Roberto Cipriani
Premessa
Di solito un autore viene considerato un classico, sempre che lo meriti, solo dopo che si è conclusa la sua attività scientifica. Nel caso di Thomas Luckmann c’è stata una singolare anticipazione dei tempi. Egli è divenuto un classico da subito. Il suo volume sulla religione invisibile, dapprima pubblicato in lingua tedesca nel 1963 (Luckmann 1963) e poi in inglese nel 1967 – con l’aggiunta di due capitoli, il terzo su “The Anthropological Condition of Religion”, ed il settimo su “Modern Religious Themes”, ed il nuovo titolo (Luckmann 1967) scelto non dall’’autore ma dall’editore -, è stato immediatamente annoverato fra le opere classiche della sociologia della religione, cioè fra quei testi che uno studioso di scienze sociali della religione non può assolutamente ignorare e che uno studente frequentante corsi sociologici non può non leggere. Insomma The Invisible Religion è collocabile, sin dalla sua prima edizione, in una lista ideale di masterworks del pensiero sociologico, insieme con il saggio weberiano sull’etica protestante e quello durkheimiano sulle forme elementari della religione. E non a caso Luckmann sin dalle pagine di esordio del suo testo rende omaggio ai suoi illustri predecessori: “Sebbene le loro teorie siano così diverse, è significativo che sia Weber che Durkheim abbiano cercato la chiave per una comprensione della posizione sociale dell’individuo nello studio della religione” (Luckmann 1969: 11).
Ma vi è di più. Al di là del tributo così reso, il collegamento fra Durkheim e Luckmann è ben più netto di quanto il sociologo di Costanza voglia consapevolmente riconoscere. Vi è un passo durkheimiano ne Le forme elementari della vita religiosa (Durkheim 1973: 58) che sembra anticipare la proposta luckmanniana sulla religione invisibile: “Ma se nella definizione di religione si introduce la nozione chiesa, non se ne lasciano fuori, a un colpo, le religioni individuali? Non c’è società dove non ricorrano. Ogni Ojibway, come vedremo, ha il suo manitù personale, da lui scelto, al quale rende particolari doveri religiosi; il melanesiano delle isole Banks il suo tamaniu; il romano il suo genius; il cristiano il suo santo patrono e il suo angelo custode, etc. Tutti questi culti sembrano, per definizione, indipendenti da ogni idea di gruppo. E queste religioni individuali non solo sono frequentissime nella storia, ma alcuni oggi si chiedono se esse non siano predestinate a diventare la forma più alta della vita religiosa e se un giorno non resterà in piedi altro culto che quello da ciascuno creatosi liberamente nel suo foro interiore”.
La fortuna del concetto di religione invisibile
La pubblicazione di Das Problem der Religion in der modernen Gesellschaft nel 1963 e di The Invisible Religion nel 1967 suscitò pareri discordi. Vi fu chi salutò l’opera come un fatto innovativo e chi invece mostrò qualche riserva, anche rilevante. Riusciva difficile soprattutto accettare l’idea di religione in chiave di temi moderni, sconvolgendo tutta una serie di schemi definitori della religione, quasi sempre collegati all’idea di una dimensione soprannaturale di riferimento e ad un gruppo organizzato di pratica cultuale. In particolare la sociologia di ispirazione cattolica vedeva nell’interpretazione luckmanniana un ulteriore contributo, stavolta definitivo ed irreversibile, alla tesi della secolarizzazione e dell’eclissi del sacro. In quegli anni il dibattito era assai vivace – come hanno ben mostrato Karel Dobbelaere prima (1981) e Olivier Tschannen dopo (1992) – e vedeva in campo autori come Sabino Samele Acquaviva (1961), Charles Y. Glock e Rodney Stark (1965), Hermann Lübbe (1970), Bryan R. Wilson (1966), Peter L. Berger (1967; 1969), Thomas O’Dea (1967), Richard K. Fenn (1969; 1970; ed infine 1978), David Martin (1969; con una ripresa, più tardi: 1978).
Nonostante la sua vetustà (sono passati quasi quattro decenni dalla sua prima formulazione) l’idea di una religione invisibile tiene banco anche oggi e continua a riaffiorare nella dialettica scientifica (Besecke 2001). Ma invero, per quanto mi risulta, non è stata sottoposta al vaglio di specifiche e puntuali indagini sul campo. Quando lo è stata, sia pure in misura parziale, si è registrato un certo iato fra l’astrattezza della teoria e la concretezza del dato empirico (Cipriani 1978). Il suo valore resta semmai legato al taglio originale di una sociologia della conoscenza applicata al fenomeno religioso, secondo la prospettiva magistrale di The Social Construction of Reality, l’altro testo subito divenuto classico e scritto in quegli stessi anni da Peter L. Berger e Thomas Luckmann (1969). Invero la religione appare come il prodotto di una costruzione di significato operata a livello soggettivo attraverso quello collettivo. Si avrebbe così una formazione religiosa del Sé, caratteristica tipica di ogni individuo umano, unico depositario dell’esperienza religiosa. C’è però da obiettare se la concezione luckmanniana della religione corrisponda almeno in parte a quello che è il comune sentire nei riguardi della religione o se non rimanga una mera costruzione astratta, senza basi empiriche.
Secondo quello che è sotto gli occhi di tutti e che nessuna indagine ha potuto contestare, le religioni storicamente organizzate e consolidate sono tuttora attive e dominanti, con il peso della loro influenza dottrinale, simbolica, comportamentale. Ciò è vero per il cristianesimo come per l’islam, sia per l’induismo che per il buddismo, nel caso dell’ebraismo come in quello dello scintoismo.
Secondo Luckmann la religione non può limitarsi alla sola chiesa ma è qualcosa che concerne i nuovi valori dominanti della società contemporanea. Sarebbe soprattutto la sfera privata ad assumere il carattere di nuova forma sociale di religione.
Ed in effetti non mancano segnali anche consistenti di “modern religious themes” all’interno dei vecchi contesti ideologici confessionali.
Come spiegare altrimenti anche gli esiti post-comunisti in Polonia, quelli post-Tito nei paesi già iugoslavi e più di recente quelli post-talebani in Afghanistan?
