INTERVISTA A ROBERTO CIPRIANI

                     A cura di Monica Simeoni e Cecilia Costa

L’intervista al prof. Cipriani si è svolta nello studio del suo appartamento. È uno studio pieno di libri, di ricordi, di foto, di tradizione e con la evidente presenza delle nuove tecnologie digitali, la cui atmosfera tratteggia immediatamente la sua personalità di uomo e di studioso. Una personalità, la sua, che custodisce la memoria del passato, è impiantata nel presente e protesa alla “scoperta” del futuro.

È stata una conversazione, più di un’intervista, data anche la lunga conoscenza che lega da molti anni tutti e tre, condotta in modo informale, discorsivo, ritmata dalle domande e soprattutto dalle risposte, che ha restituito una “storia” accademica e, nello stesso tempo, anche una narrazione biografica. Infatti, in questa intervista-conversazione si coglie, come sottotesto, una forte consonanza tra l’aspetto personale e l’impegno disciplinare.

Tra l’altro, tenendo conto del suo personale orientamento confessionale cattolico, tale circolarità virtuosa tra la sua qualità esistenziale e la natura del suo impegno scientifico è testimoniata  dalla sua impostazione di ricerca rigorosamente avalutativa e dal suo fare tutto il possibile per non scivolare mai in giudizi di valore, in modo particolare nell’affrontare il fenomeno religioso. Non a caso, nel corso dell’intervista, proprio riguardo al principio dell’avalutatività, egli afferma: è una sorta di vigilanza scientifica.

Nonostante questa sua posizione, mai tradita, di rispetto delle regole e delle procedure disciplinari, il suo percorso sociologico è interpretato come un’arte; portato avanti all’insegna di uno stile teorico-metodologico aperto, variegato, molteplice, privo di forme di “sociologismo”, di ansia per il “carisma”di scientificità vetero-positivista; attento alle scienze di confine, come l’antropologia, e soprattutto sempre mirato a sostenere sinergie tra l’indagine quantitativo-oggettivista e quella qualitativo-soggettivista.

Fermo restando il suo rispetto verso criteri disciplinari differenti dalla sua posizione collaborativa, secondo Cipriani, solo l’adozione di una prospettiva integrata quali/quantitativa, ancorata ad una matrice umanistica, può aprire nuove piste di analisi, facilitare nuove alleanze riflessive, una visione sociologica multidimensionale e multidisciplinare. Naturalmente, a suo avviso, ancora non è del tutto scontato l’incontro tra sociologi quantitativi e qualitativi, ma certamente più che nel passato vi sono occasioni di collaborazione e quindi di confronto.

Questa sua opzione metodologica sofisticata, inclusiva, però, non lo allontana dalla sua scelta preferenziale per il qualitativo, perché una ricerca attenta al “materiale umano” e non imbrigliata in asettiche generalizzazioni, spiega lo stesso Cipriani, permette di conoscere persone e di avere quadri molteplici per quanto riguarda l’agire sociale e quindi il ruolo che un soggetto ha in società.

Infatti, riequilibrando un atteggiamento conoscitivo sbilanciato a favore della “sterilizzazione” dei dati e del solo utilizzo di  paradigmi funzionalisti e neofunzionalisti, che partono “dall’idea di sistema e non di storia” (direbbe Ricœur), si può raggiungere un adeguato livello di svelamento di senso della complessità, si riunisce “l’umano al sociale” e si può tentare di comprendere i sentieri misteriosi delle sensibilità dei singoli mondi vitali.

Se è fondamentale per lui l’attenzione al qualitativo, non sottovalutando l’incontro quali/quantitativo o la necessità a volte di ricorrere alla rappresentatività statistica, è altrettanto importante, a suo avviso,  una riflessione critica sulla tenuta esplicativa di alcune categorie concettuali, −  come, per esempio, quelle di classe  e  di causa −, che hanno avuto nel passato un’indiscussa valenza nel rispondere alle sfide con le cosiddette scienze dure, ma che attualmente risultano sature, soprattutto se si fa un lavoro di costruzione della teoria a partire dai dati.

Insomma,pur non trascurando di riferirsi al consolidato patrimonio teorico delle scienze sociali, egli ritiene che sia opportuno operare una parziale ridefinizione semantica e la variazione di qualche classica categoria interpretativa e, quindi, ipotizzare altre modalità, altre prospettive, altri concetti, in funzione di una mutata realtà. Del resto, per sua intrinseca caratteristica, come suggerito dai suoi padri fondatori, la sociologia dovrebbe non considerarsi una scienza “data”, ma essere sempre pronta al cambiamento, in una logica di costante problematizzazione e storicizzazione del suo “oggetto”.

Questa sua impostazione scientifica, − incline alla “fermentazione dei saperi” (direbbe papa Francesco) e a preservare un’equilibrata coniugazione tra la struttura e l’azione,  tra i sistemi sociali e gli attori sociali −,   risulta ancor più evidente se si considera l’ordine di priorità dei suoi autori di riferimento, dai quali ha tratto molta della sua ispirazione e che sono stati, come lui stesso evidenzia,  una chiave di volta fondamentale per il suo pensiero: Weber più di Durkheim; Luckmann più di Berger. A volte, però, alcune delle loro teorie, ci tiene a precisare,  sono state da lui considerate come un polo dialettico, critico e quasi contestativo: per esempio, nel caso del lavoro di Luckmann su la religione invisibile, che ha utilizzato quasi come una sorta di controcanto per la sua tesi di religiosità diffusa.

