LA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE DI SILVANO BURGALASSI

Roberto Cipriani


Premessa


            Certamente don Silvano Burgalassi, sacerdote e sociologo, rimane una figura centrale nella storia dello sviluppo registratosi nell’ambito della sociologia della religione in Italia. Quando egli iniziò a lavorare su tematiche attinenti il fenomeno religioso la disciplina di suo interesse si chiamava ancora sociologia religiosa e come tale era insegnata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, dove peraltro tale insegnamento ha sempre avuto vita difficile per diverse e contrastanti ragioni: in primo luogo per l’ostracismo di correnti intellettuali cattoliche che non vedevano bene l’insediamento di una materia tendenzialmente critica dell’organizzazione ecclesiale cattolica. Ma forse non era questa la ragione che portava pure l’allora rettore della Cattolica, lo storico Giuseppe Lazzati, a nutrire dubbi sulla validità scientifica della disciplina (come mi diceva personalmente al termine di un incontro di sociologia della religione tenutosi presso la sua università). Non si può peraltro dimenticare che lo stesso fondatore dell’ateneo cattolico milanese, il padre Agostino Gemelli, non era apparso del tutto favorevole all’avvento della nuova scienza sociale applicata al fenomeno religioso (come manifestò esplicitamente in occasione di un congresso nazionale di sociologia religiosa, della durata di due giorni incompleti, tenutosi a Milano nel marzo 1954; piuttosto critico fu anche il cardinal Schuster, arcivescovo di Milano; cfr. in proposito La sociologie religieuse en Italie. Communication du secrétariat de la Conférence Internazionale de Sociologie Religieuse,«Social Compass», 6, 1959, 4-5, pp. 117-121).


            Ma la tenacia, la capacità e l’impegno del professor Burgalassi ebbero la meglio su resistenze ed ostacoli di ogni tipo. Riuscì infatti a consolidare la presenza di una sociologia attenta al cattolicesimo ma non aliena dal muovere obiezioni problematiche rispetto ad un’ortodossia ferreamente applicata. Il timore altrui era che la sociologia soppiantasse la teologia, che l’indagine empirica prevalesse sulla riflessione astratta, che la ricerca scientificamente neutrale mortificasse il riferimento ai valori.


La questione del rapporto fra sociologia e teologia


            Ho avuto modo di conoscere don Silvano Burgalassi sin dagli inizi della sua fase pionieristica di studioso dedicatosi alla sociologia religiosa, come si diceva allora. Lo incontrai nel 1967 a Roma a Villa Nazareth, per un’intervista sullo stato della “sociologia religiosa in Italia”, in preparazione alla stesura della mia tesi di laurea sul medesimo argomento. Nel corso dell’intervista (cfr. Alle origini della sociologia della religione in Italia. Un colloquio di Roberto Cipriani con Silvano Burgalassi, «La Critica Sociologica», 29, 1995, 113, pp. 94-108)intervenne anche Federico D’Agostino, in procinto di partire per gli Stati Uniti – su suggerimento dello stesso Burgalassi – al fine di approfondire i suoi studi a carattere sociologico.


            L’obiettivo del sociologo pisano era quello di far superare alla sociologia una condizione di tipo ancillare nei riguardi della pastorale ed a tal fine si preoccupò di “predicare” soprattutto ai pastori d’anime – in più riprese ed in ogni dove – la sociologia come scienza autonoma e tuttavia non ostile all’azione della chiesa cattolica. Il suo fu un peregrinare diuturno, quasi senza soluzione di continuità, in gran parte delle diocesi italiane.


            Più tardi, nel 1970, egli pubblicò quella che forse è la sua opera più significativa, cioè Le cristianità nascoste. Dove va la cristianità italiana?, Edizioni Dehoniane, Bologna (cfr. la mia recensione in «Sociologia», 1970, 3, pp. 181-183), in cui si preoccupava di affermare – in relazione ad alcune suggestioni a carattere operativo-pastorale – che si trattava di «talune proposte di natura pratica che non rientrano, di per sé, in una visione rigorosamente scientifica del problema» (pag. 9), ma che venivano fornite «per la personale concezione dell’autore orientata verso una conoscenza “operativa”», ragion per cui «il lettore ci scusi: nel problema da noi affrontato è in gioco qualche cosa di più che non una struttura o delle modalità di azione: è in gioco il destino dell’uomo».


