Diffused Religion And Civil Society In Italy

Premessa

Quando si parla di società civile si intende mettere in evidenza l’esistenza di una realtà sociale che corrisponde all’intera società ma che tende a distinguersi da apparati pubblici o di rilevanza pubblica che pure sussistono nell’ambito della stessa società e che sono ad essa preposti con lo scopo di sovrintendervi.

E dunque lo stato è una struttura che deriva dalla società civile ma che poi è deputato a reggerne le sorti in chiave politica, legislativa, finanziaria. Anche la chiesa, come forma religiosa organizzata, si trova ad operare nella società ma in qualche modo tende a prescinderne, attraverso le sue proprie forme gerarchiche, sovente impegnate a dettare norme etiche ed indicazioni procedurali.

Vi è perciò una sostanziale ambiguità nella società civile in quanto tale: essa ha la sua autonomia ma si trova poi a dover fare i conti con altre entità da essa stessa scaturite eppure in grado di condizionarla anche pesantemente.

Il contrasto fra la società civile e lo stato, fra la società e la chiesa (o le chiese), rientra in una serie di modalità tipiche delle relazioni che si creano fra l’insieme degli individui sociali come singoli associati e le varie istituzioni presenti nella società in cui essi sono collocati.

Questa condizione ancipite comporta andamenti ad intra ed ad extra non facilmente governabili dal singolo soggetto o dai gruppi sociali e neppure dalle normative vigenti. Quando poi si tratta di operare delle scelte etiche il divario tende ad estendersi, allontanando sempre più i singoli ed i gruppi dalle istituzioni, accentuando una distanza già evidente ma poi enfatizzata da motivi contingenti.

Specialmente quando un ente come lo stato o la chiesa vuole imporre il suo punto di vista (che è poi quello espresso da una élite di soggetti individuali speciali che si trovano al governo dell’ente, provvisoriamente o in via definitiva) il conflitto con i cittadini o i fedeli si acuisce e può far luogo a forme di contestazione se non di rifiuto e rigetto.

Molte rivoluzioni, se non tutte, nascono appunto da tale divergenza di opzioni e di fatto di interessi. Gli uni tendono a mantenere il dominio dall’alto del potere attribuito ed esercitato, gli altri resistono alle imposizioni ed a diversi tentativi di etero direzione. L’esito è sovente a carattere fortemente dicotomico: l’una e l’altra parte non dialogano, restano sulle proprie posizioni, difendono la propria indipendenza e soprattutto non cercano e dunque non trovano formule d’intesa. Insomma il compromesso non sembra rientrare fra le abitudini di una società che tende a rivendicare la sua primazia storica rispetto a strutture statali e religiose e respinge ingerenze sulle sue decisioni a livello attitudinale e comportamentale.

The idea of diffused religion

Il ruolo della religione diffusa

A ben considerare, quella che da tempo è stata definita come religione diffusa, cioè come set di valori, pratiche, credenze, simboli, atteggiamenti e comportamenti non del tutto conformi al modello ufficiale della religione-di-chiesa, quasi corrisponde o almeno corrisponde in buona misura ad una parte significativa della società civile. Non si sovrappone perfettamente a quest’ultima ma certamente ne costituisce la quota statisticamente più rilevante. In altri termini la religione diffusa abbraccerebbe un ambito maggioritario della società civile e ne rappresenterebbe il trend principale in chiave di orientamento nei riguardi della chiesa. Non tutta la società civile, quindi, collima con il modello della religione diffusa, in quanto essa comprende anche la religione-di-chiesa come pure la dimensione dell’ateismo, dell’indifferenza, dell’agnosticismo. Intanto però la religione diffusa sembra interpretare le istanze portanti ed importanti come peso esercitato all’interno dell’intera società.

In particolare la religione diffusa deve comunque essere distinta dalla religione civile. In essa non si tratta di recuperare la vecchia idea di Rousseau o quella più recente di Bellah. Né l’una né l’altra si adattano al caso italiano. Il contesto della prima era settecentesco e pedagogico-filosofico, quello della seconda – pur sociologico – è tuttavia riferito al territorio statunitense con caratteristiche per nulla rinvenibili sulla penisola italica (dal concetto di popolo eletto a quello di centralità dei testi biblici). Soprattutto non è legittimo sostituire la stessa idea di religione a quella di società. Un conto è la religione un altro conto è la società, almeno sul piano dell’analisi sociologica. Insomma non è equiparabile la religione civile alla società civile, perché sono due elementi a parte. Semmai si può parlare di una religione diffusa all’interno della società civile ed eventualmente di una religione civile (da definire di volta in volta) all’interno della società civile.