In generale, un itinerario scientifico, quello di Cipriani, improntato alla curiosità costante verso ogni aspetto micro e macro della dimensione sociale, che lo  ha visto anche impegnato a riportare la sociologia, − dopo un periodo, come lui stesso sottolinea, di suo confinamento nell’alveo dell’ordinarietà −, a ricollegarsi di nuovo ai grandi problemi della realtà e, senza scadere in proposte velleitarie, pressappochiste, a riprendere una sua centralità nel dibattito culturale con il massimo grado di preparazione.

Un impegno, il suo, che lo ha condotto non solo a dare, in termini teorico-metodologici, un suo specifico contributo alle scienze sociali, ma anche ad essere un instancabile “organizzatore  della cultura” e ad assumere, in prima persona, ruoli di rilievo accademico-scientifico, nazionali e internazionali, da quello di Direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione nell’Università Roma Tre a quello di Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia; da Membro dell’executive committee della Societé Internationale de Sociologie des Religions a Presidente del Council of National Associations in the European Sociological Assiociation.

In estrema sintesi, considerando la sua produzione sociologica, il modo in cui ha rappresentato i suoi importanti ruoli, il modello di relazione scelto con gli studenti e con i colleghi, e, non per ultimo, leggendo questa sua intervista, si può dire, senza temere smentite, che il suo percorso accademico, teorico, di ricerca e di didattica, è stato − ed è tutt’ora − portato avanti come una “vocazione”, nel segno di una agostiniana castitas animi e di una coerenza tra vita e professione.

M. S.: Professore, la sua attività accademica è iniziata con il professor Franco Ferrarotti: quanto sono stati importanti il suo insegnamento e la sua frequentazione per la sua formazione professionale?

Devo dire che quando mi sono iscritto all’università non avevo affatto in mente di interessarmi di sociologia. Il mio obiettivo di partenza era l’insegnamento scolastico, quindi è stata per me una felice casualità il fatto che Ferrarotti fosse anche nella Facoltà di Lettere della Sapienza oltreché al Magistero e che dunque lo incontrassi, lo sentissi e mi appassionassi alla sociologia come disciplina. Questo avveniva comunque in stretta ed immediata continuità con precedenti mie esperienze che erano state all’interno di organizzazioni cattoliche, in modo particolare per l’apostolato dei laici ma anche in campo sportivo. La dimensione sociale mi aveva già interessato tanto, anche in chiave politica. In sostanza arrivare a Roma e sentir parlare di sociologia è stata tutto sommato una fortunata occasione che mi ha permesso di approfondire ancora di più quelle conoscenze che Ferrarotti mi trasmetteva e di riuscire poi a diventarne – era il mio sogno – assistente ordinario. Le vicende sono andate ben oltre ed ho avuto modo di dare anche un mio specifico contributo alle scienze sociali.

M. S.: La sociologia negli anni Sessanta e Settanta si è imposta con difficoltà come disciplina scientifica autorevole per la comprensione della società e del suo mutamento. Quale pensa sia oggi il ruolo della sociologia in Italia ma anche negli altri Paesi nel comprendere il forte mutamento in atto e quanto può aiutare il rapporto con le altre scienze sociali?

La storia della sociologia in Italia ha i suoi prodromi nell’Ottocento, nella seconda metà in particolare, allorquando vennero istituiti insegnamenti universitari di sociologia. Successivamente, per singolari vicende, tutto si è bloccato a cavallo dei due secoli, fra Ottocento e Novecento. Poco dopo è arrivata la parentesi del fascismo ma, come ha sostenuto Filippo Barbano, non è da attribuire solo al fascismo il mancato sviluppo della sociologia. Negli anni Sessanta del secolo scorso la sociologia si riaffacciava. Certamente Ferrarotti è stato un punto di riferimento essenziale, ma anche altri: penso per esempio ad Alberoni ed al gruppo di sociologi presso la neonata Facoltà di sociologia a Trento. La materia aveva successo. Fra l’altro la coincidenza di questo reinserimento della sociologia con tutta una serie di fenomeni sociali più diffusi, fra cui la contestazione studentesca giovanile, faceva sì che la disciplina a livello universitario, ma anche pubblico, riuscisse ad avere una certa risonanza, con una cospicua audience. I sociologi erano frequentemente interpellati anche per spiegare quello che avveniva in vari ambiti della società. Le iscrizioni alle Facoltà di sociologia continuavano a crescere. Ma forse la risposta da parte della classe docente non era sempre adeguata. Vi sono state diverse modalità di approccio da parte degli insegnanti e studiosi universitari rispetto al mondo studentesco universitario. Il che ha anche prodotto delle conseguenze non sempre positive. Poi a mano a mano la sociologia, come anche altre scienze sociali, ha perso lena, ha ridotto il suo appeal e quindi è rientrata un po’ nell’alveo dell’ordinarietà. Anche le iscrizioni ai corsi di laurea in sociologia sono calate e l’ascolto del sociologo nella società italiana è divenuto sempre più rarefatto. Nondimeno, dagli anni Ottanta in poi sino ad oggi, abbiamo ancora avuto dei soggetti accademici che sono stati, in qualche modo, latori di intervento critico ed anche, diciamo, dei parametri di riferimento per quanto riguarda l’analisi del sociale nel nostro Paese, però in misura inferiore rispetto al passato. Il successo iniziale della sociologia è stato anche l’inizio di una nuova fase di rientro, come dire, nel solco della normalità o quasi. E questo naturalmente non ha dato molte possibilità alla sociologia di svilupparsi ulteriormente così come si poteva immaginare e si poteva desiderare. Anzi diciamo che, come del resto è capitato anche per altre discipline, vi è stato un calo di tensione ed attenzione e quindi sono diminuiti i corsi di laurea in materie sociologiche ed è diminuita anche la presenza sociologica in generale nel Paese, dove, peraltro, a parte la fase intorno al ’68, la sociologia non è stata particolarmente presente.