Insomma dalle macerie dei vecchi stati e delle vecchie forme religiose sembrano sbocciare nuovi aneliti che si manifestano attraverso scelte ed azioni sociali improntate a modelli di individualismo, familismo, autonomia, auto-realizzazione ed auto-espressione (in particolare mediante la sessualità e la mobilità). Si tratta soprattutto della sfera del privato, che riesce ad esprimersi in forme piuttosto indipendenti. Ma intanto c’è da chiedersi se si è di fronte ad una novità assoluta o se invece i temi religiosi moderni non siano piuttosto antichi, cioè una costante dell’agire individuale e sociale. In fondo la nuova morale altro non sarebbe che la sedimentazione di preesistenti filoni più o meno sotterranei ed incorporati da tempo nelle modalità religiose tradizionali, ma non affioranti solo per ragioni contingenti: l’assenza di ricerche in proposito ed il forte peso del controllo sociale – se non pure di quello a carattere poliziesco, rintracciabile in alcuni contesti storici e geografici peculiari -.
Valga come esempio la traiettoria sociologica del movimento polacco di Solidarnosc. Il suo legame con la chiesa cattolica polacca è stato utile per qualche tempo. Poi, a liberazione dal sistema comunista avvenuta, la sua influenza ha cominciato a perdere lena, sino a ridursi di molto. Nel frattempo altre istanze, individualiste e familiste, hanno avuto modo di prevalere, intaccando la precedente solidarietà fra movimento politico-sindacale ed appartenenza religiosa. Ed oggi la pratica religiosa, sebbene ancora alta a confronto con quella di altre nazioni europee, segna il passo, anzi retrocede, di fronte alle nuove esigenze moderne delle generazioni in crescita, non consapevoli delle esperienze precedenti e peraltro non restie ad accogliere le ventate occidentalizzanti (e secolarizzanti) del consumismo e dell’uso del tempo libero. Ma ciò è avvenuto non solo per il trapasso da una coorte di età ad un’altra bensì anche per germi previi che già operavano nella formale e compatta solidarietà di facciata del passato. Così anche nella Polonia tendenzialmente sacralizzata erano in nuce i prodromi di una secolarizzazione a venire. Infatti “i sondaggi d’opinione hanno evidenziato una diminuzione della fiducia nella chiesa dall’82% nel 1990 al 57% nel 1992 e una decrescente accettazione del suo coinvolgimento nella vita politica polacca” (Jasinska-Kania 1995: 451).
Per completezza di discorso si deve però precisare che tutto questo non ha comportato il totale superamento dell’esperienza religiosa cattolica ma ha semmai favorito il riaffiorare di spinte presenti precedentemente ma non del tutto manifeste e visibili (Erenc, Wszeborowski 1993; Gorlach, Sarega 1993). Insomma anche nel polacco credente e praticante si annidava il soggetto individualista e familista, tutto proteso all’auto-realizzazione ed all’auto-espressione. Ancora una volta si mostra così il carattere ambiguo, ambivalente della secolarizzazione: essa sembra erodere l’istituzione religiosa, ma in realtà non fa che favorire i fattori portanti di un’adesione assai composita, fatta di consensi sui valori e di dissensi nei fatti, di decisioni corrive e di scelte contrastanti. Il nuovo modo di credere supera il modello religione-di-chiesa ma lo riadatta ai nuovi ambiti comportamentali che esaltano l’autonomia e l’indipendenza individuale.
Luckmann ritiene inoltre che il cosmo sacro moderno abbia una relativa instabilità che dipende dai diversi strati sociali in cui esso è esperito, come prova ulteriore dell’incoerenza e della disarticolazione interna. In effetti, ricorda lo stesso Luckmann, i temi religiosi tradizionali ed abituali vengono risistemati nell’orbita del secolare e del privato, specialmente da parte dei giovani e di quanti vivono in contesti urbani. Parrebbe avverarsi così la previsione durkheimiana di una religione tutta individuale, cioè fondata sulle decisioni del singolo, assunte nel suo foro interiore come direbbero gli studiosi di morale.
L’esasperazione dell’individualismo viene poi definita da Robert N. Bellah e dai suoi collaboratori (1996) con il termine di “Sheilaism”, cioè come forma religiosa del tutto personale che dunque può prendere il nome dal soggetto stesso (Sheila Larson) che la incarna: “Io credo in Dio. Non sono una religiosa fanatica. Non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che sono andata in chiesa. La mia fede mi ha fatto fare molta strada. È lo Sheilaismo. La mia piccola voce interiore” (Bellah 1996: 281). D’altro canto, come Bellah chiarisce bene, l’individualismo religioso può essere presente nella stessa “church religion”, ma le sue radici storiche vanno indietro nel tempo, sino al diciottesimo secolo ed al caso esemplare di Anne Hutchinson che “cominciò a trarre le proprie conclusioni teologiche dalle sue esperienze religiose e ad insegnarle agli altri, conclusioni che si discostavano da quelle del clero ufficiale” (Bellah 1996: 294). Ma ancor più tipico è il caso di individualismo religioso manifestato da Tim Eichelberger: “Io mi sento religioso in un certo senso. Non ho alcuna affiliazione o qualcosa di simile” (Bellah 1996: 295). Per questi soggetti, proprio come nella religione invisibile ipotizzata da Luckmann, uno degli obiettivi principali è la “self-realization” (Bellah 1996: 295). Inoltre essi sono spesso assai critici della religione istituzionale (Bellah 1996: 296).
La religione invisibile in Italia
In Italia una prima risposta alla provocazione luckmanniana giunse nel 1970 con una ricerca condotta dal prete-sociologo Silvano Burgalassi, che di certo dietro ispirazione de La religione invisibile fu indotto ad intitolare il suo lavoro come Le cristianità nascoste. Ma, al di là del richiamo del titolo, l’indagine di Burgalassi non adotta la religione invisibile come schema-guida del suo studio.
Ciò è avvenuto invece mediante un’ampia ed approfondita inchiesta, cui Luckmann stesso, insieme con altri studiosi quali Rock Caporale e Bryan Wilson, diede il suo apporto nella fase di impostazione teorica e metodologica. Era un’indagine a largo raggio (diretta da Sabino Samele Acquaviva ed Antonio Grumelli) in due regioni italiane, il Veneto e l’Abruzzo e Molise, in particolare l’asse industriale Padova-Venezia e le aree in via di sviluppo nelle province di Chieti, Pescara e Campobasso. Si pensava di seguire l’evoluzione del fenomeno di secolarizzazione lungo il continuum antichità-modernità. Le categorie di analisi utilizzate furono quelle della razionalizzazione, dell’urbanizzazione e del pluralismo, della privatizzazione e della separazione tra religione e società, con la conseguente emarginazione della chiesa come struttura, con i mutamenti nel mondo dei simboli, con la carenza di significato dell’esistenza (Cipriani 1978: 12).