D’altro canto il ruolo della religione diffusa è precipuamente di auto-difesa dei credenti non allineati, non sintonizzati sulla lunghezza d’onda del magistero ecclesiale e delle direttive della gerarchia ecclesiastica. Ovviamente non va trascurato un effetto non voluto derivante da una religione diffusa particolarmente orientata a contestare o trascurare i dettami magisteriali: una qualche propensione ad una individualizzazione accentuata del pensare e dell’agire così da allentare anche la tensione in chiave di società civile e di partecipazione attiva alla cittadinanza politica e sociale. Tale allentamento può anche essere una premessa per ulteriori andamenti, tali da favorire esiti autoritari, dovuti all’assenza di interessi di natura pubblica e comunitaria.

Invero però la religione diffusa è anche un luogo di dibattito, realizzabile fuori dell’egida ecclesiastica, in grado di promuovere relazioni amicali, creare e sviluppare opinione pubblica, difendere i diritti umani e civici, rispettare la pluralità delle posizioni ideologiche.

Invero la religione diffusa è anche un luogo di dibattito, realizzabile fuori dell’egida ecclesiastica, in grado di promuovere relazioni amicali, creare e sviluppare opinione pubblica, difendere i diritti umani e civici, rispettare la pluralità delle posizioni ideologiche.

La religione diffusa è anche parte della società religiosa che si confronta con la società politica (sia statale che partitica e sindacale) e dunque è tenuta a tenere conto di interlocutori diversi, sia all’interno del suo riferimento confessionale sia all’esterno (stato, partiti e sindacati).

Se si può dare per scontato che società civile e società politica siano intimamente correlate e reciprocamente funzionali, altrettanto è possibile dire della stessa religione diffusa che sia pure indirettamente arriva a legittimare la stessa struttura religiosa che le fa da scenario. Insomma l’intreccio è inestricabile: la religione diffusa supporta comunque la chiesa ed entrambe insieme fanno da sostegno alla società civile di cui sono parte non eliminabile. Anche l’azione del singolo soggetto ha un carattere adiuvante perché il suo rispetto delle regole in vigore arriva a rafforzare lo statu quo vigente. La sua coscienza di credente e di cittadino non vengono meno neanche di fronte a situazioni drammatiche ed anzi è proprio a fronte di queste ultime che emerge una fedeltà di fondo, che arriva a giustificare od almeno a non sanzionare anche fatti non del tutto consoni ai ruoli ricoperti ed alle responsabilità di natura religiosa o politico-statale.

Diversamente dalla religione-di-chiesa la religione diffusa non dà luogo, in linea di massima e di per sé, a forme associative che possano preludere ad ulteriori impegni a livello di società civile. Ma è indubbio che essa costituisce uno spazio privilegiato ed adeguato per riflessioni critiche ad ampio raggio riguardanti lo stato e la politica e tutta la società civile nel suo complesso. Quest’ultima trova anzi nella stessa religione diffusa una leva importante per opporsi allo stato, in quanto appunto La religione diffusa è una sorta di palestra che abitua allo spirito libero, alle osservazioni di merito, alle analisi dettagliate, alle disamine attente.

Il tutto avviene a prescindere da ordini di scuderia e pertanto in forma tendenzialmente aperta, non soggetta a linee precostituite. I valori religiosi di fondo permangono ma non diventano condizionanti ed esclusivi. Semmai una difficoltà è data dalla mancanza di luoghi e tempi deputati per l’esercizio del pubblico dibattito, per cui ci si deve sovente accontentare del dialogo estemporaneo in un bar, in un salotto, in un ambito convegnistico che è passeggero e frequentato da partecipanti che si incontrano di rado e quindi difficilmente riescono a muoversi congiuntamente per un’azione sociale rilevante all’interno della società civile.