M. S.: Lei è stato uno dei primi sociologi che nel nostro Paese ha considerato l’analisi qualitativa non in contrapposizione ma in complementarietà con quella quantitativa. Insomma, l’ha ritenuta una metodologia di analisi approfondita ed esaustiva nell’approfondire tematiche forti della società italiana. Ricordiamo i primi studi sulla periferia romana ed altro ancora. Quanto sono ancora attuali oggi, in un momento storico e politico così diverso rispetto a quello passato, le analisi di quel periodo?

Sono state analisi, come si suole dire, seminali, che hanno gettato un seme e che a distanza di decenni stanno producendo esiti ancora importanti. Ricordo che ci fu una prima fase, appunto quella delle ricerche nelle periferie romane, con analisi empiriche che comportavano una grande attenzione alle storie di vita. In seguito, abbiamo avuto la possibilità di ritornare a lavorare sul campo. Penso, in particolare, agli studi sulla borgata romana atipica di Valle Aurelia ed a quelli che, con il titolo di un libro, chiamavamo anche “sentieri della religiosità”. Ed ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, questo tipo di discorso ha davanti a sé un orizzonte rilevante perché, superata la fase della contrapposizione netta tra qualità e quantità, ora si marcia lungo percorsi non dico necessariamente convergenti ma almeno paralleli. E certamente rispetto a trenta, quarant’anni fa si è in grado di proporre metodologie più raffinate ed anche più affidabili. Naturalmente non è vinta la battaglia della collaborazione tra sociologi quantitativi e qualitativi, ma certamente più che nel passato vi sono occasioni di collaborazione e quindi di confronto.

M. S.: Un altro tema da lei approfondito sono stati i giovani, così diversi, differenti oggi da quelli dei suoi primi studi. Anche in questo caso quali sono gli aspetti simili e le differenze in un’epoca nella quale il soggetto è sempre più protagonista anche nei suoi legami, nelle sue relazioni disomogenee, frammentate?

Di giovani come soggetto sociologico mi sono interessato agli inizi, quindi dobbiamo risalire ai primi anni Settanta. Ricordo un testo dal titolo Giovani e futuro della fede. Tra l’altro questo titolo è stato ripreso di recente, inconsapevolmente, da Rita Bichi, che si interessa di mondo giovanile. Però devo francamente confessare che dopo quella prima fase non ho più seguito lo specifico dei giovani, per diverse ragioni. In primo luogo perché mi dedicavo piuttosto alla società in generale e non alla stratificazione per classi di età e d’altro canto vedevo attorno a me dei colleghi che molto più frequentemente, e diciamo anche con maggior acribia, si dedicavano alle fenomenologie giovanili. Faccio un nome per tutti: Franco Garelli, per esempio, stava lavorando sostanzialmente sugli stessi temi. Certamente rispetto a quegli anni, gli anni Settanta in particolare, molte cose sono cambiate. Emerge chiaramente anche dalle indagini a più largo raggio, perché quando si va ad esaminare la categoria più giovane si fa un confronto con il passato e si vede che alcune tendenze di fondo sono le stesse, cioè atteggiamento critico e contrapposizione tra classi di età. Alcuni contenuti sono ovviamente diversificati, ma in fondo la parabola che solitamente si verifica, in Italia come altrove, è connotata da un atteggiamento piuttosto contestativo in età giovanile e da una sorta di recupero, meno critico, in età più matura. Credo che ciò trovi conferma anche oggi, come dimostrano pure le ricerche che stiamo conducendo in questo periodo. Quindi vi è continuità ma anche discontinuità, soprattutto ovviamente nelle tematiche. Le forme in apparenza possono essere diverse, ma la sostanza del discorso è la medesima, come emerge dal confronto a distanza con le diverse generazioni.

M. S.: Lei ha molto approfondito la conoscenza sociologica relativa ai due Giubilei più recenti, con due Papi molto diversi: Giovanni Paolo II e Francesco. Che cosa può dire su questo? Qual è stato il ruolo dei laici in entrambi i Giubilei?

Diciamo che il Giubileo del 2000 ha visto una fortissima mobilitazione dei laici soprattutto a livello di volontariato, il che si è anche verificato nel Giubileo recente della Misericordia ma limitatamente a certi settori. Penso in modo particolare alle giornate giubilari dedicate ai malati e disabili, nel corso delle quali il coinvolgimento laicale è stato importante, anzi decisivo. Un po’, diciamo, meno significativo invece è risultato in altre occasioni del Giubileo della Misericordia. Comunque, l’occasione giubilare offre la possibilità di operare sul terreno sociale e religioso a chi è coinvolto in attività pastorali, religiose o comunque legate al mondo ecclesiale, rendendosi partecipe, anche se la diatriba clero-laicato non viene certo risolta: insomma permane una certa distanza. Forse qualche passo in più è stato fatto: quello che si può constatare è che i laici hanno un po’ più spazio all’interno del mondo ecclesiale.

M. S.: Aggiungo una domanda: nel ruolo delle donne c’è una diversità?

Indubbiamente è cresciuta la funzione, è cresciuto il ruolo delle donne ma anche in questo caso solo fino ad un certo punto. Permane, e per quanto riguarda il laicato e per quanto riguarda le donne, qualche barriera che è frutto anche dell’educazione del passato, in particolare del tipo di formazione dei preti nei seminari e del contesto istituzionale, che naturalmente raffrena, come pure della vecchia idea sulla donna come persona che può essere problematica per le figure ecclesiali maschili. Quindi sono diversi i fattori che impediscono un salto importante di qualità.

M. S.: Lei è stato molto all’estero con frequentazione di molti docenti stranieri e ricerche internazionali, soprattutto di sociologia della religione: Grecia, Israele, Stati Uniti, America Latina. Quanto sono differenti le sociologie nei Paesi che lei ha visitati e quanto possono essere d’aiuto per comprendere invece il nostro?

