazione (25%), ma anche riflettendo sulla propria vita e su quanto capita intorno a noi (50%), o attraverso l’uso di parole o espressioni proprie (50%). I giovani, rispetto al totale, privilegiano maggiormente la preghiera personale e la ricerca interiore»[48].

Altresì nel teatino-vastese la preghiera dei giovani presenta tassi cospicui: il 27,56% prega spesso, il 41,99% talvolta, il 20,21% raramente ed il 9,97% mai[49]. Ma «essi sembrano poco inclini, se non per quella quota peraltro non trascurabile che si individua come il nucleo dei ‘ferventi’, ad utilizzare modalità ritualizzate e tradizionali»[50]. I giovani interpellati preferiscono «comunicazione, contatto con Dio» (27,75%), «dialogo con Dio, con i Santi, con i defunti» (14%), «riflessione e meditazione personale»» (12,25%), «vicinanza con dio» (11,5%). Da notare, fra questi dati[51], la presenza dei defunti come destinatari della preghiera, anche se la domanda posta mettendo insieme pure Dio ed i Santi non consente poi di discernere quale peso abbia nella risposta la parte relativa ai defunti. Da ultimo è da prendere in considerazione il modo del pregare: il 29,66% usa parole sue, il 23,36% frasi e formule di preghiera tradizionali, il 19,95% riflette sulla sua vita ed il 13,39% dialoga interiormente con Dio[52].

In un’inchiesta effettata nel Basso Lazio[53] (Meglio 2010: 104), i giovani dicono di rivolgersi alla propria fede nei momenti difficili, in misura differenziata: sempre il 29,3%, spesso il 28,7%, qualche volta il 32,2%, mai il 9,8%. Non c’è un esplicito riferimento alla preghiera ma tale elemento appare sottinteso, anche perché la stratificazione dell’intensità del comportamento corrisponde in linea di massima a quanto già rilevato, appunto in relazione alla preghiera giovanile.

Nella diocesi di Oristano in Sardegna[54] la preghiera personale occupa un posto non trascurabile perché la frequenza rilevata è «spesso (tutti i giorni o quasi)» nella misura del 45,4%, «qualche volta» per il 34,4% degli intervistati e «mai» per il 20,2% (con una particolare accentuazione nel caso di soggetti maschi). Le medie italiane registrate nel 2009 in un’inchiesta con campione nazionale erano un po’ diverse (rispettivamente 50,8%, 31,9% e 17,3) per cui la popolazione oristanese appare meno religiosa di quella italiana. Nell’ambito delle motivazioni, nondimeno, il sentimento religioso è espresso nei termini seguenti: il 47% prega per sentirsi più vicino a Dio ed una medesima percentuale lo fa per ottenere un supporto nelle difficoltà, mentre il 31% è mosso dal desiderio di lodare e ringraziare Dio ed il 23% per pentirsi e fare penitenza. Il peso dell’insegnamento ricevuto tocca appena l’11% e quello del dovere il 14%, invece la ricerca di chiarezza con se stessi arriva al 18%. Si riduce infine al 10% la motivazione di una domanda di grazie. In definitiva la preghiera strumentale riguarda una quota ridotta della popolazione ma non è destinata a scomparire, visto che fra i giovani essa permane, anche se contenuta entro gli stessi limiti percentuali fatti registrare dall’intero campione dell’indagine.

Provocatoriamente Introvigne e Zoccatelli[55] si chiedono, al termine di uno studio sociologico sulla diocesi siciliana di Piazza Armerina, se la messa non sia finita, se cioè la pratica religiosa cattolica più emblematica, quella dei giorni festivi, non sia destinata a ridursi se non proprio a scomparire. Un punto qualificante del tentativo di Introvigne e Zoccatelli è la verifica della differenza intercorrente fra le dichiarazioni di pratica e la pratica effettiva, cioè la questione dell’over-reporting. Nel caso in esame la partecipazione al culto festivo (cattolico e non) in modo regolare (una volta o più per ogni settimana) secondo le risposte degli intervistati raggiunge il 33,6%, invece un controllo sul numero effettivo di presenti nei luoghi di culto fa scendere il tasso percentuale al 18,5%. Gli autori fanno tuttavia osservare che «se qualche cosa ‘dimostrano’ le indagini sull’over-reporting compiute negli anni negli Stai Uniti, in Polonia e in Italia è precisamente che la pratica dichiarata è, appunto, ‘dichiarata’: misura un’identità e forse anche un’identificazione, ma non misura fatti e comportamenti»[56]. Dunque non sarebbero da ritenere percentuali probanti né quella del 33,6% né quella del 18,5%, in quanto entrambe sono parziali e non rappresentano adeguatamente l’intero set comportamentale ed attitudinale. Anche in questa inchiesta non si parla esplicitamente della fenomenologia della preghiera ma si può inferire che sia i dati sulla pratica domenicale sia le riflessioni metodologiche sull’over-reporting siano applicabili anche al quadro sociologico relativo alla frequenza della preghiera nella Sicilia Centrale[57] ed altrove.