Religione diffusa e società civile

A fronte di una certa diaspora che si può notare nelle varie forme di religione diffusa, è proprio la società che cerca di fare ordine e di offrire trame da seguire, al fine di regolare sentimenti ed orientamenti, relazioni e differenze.

Ma c’è qualcosa di peculiarmente comune che vede convergere religione diffusa e società civile: è la presenza di valori che guidano le azioni individuali in chiave sociale e con finalità di integrazione comunitaria. Tali valori sono talmente decisivi – per la definizione relativa a ciò che rappresenta la religione diffusa – cosicché è possibile ed a ragione veduta (cioè con i dati alla mano) parlare anche di religione dei valori diffusi, nel senso che essi vengono propalati e sperimentati nel quadro della socializzazione primaria e secondaria ma poi permangono a lungo e vanno a riverberarsi nella società civile, dove la credenza religiosa può anche venire meno (come di fatto accade) ma riemergono di continuo quei riferimenti etici che provengono dalla stessa religione diffusa (anche se non accompagnata dalla pratica regolare).

Il risultato che ne deriva è infine un contributo determinante alla stessa integrazione della società civile, pur con le debite differenze.

L’alleanza di maggiore rilevanza resta in ogni caso quella che lega religione diffusa e società civile nei confronti dello stato. Vi è una tacita e reciproca intesa per salvaguardare gli interessi e le istanze dei singoli attori sociali. Il che è uno straordinario servizio di promozione della stessa democrazia. Non a caso l’indebolimento della società civile comporta uno scivolamento verso forme autoritarie. E la stessa religione diffusa se non esercita più il suo peso attraverso i valori apre la strada a soluzioni totalitarie. In definitiva religione diffusa e società civile condividono il carattere etico della concezione della realtà e riducono le possibilità di sviluppo di esiti egoistici, basati sul mero interesse individuale.

Sia la religione diffusa che la società civile si avvalgono della famiglia e della sua azione socializzatrice, che avvia le nuove generazioni ad acquisire una particolare visione del mondo, un’autonomia decisionale nelle scelte etiche, una capacità critica, un orientamento consapevole nelle attività da intraprendere, nell’uso del tempo e nei consumi.

Un altro ambito che accomuna religione diffusa e società civile è quello del volontariato. Invero quest’ultimo rientra pure nelle caratteristiche della religione-di-chiesa. Ma è particolarmente sviluppato tra soggetti che non mostrando una pratica regolare ed un’osservanza stretta delle norme ecclesiastiche si dedicano tuttavia ad azioni generose, non remunerate, al servizio della comunità sociale, ovvero della società civile. Organizzazioni non governative, associazioni senza fini di lucro e reti di servizio sono tutte forme in cui si contano presenze sia di soggetti religiosamente orientati sia di altri che si impegnano per il pubblico vantaggio senza nulla chiedere in cambio.

In definitiva la tradizione civica italiana non nasce a caso ma ha le sue radici appunto nella presenza di una forma religiosa dominante, il cattolicesimo, che da vari secoli ha mostrato una specifica attenzione a questo settore.

Secolarizzazione e società civile

Per alcuni decenni gli specialisti del fenomeno religioso si sono affannati a discutere di secolarizzazione, morte di Dio, fine della religione, o – al contrario – di risveglio religioso, ritorno di Dio, espansione dell’influenza della religione. In diversi casi si è assistito a qualche ripensamento, ad un ammorbidimento dei toni, a cambi di rotta a 180 gradi. Valgano per tutti i due esempi di Sabino Samele Acquaviva (1971), già noto come teorico dell’eclissi del sacro, e di Harvey Cox (1968), profeta della città secolare. L’uno ha dovuto poi precisare che intendeva solo parlare di fine dell’uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989) e l’altro, più semplicemente, di essersi sbagliato sul futuro della religione. Ma anche i fautori di una forte ripresa del ricorso alla pratica religiosa hanno poi dovuto ricredersi.