C’è grande differenza, tra la Francia ed il Messico, tra gli Stati Uniti ed il Canada, l’Argentina ed il Brasile, Israele stesso. Le sociologie ovviamente risentono di quelle che sono le loro contestualizzazioni, per cui nei Paesi dell’America Latina è molto sentito il tema politico e dunque si arriva a considerare Gramsci un sociologo per eccellenza perché fa gioco ad una prospettiva politicamente orientata; altrove c’è una maggiore sensibilità verso la sociologia classica: ovviamente penso alla Francia come agli Stati Uniti. In altri Paesi come Portogallo, Belgio e Spagna vi è, in base al tipo di lingua, una certa sudditanza rispetto ad un altro Paese che resta una sorta di faro e quindi il parametro essenziale. Ma c’è anche una notevole capacità di sviluppare discorsi propri, con delle peculiarità. Ad esempio, in Portogallo vi è una forte complementarietà tra il mondo del servizio sociale e quello della sociologia, cosa che in Italia ci sogniamo; lo stesso discorso potrebbe valere per quanto concerne gli Stati Uniti dove interi dipartimenti sono dedicati al social work. Debbo anche rilevare che in alcuni contesti il discorso associativo per quanto riguarda i sociologi è particolarmente accentuato: penso alla Francia, dove, anche se poi diverse associazioni si sono succedute e vi sono state varie crisi, l’attenzione di tipo corporativo è sempre rimasta viva. Penso agli Stati Uniti dove ci sono decine di migliaia di sociologi associati fra loro e non solo a livello di American Sociological Association ma anche all’interno dei singoli Stati. In Argentina c’è uno stretto legame tra i sociologi accademici ed i sociologi operanti nel consiglio nazionale per la ricerca. Nella parte brasiliana vi è un forte coinvolgimento anche con l’impegno sociopolitico per cui, per esempio, il tema dell’assistenza sociale è molto frequentato e per certi aspetti è da considerare maggioritario per quanto riguarda il coinvolgimento dei sociologi che operano in quel Paese. Poi naturalmente ci sono le numerose sociologie nei Paesi in via di sviluppo, come si suole dire. Inoltre, da qualche decennio a questa parte, è molto attiva la collaborazione fra le sociologie dei Paesi balcanici, in particolare della ex Iugoslavia. Ma anche nei paesi ex comunisti in generale la sociologia ha ripreso un suo percorso che già aveva offerto dei contributi notevoli nel passato. Penso in particolare alla Polonia.

M. S.: La interrompo. Ágnes Heller ha pubblicato una sua lezione, molto interessante, in cui spiega politicamente la deriva plebiscitaria delle democrazie dell’Est che stanno diventando delle democrazie totalitarie. Da ultimo, se un giovane fosse interessato a studiare sociologia quali sono i consigli e le motivazioni forti per intraprendere un percorso che sembra molto accidentato?

Non vi è dubbio che la società contemporanea abbia bisogno di sociologi: specialmente in questo momento particolare in Italia registriamo sfiducia, disaffezione, e questo naturalmente è sociologicamente intrigante, poiché se la politica non funziona non è allontanandosi da essa che si risolvono i problemi. Deriva da qui l’estrema necessità di un’analisi sociologica. Questo potrebbe essere un impegno da proporre ad un giovane, che di per sé parrebbe portato a un forte coinvolgimento nel contesto sociale. E quindi la sociologia, anche come professione e come vocazione, potrebbe essere una proposta concreta. Ma non una sociologia velleitaria, non una sociologia pressappochista, ma una sociologia che richiede una preparazione al massimo grado, possibilmente su tutti i versanti, almeno per quanto concerne gli elementi essenziali (penso in particolare all’approccio qualitativo come all’approccio quantitativo). E poi occorre anche una maggiore apertura alla dimensione internazionale: ogni lingua imparata è un investimento all’ennesima potenza, perché è così che si riscuote attenzione all’estero, quando ci si reca per dei convegni o per delle iniziative di ricerca. La collaborazione internazionale in effetti è molto ricercata e favorita. Quindi credo che ci siano spazi importanti da occupare.

M. S.: Quali differenze ci sono state fra il suo impegno nazionale e quello estero? 

Non molte direi. Ho partecipato intensamente alle attività scientifiche del settore sociologico sia in Italia che all’estero. Ho cercato di essere presente in tutte le iniziative che avessero un interesse precipuo soprattutto in vista di collaborazioni e scambi, senza alcuna distinzione fra studiosi di grande prestigio ed altri ancora in avvio di carriera. Ancora oggi con molti di loro mantengo contatti proficui, come se il pensionamento non avesse interrotto il legame con l’accademia ed anzi lo avesse incrementato. In effetti la lunga e costante seminagione ha prodotto esiti visibili pure a distanza di molto tempo. Per esempio non è raro, anche adesso, il caso di interventi a favore della stipula di convenzioni internazionali con università di altri paesi. Ricevo pure numerose richieste di referaggio per articoli proposti a riviste in lingua inglese e francese, spagnola e portoghese. Non manco, peraltro, di favorire al massimo l’inserimento di studiosi italiani nel board di associazioni internazionali di sociologia e nelle redazioni di pubblicazioni periodiche. Insomma non vi è una cesura fra l’impegno nazionale e quello estero. Debbo comunque rilevare che a livello associativo vi è una maggiore omogeneità, in chiave di uguaglianza dei diritti, in organismi che non siano italiani, nei quali non si distingue certo fra le tre fasce di professori ordinari, associati e ricercatori, ma ognuno partecipa pleno jure a tutte le fasi dei processi democratici elettivi. Riconosco, inoltre, che talora il coinvolgimento internazionale è stato soverchiante rispetto a quello nazionale (ricordo che mi è anche capitato di attraversare l’Atlantico, in aereo, per ben quattro volte in poco meno di una settimana). 