            Mentre tentava dunque di liberarsi della concezione relativa ad una sociologia “ancilla theologiae”, Burgalassi pagava lo scotto del suo essere sociologo e prete allo stesso tempo. Insomma non poteva rinunciare del tutto a farsi promotore od almeno suggeritore di alcune linee-guida.


            Invero Franz-Xaver Kaufmann, poi, nel suo Teologie in soziologischer Sicht del 1973 (tradotto in Italia con il titolo Sociologia e teologia. Rapporti e conflitti, Morcelliana, Brescia 1974) invitava ad un confronto rigoroso fra le due discipline (pag. 13), osservando in pari tempo che la sociologia pastorale sembrava in effetti una sorta di «ricerca di mercato ecclesiastica» (pag. 24) e che l’orientamento era più volto a studiare le parrocchie ed i parroci e non le diocesi ed i vescovi, o la Curia romana. Intanto però «rispondere alle domande rivolte alla teologia non è compito del sociologo» (pag. 49). D’altra parte, «qualora le Chiese facessero direttamente proprie le interpretazioni date dalle scienze sociali ai fenomeni religiosi e orientassero il proprio operare – per esempio, per quanto riguarda una ‘pastorale che abbia successo’ – secondo simili interpretazioni, ci sarebbe da temere che il contenuto significativo centrale del messaggio cristiano non possa più essere in grado di svolgere una funzione auto-critica nella Chiesa» (pp. 70-71). In definitiva Kaufmann riteneva che il suo stesso contributo contenesse solo «poche affermazioni sociologiche che potrebbero essere trasformate direttamente in raccomandazioni pastorali» (pag. 183). Insomma la sociologia della religione servirebbe più a comprendere che cos’è la chiesa che non a fornire ad essa indicazioni operative, cioè prassi da seguire.


            Le precisazioni dello studioso tedesco non giungevano a caso, dopo una lunga diatriba che anche nella prestigiosa rivista Concilium, 1, 1965, 3, pag.164, aveva dato luogo a confusioni e sovrapposizioni fra sociologia pastorale, teologia pastorale come teologia pratica, proponendo di «sottoporre ad un’analisi teologico-sociologica la situazione del tempo presente».


            Nonostante la vigorosa, puntuale, convincente e documentata messa a punto di Franz-Xaver Kaufmann i contatti ed i rapporti fra sociologia e teologia rimangono scarsi e superficiali anche oggi. Non si può dunque attribuire a Burgalassi il peso del mancato incontro fra le due prospettive in Italia. Le questioni sono ben più complesse di quanto si possa immaginare e rimontano a vicissitudini storiche remote e recenti, ostative di sviluppi virtuosi delle relazioni fra sociologia e teologia. In tale impasse il sociologo pisano si è trovato di fatto ad operare fra il 1954 ed il 1967.


La fase sociografica (1954-1967)


            Sarebbe interessante dedicare un apposito studio alla fase pionieristica della sociologia della religione in Italia, per coglierne le motivazioni iniziali, le problematiche sorte in ambito ecclesiale cattolico (ma non solo), nonché per approfondire le ragioni che hanno ritardato il suo sviluppo, piuttosto tardivo rispetto ad altre dinamiche in corso durante gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, specialmente in Francia ed in Belgio. I risultati di una simile analisi costituirebbero senz’altro un valido contributo ad una sociologia della conoscenza applicata alla nascita di una nuova disciplina scientifica in un contesto particolare come quello italiano, a forte dominanza cattolica.