In ogni caso è mancato un serio confronto con la realtà empirica, con i risultati delle indagini scientifiche serie e rigorose, non preconcette, oppure se vi si è fatto riferimento l’approccio è stato parziale, non contestualizzato, troppo facilmente generalizzato rispetto ad una realtà di fatto assai variegata e mutevole. Ma soprattutto non sono stati fatti i conti con il peso delle radici storiche, delle culture tradizionali, della socializzazione religiosa diffusa, del peso e dell’influenza delle strutture confessionali, sovente capillari ed alquanto efficaci nella loro azione (nonostante le apparenze immediate facciano presumere il contrario).

Dopo le diverse ondate di ricerche empiriche e teorizzazioni sociologiche, che dapprima hanno sollevato un serio dubbio sulle possibilità reali di persistenza della religione e poi hanno enfatizzato un presunto risveglio religioso fondato su qualche osservazione sul campo piuttosto impressionistica e non confermata da indagini più rigorose, oggi sembra difficile negare che il fatto religioso sia ancora al centro degli interessi di larga parte della popolazione (italiana e non). E se così è, come recenti studi comprovano, non è possibile fare alcun discorso sulla società civile a prescindere dalla questione religiosa. Anzi spesso è a partire da essa che si intravedono tendenze in atto e si possono immaginare sviluppi futuri della società civile.

Ormai da qualche anno a questa parte stanno sorgendo a ripetizione problematiche che investono il punto di vista religioso quasi in ogni ambito della stessa società civile: si va dall’aborto al divorzio (temi assai dibattuti nel passato ed oggetto di appassionate dispute referendarie), all’uso delle cellule staminali, dall’eutanasia alla presenza di simboli religiosi in luoghi pubblici od aperti al pubblico, dall’insegnamento della religione cattolica nelle scuole al finanziamento degli istituti scolastici confessionali, dall’omosessualità all’uso della pillola anticoncezionale, dall’evoluzionismo al relativismo, dai rapporti con l’ebraismo a quelli con l’islam, dall’uso della lingua latina nelle liturgie al matrimonio solo civile.

Il dibattito ha luogo quasi sempre solamente fra esponenti dell’uno e dell’altro fronte, a sostegno di tesi contrapposte. E nondimeno la disputa avviene pubblicamente, all’interno dell’intera società civile (almeno potenzialmente, perché di fatto sono piuttosto gli specialisti a discettare a fondo e ad essere padroni e gestori degli argomenti da sostenere in favore o contro una certa soluzione).

Il che dimostra che la consapevolezza relativa all’esistenza di una società civile diversa dallo stato e dalla chiesa appartiene ad una cerchia ben ristretta di intellettuali, di politici preparati e di esponenti di chiesa attenti alle valenze politiche ed alle conseguenze reali di alcune prese di parola.

Per il resto quasi tutto resta nell’ombra e nel vago di una diatriba poco comprensibile, fatta di cifre malleabili e di motivazioni presentate ad arte. Alla fine quella che dovrebbe essere la protagonista vera del dibattito, esattamente la società civile nella sua ampiezza, viene di fatto esautorata, per cui solo gli specialisti restano delegati a dibattere di una questione che dovrebbe essere di comune e pubblico interesse.

Ecco dunque che su aspetti tipicamente religiosi decidono a livello legislativo solo i governanti ed i parlamentari della maggioranza in carica, mentre ben poco contribuiscono le forze sociali e la base degli elettori e dei cittadini. Ed a ciò si accompagna altresì un insieme di andamenti alterni che vedono di volta in volta questo o quel partito e questo o quel parlamentare favorire od avversare – secondo la convenienza del momento – l’opzione sostenuta ufficialmente dalla chiesa.           

Vi possono essere ragioni e convinzioni personali profonde, ma non si comprende in base a quali criteri uomini della Democrazia Cristiana prima abbiano evitato di introdurre nella legislazione europea il riferimento alla religione cristiana come maggioritaria (su questa linea erano De Gasperi ed Adenauer ma anche altri) ed uomini politici oggi schierati al centro e vicini alla Chiesa Cattolica abbiano invece sostenuto il contrario, lanciando una campagna a favore dell’inserimento delle “radici cristiane” nell’ordinamento europeo.

Laicità e società civile

Di recente, la nuova parola d’ordine dell’analisi teorica e del dibattito intellettuale sembra sia divenuta la laicità, con particolare riferimento allo stato, alle istituzioni pubbliche, all’attività educativa (specialmente scolastica, a livello pubblico). In realtà non si tratta di una novità assoluta perché già in precedenza qualche studioso aveva parlato di laicizzazione piuttosto che di secolarizzazione, invero con un significato diverso da quello che attualmente è oggetto di continue diatribe.