C. C.: A quali autori classici e contemporanei si sente più vicino? Qualcuno ha influenzato in modo più diretto i suoi studi e le sue ricerche?

Sicuramente Weber più di Durkheim, per esempio, e poi tutta una serie di sociologi che un po’ prendono le mosse dalla fenomenologia. Quindi partiamo da Husserl, che è stato per me una chiave di volta fondamentale, e di conseguenza Berger e Luckmann. Devo dire più Luckmann che Berger anche se il dire “più Luckmann” significa soprattutto in senso critico, in modo particolare per quanto riguarda la sua religione invisibile. Non a caso la mia teoria della religione diffusa diventa una sorta di controcanto, comunque una risposta in modo da andare al di là della secolarizzazione, che non si può negare, ma che, come dire, non è l’unica tendenza che possiamo considerare prevalente. Ci sono tante altre situazioni che si vanno a intersecare nei singoli contesti, nei diversi territori, nei cinque continenti. Arrivando a studiosi più vicini a noi, certamente debbo citare Franco Ferrarotti per ovvie ragioni, però una peculiare influenza mi è venuta da parte degli antropologi culturali italiani, specialmente per quanto riguarda i loro studi sul meridione, che sono stati un po’ all’inizio della mia attività di ricerca sul campo, in modo  particolare ovviamente De Martino, ma, come per Luckmann, anche in questo caso in chiave contestativa di quello che è stato il suo approccio. L’antropologia italiana mi è stata molto vicina nel senso che mi sono mosso a metà strada tra antropologia e sociologia, soprattutto nei primi tempi, nei primi anni, quando mi interessavo molto di religiosità popolare. Adesso di meno, anche se di tanto in tanto ritorno sul campo per questo tipo di analisi. La sociologia qualitativa, che è un po’ il mio filone attuale di studio e ricerca, è in fondo figlia di queste iniziali perlustrazioni, per cui il mio orizzonte si è allargato e quindi sono stato in grado di maneggiare diversi strumenti: l’approccio audiovisuale per esempio, l’analisi quantitativa in senso stretto, quella qualitativa in modo più specifico. Quindi diciamo che l’insieme degli antropologi italiani per me ha rappresentato una spinta importante.

C. C.: Quali sono i concetti sociologici tradizionali che ritiene ancora determinanti per l’analisi sociale e quali invece, a suo avviso, sono ormai saturi?

Non sono un funzionalista, però ritengo che il concetto di funzione sia importante. Come importante è il concetto di ruolo che, diciamo, è assimilabile. Non trascurerei, anzi tutte le volte che mi capita lo ribadisco, il concetto di classe sociale. Si può discutere se invece di dire classe si debba dire strato. Certamente le differenze sociali esistono e costituiscono una struttura decisiva per quella che è la società contemporanea. Per quanto concerne concetti meno validi oggi, non ne saprei indicare qualcuno in modo particolare.  È chiaro tuttavia che il concetto di causa, pure presente in studiosi come Thomas e Znaniecki, non ha più molto senso, come non hanno più senso tutte quelle concettualizzazioni che un po’ servivano in passato per rispondere alle sfide in atto con le cosiddette scienze dure. Debbo invece constatare che vari contributi di studiosi più o meno contemporanei sono stati rilevanti per quanto concerne alcune categorie concettuali: penso per esempio a quanto ci ha proposto Bourdieu. Ma non mancano anche nella contemporaneità studiosi, devo dire persino relativamente giovani, i quali propongono nuove concettualizzazioni. Soprattutto se si fa un lavoro di costruzione della teoria a partire dai dati, è chiaro che operando sul dato non necessariamente si deve far rifermento alla letteratura già consolidata ma viene naturale ipotizzare altre modalità, altre prospettive e quindi altri concetti che poi, come si sa, sono la piattaforma essenziale per la costruzione della teoria.

C. C.: Sempre a proposito di concetti, quanto contano o possono contare ancora nella politica, diciamo più in generale nel vissuto collettivo, le due etiche proposte da Weber: l’etica della responsabilità e l’etica della convinzione?

La politica è anche l’arte di raccogliere consensi in merito ad obiettivi che si ritengono giusti, razionali e tutto sommato utili al benessere sociale diffuso; quindi le due etiche weberiane non possono essere dismesse, hanno da marciare come due binari paralleli diretti verso un unico obiettivo. In fondo occorre essere ben convinti per cercare di convincere, ma occorre anche essere responsabili per fare in modo che anche altri si carichino di una responsabilità che poi porta, bene intesa, saggiamente organizzata, opportunamente amalgamata, prudentemente coordinata, a risultati che poi giovano a tutti. Capisco che l’ambizione del potere e l’esercizio del potere e poi il piacere del potere sono tutti elementi che contrastano con l’esercizio delle due etiche. Però questa è la strada.

C. C.: Ritiene fondamentale e, se l’ha praticata, l’interdisciplinarietà ma anche l’intradisciplinarietà e ritiene utile, sempre pensando a questa commistione,  a questo meticciato, se l’ha fatto, tra discipline diverse, prendere ispirazione o avere ispirazione dalla letteratura, dall’arte, dalla musica? Un sociologo può trarre da questi spazi creativi sia concetti, sia spiegazioni?