In realtà la religione non si può definire solo come un equivalente delle forme tradizionali di organizzazione ecclesiale. Sulla base di tale asserzione Luckmann propone di concepire la religione soprattutto come una serie di manifestazioni che nulla hanno a che vedere con la chiesa come istituzione. Ciò conferma il gap tra il modello della religione ufficiale ed il vissuto quotidiano, divario che assume connotati di drammaticità quando il magistero ecclesiastico sembra poter risolvere ogni situazione facendo ricorso ad una astratta elencazione di norme che non aiutano a superare i dubbi e non tengono conto dell’incessante mutamento della realtà sociale (Cipriani 1978: 13).
In definitiva per l’Italia si potrebbe parlare in pari tempo di religione diffusa e di secolarizzazione diffusa, ma quest’ultima espressione non avrebbe i contenuti individuati da Nicholas J. Demerath III (2001: 225) in altro contesto.
L’indagine in Abruzzo e Molise
I dati con cui viene qui effettuato il confronto sono quelli relativi all’area abruzzese-molisana, nell’ambito dell’approccio complessivo che prevedeva 400 interviste. La rilevazione effettuata nei primi anni settanta non diede luogo a conferme della prospettiva luckmanniana: la mobilità territoriale appariva scarsa, quella socio-economica un po’ più accentuata ma senza sbalzi notevoli; le attività svolte nel tempo libero non sembravano numerose; profondo e diffuso era invece il familismo. Infatti in proposito si notava un esasperato individualismo che si esprimeva nell’interesse per il microcosmo familiare, con un rifiuto pressoché totale del macrocosmo sociale. Il desiderio di contribuire al benessere della comunità restava una velleità, dato che mancava una predisposizione alla socialità. La ricerca del benessere materiale rimaneva comunque una voce preminente, come del resto si rilevava pure in altre indagini. Il consumismo aveva raggiunto anche le zone rurali; il risparmio non attraeva più come nel passato; pochissimi erano quelli che si accontentavano di quanto già possedessero (Cipriani 1978: 42).
A ciò si aggiunga che il familismo, per altro verso, si riaffacciava nell’indicazione delle qualità di una donna ideale, vista soprattutto come una “brava” madre, una “brava” moglie, una “brava” donna di casa. Per questo oltre il 60% del campione affermava che la donna non dovesse avere importanti incarichi di lavoro e dovesse collaborare alla carriera del marito, imparando perciò a saper vivere in società. Lo stesso 55% di intervistati residenti nelle province e propensi a far lavorare la moglie fuori casa probabilmente pensava piuttosto al tornaconto familiare che non al rispetto dei bisogni di autonomia e di autogestione della propria vita da parte della donna (Cipriani 1978: 45).
Infine, per rendere conto moralmente delle proprie azioni gli intervistati facevano riferimento quasi esclusivamente alla propria coscienza, posta al di sopra della stessa realtà superiore. Degli altri individui si aveva scarsa considerazione perché non si riteneva di dovere rendere ragione ad essi del proprio operato. Anche le motivazioni che inducevano al matrimonio rientravano nel quadro tipico del familismo: si cercava la soddisfazione di avere dei figli ed un coniuge che fosse di aiuto durante la propria esistenza. Era però la componente sessuale che risultava senza dubbio la più importante in tutte le zone dell’indagine (Cipriani 1978: 47).
Sulla base di tali premesse empiriche non riusciva difficile concludere nei termini che qui si citano come probanti ancor oggi, a distanza di circa un ventennio. Infatti sembrerebbe che sesso e famiglia siano proprio quei temi predominanti del cosmo sacro moderno di cui parla Thomas Luckmann con riferimento alla cosiddetta “religione invisibile”, in cui l’autoespressione e l’autorealizzazione della sessualità nonché la famiglia quale fonte di significanza “ultima” per l’individuo asserragliato nella “sfera privata” occupano un posto-chiave, tanto più se i due elementi sono strettamente legati fra loro (Cipriani 1978: ibidem).
Tuttavia questi dati non sono sufficienti di per sé a sostenere l’ipotesi della religione invisibile come sostituto più o meno funzionale della cosiddetta religione-di-chiesa, giacché quest’ultima è ancora ben attestata e documentata dalla nostra e da altre indagini. Quasi l’80% dei rispondenti dice di credere in Dio, ma non ha una chiara idea o immagine di che cosa sia tale realtà superiore, tanto da far pensare ad una crisi della rappresentazione di Dio. Peraltro un eventuale rifiuto della religione istituzionale non trova sbocchi alternativi consistenti e gratificanti. Inoltre una certa avversione verso la chiesa cattolica come organizzazione riguarda solo determinati aspetti e di rado coinvolge gli elementi costitutivi della credenza. Insomma c’è una costante del processo di secolarizzazione: massima adesione ai valori di base e minimo consenso all’ordinamento organizzativo-burocratico di chiesa (Cipriani 1978: 59). Vi è dunque una tensione fra individuo ed istituzione, per cui risulta che la religione-di-chiesa è inadeguata alle istanze di base della popolazione: circa il 50% segue la dottrina ufficiale ma il 41% fa un’opzione personalizzata, in chiave di razionalizzazione dell’agire. Intanto però la fiducia complessiva nel ruolo della chiesa non registra cadute rilevanti. Infatti il nostro campione d’indagine è indubbiamente favorevole ad una chiesa tradizionalista ma nello stesso tempo è in larga parte possibilista nei confronti di una chiesa che muti le condizioni attuali della società: sono qui evidenti per un verso l’esigenza di salvaguardare il passato e contemporaneamente la volontà di un cambiamento ritenuto indilazionabile (Cipriani 1978: 61-2).