Certamente c’è un interconnessione fra il tópos della laicità e quello del pluralismo. L’una e l’altro si ritrovano ad interloquire con la resilienza della religione che dopo la ventata pluridecennale della secolarizzazione conserva una sua solidità di base. Le ragioni del pluralismo possono essere pragmatiche, di convenienza: a fronte della persistenza delle religioni l’unica modalità di governo sembra essere quella di una permissività diffusa. Questa scelta comunque non si fa carico delle difficoltà create a quanti si aspettano di poter usufruire di maggiori spazi di autonomia e di uguaglianza ed al contrario devono lasciare posto ad altri ed in qualche modo tollerarli: l’inclusività diviene di fatto una sorta di esclusione per quanti già sono all’interno di un sistema dato. Un pluralismo più riflessivo fa appello ai valori della giustizia, della libertà, della legittimità e del dovere socio-politico per far accettare posizioni diverse dalla propria pre-esistente. Il rischio è di forzare alla libertà anche chi non è d’accordo ed ha il diritto di non esserlo. O di chiedere, pure a chi non intende ricorrervi, la cosiddetta uguaglianza di rispetto, concetto tuttora presente, come filótimo, nella cultura greca di villaggio (Cipriani, Cotesta, Kokosalakis, van Boeschoten 2002).     

Gian Enrico Rusconi (2000) da lungo tempo è un intellettuale di riferimento sulla querelle della laicità, reso tale da una capacità di tenuta e di rigore che fa segnare ormai più di un quarantennio nel campo della polemica pubblica su religione e politica. Si tratta dunque di un protagonista e di un interlocutore di prim’ordine, attento, documentato e rispettoso. A suo dire la novità del tempo presente è nell’offerta di un’etica pubblica da parte delle Chiese. Ciò produce di per sé elementi di conflitto con l’approccio laico che tende ad impedire un apporto religioso alla medesima etica, insomma come se Dio non ci fosse (il noto etsi deus non daretur). Le Chiese invero non obiettano alla laicità dello stato ma si rifanno ad una cosiddetta sana laicità costruita sulla base dei loro parametri di riferimento. Da qui sorge la reazione da parte laica, che non gradisce forme di diktat provenienti da istituzioni che non siano lo stato.

L’equivoco maggiore è probabilmente nella qualificazione di dittatura del relativismo che alcuni esponenti della cosiddetta religione-di-chiesa (vecchio termine assai caro a Rusconi) vedono nelle affermazioni di parte laica, che al contrario preferisce parlare di una regolazione consensuale dei principi etici e della loro applicazione. Da un lato vi sarebbe l’autorità dei criteri di fede, dall’altro quella dei cittadini nel loro insieme, ivi compresi i credenti a vario titolo (anche diversamente, come piace dire a Rusconi).

Si sostiene che l’etica pubblica laica possa anche differire, in misura sopportabile, da quella privata. Dal canto suo l’etica pubblica religiosa appare più compatta, ma anche per essa vi sono possibili divari in ambito privato. Il discrimine maggiore poi proviene dalla diversa procedura messa in atto nelle due prospettive: in quella laica si registra la propensione a decidere caso per caso, mentre in quella religiosa varrebbe un corpus generale di principi validi per ogni questione.

Intanto il laico non accoglie l’intrusione del divino nelle scelte operative che derivano da diritti definiti attraverso procedure razionali e consensuali. E chiede perciò al soggetto religioso di adeguarsi alle regole dello stato laico. In altre parole la convergenza tra fede e ragione non trova sostegno al di fuori della religione-di-chiesa. Ma la posizione laica non legittima affatto, aggiunge Rusconi, l’assenza di qualsiasi regola morale ed anzi ne prevede altre basate su un ethos consensuale, anche se non attingibile agevolmente.

