RELIGIONE, POLITICA E LAICITA’

Roberto Cipriani


Premessa


         Allorquando si presenta un testo o si fa un discorso si pone sempre il problema del carattere ideologico presente nel messaggio emesso. In effetti sia il contenuto proposto dall’autore che la ricezione da parte del lettore o dell’ascoltatore possono risultare più o meno orientati da forme varie di pre-giudizi, da prese di posizione previe, da pregresse costruzioni sociali della realtà. Questo è dato constatare in modo evidente quasi in ogni caso. Il problema è semmai vedere fino a che punto l’autore o il ricettore siano consapevoli della loro prospettiva pre-definita. E di conseguenza occorre verificare se siano state messe in atto misure adeguate, mirate ad evitare che il peso della propria equazione personale influisca pesantemente sulla lettura fatta, sull’ascolto prestato, sull’analisi condotta, sull’interpretazione fornita, in definitiva sull’opzione preferita.


         Riuscire a liberarsi del tutto dall’ideologia cui si fa riferimento a livello personale è impresa ardua se non del tutto impraticabile. Il fatto è che la scienza, ovvero la conoscenza rigorosa, ha continuamente a che fare con tale dilemma: fin dove arriva lo sforzo di neutralità, di avalutatività e dove comincia invece l’uso di un’ottica strumentale, non dialogica, apodittica?


         All’interno di appartenenze fideistiche, confessionali e fondate su dogmi, la varietà delle posizioni, delle scelte teoriche ed operative, delle attitudini e dei comportamenti è abbastanza evidente, tanto che ogni generalizzazione appare indebita, infondata, non plausibile. Da qui nasce la necessità di un confronto dialettico, aperto, comunicativo, premessa necessaria di ogni progresso nel campo della conoscenza scientifica. Su tali basi si fonda altresì la possibilità di evitare le derive deontologiche che sovente accompagnano analisi ed interpretazioni pur pregevoli a livello metodologico.


         Il passaggio dalla fase conoscitiva a quella operativa è delicato e decisivo ai fini di una corretta utilizzazione dei risultati di una ricerca. Questo non significa voler interrompere il flusso dei dati empirici, quasi immaginando una cesura fra scienza e prassi, fra conoscenza e politica. Il problema è semmai un altro: le competenze, l’expertise di ogni specialista, meritano rispetto e proprio per questo vanno applicate nel loro ambito specifico. Insomma non sarà il sociologo a fare una legge, né il politico a condurre un’indagine sul campo e neppure un esponente di chiesa (non importa se un semplice fedele od un esponente dell’establishment). Ovviamente anche nel dire ciò si prende posizione, si fa ricorso ad un punto di vista, ma in questo caso almeno si lascia ogni decisione applicativa aperta a diverse soluzioni possibili, senza pre-determinarne alcuna. In pratica è favorita una cooperazione rispettosa fra attori sociali, sebbene diversificati nel loro know how.


         La progettualità politica è dunque ben altra attività rispetto a quella dell’accertamento di fatti e situazioni. La continuità fra i due ambiti è assicurata proprio da una distanza anche minima ma necessaria per garantire la non contiguità, la non strumentalizzazione, il non asservimento.


Abitualizzazione ed identità


         Ogni attore sociale si porta dietro il bagaglio dei suoi modelli consuetudinari di atteggiamento e comportamento. Dell’abituale quasi non ci si accorge: fa parte di noi stessi. Esso somiglia quasi ad un habitus che indossiamo quotidianamente senza che nemmeno ci poniamo il problema della sua correttezza e plausibilità. La socializzazione, soprattutto primaria ricevuta in famiglia, poi rafforzata da quella secondaria a scuola, tra i pari età, ecc., fa sì che funzioni una sorta di abitualizzazione a quanto si è già pensato e fatto in precedenza. Se poi si aggiungono le frequentazioni dominanti di alcuni specifici ambienti, invece di altri, il quadro risulta completo ed avvolgente. Ne scaturisce così un andamento di routine che aggira ogni genere di ostacoli e di problemi affidandosi alla legge dell’eterno ieri, cioè della tradizione. Dunque le decisioni del soggetto sociale seguono da presso quanto già sperimentato in precedenza e di solito non si avventurano sul terreno ignoto della innovazione. Per questo è raro il caso in cui ci si trova del tutto liberi di decidere senza il basto delle abitudini acquisite.