Ancor più dei dati quantitativi c’è da aspettarsi che siano i risultati qualitativi a fornire corroborazioni sul nesso fra religione diffusa e diffusione della preghiera. Un contributo convincente giunge da uno studio qualitativo sulla spiritualità giovanile. Va segnalato come strategico un paragrafo dedicato a «Davanti alla morte e al dolore»[58], in cui si mostra come «l’evento della morte svolga ancora oggi il suo ruolo antropologico di connessione tra i mondi, obbligando chi vive questo tragico avvenimento a doversi interrogare su ciò che va oltre la vita, e spingendo molti a tirare in ballo Dio nel tentativo di formulare una risposta plausibile. Ciò può succedere a chi pensava di aver chiuso i ponti con la religione»[59]. Ed appunto «attraverso la pratica della preghiera si può entrare in relazione con il radicalmente altro: sentirne l’abbraccio o l’abbandono; si possono esprimere i propri dubbi e le proprie convinzioni sull’esistenza o meno di qualcosa che va oltre l’umano; ci si può riferire all’appartenenza alla propria chiesa o gruppo religioso/ecclesiale con la possibilità di diversificare forme e ruoli del pregare; e infine anche attraverso la preghiera si può ‘esercitare’ la propria conoscenza dei testi sacri. La preghiera rappresenta quindi un punto di potenziale convergenza delle diverse dimensioni della religiosità: la pratica, l’esperienza, la credenza, l’appartenenza e anche la conoscenza»[60]. Seguono poi diversi esempi tratti dai documenti raccolti nel corso dell’indagine qualitativa su 72 giovani vicentini, con la tecnica del focus group. Emblematicamente da una persona intervistata viene riproposta esplicitamente la dimensione ultraterrena come locus di interlocuzione: ella si rivolge a suo nonno defunto perché le riesce più facile, «recuperando ed andando oltre una lunga tradizione che attraversa le religioni»[61]. Ed ovviamente non mancano Dio e santi come interlocutori: la serie di brani estratti dalle diverse dichiarazioni dei giovani è lunga ed articolata e verifica il carattere sociale della preghiera, «tra obbligo e personalizzazione», anche se fatta in privato e nell’intimità[62].

Il quadro d’insieme che scaturisce dalla ricerca vicentina testimonia quale sia l’incidenza della preghiera nell’universo mentale giovanile: essa si colloca al ventottesimo posto (seguita da Vangelo, valori, morte e paura) di una lista di «parole piene di media frequenza» che comincia con «Dio» e termina con «scelte»[63] e nella sua area tematica (settima per numero di frequenze, dopo «figure sacre», «familiari», «messa», «aldilà», «clero» e «chiesa»)[64] rientrano «Atto di dolore, Ave Maria, il credo, Padre nostro, Lodi, pregare, preghiera comunitaria, preghiera di lode, preghiera di ringraziamento, preghiera libera, preghiera mattutina, preghiere della sera, salteri/o, vespri ecc.»[65]. Infine l’analisi delle corrispondenze mette in relazione la preghiera soprattutto con le figure sacre, la Parola ed i sacramenti e, sul piano sociale, con i movimenti[66]

La diffusione della preghiera è essenzialmente frutto dell’azione socializzatrice svolta in Italia dalla Chiesa cattolica con le sue strutture educative e legittimatrici, che perpetuano forme e contenuti della preghiera, lasciando spazio anche ad innovazioni che lungi dall’erodere il patrimonio esistente ne rimotivano e ne riadattano le proposte, a tutto vantaggio di una religione diffusa che si fa forte dell’apporto di intere generazioni del passato le quali hanno conservato nel tempo le testimonianze pregresse.