            A partire dal 1954, presumibilmente come precipitato immediato del convegno citato sopra tenutosi alla Cattolica di Milano, Burgalassi diede inizio ad un’intensa attività “pubblicistica” che lo vide interessarsi nello stesso anno de “Il problema delle vocazioni religiose e del clero secolare in una Diocesi Toscana” («Orientamenti Sociali», X, 14, 1954, pp. 312-316). Nell’anno successivo egli rendeva conto di “Indagini sulla frequenza delle Sante Comunioni durante l’anno liturgico” («Orientamenti Pastorali», III, 4, 1955, pp. 45-59). E l’anno dopo pubblicava in merito ad una “Indagine sociologica sulla configurazione delle parrocchie e dei comuni e loro mutui rapporti” («Orientamenti Pastorali», IV, 1, 1956, pp. 66-80) ed anche un articolo relativo ad “Un problema di vitalità religiosa: la dilazione dei battesimi” («Orientamenti Pastorali», IV, 3, 1956, pp. 74-98); forniva infine un “Esempio di indagine schematica di una zona montuosa a carattere industriale” («Lettera agli Assistenti», 8, 1956, pp. 74-98). Proseguiva con “La vocazione in rapporto all’ambiente socio-religioso” («Sociologia religiosa», I, 1, 1957, pp. 71-99), discuteva su “La sociologia e gli studiosi cattolici” («Orientamenti Sociali», 14, 1958, p. 48) e proponeva una “Classificazione e tipologia nella sociologia religiosa” («Sociologia Religiosa», 3-4, 1959, pp. 95-150). Già nel 1957 aveva tracciato “Bilancio e prospettive della sociologia religiosa italiana” (I. C. A. S., Roma, 1957, pubblicato altresì in «Orientamenti Sociali», 13, 1957, pp. 176-187).


            Com’è facile arguire, si tratta di vari tentativi, condotti a più riprese e con insistenza, al fine di far accreditare la sociologia applicata al fenomeno religioso. La lunghezza dei testi varia da articoli più brevi a saggi assai più corposi, ma l’intento rimane unico: far passare attraverso le riviste di orientamento cattolico, sia a carattere sociale che pastorale, il nuovo “credo” della sociologia religiosa, che si era anche concretizzata nella pubblicazione periodica dal medesimo nome uscita per la prima volta nel 1957, ancora prima dunque dell’anno di svolta rappresentato dal convegno bolognese del 1958, organizzato dalla Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa (fondata un decennio prima a Lovanio in Belgio).


            Più tardi l’azione intrapresa continuava attraverso ulteriori studi che conducevano dapprima alla pubblicazione di “Aspetti e tendenze sociologiche in Italia: l’Eucarestia e i fedeli” (in Il Sacramento Eucaristico. Atti della XIII settimana di Aggiornamento Pastorale, Didascaleion, Milano, 1964, pp. 275-289, pubblicato anche in «Humanitas», XIX, 1, 1964, pp. 23-37 ed in «Studi di Sociologia», II, 2, aprile-giugno 1964, pp. 147-169). Pure la prestigiosa rivista bolognese Rassegna Italiana di Sociologia dava alle stampe un intervento di Silvano Burgalassi su “La sociologia religiosa in Italia: scienza giovane o malata?” («Rassegna Italiana di Sociologia», II, 2, aprile-giugno 1964, pp. 147-169). Successivamente il sociologo pisano scriveva di “Aspetti psico-sociologici della predicazione” («Rivista di Sociologia», III, 7, 1965, pp. 51-112), come pure di “Sociologia del cattolicesimo in Italia” («Orientamenti Pastorali», 5-6, 1965, ovvero «Lettera di Sociologia Religiosa», I, 2, 1965, pp. 123-147). Sempre nel 1965 editava un volume dal titolo Elementi per un’analisi della religiosità in Toscana (il Mulino, Bologna,1965). Invece era dedicato ai giovani un altro saggio dal titolo “I giovani e l’associazionismo oggi in Italia” («Cultura e Scuola», IV, 16, 1965, pp. 9-18). Nella citata rivista «Lettera di Sociologia Religiosa», ormai consolidatasi, Burgalassi scriveva inoltre di “Religiosità e mutamento sociale in Italia” («Lettera di Sociologia Religiosa», II, 1, 1966,pp. 1-14).


La fase post-pastorale e la nascita di nuovi interessi di ricerca (1967-1983)


            Probabilmente costituiva già un punto di svolta il volume burgalassiano del 1967 intitolato Italiani in Chiesa (Morcelliana, Brescia, 1967), per quanto ancorato ad un’impostazione che ancora risentiva di un orientamento pastorale, in effetti senza molta soluzione di continuità con alcuni studi del passato. Ma qui entrava maggiormente in campo il rigore statistico, insieme con una metodologia più attenta.


            Nel 1968 si aggiungeva il testo vallecchiano su Il comportamento religioso degli Italiani (Valecchi, Firenze, 1968). Anche in questo caso pesava l’ipoteca pastoralistica largamente presente nella terza parte dell’opera.