         Il soggetto sociale accostumato a seguire ciò che è consueto difficilmente si pone remore, dunque non tende a problematizzare tutto quello che affronta. Se qualche dubbio sorge egli trova facilmente chi glieli scioglie in nome di un’autorità riconosciuta, di un prestigio goduto, di una stima diffusa. In questo le istituzioni – e sommamente i loro vertici – hanno gioco agevole in quanto indicano strade che vengono poi percorse tranquillamente. Così una chiesa od un partito possono dare direttive ai loro fedeli e militanti (od anche semplicemente simpatizzanti) di votare in un certo modo o di non  votare affatto, secondo i loro interessi istituzionali del momento.


         L’azzeramento degli aspetti problematici è un obiettivo che un’organizzazione, un movimento, una corrente religiosa o politica perseguono per avocare a loro o meglio alle loro gerarchie quelle scelte che sarebbero invece dei singoli: il che avviene in campo etico come pure in materia di normativa elettorale. In effetti è sostanzialmente un gruppo ristretto di persone (o magari un solo leader) a decidere in vece della base, cui è lasciato solo il compito di eseguire quanto proposto/imposto dall’alto. Si crea così una modalità costante che istituzionalizza sempre più le consuetudini di accettazione dell’orientamento di vertice e non consente di assumere posizioni di volta in volta in stretta connessione con la questione in causa. Insomma si toglie all’attore sociale la possibilità di definire egli stesso la situazione, di farsi un’idea, di informarsi, di cercare in proprio le fonti di conoscenza, di soppesare i vantaggi e gli svantaggi derivanti da una determinata operazione. Sono dunque altri e sempre gli stessi a stabilire il da farsi, sostituendosi ai detentori potenziali del potere decisionale. Questi ultimi vengono dunque lasciati in una condizione di minorità che non ha scampo, se non a costi piuttosto alti (sofferenze personali, perdita di identità, emarginazione sociale, difficoltà di comunicazione interpersonale).


         Quando poi si ha a che fare con l’identità religiosa la gestione del disagio conseguente ad una presa di distanza dalle indicazioni di provenienza gerarchica diventa altresì un problema pure sul piano psico-sociologico: la credenza nella divinità può anche permanere ma vengono meno, fra l’altro, i supporti più significativi a livello rituale, in termini di condivisione di una medesima esperienza di fede. Sovente il bisogno di identità è soddisfatto quasi solo dall’appartenenza religiosa, per cui una sua precarietà comporta effetti negativi anche sul piano dell’autostima e del bisogno di riconoscimento da parte altrui.


         A fronte di situazioni nuove è arduo per il singolo riuscire a trovare soluzioni soddisfacenti in proprio, senza che vi sia il sostegno dell’istituzione. Non a caso conflitti e discussioni caratterizzano l’affacciarsi di nuove problematiche che investano anche parzialmente l’insieme di una religione. A questo punto la convergenza è richiesta solo in chiave di allineamento alle posizioni ufficiali di chiesa e senza un dibattito libero. Inoltre prima che vi sia un adeguamento dell’establishment ecclesiastico alle nuove istanze relative ad un tema controverso occorre un lungo processo di messa a punto, di definizione degli argomenti, di predisposizione della nuova normativa.


         L’identità è una componente fondamentale nell’attore sociale, tanto che essa viene di fatto sacralizzata – come ricorda Hans Mol (1976; 1978) – e dunque oggettificata (cioè ordinata nel tempo), grazie ad un coinvolgimento emotivo, ad un rafforzamento per via rituale ed a una sua tendenziale mitologizzazione. La sua forza principale è sovente nel reperimento di un giusto equilibrio fra conservazione e mutamento, alla ricerca di una sorta di dialettica della convivenza del soggetto nell’ambito di un’istituzione o di un’organizzazione.