Un’altra utile indicazione proviene da un’apposita tabella sul rapporto tra religione e società. Ovviamente nelle zone meno urbanizzate dell’Abruzzo e del Molise i dati appaiono abbastanza più in linea con la religione ufficiale, intanto però nei capoluoghi di provincia le differenze si notano e di fatto distinguono tra una religione istituzionale ed una religione soggettiva, o per dirla con James (1998: 45) “siamo colpiti da una grande suddivisione nell’ambito religioso: da un lato troviamo la religione istituzionale, dall’altro quella personale. Come dice Paul Sabatier, un ramo della religione privilegia la prospettiva della divinità, l’altra quella dell’uomo. Culto e sacrifico, procedure per influire sulle decisioni della divinità, teologia, liturgia e organizzazione ecclesiastica sono gli elementi essenziali della religione nel ramo istituzionale. Limitassimo a questo la nostra indagine, dovremmo definire la religione come un’arte esteriore, l’arte di conquistare il favore degli dei. Al contrario, nel ramo più personale della religione è la disposizione interiore dell’uomo stesso che costituisce il centro di interesse, la sua coscienza, le sue aridità desertiche, la sua disperazione, la sua incompletezza. E sebbene il favore di Dio, in quanto perduto o guadagnato, sia sempre un fattore essenziale della storia, e la teologia vi giochi una parte vitale, tuttavia gli atti a cui spinge questo tipo di religione sono personali e non rituali, l’individuo affronta la questione per se stessa e l’organizzazione ecclesiastica, con i suoi sacerdoti e i sacramenti e gli altri elementi intermedi, scende in una posizione assolutamente secondaria. Il rapporto va direttamente da cuore a cuore, da anima ad anima, tra l’uomo e il suo Creatore”.
I risultati dell’inchiesta
Ed ecco i risultati in percentuale ottenuti nell’indagine abruzzese-molisana:
1) la chiesa è importante perché con la sua organizzazione riesce ad unire gli individui tra loro: 57%;
2) per sentirsi uniti tra di loro i credenti non hanno bisogno di una chiesa organizzata: 5%;
3) la religione è un fatto privato, l’individuo non ha bisogno di vivere con gli altri, gli basta rispettare alcuni principi: 15%;
4) la religione è un’esperienza così intima che ogni individuo la vive a modo suo, come se egli fosse chiesa per se stesso: 22%.
Si evidenzia qui una chiara distinzione fra due universi differenziati: il 57% più legato alla religione-di-chiesa, il 42% che mantiene la credenza ma non si affida alla chiesa e la vive nella sua sfera privata. Ma a dire il vero tale privatizzazione della religione non è certo (o almeno non è ancora) la religione invisibile di Luckmann. Qui ancora una volta potrebbe applicarsi la definizione di una religione diffusa intesa come legame con una particolare forma di credenza religiosa e dunque di religione-di-chiesa. Da tale contingenza ha origine il flusso canalizzato che permea, in forme di intensità graduata, l’azione sociale di quanti in una o più occasioni manifestano concretamente l’esistenza di inputs pregressi, debitamente introiettati e poi rivissuti, recuperati, fatti riemergere (Cipriani 1988: 15-6). Tale religione diffusa è in primo luogo un fenomeno globale intimamente legato al più vasto set di valori e modelli di comportamento, senza profonde fratture, ma con aggiustamenti di volta in volta resi praticabili per il bisogno di superare comunque momenti e motivi di impasse (Cipriani 1988: 14-5). In effetti “le variabili nella ‘religione diffusa’ sono … più mutevoli in base alle sintesi che essa produce di volta in volta. Tali sintesi si realizzano a livelli definiti dalla dialettica fra i valori di base della legittimazione primaria e secondaria e quelli ‘diversi’ che appaiono all’orizzonte nel lungo confronto con altre prospettive ideologiche. Il ‘nuovo’ valore è interiorizzato ma quasi mai è assunto in una forma del tutto pura o con una modalità che possa rimpiazzare completamente la prospettiva preesistente. Il nuovo modo di vedere la realtà, la diversa Weltanschauung, è, comunque, il risultato dell’incontro-scontro tra ciò che già esiste e ciò che è ancora in fase di divenire. La ‘religione diffusa’ diventa perciò dominante proprio dove c’è una precedente, dominante forma fideistica di religione. Se così non fosse, l’esito delle interazioni sociali produrrebbe sedimenti abbastanza differenti che sarebbero tipici di situazioni multiculturali, e perciò pluriconfessionali” (Cipriani 1989: 29).
Una formulazione ancor più chiara di ciò che si intende per religione diffusa precisa che “il termine ‘diffusa’ è da intendere almeno in un duplice significato. Innanzitutto, essa è diffusa in quanto comprende ampie quote della popolazione italiana e va oltre i soli limiti della religione-di-chiesa; talora infatti è in aperto contrasto con la religione-di-chiesa per motivi religiosi (cfr. il dissenso interno al cattolicesimo in occasione del referendum sull’aborto e sul divorzio). Inoltre, essa si è espansa poiché si è mostrata come il precipitato storico-culturale di una presenza quasi bimillenaria dell’istituzione cattolica in Italia e della sua azione socializzatrice e legittimatrice. Le premesse dell’attuale ‘religione diffusa’ sono state poste nel corso dei secoli. In effetti essa è sia diffusa in che per.(Cipriani 1984: 32).
In definitiva “la teoria di Thomas Luckmann sulla ‘religione invisibile’ ha destato particolare attenzione da parte dei sociologi italiani, anche se non sempre ha riscosso consenso scientifico. L’idea di una sostituzione funzionale della religione-di-chiesa con una serie di elementi quali ‘autonomia individuale, auto-espressione, auto-realizzazione, ethos della mobilità, sesso e familismo’ si è sviluppata di pari passo con la teoria della secolarizzazione. Dunque la ‘religione invisibile’ concepita da Thomas Luckmann, che si basa sull’assunto di una crisi dell’apparato istituzionale, sembra essere applicabile solo in relazione a certi aspetti della moderna società italiana, e non elimina del tutto la cosiddetta religione-di-chiesa” (Cipriani 1984: 30).
Semmai una forma di religione invisibile all’interno sia della religione-di-chiesa sia della religione diffusa può essere rappresentata dalla preghiera, cosicché alla fine l’esperienza religiosa più praticata, in pubblico o/e in privato, è proprio il rivolgersi a Dio ed ai santi. Insomma gli italiani che pregano sono molto più numerosi di quelli che vanno a messa. E tale loro comportamento ha spesso luogo in forma non visibile, quasi in segreto. Già l’indagine in Abruzzo e Molise segnalava questo dato (nei capoluoghi di provincia):
1) non pregano mai: 5%;
2) pregano qualche volta o in occasione di alcune ricorrenze religiose o soltanto in certi momenti difficili: 49%;
3) pregano varie volte: 16%;
4) pregano tutti i giorni o quasi: 29%.