            Un carattere intraecclesiale avevano anche i due titoli dedicati alla crisi dei preti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si trattava de Il dramma degli ex preti (Queriniana, Brescia, 1969) e di Preti in crisi? (Esperienze, Fossano, 1970), in cui a ben leggere si poteva intravedere una sensibilità straordinaria al travagliato argomento, non lontano presumibilmente dal vissuto stesso dell’autore.


            I tempi però maturavano per un superamento di considerazioni ed interferenze di tipo teologico-pastorale. Si giungeva così a quello che è forse il contributo maggiore del Nostro: Le cristianità nascoste (Dehoniane, Bologna, 1970), anche se la già citata presenza di “proposte di natura pratica” ne inficiava almeno in parte la portata scientifica.


            Faceva seguito un volumetto più breve su La chiesa italiana tra passato e futuro (Paoline, Roma, 1971), che riprendeva in carico le istanze più propriamente pastorali, anche in funzione promozionale all’interno della chiesa cattolica, quasi a voler infondere coraggio ai pastori d’anime.


            Il testo pubblicato presso le Paoline era forse l’ultimo omaggio reso da don Silvano Burgalassi alla sua chiesa cattolica ed alle istanze di natura pastorale. Da quel momento in poi i suoi interessi si allargavano a dismisura su territori vasti ed inconsueti: guardavano al futuro, al cosmo, all’universo dei simboli, ai significati della vita. Non a caso passava da una sociologia della religione ad una sociologia generale come approccio a più larga gittata ma senza interrompere del tutto la continuità con il suo passato. In fondo quel titolo de La chiesa italiana tra passato e futuro era anche a carattere autobiografico: egli si avviava a fare i conti con se stesso, con il suo ruolo di studioso, con la sua attività religiosa di sacerdote cattolico.


            Non è facile ricostruire del tutto l’impianto complessivo della sua lunga dedizione alla sociologia religiosa prima ed alla sociologia della religione dopo. Egli ha dato molto, ha aperto strade, ha “sdoganato” una disciplina destinata ad essere marginale sia a livello accademico statale che nell’ambito delle stesse università d’ispirazione religiosa cattolica. La sua difficile mediazione merita una disamina ben più attenta di quella che si possa fare un po’ rapidamente ed anche rapsodicamente in questa sede.


            Dopo una lunga gestazione egli approdava già a metà degli anni settanta del secolo passato ad una prospettiva non più limitata all’ottica religiosa ma allargata verso altri e nuovi orizzonti.


            Egli cominciava a muoversi entro un contesto più orientato da attenzioni di tipo teorico generale e storico in particolare. L’avvio dei nuovi sviluppi coincideva con il primo saggio organico sugli anziani: L’età inutile (Pacini editore, Pisa, 1975). Ma forse il vero turning point è già evidente nel titolo stesso di un suo libro successivo: Una svolta antropologica. I paradigmi religiosi nei classici della sociologia (ETS, Pisa, 1979). Ancor più esplicito era però il riferimento che si rinveniva nell’altro testo cruciale che presentava Uno spiraglio sul futuro (Giardini, Pisa, 1980), con varie interpretazioni sociologiche sul mutamento in atto nella società contemporanea.


La fase pisana (1983-2004)


            L’ultima parte dell’opera scientifica di Burgalassi cominciava nel 1983 con il saggio La piazza del Duomo di Pisa, enciclopedia teologica di pietra e orologio cosmico (Giardini, Pisa, 1983), che trovava una naturale prosecuzione nel volume Per una storia della religiosità pisana (Pacini, Pisa, 1987). Egli nutriva grande amore per la sua città di adozione, per un doppio titolo, quello di canonico della cattedrale pisana e quello di professore ordinario nell’università di Pisa. Congiungendo dunque queste due posizioni in un’unica istanza egli si volgeva a considerare aspetti poco indagati della cultura pisana e della sua complessa simbologia.


            Faceva tutto questo a partire da una sua condizione di vita sempre più dedita a riflessioni interiori ma aperte sul mondo. Non è un caso che nel torno degli ultimi ani della sua vita seguisse due filoni parimenti importanti: quello della condizione esistenziale – e dunque della condizione di solitudine dell’anziano – e quello delle tradizioni culturali del suo luogo di residenza. Ne nascono studi straordinari per la loro vastità e per la finezza dell’approccio: i due volumi su Solitudine e solitudini. Teorie e risultati statistico-sociologici (ETS, Pisa, 1992, voll. I e II) e la poderosa opera postuma sul santo patrono di Pisa, cioè San Ranieri attraverso nove secoli di storia pisana (Edizioni ETS, Pisa, 2004), finita di stampare quando egli chiudeva la sua operosa esistenza.