         Ma specie nel caso della religione si assiste ad una fenomenologia che molto ha a che vedere con il comportamento di un’ostrica, che reagisce all’intrusione di un qualsiasi granello di sabbia ricoprendolo con una secrezione collosa e comprimente. Così, infatti, ha luogo in ambito religioso, quando qualcosa di diverso sopravviene: lo si  neutralizza avvolgendolo con una coltre di discredito, con interventi di scomunica, esclaustrazione, con accuse di eresia e deviazione dottrinaria.


         La dialettica identitaria comporta pure azioni di conversione da una religione ad un’altra oppure adesioni abbastanza incondizionate dovute alla forza di un capo carismatico. Ma segnatamente è la dinamica della ritualizzazione che consolida l’appartenenza identitaria, accompagnando i momenti della nascita (con il battesimo), dell’iniziazione cristiana (con l’eucarestia e la cresima), della creazione di una nuova famiglia (con il sacramento del matrimonio) e della morte (con il funerale religioso). Così facendo, ogni mutazione esistenziale viene incorporata nella medesima e comune linea di identificazione con la chiesa.


Desacralizzazione e sacralizzazione


         Invero non mancano occasioni ed eventi di desacralizzazione del passato, allorquando si sconfessano modelli obsoleti. In pari tempo si possono registrare modalità di sacralizzazione del nuovo, ma lentamente e gradualmente. In linea di massima i processi di sacralizzazione istituzionale giungono con molto ritardo rispetto all’emergere delle esigenze che li richiedono. Questo è dovuto alla necessità di mantenere stabile il sistema di significati già vigenti e sperimentati come più rassicuranti, evitando contraccolpi improvvisi e modificativi. Ecco perché viene dato maggior rilievo al bisogno primario di rafforzamento dello status quo prima ancora di poter accettare soluzioni alternative. L’identità istituzionale funge da continuum di garanzia, ma è custodita scrupolosamente pur a fronte di impellenti richieste di adattamento, di rivisitazione, di aggiornamento (non è un caso che ad un quarantennio dalla sua conclusione il Concilio Ecumenico Vaticano II ancora attende di essere pienamente implementato nella chiesa cattolica).


         Ora proprio la crescita della complessità sociale potrebbe indurre a considerare con maggiore attenzione le alterità presenti dentro e fuori la confessione cattolica. L’autonomia degli individui è un dato di fatto. La pluralità dei punti di vista cresce a dismisura. Le scelte sono sempre più difficili e condizionate da saperi differenziati. La convergenza etica non è di facile acquisizione, soggetta com’è a conoscenze diversificate, a saperi molto specialistici. Il che rende difficile alle religioni a carattere universale sono la ricerca di punti essenziali di convergenza.


         L’esito finale può essere simile a quello di una sorta di religione civile, del tipo di quella delineata da Jean-Jacques Rousseau nel suo Contrat Social, nel capitolo VIII, libro IV. Ma c’è da chiedersi in proposito se sia possibile una generalizzazione di tale modalità a livello globale, mondiale. Né va dimenticato che nella sua essenza la religione civile non è affatto anticristiana ed anzi può convivere con il cristianesimo, specie se quest’ultimo si manifesta anche (ma non solo) in quanto “religione dei valori” (Cipriani 1992), cioè fondata su principi condivisibili e di fatto condivisi anche da non credenti e da non praticanti: non a caso in Italia si è diffusa di recente la categoria concettuale degli “atei devoti”, cioè di soggetti orientati laicamente ma non del tutto insensibili al richiamo di norme religiosamente orientate.


         Secondo l’idea di Religious Evolution suggerita da Robert Bellah (1969), dopo la fase della religione storica cristiana e quella pre-moderna del protestantesimo ci sarebbe la fase dell’individualismo religioso (“la mia mente è la mia chiesa”), che costituirebbe un’opportunità senza precedenti per la diffusione delle idee religiose fra ogni tipo di soggetto umano, di attore sociale.