In pratica un terzo della popolazione è abituata alla preghiera quotidiana, la maggioranza prega meno, ma solo una minoranza si astiene del tutto da tale modalità di espressione religiosa. Una simile maggioranza ‘silenziosa’ o/e ‘invisibile’ costituirebbe il nucleo principale della cosiddetta religione diffusa, che mantiene un suo continuum con la religione-di-chiesa ma senza divergerne totalmente, pur incorporando anche una buona parte dei temi moderni della religione invisibile alla Luckmann.
Il confronto con l’approccio di Thomas Luckmann
Le ipotesi luckmanniane non sono facilmente verificabili. Tutt’al più sembrano avere una apprezzabile efficacia analitica le sole linee teoriche generali della cosiddetta ‘religione invisibile’. Si può dire che la proposta di Luckmann riesce utilissima sul piano metodologico, a patto che non si vogliano forzare i termini del suo discorso conclusivo sino a renderlo universalmente ed aprioristicamente valido. Proprio questo non è, in quanto si oppongono ad un’accettazione incondizionata della teoria luckmanniana le discordanze con essa da noi accertate: non vi è una rimarchevole mobilità territoriale, la religione non ha perso la sua ‘significanza ultima’ e non è stata soppiantata da altre forme alternative di orientamento della vita. Con ciò non vogliamo negare la privatizzazione del fatto religioso, l’isolazionismo, le carenze di socialità, l’evidente utilitarismo, il consumismo e gli altri caratteri tipici di una società secolarizzata. Tuttavia ci preme sottolineare che la maggior parte di tali fenomeni non costituisce una novità nel tessuto sociale del nostro paese, giacché ad esempio la scarsa apertura sociale e la ricerca dell’esclusivo vantaggio personale sono retaggi di una cultura del passato che d’altronde è comune ad altri contesti, anche al di fuori del continente europeo e di quello nordamericano.
Va condivisa, invece, perché coglie nel segno, l’osservazione diligente e penetrante della crisi istituzionale della chiesa, i cui modelli ufficiali subiscono un’estesa erosione, se si appura, come nelle nostre indagini, che l’insegnamento della gerarchia riscuote un credito minimo.
Ponendo in discussione le idee di Luckmann non possiamo, inoltre, esimerci dall’affrontare due aspetti nodali della ‘religione invisibile’: la famiglia e il sesso.
Per la prima c’è da dire che l’universo della nostra ricerca ha fornito dati inequivocabili, che confermerebbero le tesi del sociologo tedesco, sia pure parzialmente giacché il familismo non mette da parte i fattori religiosi ed anzi spesso opera un loro recupero, altrimenti poco realizzabile: non per nulla la religione occupa uno dei primi posti nella graduatoria dei valori costruita dagli stessi intervistati. Per non dire, poi, che il familismo italiano (e delle regioni meridionali in special modo) ha radici storiche che affondano nel passato di una cultura plurisecolare.
Per il sesso non pare si debba parlare di un tema dominante nel senso più completo del termine. Non mettiamo in dubbio quanto già abbiamo rilevato nell’interpretazione dei dati: il tema della sessualità quando si disvela appare nelle sue vere dimensioni di realtà fondamentale nella vita. Ma ciò non accade sempre, ragion per cui non ce la sentiamo di attribuire al fatto sessuale la valenza di sostituto funzionale della religione. Una siffatta ‘sessualità reticente’ non pare raggiungere livelli di ‘significanza ultima’.
Anche l’individualismo va spiegato con termini diversi da quelli usati da Luckmann. Esso va ascritto, in misura non trascurabile, alla religione-di-chiesa che con il personalismo delle pratiche devozionali, con la preminenza data al travaglio intimistico-individualista e con l’imbrigliamento delle tensioni sociali più spontanee ha impedito lo sviluppo di una sensibilità verso gli altri non circoscritta alla panacea delle opere di beneficenza che gratificano più i ‘benefattori’ che i beneficiati. Dunque l’individualismo nasce sul terreno stesso della religione-di-chiesa e, in linea di massima, non si contrappone ad essa. Anzi la privatizzazione del fatto religioso è un precipitato tipico della religiosità ecclesiastica, benché talvolta i suoi risultati ultimi comportino una presa di posizione nei riguardi della istituzione religiosa (Cipriani 1978: 69-70).
Continuità e mutamento nelle indagini sulla religione in Italia
Segnatamente illuminante per un’ulteriore verifica delle ipotesi di Luckmann è la dinamica registrata dalle varie inchieste condotte nell’ambito del progetto denominato European Values Study, implementato nel 1981 e proseguito nel 1990 (Capraro 1995) e nel 1999 (Gubert 2000; Abbruzzese 2000). Lo studio ha riguardato un universo di 2000 persone, scelte come campione rappresentativo, cui è stato somministrato un ampio questionario.
L’83% degli italiani interrogati si dichiara una persona religiosa sia nel 1981 che nel 1999 (ma nel 1990 la percentuale era scesa all’80%). Risulta in aumento il dedicarsi alla preghiera ed alla meditazione: si passa dal 72% del 1981 al 73% del 1990 ed al 77% del 1999. Appare in crescita pure la credenza in Dio: era all’84% nel 1981, poi all’83% nel 1990, ma all’88% nel 1999.
In questo quadro piuttosto caratterizzato da ortodossia ed ortoprassi, non manca tuttavia qualche chiusura verso l’altro, insieme con qualche resistenza territoriale: “preferiscono garantirsi una rigida serie di privilegi di gruppo. In mancanza di lavoro le precedenze sono chiare: gli italiani prima degli stranieri, la gente del posto prima di quella di altre località, gli uomini prima delle donne” (Abbruzzese 2000: 452-3). Si attestano dunque e trovano conferma le spinte individualiste e familiste.
In pratica “la dimensione religiosa sopravvive nel contesto di una società secolarizzata, essa produce ancora una pratica e lega ancora delle collettività di credenti; e questo accade in modo del tutto inatteso rispetto ad una tendenza storica che voleva la pratica religiosa in costante diminuzione con il progredire della laicizzazione delle coscienze e l’individualismo dei comportamenti” (Abbruzzese 2000: 453).