            Ma anche in questa ultima fase un po’ diversa del suo percorso intellettuale non aveva trascurato di coltivare i suoi studi abituali alla ricerca di un punto di convergenza, magari anche dissonante, fra teologia, pastorale e sociologia.


            Egli cercava pure in autori non abituali (per esempio nella scuola tedesca di Gehlen) alcune conferme ai suoi punti di vista o nuovi spunti per l’avvio di ulteriori percorsi investigativi ed interpretativi. In tal modo arrivava a sostenere, appunto sulla scorta di Gehlen, che “la crisi dei giorni nostri (svolta antropologica) è pessimisticamente destinata ad aggravarsi proprio perché la velocità dei cambiamenti valoriali rende impossibile ogni riferimento pratico e costante agli altri, per il venir meno delle tradizioni, delle consuetudini, dei mores e, dunque, della possibilità di offrire alle giovani generazioni modelli congrui e coerenti di socializzazione. Il fenomeno della religiosità di chiesa viene dunque spostato al più generale fenomeno dei sistemi (antropologici) di riferimento globale, cioè ai valori (cosmi sacri), risposte ineliminabili ed ineludibili di ogni essere umano, alla ricerca del proprio senso o significato del vivere e del morire” (Silvano Burgalassi, “Per una lettura storicamente adeguata dell’evoluzione della sociologia religiosa europea”, «Studi di Sociologia», XXVI, 3-4, luglio-dicembre 1988, p. 268).


            Nello stesso articolo Burgalassi metteva in evidenza carenze e problemi della sociologia religiosa: l’assenza di una “teorizzazione adeguata” (p. 261), di una posizione critica nei riguardi del “religioso ecclesiastico” (p. 262), di concetti alternativi di secolarizzazione non desunti dagli “indicatori forniti dalle istituzioni religiose” (p. 262), di una resistenza al “peso dell’ideologia istituzionale ecclesiastica” (p. 262), di indicazioni empiriche adeguate per la “costruzione di una teoria dei processi generali di identità e di socializzazione (cosmo sacro)” (p. 262). Sembrava di leggere quasi un altro autore rispetto al Burgalassi solito, piuttosto impaniato nelle questioni di natura teologico-pastorale. Qui il suo pensiero era più riflessivo, cauto, prudente sul piano scientifico. Arrivava a dire del “prendere le distanze dagli affanni che condizionavano la sociologia religiosa europea degli anni ’60, affanni dovuti in gran parte all’essere essa coltivata specialmente da ecclesiasti e, pertanto, ispirata da quei profondi travagli pastorali che poi hanno condotto le chiese protestanti  ed ortodosse ai loro sinodi e quella cattolica al grande evento del Concilio Vaticano II” (p. 263). Si potrebbe dire in proposito all’autore: de te fabula narratur. Ma il discorso qui non è più applicabile perché Burgalassi stesso lo impedisce, tutto preso com’è a stigmatizzare dottrine e prescrizioni ed in particolare, per esempio in relazione al periodo post-tridentino, che “la teologia dell’epoca e, in special modo, l’ecclesiologia avevano con molta cura teorizzato non solo l’extra ecclesiam nulla salus ma anche una politica missionaria più in sintonia con l’assunto teologico del contra gentes, che non di quello ad gentes” (p. 263). Un Burgalassi pentito dunque? Un’evoluzione del suo punto di vista è innegabile. D’altra parte non era il primo a muovere critiche al peso della chiesa cattolica ed alla sua influenza su modi e contenuti della sociologia applicata al fenomeno religioso. Pure Gabriel Le Bras, fondatore di fatto della moderna sociologia della religione (o religiosa come si diceva allora), sin dal convegno di La Tourette in Francia nel 1953 aveva notato che la Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa risultava essere troppo legata all’istituzione cattolica: in effetti era divenuta “un’organizzazione pastorale e confessionale, cioè cattolica” (Karel Dobbelaere, “Société Internationale de Sociologie des Religions”, in William H. Swatos, ed., Enciclopedia of Religion and Society, Altamira Press, Walnut Creek-London-New Delhi, 1998, p.481).