         Lo sviluppo ulteriore del pensiero di Bellah (1975) ha portato alla rottura del patto stipulato sulla base dei comuni ideali di fede (in particolare negli Stati Uniti) ed ha visto sorgere la fenomenologia dello sheilanismo (Bellah, Madsen, Sullivan, Swidler, Tipton 1996), che trae origine dal caso di Sheila Larson, alla ricerca di trovare in se stessa un centro, un punto di riferimento, dopo aver dovuto sopportare il peso di una famiglia conformista in modo oppressivo. Ne nasce un individualismo religioso considerato indefettibile come lo è l’individualismo secolare.


         Si riaffaccia così anche la posizione di Schleiermacher con il sentimento creaturale della dipendenza assoluta dell’essere finito rispetto a quello infinito, insieme con la convinzione di un’autonomia da altre attività ed istituzioni umane, in primo luogo dalle chiese. Il sentimento religioso ha perciò la meglio sull’istituzionalizzazione della religione.


         Da questo quadro d’insieme non si distaccano molto il naturalismo estatico di Tillich o la demitologizzazione di Bultmann, per non dire del “cristianesimo senza religione” di Dietrich Bonhoeffer. Ecco dunque come, alla fine, individualismo e fondamentalismo che sembrerebbero contrapporsi divengono invece convergenti.


         Simmel dal canto suo aveva molto insistito sulla sostanziale differenza fra religione storica, frutto dell’azione umana, e religiosità, frutto dell’azione divina che avrebbe dato agli animi umani un’impronta naturalmente religiosa. Invece il processo di istituzionalizzazione della religione ha tipificato e quasi imbalsamato le possibilità dell’esperienza religiosa, giungendo peraltro ad una monotipificazione senza alternative, tutta orientata entro l’alveo rigido di una struttura gerarchica strettamente verticistica, che una volta autocostituitasi riesce a condizionare le diverse esistenze umane.


         I dati storici dicono che c’è una sostanziale continuità fra le tre religioni del libro (ebraismo, cristianesimo ed islamismo), sul piano storico, topografico ed ideologico. Di fatto, comunque, ogni identità religiosa appare come un confine, che però è limitrofo, finitimo, rispetto ad altre identità, che a loro volta rappresentano un confine ravvicinato rispetto ad ulteriori esperienze religiose. Si verifica così in pratica che l’identità religiosa (o politica) è in fondo una manifestazione del sé rispetto ad altri sé, che perciò rappresentano il termine di riferimento per ogni genere di interlocuzione. Riesce perciò difficile considerare l’identità come una variabile indipendente.


         D’altro canto l’identità non ha una sua concretezza ed appare piuttosto come un luogo virtuale, potenziale, possibile ma non reale, secondo la prospettiva suggerita da Claude Lévi-Strauss (1980).


         Per di più l’identità non è mai univoca ma sempre piuttosto frammentata e frattalica nel suo manifestarsi. La frantumazione concerne gli ebrei come i mussulmani, i protestanti come i cattolici. Se poi si aggiunge anche la portata onnipervasiva della globalizzazione è evidente che ben poco spazio resterebbe per le espressioni identitarie.


La sfida del relativismo culturale


         A questo punto sorge però un problema cruciale: che ruolo attribuire al relativismo culturale? Esso è da considerare un dato di fatto od una sorta di avversario ideologico da combattere? E che dire del multiculturalismo delle società contemporanee? La realtà è invero così complessa che ogni semplificazione ed ogni dicotomizzazione appaiono tanto inutili quanto inefficaci sia sul piano descrittivo che sul piano dell’agire concreto.


         Se ci riferisce all’Europa è ben vero che la religione civile appare quanto mai improbabile come connotazione diffusa. Semmai si può parlare di una “religione della laicità”, assai perspicua in Francia. Resta tuttavia insoluto il problema di un “coordinamento aperto” fra le varie espressioni, tra le diverse esperienze.


         Neppure ai più alti livelli della chiesa cattolica vi è accordo, se due esponenti come Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, ed il cardinal Martini si muovono lungo direttrici dissimili.


         Il punto di divergenza è rappresentato dall’approccio al relativismo. Per l’uno è da combattere in quanto esisterebbe una “dittatura del relativismo”, per l’altro esso è operante all’interno stesso della chiesa.