Proprio questa è un po’ la mia opzione, anzi qualcuno è persino critico su questo nei miei riguardi, cioè per il fatto che si seguano più strade quasi contemporaneamente. Quindi sono fortemente convinto della dimensione interdisciplinare come di quella intradisciplinare, e faccio tutto il possibile per praticare questo duplice tipo di percorsi: quindi vado negli archivi, cosa che non mi pare particolarmente abituale per un sociologo, e poi utilizzo strumenti che mi vengono anche da altre arti. Tutto sommato anche la sociologia è un’arte. Devo dire che una carenza di fondo di cui mi lamento riguarda per un verso la letteratura e per un altro verso la musica, ma per due ragioni diverse. La letteratura perché, al di là della fase scolastica e dell’esperienza molto intensa degli studi universitari, è diventata per me una chimera, in quanto non ho affatto il tempo di leggere interi romanzi, ad esempio. Ecco: mi è pervenuto un romanzo storico, di 700 pagine, interessantissimo, dedicato alla vita di Giuseppe Di Vittorio, ma pur avendo immenso interesse per il personaggio non ho potuto far altro che scorrere il testo pagina per pagina e soffermarmi di tanto in tanto per cercare di capire alcune situazioni e questioni. Quindi si tratta di ragioni di tempo e di distribuzione delle attività nella giornata, per quanto concerne la letteratura, e di mancanza delle conoscenze tecniche specifiche per quanto riguarda la musica. Vorrei tanto sviluppare dei discorsi in termini di sociologia della musica o di antropologia della musica, ma non avendo nozioni musicali adeguate vi debbo rinunciare. Ho anche scritto degli articoli apprezzati da alcuni musicologi, però avrei potuto migliorare di gran lunga il mio contributo se avessi avuto una competenza almeno di base sul linguaggio musicale. E di questo naturalmente faccio colpa al sistema scolastico italiano.

C. C.: A proposito sempre di musica e di letteratura, ha mai pensato che alcuni libretti delle opere hanno anticipato movimenti sociali? Mi viene in mente, era proprio due anni prima dello scoppio della Rivoluzione francese, il Don Giovanni di Mozart o qualche romanzo che è riuscito a descrivere una situazione che in quel momento si stava vivendo, anticipando anche quello che poi sarebbe avvenuto, per esempio rispetto alla povertà, rispetto alla differenziazione sempre più forte in classi.

Certamente sia la musica che la letteratura, provenendo da riflessioni di soggetti particolarmente al di sopra del livello intellettuale medio della popolazione, danno luogo anche ad anticipazioni, a previsioni, in sostanza fanno capire prima del tempo che cosa sta succedendo nel sociale. Questo si può ritrovare nella Bohème di Puccini, o si può rintracciare, per quanto riguarda il discorso del potere, in Turandot del medesimo autore. Su un altro versante, per esempio quello verdiano, c’è una forte consonanza con quello che stava avvenendo in Italia con i moti risorgimentali, proprio in parallelo con quello che per altro verso scriveva Alessandro Manzoni, per cui si vede chiaramente la congiunzione fra i due discorsi: musica e letteratura insistono insieme su un medesimo aspetto. Dirò di più: persino in opere letterarie lontanissime nel tempo (e penso, in modo particolare, ai miei studi classici di latino e di greco), si trovano delle analisi, delle premonizioni, che sono attualissime ancor oggi. Penso alle opere di Cesare, a Sallustio, penso soprattutto a quelle situazioni politiche complesse che hanno caratterizzato l’antica Roma tra le fine dei secoli che precedono il Cristo ed i secoli appena successivi. Lì ci sono tutta una serie di dinamiche che puntualmente noi ritroviamo anche nelle situazioni odierne.

C. C.: Noi viviamo una situazione complessa. Qual è il valore aggiunto del qualitativo di cui lei è stato uno degli esponenti principali in Italia e dei metodi sensibili al “coefficiente umanistico” per la ricerca contemporanea, per la complessità contemporanea? C’è un valore aggiunto?

Il valore aggiunto è dato ovviamente dalla relazionalità con il soggetto. Quando ci si trova di fronte ad un questionario, magari compilato male, difficilmente si ha la possibilità di recuperare il soggetto, di parlargli, di farsi spiegare che cosa intendeva dire con una certa crocetta posta rispetto ad un item già prefissato. Il contatto a faccia a faccia con il soggetto umano è un’occasione non paragonabile, che non va persa. Certo costa fatica riuscire ad ottenere la disponibilità di una persona e costa fatica nel momento in cui si conduce un’intervista perché ci si deve porre con la massima cura possibile in termini di accoglienza e di ascolto nei riguardi di chi ti sta parlando. Ma non è finita lì, perché poi c’è tutto il lavoro di analisi che dura molto di più che la mezzora od ora di intervista e può persino comportare anni per cercare di capire alcuni dettagli, per ritornare magari dalla stessa persona e farsi spiegare qualche aspetto problematico. E non è finita lì anche perché nel frattempo la persona può anche aver cambiato opinione, può aver subito un trauma, od anche aver avuto una situazione più felice, più fortunata, più soddisfacente o meno. Pertanto, ci sono molti fattori in ballo che fanno sì che la metodologia qualitativa sia molto più difficile da implementare che non quella quantitativa.