Non è fuor di luogo potere immaginare che anche le resistenze da parte dei giovani ad usare il capitale culturale pre-esistente risponda – alla lunga – ad un’esigenza di conservazione non garantibile dalle sole strutture operative già in atto. Del resto se anche si prescinde da formule consolidate e da soluzioni già disponibili nondimeno un afflato religioso e spirituale insieme pare mantenere in essere una «abitudine del cuore», per dirla ancora con Rousseau e Bellah[67], dura a morire perché correlata alla morte stessa, con cui si confronta continuamente, attraverso lo schermo-copertura della figura sacra che funge da interlocutore utile, anche se ritenuto fittizio.

In che misura tutto ciò possa trovare conferma anche nel futuro non è facile stabilire a priori.

7. Conclusione

Ancora in assenza di dati più aggiornati ed inequivocabilmente rappresentativi della realtà nazionale italiana, un ulteriore strumento di analisi resta a disposizione: quello dell’osservazione partecipante. Si tratta di un’esperienza quotidiana di presenza diretta nelle attività della Chiesa cattolica italiana, di relazioni interpersonali continue, di insegnamento nelle università statali ed anche in strutture accademiche pontificie, di ricerche teoriche ed empiriche (sovente sul campo), di letture costanti della stampa cattolica quotidiana e periodica, delle riviste d’ispirazione cattolica sia scientifiche che pastorali, della partecipazione a convegni locali, regionali, nazionali ed internazionali organizzati dal mondo cattolico, della frequentazione di accademie religiose, nonché di archivi e biblioteche appartenenti all’organizzazione ecclesiastica, della partecipazione a movimenti ed associazioni d’impronta spirituale.

Tutto ciò rappresenta un osservatorio privilegiato per seguire le strategie in atto, le azioni in corso, le operazioni promosse, i cambiamenti incoraggiati, le resistenze poste in essere, la circolazione di idee ed intenti, le opzioni di volta in volta proposte su diversi piani della realtà sociale. Insomma è la condizione tipica di un testimone privilegiato, che agisce all’interno ma cerca pure di osservare dall’esterno.

Ebbene, sulla scorta di una pluridecennale esperienza di portata nient’affatto secondaria, è possibile tracciare qualche linea guida di analisi globale della situazione attuale della Chiesa cattolica in Italia.

Innanzitutto va detto che si tratta di una struttura primaria, a livello di radicamento sul territorio, di capacità organizzativa spesso a costo zero o quasi, di forza d’impatto nelle azioni educative, formative e socializzatrici, di ramificazione in vari campi dell’intervento sociale, di patrimonio personale, culturale e sociale, di tradizioni, norme comportamentali, valori diffusi e modelli dell’agire individuale e collettivo, di know how nella carità, nell’assistenza, nella cura, nella protezione, nonché di mobilitazione delle masse su obiettivi strategici. Tutto ciò non risulta immediatamente evidente ma alla prova dei fatti si riconoscono conseguenze ed origini.

Rispetto al passato, sono numerosi i laici (cioè i soggetti non istituzionalmente organici e schierati) in grado di dire la propria, di prendere la parola, di assumersi la responsabilità – soprattutto pubblica – su questioni delicate ed incerte.

Sempre più soggetti laici subentrano in ruoli che in passato erano esclusivi del clero. E lo fanno con competenza ed autonomia di giudizio e di azione. Hanno avuto modo di capire forme e contenuti delle attività pastorali e socio-religiose e dunque intervengono a ragion veduta, riuscendo a far giungere il messaggio religioso persino in comparti un tempo lontani e refrattari.

Si tratta di un movimento, quello laicale, ancora minoritario, marginale ed emarginato, ma si notano i prodromi di sviluppi significativi, a mano a mano che vengono occupate e mantenute le posizioni in cui si fanno le scelte decisive.      

La crisi delle vocazioni ecclesiastiche non consente al vecchio establishment di tutto preordinare, gestire, sovrintendere e condizionare. Le aree operative sono numerose e talora inarrivabili da parte dei ministri del culto cattolico che dunque si devono affidare al supporto dei laici.

Anche la preparazione teologica dei laici è in crescita. Alcuni di loro hanno metodi e strumenti tali da renderli indipendenti dal ricorso alla consulenza degli ecclesiastici ed anzi tali da metterli pure a confronto diretto, paritario, senza timori reverenziali e con ricchezza di argomenti e prove (specialmente testuali, tratte dai libri sacri). Ciò potrà produrre tra non molto una teologia cattolica laica ben più attrezzata scientificamente e più capace nella dialettica argomentativa.