Rusconi, mentre contesta a Böckenförde (2007) la tesi di una religione cristiana in grado di assicurare le premesse normative che mancano allo stato secolare, osserva che le radici storiche cristiane possono essersi trasformate con il tempo in ragioni laiche e concorda infine con le richieste habermasiane per una rinuncia delle religioni al possesso esclusivo della verità, per un dialogo reale fra loro stesse, per un apprezzamento della scienza e per un’accettazione della supremazia laica nel campo del diritto.         

Nel contempo potrebbe pure porsi l’obiettivo del ripristino degli insegnamenti teologici nelle università statali in un’ottica non confessionale ma di rigorosa ricerca scientifica a tutto campo, con la possibilità di incrementare prolifiche aperture interdisciplinari quali quelle che hanno dato luogo all’esemplare colloquiare di Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger (Ratzinger, Habermas 2005). Potrebbe essere questa una strada per far cadere pregiudizi e resistenze ma specialmente per far salire il livello qualitativo dell’approccio scientifico ai temi della laicità e della religiosità, della bioetica e del biodiritto. In tal senso è da allargare la preoccupazione manifestata da molti (ivi compreso papa Benedetto XVI) sul futuro dell’educazione in Italia.

Un’altra preoccupazione, riaffacciatasi di recente (De Rita 2008), rimanda alla confusione fra sacro e santo: il primo è dato dal nesso con il mistero divino ed il secondo dalla presenza della fede nel sociale, ossia dal ruolo sempre più attivo della Chiesa italiana sul territorio del paese, in campo sociale, in sostituzione dello stato ed in ruoli pubblici. In particolare è dalla capacità manageriale del cattolicesimo (nel muoversi agevolmente fra sacro e santo) che deriva lo spazio sempre maggiore della religione cattolica nell’arena pubblica, suscitando perciò riprese di istanze laiche individuali e statali.

Vale la pena di ricordare che già molti anni fa non la intendeva allo stesso modo Italo Mancini (1983), teologo e filosofo della religione nell’università di Urbino, il quale presago stigmatizzava la cultura della presenza del sacro (che indicava con l’iniziale maiuscola) e vedeva nel santo la vera salvezza contrapposta a quella falsa e violenta del sacro. Per lui il santo era la fede pura, separata, non assoggettabile agli interessi terreni e dunque non asservibile al sacro come suo management in termini di potere terreno da esercitare nella società. Il santo, il divino, non andrebbe confuso con l’umano di un certo tipo di sacro che vuol gareggiare con la forza laica del mondo profano. Non a caso, soggiunge Mancini, la cultura neo-ebraica ha distinto fra santo, innominabile, e sacro, immediato e manipolante. Orbene la nuova destra tende a confinare il santo entro ambiti minoritari e marginali, molto identitari, ed a valorizzare invece il sacro, vitale, attivo, operativo nella concretezza del quotidiano e del politico.

Discutere qui la fondatezza dell’una o dell’altra distinzione richiederebbe troppo spazio e molta letteratura di riferimento. Conviene appena constatare e sottolineare qualche aspetto. Innanzitutto che si chiami sacro o santo l’agire della Chiesa nella società non è senza conseguenze e senza problemi. Inoltre il ricorso alle due qualificazioni, almeno in relazione al ruolo pubblico della religione, crea altre separatezze che le definizioni non risolvono, visto che risultano intercambiabili, a seconda delle prospettive ideologiche ed intellettuali di chi le usa. Infine non va sottovalutato che criticare una superficiale confusione di termini e poi crearne un’altra non è il miglior servizio che si possa rendere alla comprensione della realtà. Per questo, metodologicamente, sembra più corretto far ricorso a due lemmi tendenzialmente meno ambigui, almeno in linea di massima: Chiesa (intesa come organizzazione storica con la sua gerarchia, le sue strutture, associazioni, movimenti e soggetti individuali credenti, praticanti, appartenenti) e religione (intesa come insieme di attività che si rifanno ad una matrice ispiratrice di tipo spirituale, metafisico; ma anche la religiosità ha caratteristiche simili). In definitiva la funzione della religione e della religiosità nella società civile italiana è tuttora evidente, ma i suoi connotati stanno cambiando. Non a caso è ormai all’orizzonte una nuova ricerca sociologica quantitativa e qualitativa ad ampio raggio (l’ultima risale al 1994-95) in grado di individuare e misurare la portata delle nuove dinamiche in atto.