Quindi si rivelano compossibili e compatibili sia la tenuta (se non l’aumento) della pratica religiosa sia il diffondersi dell’egoismo soggettivo. La religiosità rimane costante ma la secolarizzazione procede. Questo è il paradosso italiano. “Oggi, permanendo non solo gli elementi di secolarizzazione e di laicizzazione come tratto dominante, ma anche sussistendo una vera e propria crisi delle diverse sensibilità culturali, l’intreccio tra appartenenza religiosa e società civile e quindi quello tra etica religiosa e etica civile non può risolversi che in modo problematico … Ciò dà la misura della diversità del processo di secolarizzazione in Italia rispetto alla tendenza europea (in particolare rispetto a quella francese) ma costringe anche ad interrogarsi sulle valenze e le potenzialità di questa sensibilità religiosa tutta interna alla società contemporanea, tutta iscritta all’interno di quello stesso processo di secolarizzazione che da cinque secoli è il segnale compiuto dell’avvento della società moderna” (Abbruzzese 2000: 454).
Questa peculiarità non era sfuggita a Robert N. Bellah (1974) che, in occasione di una sua research visit in Italia nel 1972, aveva individuato una sorta di religious ground bass, una religione reale contrapposta a quella ufficiale. Le altre quattro religioni degli italiani sarebbero il cattolicesimo legale (di chiesa), il liberalismo, l’attivismo ed il socialismo. Vi è qui un manifesto intento di applicare il modello della religione civile ad un quadro sociologico assai diverso dagli Stati Uniti.
La religione civile degli italiani avrebbe una forte venatura particolaristica, attenta “alla famiglia, al clan, ai gruppi di pseudo-parentela come la mafia, al villaggio, alla città, alla fazione ed alla cricca” (Bellah 1974: 445).
Una conferma dello scarso impegno civile a fronte di un’alta pratica religiosa, specie nel meridione italiano, viene anche dallo studio sul campo di Robert Putnam (1993). Ma tale dato è contestabile, se si considera che proprio in Sicilia, ad esempio, è presente un marcato orientamento di valori religiosi a carattere universalistico (Cipriani 1992). Nuova e vecchia religiosità convivono senza particolari conflitti. Infatti si registrerebbe “la permanenza di una forte religiosità che conserva un altrettanto forte riferimento alla Chiesa e che costituisce una norma di condotta capace di alimentare senso civico, dall’altra, la presenza diffusa di una religiosità consuetudinaria e poco vincolante sul piano del giudizio morale e della condotta civile. Sarebbe però arbitrario assimilare la religiosità diffusa alla religiosità popolare ed al basso continuo della religiosità particolaristica” (Gucciardo 2001: 109). Ciò emerge da un’inchiesta sui valori e sui modelli di comportamento di studenti universitari di Palermo (Gucciardo 1997).
Sempre a proposito di valori, un’altra indagine siciliana (Cipriani 1992: 347) ha accertato che vi è “un rientro dei valori religiosi, sotto altra veste, non ecclesiale ma pubblica. Tali valori, che travalicano i confini della mera religione-di-chiesa, abbracciano molti generi di esperienza e di relazione, di difformità come di distacco dalla chiesa e di religione diffusa vissuta quale condizione prevalente. È giusto questo tutto l’arco della religione dei valori, in cui onestà, lealtà e tolleranza riscuotono ampi consensi ma possono invero lasciare irrisolto il problema della coerenza fra pensiero espresso e condotta reale”. Luckmann (1990: 67) riconosce che nel passato il problema della trasmissione dei valori era stato risolto brillantemente a livello pastorale ma che non trova facile soluzione al presente.
Sul piano dei valori particolaristici il dato siciliano al primo posto è quello del familismo con il 62,6% mentre l’individualismo non va oltre il 9,2%; l’amore per i figli fa registrare il 32,3% mentre il buon uso del denaro tocca il 9,6% ed il guadagnare molto è appena al 4,5%. Minore è la rilevanza della sessualità fra i valori ricevuti attraverso la socializzazione fino ai diciotto anni di età. E comunque l’opinione sulla sessualità vede prevalere la dimensione affettiva e coniugale.
In tal modo la religione diffusa, frutto della socializzazione, rientra nel più vasto ambito della cosiddetta religione dei valori (Cipriani 1992), ma, già prima della nostra ricerca in Sicilia, Calvaruso e Abbruzzese (1985: 79) così si esprimevano: “la religiosità diffusa diviene allora la dimensione religiosa dominante per tutti coloro che, immersi nella realtà secolare della società contemporanea, pur non riuscendo ad accettare quelle dimensioni del cosmo sacro più distanti e provocatorie rispetto alla visione razionale del mondo, non per questo dismettono la loro esigenza di significatività. Nella dimensione immanente dell’individuale quotidiano, la religiosità diffusa, più che testimoniare la presenza di un processo di laicizzazione in una società religiosamente orientata, sembra avvalorare la permanenza del sacro in una società secolarizzata”.
Anche in Italia è evidente una crisi della religione istituzionale, giacché “la maggioranza della popolazione si caratterizza, pertanto, per un riferimento religioso allentato, che persiste sull’onda della tradizione o di quanto risponde ad alcune esigenze dell’uomo contemporaneo, senza però produrre una particolare mobilitazione delle coscienze. Sono quindi evidenti i segni di ambivalenza presenti nell’adesione di una larga quota di popolazione al modello della religione di Chiesa … Contrariamente a molte previsioni, a molti luoghi comuni, gli orientamenti religiosi persistono nell’attuale società, manifestano una singolare tenuta, evidenziano segni di vitalità. Ciò appare singolare in una società che si vuole avanzata e secolarizzata … La religione persiste in quanto si è adattata alle attuali condizioni di vita, in quanto partecipa del processo di stemperamento cui vanno incontro nel tempo presente i grandi riferimenti ideali e le ideologie … La religione viene così confinata sullo sfondo della vita, dietro le quinte dell’esistenza, come un faro ultimo di significato la cui certezza di presenza ha già una funzione rassicurante. Proprio in questo scollamento tra riferimenti ultimi e scelte contingenti, tra identità originaria e orientamenti quotidiani, si annida il paradosso della persistenza della religione nella società contemporanea” (Garelli 1992: 65-6).
Intanto secondo l’inchiesta nazionale sulla religiosità in Italia (Lanzetti 1995a: 91) l’83% degli intervistati prega almeno qualche volta nell’anno. La famiglia rimane il maggior fattore di soddisfazione (lo dice il 73% dell’universo). Invece “quelli che potremmo chiamare ‘valori edonistico-materialistici’ (carriera, denaro, risparmio, divertimento) occupano tutto sommato un posto secondario, dato che compaiono in fondo alla classifica” (Rovati 1995: 190-1)
C’è poi un’accettazione ideale della chiesa ma con un’autonomia di giudizio personale in materia etica (Garelli 1995: 242-5). Peraltrosi rileva una certa personalizzazione della religione, specie nell’etica familiare e sessuale. Però tale dato “non va confuso con il processo di ‘privatizzazione’ del fenomeno religioso, preannunciato da Luckmann e Acquaviva già negli anni Sessanta e ripreso successivamente da Berger. Non si tratta, in altre parole, del fatto che la religione riduce la sua forza nella sfera pubblica e si rinchiude nella sfera privata, in modo particolare nello spazio della famiglia e nella coscienza dei singoli. Nel caso italiano … la forma istituzionale è ancora molto rilevante nell’area privata e in quella sociale” (Lanzetti 1995b: 273).