La stessa crisi delle vocazioni al sacerdozio, riscontrabile non sempre e non dappertutto, non impedisce di far uso di selezioni più attente per quanto concerne i candidati all’esercizio del ministero religioso. Le sfide del mondo moderno e post-moderno richiedono qualità adeguate per affrontare temi e problemi quasi sempre ostici, difficili da capire, condizionati da approcci globali che fanno smarrire il senso dell’appartenenza ad una terra, ad un luogo, ad una collettività. In prospettiva dunque si potrebbe avere un clero meno numeroso, ma più qualificato, più abituato allo studio ed all’approfondimento.

Se la duplice sfida del laicato e del clero avrà risvolti almeno in parte positivi è immaginabile che il ruolo della Chiesa cattolica in Italia non subirà molti contraccolpi nell’immediato futuro.


Roberto Cipriani, Università Roma Tre, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Facoltà di Scienze della Formazione (insegnamento di Sociologia), via Milazzo 11b, 00185 Roma, rciprian@uniroma3.it

[1] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, Milano, Mondadori, 1995.  

[2] Un utile contributo alla comprensione di quanto è avvenuto nel corso dell’ultimo quindicennio proviene anche dalla storia delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, tracciata da Carlo Felice Casula, il quale – attraverso approfondite interviste a tre presidenti nazionali delle ACLI succedutisi nel periodo in considerazione – fa intravedere quasi in filigrana quella che è l’atmosfera sociale di una serie di anni piuttosto intensi per lo sviluppo economico e culturale del paese, in una chiave che congiunge insieme varie storie: quelle dei partiti e dei sindacati ma anche quelle delle istituzioni civili e religiose: cfr. Carlo Felice Casula, Le ACLI una bella storia italiana, Roma, Anicia, 2008.

[3] Ernesto Galli Della Loggia, Quando il papa non fu più prigioniero, «Il Corriere della Sera», 6 febbraio 2009.

[4] Roberto Cipriani, Laicità e religione nella sfera pubblica, «Rivista lasalliana», 77, 1, gennaio-marzo, 2010, pp. 439-463, in particolare pp. 24-25.

[5] Cfr. Roberto Cipriani, La religione diffusa. Teoria e prassi, Roma, Borla, 1988.

[6] Rosy Bindi, Renzo Guolo e Gian Enrico Rusconi in dialogo con Giancarlo Bosetti, La conversione della Lega, «Reset», Maggio/Giugno 2011, pp. 83-88, in particolare pp. 87-88.

[7] Conferenza Episcopale Italiana, Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa, Otto per mille. Destinazione ed impieghi 1990-2009, aprile 2010, p. 10.

[8] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, Bologna, il Mulino, 2011. 

[9] Cfr. Thomas Luckmann, La religione invisibile, Bologna, il Mulino, 1969, 1985.

[10] Cfr. Roberto Cipriani, Appartenenza, semiappartenenza, non appartenenza, in: Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, op. cit., pp. 99-152.   

[11] Cfr. Roberto Cipriani, La religione dei valori, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992.

[12] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, op. cit.  

[13] Cfr. Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace, Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani,Bologna, il Mulino, 2003.

[14] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit. Cfr. pure Enzo Pace, Vecchi e nuovi dei. La geografia religiosa dell’Italia che cambia, Milano, Paoline, 2011.

[15] Cfr. Carlo Tullio-Altan, I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia, Milano, Bompiani, 1974; Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986; Carlo Tullio-Altan, Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta, presentazione di Roberto Cartocci, Udine, Istituto editoriale veneto friulano, 1995; Carlo Tullio-Altan, La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale, Udine, Gaspari, 1997 (collaborazione di Roberto Cartocci, autore del saggio L’Italia di tangentopoli e la crisi del sistema politico); Roberto Cartocci, La banalità dei valori: la riflessione di Tullio-Altan e lo studio della cultura politica, «Metodi e ricerche», XXIV, 2, luglio-dicembre 2005, pp. 3-23; Roberto Cartocci, Chi ha paura dei valori? Capitale sociale e dintorni, «Rivista italiana di scienza politica», XXX, 3, 2000, pp. 423-474; Roberto Cartocci, Voto, valori e religione, in: Mario Caciagli, Piergiorgio Corbetta (a cura di), Le ragioni dell’elettore. Perché ha vinto il centro-destra nelle elezioni itliane del 2001, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 165-202; Roberto Cartocci, Fra lega e Chiesa. L’Italia in cerca di integrazione, Bologna, il Mulino, 1994. 

[16] Carlo Tullio-Altan, I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia, op. cit., p. 95.

[17] Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 14.

[18] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit. 

[19] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, op. cit.

[20] Cfr. Silvano Burgalassi, Le cristianità nascoste, Bologna, Dehoniane, 1970.