         In realtà l’ex cardinale di Milano, ora ritiratosi in Terrasanta, non cita neppure il papa in modo esplicito e diretto, giacché l’8 maggio 2005 nel Duomo di Milano esordisce dicendo: “si dice giustamente che c’è troppo relativismo”. E poi aggiunge: “ma esiste anche un relativismo cristiano”. La conclusione è tuttavia la seguente: “quello di cui abbiamo bisogno è saper vivere insieme nella diversità: rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci. Senza la pretesa di convertire gli altri da un giorno all’altro, il che crea spesso muri ancora più invalicabili. Ma neanche soltanto tollerandoci: tollerarsi non basta”.


         In effetti la tolleranza è una forma di sopportazione, non di accettazione dell’altro. Ed il relativismo cristiano consisterebbe nel “leggere tutte le cose che ci circondano “in relazione” al momento in cui tutta la storia sarà palesemente giudicata”. Perciò “sarà allora, quando verrà il Signore, che finalmente tutti sapremo. Allora si compirà il giudizio sulla storia, e sapremo chi aveva ragione. Allora le opere degli uomini appariranno nel loro vero valore, e tutte le cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno”. Del resto “ciò che Gesù ci ha comandato non è altro che il Discorso della Montagna: un discorso in cui parla di gioia, di lealtà, di moderazione nel desiderio di guadagno, di amore, di sincerità. Ecco: il nostro tentativo deve essere quello di fermentarci a vicenda, perché ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità”. In definitiva “di fronte a parole che parlano di sincerità, di pace, di lealtà, nessuno può dire “questo non è per me””.


         Se il contrasto è palese ma attutito in un contesto religioso, tendenzialmente portato alla prudenza, è invece più esplicito e vivace sul terreno laico della politica, dove si confrontano ad esempio il pensiero del presidente della repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, progressista, e quello del presidente del Senato, Marcello Pera, conservatore.


         Dire che “tra le ragioni dell’aperta valorizzazione delle radici cristiane dell’Europa, a pari titolo di quelle laiche, liberali, socialiste, umaniste vi era anche l’esigenza di disinnescare la secolare tentazione di utilizzare la religione come strumento di divisione ideologica e politica, piuttosto che come fondamento della concordia e della pace” (Rovati) non risolve il problema, anche perché le resistenze e le vivaci reazioni sono sorte ancor prima che si proponesse di legittimare il primato di alcune radici a discapito di altre. E dunque se le radici cristiane dell’Europa fossero state sancite sarebbe stato forse prevedibile comunque un periodo di concordia e pace?


         Orbene non sembra neppure il caso di invocare retoricamente che, “nel contesto della globalizzazione e del potenziale conflitto distruttivo tra le civiltà, occorre dunque elaborare nuove forme di interculturalità, che in riferimento alla convivenza civile sappiano sottomettere il potere ai diritti umani, ma sappiano anche sottrarre i diritti umani all’arbitrio delle maggioranze” (Rovati), riecheggiando così i discorsi di Pera e Ratzinger (2004).


         La distanza fra politica e religione è utile garanzia per il mantenimento di una laicità non conflittuale, che riconosca ad ognuno il dovuto e paghi il tributo a Cesare ma non debba combattere le posizioni alternative di scelta o non scelta religiosa.


Riferimenti bibliografici


Robert N. Bellah, Evoluzione religiosa in Sociologia della religione. Testi e documenti, a cura di Dario Zadra, Hoepli, Milano 1969.


Robert N. Bellah, The Broken Covenant. American Civil Religion in Time of Trial, Seabury, New York 1975.


Robert N. Bellah, Richard Madsen, William M. Sullivan, Ann Swidler, Steven M. Tipton, Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Armando, Roma 1996.


Roberto Cipriani, La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1992.


Claude Lévi-Strauss, L’identità, Sellerio editore, Palermo 1980.


Hans Mol, Identity and Sacred. A Sketch for a New Social-Scientific Theory of Religion, Blackwell, Oxford 1976.


Hans Mol (ed.), Identity and Religion. International, Cross-Cultural Approaches, Sage, London 1978.


Marcello Pera, Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano 2004.