Ancora più esplicite sono le parole usate da Enzo Pace (2001: 8), a conclusione dell’indagine italiana più recente, sul pluralismo religioso e morale, svolta con un questionario compilato da 2149 soggetti: “la secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita, che per convenzione data in Italia dal referendum che vide nel 1974 l’approvazione della legge sul divorzio con una forte maggioranza (oltre il 60% in favore), non ridusse lo spazio occupato dalla religione. Segnò l’avvio di un processo di individualizzazione della credenza: … la gente cominciò a pensare in modo diverso, sentì un crescente bisogno di indipendenza che si unì, per le circostanze favorevoli e per i mutamenti in atto, con i modi moderni di pensiero e di stili di vita, mettendo l’accento sulla difesa dell’individuo e delle sue prerogative”. Sempre Pace (2001: 9) parla di una “soft secularisation” tipica dell’Italia, dove “il relativismo diffuso tra la popolazione può essere interpretato come un indicatore della tendenza fra la maggioranza degli italiani a “muoversi liberamente” nella costruzione del loro proprio sistema di credenza; una mobilità religiosa che appare assai moderna” (Pace 2001: 10), ma che ha connotati piuttosto diversi dall’ethos della mobilità, uno dei “religious modern themes” individuati da Luckmann come costitutivi della religione invisibile.
A rafforzare il punto di vista di Pace giunge anche Italo De Sandre (2001: 53) che ribalta la formula, risalente al tredicesimo secolo, secondo cui extra ecclesiam, nulla salus (fuori della chiesa, non c’è salvezza), e la trasforma in extra ecclesiam, salus (fuori della chiesa, c’è salvezza).
Probabilmente alla base di questa resistenza della religione visibile o, più precisamente, della religione diffusa è il fatto che in Italia c’è una situazione diversa da quella in cui “la religione non viene trasmessa in modo normale ed efficace mediante procedimenti di socializzazione di base” (Luckmann 1983: 169). Dunque la religione degli italiani ha un carattere che tende ad essere diffuso,condiviso. In pratica, come risultava anche dall’indagine nazionale conclusa nel 1995 da Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti e Rovati, “la religione in senso lato (di chiesa o modale/diffusa) è di gran lunga preponderante e chiaramente quasi tutta di tipo cattolico. La religione-di-chiesa è percentualmente una minoranza, e la religione diffusa (chiamata modale in quanto è in pratica la moda, cioè la caratteristica con la frequenza più alta) costituisce la maggioranza. Ma tra la minoranza e la maggioranza non vi è soluzione di continuità” (Cipriani 2001: 303).
Conclusione
In definitiva la religione invisibile, almeno per ora, non sembra avere un consistente futuro, all’orizzonte di questo nuovo secolo. Per questo pare convincente Franco Garelli, sulla base anche delle sue numerose indagini empiriche in Italia, quando scrive che “contrariamente a molte previsioni Dio non è morto in Europa, né si è esaurita la traiettoria sociale del cristianesimo. La religione appare ancora fortemente integrata con la cultura, anche se si assiste al depotenziamento della fede, allo stemperamento delle credenze, alla discontinuità della pratica; anche se i valori religiosi scivolano sempre più sullo sfondo dell’esistenza e sono esposti a una marcata interpretazione soggettiva” (Garelli 1996: 205).
Il che non lascia però tranquilla la gerarchia religiosa. Non a caso il papa Paolo VI, da intellettuale accorto, aveva già capito bene quanto stava avvenendo nella fase postconciliare, tanto da dire a Jean Guitton: “Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non-cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte”. In tal modo il cattolicesimo stesso diverrebbe invisibile. Ma questa sarebbe un’altra storia e forse l’oggetto di studio per i futuri sociologi della religione.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Abbruzzese, Salvatore (2000) “Il posto del sacro”, in Renzo Gubert (a cura di) La via italiana alla post-modernità. Verso una nuova architettura dei valori. Milano: Franco Angeli.
Acquaviva, Sabino Samele (1961) L’eclissi del sacro nella civiltà industriale. Milano: Edizioni di Comunità.
Bellah, Robert N. (1974) “Le cinque religioni dell’’Italia moderna”, in F. L. Cavazza, S. R. Graubard (a cura di) Il caso italiano, pp. 440-469. Milano: Garzanti.
Bellah, Robert N., e Madsen, Richard, e Sullivan, William M., e Swidler, Ann, e Tipton, Steven M. (1996) Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa. Roma: Armando editore.
Berger, Peter L. (1967) The Sacred Canopy. Elements of a Sociological Theory of Religion. Garden City, NY: Doubleday.
Berger, Peter L. (1969) A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural. Garden City, NY: Doubleday.
Berger, Peter L., and Luckmann, Thomas (1969) La realtà come costruzione sociale. Bologna: il Mulino.
Besecke, Kelly (2001) “Invisible Religion Revisited: Culture and Religious Modernity”. Paper presented to “Religion in a Secular and Pluralistic Society”, ASR meeting, Anaheim CA.
Burgalassi, Silvano (1970) Le cristianità nascoste. Dove va la cristianità italiana? Bologna: Dehoniane.
Calvaruso, Claudio, e Abbruzzese, Salvatore (1985) Indagine sui valori in Italia. Dai postmaterialismi alla ricerca di senso. Torino: SEI.
Capraro, Giuseppe (a cura di) (1995) I valori degli europei e degli italiani negli anni Novanta. Trento: Regione Autonoma Trentino-Alto Adige.
Cipriani, Roberto (1978) Dalla teoria alla verifica: indagine sui valori in mutamento. Roma: La Goliardica.
Cipriani, Roberto (1984) “Religion and Politics. The Italian Case: Diffused Religion”, Archives de Sciences Sociales des Religions 58/1: 29-51.
Cipriani, Roberto (1988) La religione diffusa. Teoria e prassi. Roma: Borla.