L’analisi qualitativa richiede una preparazione straordinaria che, dopo molto più tempo rispetto al quantitativo, può offrire frutti di non scarso momento. Francamente devo dire che in questa fase attuale della ricerca sulla religiosità in Italia, dopo aver letto ben 164 interviste, mi sono trovato un po’ spaesato, nel senso che mentre leggevo avevo colto alcuni elementi da recuperare per la costruzione di una teoria sulla religiosità degli italiani, ma poi non ero sicuro sulla loro validità euristica. Ancora adesso andando avanti per temi, per capitoli, sulla figura di papa Francesco, sulla religiosità, sull’immagine di Dio, sulla celebrazione festiva e quotidiana, di volta in volta emergono intuizioni nuove che non sono solo mie, ma vengono dal compulsare quello che, per esempio, altri analisti, con altri strumenti, hanno potuto rilevare, per cui trovo che ci sono delle affinità, degli agganci, come in un puzzle, un enorme puzzle, messo insieme con un approccio multi-metodo. Con il solo approccio quantitativo, esclusivamente con gli incroci, limitatamente con la regressione lineare, riduttivamente con il chi quadro, il tutto poteva offrire sì degli spunti ma non poteva andare oltre un certo limite. Fra l’altro, pur con strumenti quantitativi e statistici significativi, aggiornati ed innovativi, la sicurezza totale del risultato non si riesce mai ad avere rispetto a quello che il dato può dire. Ovviamente nemmeno sul qualitativo si ha una sicurezza completa, sempre e comunque soddisfacente, però si possono raccogliere più informazioni per avere più tasselli da sistemare al fine di costruire il mosaico rispetto al quale si deve dare una spiegazione e se possibile un’interpretazione. Ecco perché il qualitativo mi attrae di più, e mi attrae di più anche perché mi permette di andare a fondo, di indagare sino ai minimi dettagli, soprattutto ponendomi spesso vari interrogativi: “perché è stato detto questo?”, “forse perché al momento la persona era nervosa?”, “probabilmente perché voleva riferirsi a qualcos’altro?”, “oppure perché ha sbagliato ad usare quella frase, ad usare quell’aggettivo?”, “od invece perché voleva presentarsi in un certo modo a chi lo stava intervistando?”. C’è tutta una serie di quesiti a cui non si trova facilmente risposta. Ed invece si deve cercare, in qualche modo, di risolverli arrivando poi alla fine a fornire una spiegazione, un’interpretazione, a beneficio del futuro lettore del libro che si sta scrivendo e che si vuole far circolare in modo tale che si capisca, al di là di qualche percentuale, qual è il dato reale, non dico necessariamente quello “vero” ma quello che in qualche misura è il più verosimile e quindi il più affidabile.

C. C.: Quindi il materiale umano, diciamo pure umanistico, la intriga di più perché arriva alla complessità del soggetto o anche perché ritiene che sia la leva fondamentale per penetrare una complessità sociale generale che altrimenti il dato asettico non ti restituisce?

Non la vedrei in questi termini perché potrebbe apparire un po’ troppo strumentale. Preferisco il qualitativo in quanto mi permette di conoscere persone e di avere quadri molteplici per quanto riguarda l’agire sociale e quindi il ruolo che un soggetto ha in società. Faccio un esempio: se si tratta di andare a cena scelgo, se possibile, di andare in un posto nuovo perché questo mi permette di conoscere altre persone, quindi di fare un’ulteriore osservazione sociologica, di frequentare e di capire altri soggetti. Faccio un altro esempio di tipo applicativo: di fronte ad un’azione che può apparire violenta, che può apparire fuori posto, sono tendenzialmente portato a non reagire sull’immediato, a pormi sempre il problema di che cosa ci sia alle spalle di quella persona, che cosa ci sia prima, che cosa abbia prodotto quel tipo di comportamento e quindi in fondo faccio sociologia continuamente ma è una sociologia che, per quel che mi riguarda, è molto spinta all’interno non da una curiosità in senso generico, ma da una sensibilità nei confronti della persona umana in senso generale e quindi anche nei riguardi di soggetti che potrebbero apparire molto diversi, persino fastidiosi, difficili da trattare. Questo diventa, come dire, una sfida non solo scientifica ma pure sul piano umano. Riuscire a reggere, a mantenere un equilibrio, anche dinanzi ad affronti verbali, se non di altro tipo, è tutto sommato un esercizio che un sociologo, il quale abbia alle sue spalle tutto un bagaglio teorico-metodologico di prim’ordine, dovrebbe essere in grado di gestire almeno passabilmente, non dico nella maniera ideale, ma in modo tale da non produrre conseguenze che riguardano egli stesso ma soprattutto la persona con cui ha a che fare.

C. C.: Tenendo conto della sua esperienza intellettuale e personale e del fatto che si è occupato soprattutto del fenomeno religioso, fede e scienza sono mai entrate in contrasto, si sono sovrapposte nella sua analisi e soprattutto il principio di avalutatività è stato sempre una stella polare, un dogma scientifico?

