Roberto Cipriani
Premessa
In una società sempre più complessa e globale è scontato che anche le prassi gestionali risentano dell’impatto delle novità tecnologiche e delle trasformazioni rivoluzionarie in atto. E l’adattamento al nuovo diventa una sfida, cui è facile rinunciare ma assai più difficile rispondere in modo adeguato. E non è solo una questione di età ma piuttosto di spirito, di temperamento, di attitudine.
Le soluzioni reattive possono essere di due tipi: o rifiuto totale o assuefazione rassegnata ed acritica. La soluzione intermedia, cioè quella dell’uso oculato, prudente e misurato, non appare essere quella prevalente.
Eppure con le novità che incalzano occorre fare i conti, altrimenti si viene sopraffatti. Non è questione di predicare l’accettazione incondizionata del nuovo, è invece questione di capire, programmare, scegliere. Detto altrimenti, non conviene inseguire ogni genere di modifica dell’esistente, conviene piuttosto essere attendisti, aspettare al varco gli sviluppi dell’innovazione ed eventualmente farne uso solo se essi già appaiono sufficientemente affidabili e convincenti.
Quasi ogni giorno la tecnologia informatica, per esempio, offre sul mercato releases sempre più aggiornate (dapprima Windows ’95, poi Windows ’98, Windows 2000 e così via). In questa rincorsa forsennata non si ha neppure il tempo di appropriarsi di quanto si è cominciato a sperimentare che subito incalza una ulteriore proposta. Insomma la fase di epoché, di attesa, di sospensione, non è concessa, si deve essere tempestivi, pena l’obsolescenza. Ma è proprio giusto e conveniente che sia così?
Anche in questo caso giova usare molta discrezione, senza chiusure preconcette ed aperture incondizionate. Occorre dunque filtrare ciò che è possibile implementare, adoperare senza inconvenienti gravi e perdite di tempo sconsiderate. Insomma il nuovo va gestito sapientemente, altrimenti si rischia di essere “agiti da” esso.
I nuovi luoghi gestionali ed organizzativi
Rispetto agli spazi ed ai tempi tradizionali dell’azione manageriale altri scenari si affacciano all’orizzonte e prospettano percorsi inusitati, agevolazioni attraenti, immagini affascinanti. C’è da chiedersi però se non si finisca per essere vittime di solerti mercanti, tutti protesi a magnificare i loro prodotti senza nulla (o poco) concedere allo sguardo critico dei potenziali utenti, ammaliati dai portentosi ritrovati della tecnica, salvo poi ricredersi quando scoprono le difficoltà di un software troppo innovativo, le trappole di un hardware che non funziona a dovere, le bizze di una struttura troppo complessa per essere del tutto perfetta e priva di mende, di difetti. Il tutto poi senza tenere affatto conto dell’incognita rappresentata dal soggetto umano, pur sempre fulcro vitale dell’organizzazione.
Il punto essenziale è però avere abbastanza know how, almeno in termini di conoscenze anche minime, per sfuggire ai raggiri dei venditori di fumo e dei propagandisti pronti ad ogni genere di risposta prefabbricata e poco attenti ai quesiti cruciali, di sostanza, posti dai possibili “acquirenti”.
In questo quadro la ricerca e la sperimentazione meritano una cura tutta particolare, che non può esaurirsi nell’affidarsi ad un qualunque esperto, forse un po’ amico ma che difficilmente resterà a nostra disposizione nei momenti strategici delle varie attività quotidiane e dell’impegno organizzativo e socializzativo.
Insomma, prima di pensare alla novità dello scopo (o della mission, come si usa spesso dire pensando quasi esclusivamente al problema dell’immagine più che a quello dei contenuti), è consigliabile riflettere adeguatamente sul da farsi e soprattutto sulle ricadute che ne possono derivare per quanto riguarda l’esito finale.
La rilevanza del contesto
Ogni azione ha una sua collocazione ed una sua consistenza grazie al contesto che lo accompagna. Dunque lo stesso contesto è parte essenziale dell’azione organizzativa. L’uno e l’altra hanno una rilevanza non trascurabile dal punto di vista del risultato della relazione intersoggettiva. Del resto un quadro contestuale deteriorato – è ben noto – non depone a favore di un rapporto positivo fra managers più o meno giovani e nuove generazioni. Il disordine, la sciatteria, il degrado di un’organizzazione, per esempio, non creano le condizioni più favorevoli per un’azione corretta ed efficace. Occorre dunque che ogni struttura seppure tradizionale sia messa a regime, sia risistemata, in modo da offrire i prerequisiti di base per l’attivazione dei meccanismi più adatti in rapporto all’agire organizzativo.