            Ma perché Burgalassi in precedenza aveva tanto agito e scritto in piena consonanza con l’istituzione cattolica? La sua risposta era già data nel 1967 nel corso di un’intervista che gli feci: “io ho ritenuto più importante, anche ai fini dell’affermazione della sociologia religiosa, fare un discorso pastorale per sensibilizzare il clero e la gerarchia su questo argomento (e forse ora stiamo raccogliendo i risultati di questo) e quindi evidentemente la sociografia ha premesso un certo tipo di discorso che forse il sociologo rifiuta ma che secondo me è stato essenziale per sgombrare il campo…” (“Alle origini della sociologia della religione in Italia. Un colloquio di Roberto Cipriani con Silvano Burgalassi”, «La Critica Sociologica», 113, primavera 1995, p. 95).


            Quella di Burgalassi è stata pure una strategia quasi da marketing: “se il clero comincia ad avere familiarità, attraverso centinaia di conferenze a carattere informativo, con una disciplina subentrata alla pastorale […] ed incomincia ad apprezzarla, se, d’altra parte, i consigli pastorali cominciano a richiedere la costituzione di centri di ricerche, ritengo che tutto ciò sia non il frutto dei volumi e degli studi (molto difficili da comprendere a pieno) dei sociologi italiani e stranieri, ma il frutto di questa divulgazione” (p.96). Del resto era da considerare debitamente il “cammino in Italia tanto difficile, più che altrove, con una gerarchia attentissima a quello che si produce in campo religioso” (p. 97).


            In verità, tuttavia, almeno all’epoca il professor Burgalassi, che insegnava nelle università pontificie, non negava una relazione solidale fra pastorale e sociologia: “io ritengo indispensabile che il sociologo della religione abbia uno stretto contatto con il tecnico, con il canonista e con l’esperto di pastorale, per due motivi, molto chiari secondo me: un primo motivo è che nessun sociologo può interessarsi della religione se non recepisce dagli esperti della religione le categorie particolari, gli assunti, secondo i quali egli poi deve utilizzare quegli elementi meta-empirici, meta-sociologici che lo guideranno nel suo lavoro. Quindi secondo me, a meno che non si sia nello stesso tempo sociologi, pastori di anime, canonisti e teologi, bisogna ricorrere all’approccio interdisciplinare con gli esperti di materie religiose, onde impostare bene il lavoro, capire con chiarezza i limiti del proprio lavoro, interpretare bene alcune manifestazioni religiose la cui interpretazione esige il ricorso al teologo per verificarne la genuinità o meno, per verificarne l’ortodossia o meno…” (p. 99). Qui è evidente uno scivolamento verso ambiti tutti interni alla legittimazione confessionale ed alle scienze ecclesiastiche. C’è però da chiedersi se l’ultimo Burgalassi avrebbe ancora sottoscritto tali affermazioni. Sembrerebbe di no, almeno stando alle prese di posizione più recenti citate sopra.


            Ovviamente il discorso burgalassiano va anche contestualizzato storicamente. Occorre cioè fare i conti con la realtà del momento in cui tali affermazioni più remote venivano fatte. Ecco infatti che cosa diceva Burgalassi stesso, per chiarire ancor meglio quale fosse il suo punto di vista: “fino al Concilio ecumenico indubbiamente la mia opera, ed anche l’opera di altri, è stata vista con qualche perplessità. Però io ho insegnato nei seminari, ho insegnato anche prima d’allora alla «Pro Deo», sono andato nelle diocesi, ma non ho mai avuto nessun richiamo, nessuno mi ha mai detto «perché hai scritto questo?» o «come mai fai questo?». Niente. Al massimo mi hanno detto «sarebbe meglio che si occupasse di altre cose», e questo come un consiglio da amici, perché la cosa era delicata. Ma mai nessuna osservazione e nessuna critica. Dopo il Concilio ecumenico i vescovi italiani si sono convinti che qualcosa bisognava fare. E vedo con piacere quanti mi chiamano a tenere conferenze per il loro clero, una cosa delicatissima. E quando si chiama a fare conferenze al clero uno che parli con molta chiarezza, come parlo io…[…]… dicendo tante cose, dicendo pane al pane, vino al vino, vuol dire che si ha una certa fiducia. Non solo, ma in genere i vescovi mi richiamano e mi fanno impostare i piani pastorali. Il che significa che hanno fiducia che questa materia possa offrire delle serietà e delle garanzie” (p. 101).