Facciamo alcune premesse. La prima: ritengo che anche la teologia è una scienza, come naturalmente ritengono gli stessi teologi, e proprio perché scienza a 360 gradi, come le altre scienze, ha bisogno di dialogare con altre discipline. Non a caso ci sono già, anche se non maggioritari nel loro contesto disciplinare, degli studiosi di teologia che dicono di voler fare una scienza pratica, cioè attenta al dato che viene dalla sociologia o da altre scienze come la psicanalisi, la psicologia sociale, l’antropologia, la storia, la filosofia e così via. Ciò detto, preciso che ovviamente cerco di tenere a freno la mia valutatività in chiave di giudizi che potrebbero provenire da quella che può essere la mia matrice confessionale, la mia componente ideologica, la mia attitudine caratteriale. Poiché so che tutto questo per me ha un peso specifico non trascurabile faccio ogni sforzo possibile per evitare che il mio orientamento, il mio punto di vista sia in gioco nella fase in cui sto analizzando una fenomenologia. Naturalmente questo comporta anche dei prezzi da pagare. Ad esempio, talora ho avuto modo di entrare in garbata dialettica con uno studioso come Achille Ardigò (anche lui cattolico) il quale invece pensava che un sociologo dovesse essere anche religiosamente più militante. Lo stesso discorso naturalmente è valso sia ad intra che ad extra: ho cercato sempre di porvi rimedio. Come? Per esempio, facendo in modo che in tutte le mie indagini a carattere collettivo, specialmente quelle che mi vedevano come responsabile scientifico, ci fosse tra i ricercatori qualche studioso che la pensasse in maniera assolutamente diversa dalla mia, così da contemperare varie visioni, differenti interpretazioni. E questo è stato come dire un must, soprattutto nelle ricerche a largo raggio, di carattere nazionale o internazionale. Sentire anche altri punti di vista, compulsare altre sensibilità e mettere insieme il tutto sono serviti per arrivare a delle proposte finali anche più corroborate, dunque anche più sostenibili ed affidabili, tutto sommato. Orbene, non sono solo un sociologo, sono anche un cittadino, un operatore sociale, un soggetto impegnato in attività sociali. Non è che smetto di fare il sociologo quando sono più direttamente coinvolto, né faccio solo l’osservatore che prende, per quanto possibile, distanza dall’osservato o dalla realtà in osservazione. Ammetto che è difficile mantenere una dirittura precisa lungo questo crinale scivoloso, pericoloso, però è opportuno che lo scienziato sociale faccia tutto il possibile per usare al meglio la bussola dell’avalutatività, almeno tendenziale, perché ritengo che ove essa venisse meno ci sarebbe (uso un termine pesante) uno sbraco ideologico, nel senso che poi si parte da preconcetti e da pregiudizi, cioè da decisioni già prese, per cui, al limite, come dice qualcuno, non varrebbe neanche la pena di condurre alcuna ricerca visto che c’è già un risultato scontato. Qualcosa di simile mi è capitato soprattutto in alcune fasi storiche del nostro Paese: ricordo tutta la vicenda dei vari referenda sul divorzio e sull’aborto, sui quali avevo determinate posizioni personali ma non potevo metterle in gioco, altrimenti non avrei capito il pensiero dei soggetti che intervistavo o che cercavo di comprendere nei loro atteggiamenti ed anche nelle loro azioni. In definitiva l’avalutatività è più che altro una sorta di vigilanza scientifica e non una decisione di principio morale a monte. Come è facile immaginare, quando mi trovo di fronte a un fatto non posso dire che non mi interessa perché sto facendo il sociologo: esamino il caso specifico e decido il da farsi o meno. Su questo aspetto non nego di fare molta fatica a farmi capire, non solo in ambito scientifico e non solo in ambito ecclesiale. Evidentemente quando si va a criticare certi comportamenti dei vertici accademici od ecclesiali, non è da attendersi che i soggetti sottoposti a critica si pongano sulla medesima linea di chi li contesta. Questo discorso vale anche in ambito extra accademico ed extra ecclesiale dove per esempio il mio orientamento può essere abbastanza conosciuto ed in qualche caso può far problema. Allora cerco di non creare ulteriori occasioni di frattura, di distacco, di presa di distanza, ma cerco tutte le soluzioni possibili per mantenere comunque un legame, lasciare comunque aperta la possibilità di una comunicazione. Ecco in questo forse sono valutativo: non ritengo nessuno e nessuna quale mio nemico e mia nemica. Capisco anche che invece da parte altrui vi possa essere un orientamento diverso, che però va dato per scontato, giacché rientra nelle possibilità che di fatto si presentano.

C. C.: Professore, come la sociologia è stata un valore aggiunto per la sua vita accademica ed anche esperienziale?

Da giovanissimo non avevo che una vaga idea di quella che potesse essere la sociologia, disciplina non insegnata nelle scuole di allora, per di più. Ma ero, sin dal mio secondo decennio di età, particolarmente coinvolto in attività a carattere sociale: dalla formazione alla pratica sportiva, dal teatro all’arte. Tra le varie iniziative promosse, appena laureato, ricordo quella di un “Corso teorico-pratico di tecnica e linguaggio del cinema” con proiezioni e dibattiti su fotografia, musica, doppiaggio, montaggio, soggetto, sceneggiatura, regia, interpretazione. Nel frattempo facevo qualche esperienza in campo politico, come consigliere della Democrazia Cristiana di Cerignola in provincia di Foggia, aderendo alla corrente di Aldo Moro, una figura che per me rimane di riferimento pur a distanza di quasi mezzo secolo. Insomma era quella l’aria che respiravo, per cui lo sbocco verso la sociologia fu una conseguenza più che logica. Senza soluzione di continuità, la mia dedizione all’attività didattica e di ricerca era e resta un must proprio per la concezione che ho dell’accademia e della relazionalità. Spesso sono stato rimproverato per l’essermi schierato dalla parte degli studenti, cosa che non rimpiango e che anzi continuo a coltivare e prediligere. Tale posizione mi ha creato non pochi disagi, anche con alcuni colleghi docenti, piuttosto attenti a proteggere la loro immagine pubblica. Dagli studenti ai giovani studiosi il passo è facile: per questo ho proposto diverse esperienze rivolte ad un target costituito dalle nuove generazioni (per esempio: il Forum Nazionale Analisi Qualitativa, il VisualFest, il master interuniversitario in Sociologia: Teoria – Metodologia – Ricerca, l’Alta Scuola Internazionale di Sociologia, la Scuola di Alta Formazione in Sociologia della Religione). La mia convinzione profonda è che la sociologia sia un investimento di prim’ordine per la preparazione di cittadini consapevoli e critici, informati e saggi, riflessivi e previdenti. Questo è anche il significato del Nuovo manuale di sociologia (seconda edizione, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2018), in cui sono raccolti i contributi dei maggiori esponenti della sociologia italiana, quasi una sorta di lascito per la futura sociologia (e società) italiana, come ribadito nel mio capitolo conclusivo su “La sociologia e le sue potenzialità” (pp. 335-340).