[21] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, op. cit.

[22] Cfr. Franco Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Bologna, il Mulino, 2006.

[23] Cfr. Edmondo Berselli, Roberto Cartocci, Due Italie, forse. A proposito delle elezioni del 9-10 aprile, «il Mulino», LV, 424, 2006, pp. 243-252; Roberto Cartocci, Che ne sarà del nostro bipolarismo?, «il Mulino», LIII, 414, 2004, pp. 621-628; Roberto Cartocci, Bipolarismo reale, «il Mulino», LIII, 411, 2004, pp. 57-66. 

[24] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 125.

[25] Cfr. Carlo Tullio-Altan, I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia, op. cit.

[26] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 62.

[27] Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 29.

[28] Cfr. Cataldo Naro, L’opzione “culturalista” della chiesa siciliana, in: Stefano Diprima (a cura di), Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1995, pp. 115-131; Francesco Mercadante, Legalità e santità: la morte bianca di un vescovo in terra di mafia, in: Massimo Naro, Sorpreso dal Signore. Linee spirituali emergenti dalla vicenda e dagli scritti di Cataldo Naro, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2010, pp. 277-325.   

[29] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 118.

[30] Op. cit., p. 12.

[31] Op. cit., p. 17.

[32] Cfr. Silvano Burgalassi, Elementi per un’analisi della religiosità in Toscana, Bologna, il Mulino, 1965.  

[33] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 139.

[34] Cfr. op. cit., p. 25.

[35] Op. cit., p. 135.

[36] Giancarlo Zizola, Benvenuto nel Paese che ha smarrito la fede “tradizionale”, «la Repubblica», 7 luglio 2011, p. 35.

[37] Cfr. Enzo Pace, Vecchi e nuovi dei. La geografia religiosa dell’Italia che cambia, op. cit., p. 152.

[38] Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace, Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, op. cit., pp. 77-114.

[39] Op. cit., pp. 88-92, passim.

[40] Alessandro Castegnaro (a cura di), Apprendere la religione. L’alfabetizzazione religiosa degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, Bologna, Dehoniane, 2009, p. 219.

[41] Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, op. cit., p. 91.

[42] Op. cit., p. 94.

[43] Op. cit., p. 96.

[44] Cfr. Pierpaolo Parma (a cura di), Il messaggio e la prassi. Indagine socio-religiosa nell’Arcidiocesi di Urbino-Urbania-S. Angelo in Vado, Bologna, Dehoniane, 2004, p. 121.

[45] Op. cit., p. 160.

[46] Op. cit., pp. 163-164.

[47] Cfr. op. cit., p. 303.

[48] Op. cit., p. 304.

[49] Gabriele Di Francesco, I giovani nella chiesa locale. Religiosità e modelli di partecipazione giovanile nell’arcidiocesi di Chieti-Vasto, Milano, FrancoAngeli, 2008, p. 59.

[50] Op. cit., p. 61.

[51] Cfr. op. cit., p. 152.

[52] Cfr. op. cit., p. 153.

[53] Lucio Meglio, Società religiosa e impegno nella fede. Indagine sulla religiosità giovanile nel Basso Lazio, Milano, FrancoAngeli, 2010, p. 104.

[54] Roberto Cipriani, Clemente Lanzetti, La religione continua. Indagine nella diocesi di Oristano, Oristano, L’Arborense, 2010.

[55]  Massimo Introvigne, PierLuigi Zoccatelli, La messa è finita? Pratica cattolica e minoranze religiose nella Sicilia Centrale, Roma-Caltanissetta, Sciascia, 2010. 

[56] Op. cit., p. 86.

[57] Cfr. Roberto Cipriani, La religione dei valori, op. cit.

[58] Cfr. Alessandro Castegnaro, Monica Chilese, Giovanni Dal Piaz, Italo De Sandre, Nicola Doppio, C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Venezia, Marcianum Press, 2010, pp. 192-194.

[59] Op. cit., p. 192.

[60] Op. cit., p. 385.

[61] Op. cit., p. 395.

[62] Cfr. op. cit., pp. 385-418.

[63] Op. cit., p. 611.

[64] Op. cit., p. 614.

[65] Op. cit., p. 612.

[66] Cfr. op. cit., p. 615.

[67] Robert N. Bellah, Richard Madsen, William M. Sullivan, Ann Swidler, Steven M. Tipton, Habits of the Heart. Individualism and Commitment in American Life, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1985; ed. it., Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Roma, Armando, 1996.