            In occasione di un workshop su “Sociologia e Teologia di fronte al futuro” tenutosi a Trento il 3 marzo 1994 presso l’Istituto Trentino di Cultura ed organizzato dal compianto don Giuseppe Capraio, anch’egli sacerdote e sociologo di ottima formazione, Silvano Burgalassi interveniva in qualità di Coordinatore della Sezione di Sociologia della Religione dell’Associazione Italiana di Sociologia. Dopo aver ricordato la figura di un altro prete e sociologo, Giancarlo Milanesi, scomparso poco prima, il Nostro prendeva posizione sul tema dell’incontro ribadendo che fosse impensabile considerare la sociologia come una scienza non applicativa, poiché essa era nata anche con finalità operative e le sue conoscenze prodotte servivano a chiarire il senso dell’agire comune ed a prendere delle decisioni più razionali. Pertanto era naturale che il confronto con altri producesse un arricchimento reciproco, soprattutto se ciò comportava anche una verifica con l’intervento di specialisti. Di conseguenza le pre-comprensioni andavano rese esplicite. Inoltre l’empatia condivisa consentiva una forma particolare di partecipazione all’evento esaminato. Per quanto però riguardava il futuro esso non era affatto prevedibile su basi statistiche.


Conclusione


            Sovente don Silvano raccontava che secondo un’antica tradizione avrebbe avuto diritto – come titolare della chiesa di san Pierino a Pisa – a due schiave musulmane, che ovviamente non ha mai avute. Ha invece avuto molti allievi, da Federico D’Agostino a Giuseppe Giordan, da Massimo Ampola a Sergio Dei, per citare qualche nome. Anche suo nipote Marco Burgalassi, ora docente di ruolo nell’università Roma Tre, ne è degno seguace, per i suoi studi di storia del pensiero sociologico e per la sua competenza nel campo delle politiche sociali.


            Silvano Burgalassi ha offerto gran parte della sua vita, per oltre cinquant’anni, allo sviluppo dell’approccio sociologico alla religione. Il suo testamento scientifico è probabilmente da considerare la prefazione al volume di Giuseppe Giordan Dall’uno al molteplice. Dispositivi di legittimazione nell’epoca del pluralismo (Libreria Stampatori, Torino, 2003), in cui riprendendo la vexata quaestio dei rapporti fra teologia sociologia il Nostro ha offerto una visione equilibrata, bilanciata tra le due discipline: “la teologia fa un discorso all’interno di un sistema di premesse che non si presta facilmente a censura o a critica. Il discorso teologico è cioè un discorso autoreferenziale, in cui la ragione c’entra, ma come instrumentum fidei. La sociologia, invece, fa i conti con la realtà empirica; essa non si pone il problema di raggiungere la verità, quanto piuttosto di descrivere con la massima precisione l’esistente. Ad esempio la sociologia, in ambito religioso, mostra la congruenza, o la non congruenza, tra certi comportamenti e l’assunzione di certe verità di fede. In questo senso la sociologia può mettere in evidenza le contraddizioni di un certo comportamento religioso, o di una certa prassi religiosa, e questo non può non far riflettere il discorso teologico” (pp. 9-10). Inoltre “teologia e sociologia necessitano dell’apporto l’una dell’altra, non per contraddirsi, ma per completarsi. Ecco allora come la relazione tra teologia e sociologia può aiutare a superare gli steccati che inevitabilmente il confronto multiculturale comporta. Senza il confronto, la teologia rischia di non discutere mai se stessa, e la sociologia rischia di appiattirsi soltanto su quello che riesce a misurare” (p. 10). Dunque la sociologia farebbe riflettere la teologia, l’aiuterebbe a mettersi in discussione. Davvero una bella rivincita, in quest’ultimo esito! Non solo la sociologia è rivalutata ma aiuta anche la teologia a fare i conti con se stessa. Dopo aver tanto dovuto subire per difendere l’autonomia della sociologia, Burgalassi alla fine ha la meglio ed offre la sua soluzione di una conoscenza scientifica non più asservita a dettami teologico-pastorali ma del tutto indipendente e capace di dire qualcosa alla stessa teologia.