Cipriani, Roberto (1989) “‘Diffused Religion’ and New Values in Italy”, in James A. Beckford, Thomas Luckmann (eds.) The Changing Face of Religion, pp. 24-48. London: Sage.
Cipriani, Roberto (1992) La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale. Caltanissetta/Roma: Salvatore Sciascia Editore.
Cipriani, Roberto (2001) “Religion as Diffusion of Values. ‘Diffused Religion’ in the Context of a Dominant Religious Institution: The Italian Case”, in Richard K. Fenn (ed.) The Blackwell Companion to Sociology of Religion, pp. 292-305. Oxford/Malden, Mass.: Blackwell.
Demerath, Nicholas J. (2001) “Secularization Extended: From Religious ‘Myth’ to Cultural Commonplace”, in Richard K. Fenn (ed.) The Blackwell Companion to Sociology of Religion, pp. 211-228. Oxford/Malden, Mass.: Blackwell.
De Sandre, Italo (2001) “Incertezze private e certezze pubbliche nelle credenze dei cattolici italiani. Private Doubts and Public Certainties in Italian Catholics’ Beliefs”, in Stefano Allievi, Giuseppe Bove, Fanny S. Cappello, Roberto Cipriani, Italo De Sandre, Franco Garelli, Giancarlo Gasperoni, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace, Religious and Moral Pluralism in Italy, pp. 49-61. Padova: CLEUP Editrice.
Dobbelaere, Karel (1981) “Secularization: A Multi-Dimensional Concept, Current Sociology 29: 2.
Durkheim, Emile (1973) Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia. Roma: Newton Compton Italiana.
Erenc, Janusz, e Wszeborowski, Krzysztof (1993) “The Pole’s Attitudes towards Privatization”, in Jacques Coenen-Huther, Brunon Synak (eds.) Post-Communist Poland: From Totalitarianism to Democracy? Commack, NY: Nova.
Fenn, Richard K. (1969) “The Secularization of Values. Analytical Framework for the Study of Secularization”, Journal for the Scientific Study of Religion 1: 112-24.
Fenn, Richard K. (1970) “The Process of Secularization: A Post-Parsonian View”, Journal for the Scientific Study of Religion 2: 117-36.
Fenn, Richard K. (1978) Toward a Theory of Secularization. Storrs, CT: Society for the Scientific Study of Religion.
Garelli, Franco (1992) “Religione e modernità: il ‘caso italiano’”, in Danièle Hervieu-Léger, Franco Garelli, Salvador Giner, Sebastián Sarasa, James A. Beckford, Karl-Fritz Daiber, Miklós Tomka La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernità in Francia, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria, pp. 11-99. Torino: Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli.
Garelli, Franco (1995) “Gli italiani e la chiesa”, in Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati La religiosità in Italia, pp. 239-263. Milano: Mondadori.
Garelli, Franco (1996) Forza della religione e debolezza della fede. Bologna: il Mulino.
Glock, Charles Y., and Stark, Rodney (1965) Religion and Society in Tension. Chicago: Rand McNally.
Gorlach, Krzysztof, and Sarega, Zygmunt (1993) “From Repressive Tolerance to Oppressive Freedom: Polish Family Farms in Transition”, in Jacques Coenen-Huther, Brunon Synak (eds.) Post-Communist Poland: From Totalitarianism to Democracy? Commack, NY: Nova.
Gubert, Renzo (ed.) (2000) La via italiana alla post-modernità. Verso una nuova architettura dei valori. Milano: Franco Angeli.
Gucciardo, Gaetano (2001) “Religiosità meridionale e senso civico”, Segno 230: 103-10.
Gucciardo, Gaetano (1997) “Gli studenti e la religione”, in Roberto Rovelli (a cura di) Valori e modelli di comportamento, pp. 117-132. Palermo: Ila Palma.
James, William (1998) Le varie forme dell’esperienza religiosa. Brescia: Morcelliana.
Jasinska-Kania, Aleksandra (1995) “Religione, valori e politica in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia”, in Giuseppe Capraro (a cura di) I valori degli europei e degli italiani negli anni novanta, pp. 445-471. Trento: Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Università degli Studi di Trento.
Lanzetti, Clemente (1995a) “I comportamenti religiosi”, in Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati La religiosità in Italia, pp. 71-98. Milano: Mondadori.
Lanzetti, Clemente (1995b) “Tra innovazione e conservazione: alcune questioni di fondo”, in Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati La religiosità in Italia, pp. 267-290. Milano: Mondadori.
Lübbe, Hermann (1970) La secolarizzazione. Bologna: il Mulino.
Luckmann, Thomas (1963) Das Problem der Religion in der Modernen Gesellschaft. Freiburg: Rombach.
Luckmann, Thomas (1967) The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society. New York: Macmillan Co.; (1969) La religione invisibile. Bologna: il Mulino.
Luckmann, Thomas (1983) Life-World and Social Realities. London: Heinemann.
Luckmann, Thomas (1990) “Structural and Functional Differences between Common Sense and Scientific Cosmologies”, Annales de l’Institut International de Sociologie I: 63-83.
Martin, David (1969) The Religious and the Secular: Studies in Secularization. London: Routledge and Kegan Paul.
Martin, David (1978) A General Theory of Secularization. Oxford: Blackwell.
O’Dea, Thomas (1967) The Catholic Crisis. Boston: Beacon Press.
Pace, Enzo (2001) “Religious and Moral Pluralism in Italy. An Introduction”, in Stefano Allievi, Giuseppe Bove, Fanny S. Cappello, Roberto Cipriani, Italo De Sandre, Franco Garelli, Giancarlo Gasperoni, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace Religious and Moral Pluralism in Italy, pp. 5-14. Padova: CLEUP Editrice.
Putnam, Robert (1993) La tradizione civica delle regioni italiane. Milano: Mondadori.
Rovati, Giancarlo (1995) “Etica pubblica, etica privata”, in Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati La religiosità in Italia, pp. 155-201. Milano: Mondadori.
Tschannen, Olivier (1992) Les théories de la sécularisation. Genève/Paris: Librairie Droz
Wilson, Bryan R. (1966) Religion in Secular Society. London: Watts.
* Relazione presentata in occasione della Conferenza Internazionale “Europe and the Invisible Religion” tenutasi nell’Università di Zurigo (18-19 gennaio 2002). Dedico questo testo alla memoria dei colleghi sociologi della religione Giuseppe Capraro e Paolo Giuriati.