Se almeno questo primo requisito non viene soddisfatto qualunque altro apporto è suscettibile di essere vanificato dalle carenze di base e dall’impossibilità di operare al meglio delle risorse disponibili.
Dando dunque per scontato un livello almeno accettabile delle strutture di base, dei criteri canonici della gestione, risulta più agevole poi affrontare debitamente il tema delle nuove finalità.
Innanzitutto va chiarito, a scanso di equivoci, come non sia il solo contesto a creare il fatto organizzativo, che invece deriva essenzialmente dal supplemento di umanità che vi è collegato e dal sapere scientificamente orientato che vi presiede, calibrando in modo opportuno ogni tipo di intervento.
In effetti, sia detto ancora una volta, la struttura di per sé nulla garantisce a livello di efficienza e riuscita se non vi si aggiunge un afflato intenzionale del manager che tenda a porsi dalla parte del soggetto destinatario ancor più che in prospettiva diadica, differenziata o persino nettamente oppositiva.
Pertanto va detto esplicitamente che il contesto deve essere pensato direttamente in funzione di chi ne fa uso. Esso è di per sé uno strumento, ma è come un tassello fondamentale che si inserisce in un mosaico articolato e funzionale di competenze, conoscenze, legami, proposte e riuscite di proposte.
Il tempio e la cafeteria come metafore
Si pensi, ad esempio, alla struttura di un tempio. Se essa non è indirizzata allo svolgimento delle sue funzioni precipue (raccoglimento, preghiera, meditazione, celebrazione) non fa altro che allontanare il raggiungimento dell’obiettivo per il quale è nata. Lo stesso dicasi peraltro nel caso di un’aula, una sala di riunioni.
Ecco perché l’allocazione di iniziative organizzative (da quelle aziendali a quelle ecclesiali) in quadri contestuali impropri si trasforma in un grave ostacolo per la realizzazione di quanto perseguito. Di fatto però avviene che alcune aziende utilizzino stanze in appartamento e che taluni uffici siano sistemati negli scantinati e che pure i servizi logistici abbiano sede in locali poco aerati e comunque inadatti. La stessa aula per i docenti dei corsi di formazione è talora ricavata in un ambiente che di per sé sarebbe destinato a ben altro scopo. Ed è sintomatico che nelle aziende non siano previsti spazi appositi per gli incontri fra le maestranze e/o per i dirigenti al di fuori del regime-orario di ufficio e/o di mensa assai vincolante. Il fatto che non ci siano tali luoghi la dice lunga sull’ideologia sottesa ad un sistema pensato più a misura dei gestori che non dei fruitori. Per non dire, peraltro, della totale assenza di spazi conviviali, a forte socializzazione, quali possono essere dei locali di ristoro, la cui caricatura estrema sono – in funzione sostitutiva e per di più orientata in chiave di mero profitto economico – le macchine automatiche distributrici di bevande ed altri alimenti, senza che però si crei all’intorno ed all’interno dello spazio circostante alcuna relazione umana significativa sul piano della condivisione, dello scambio, della discussione, del confronto. Ecco perché lo “scandalo” di una cafeteria nelle aziende costituisce il segno emblematico di una disfunzione essenziale: il rapporto libero, spontaneo, alla pari, sembra sia da scoraggiare al massimo.
In fondo è questo un esempio di una concezione statica dell’ambiente lavorativo. L’inserimento di un nuovo elemento pare scombussolare schemi preesistenti, modalità inveterate. Non a caso lo stesso Ivan Illich, già sostenitore accanito della descolarizzazione della società contemporanea, si è poi fatto fautore di un più ampio processo: il ricorso alla convivialità come forma di compartecipazione, di esperienza comune, di comunicazione ed uguaglianza proposte e praticate.
In che misura, ad esempio in un’impresa in cui funzioni una mensa durante l’intervallo-pranzo, i dirigenti, gli impiegati e le maestranze siedono allo stesso tavolo ed utilizzano compiutamente anche questo luogo-spazio-momento in apparenza non particolarmente utile ma in realtà elemento privilegiato per una più libera interazione in prassi, senza i vincoli degli strumenti di controllo e di sanzione solitamente in vigore nell’ambiente di lavoro? Ovviamente può anche capitare che si perda questa felice occasione, offerta proprio dal clima amichevole dell’ora di pranzo, per trasportarvi mezzi e contenuti di una gestione organizzativa piuttosto formalizzata e formalizzante. Al contrario sarebbe da immaginare una non soluzione di continuità fra il modello tipicamente aziendalistico, magari anche d’impronta tradizionale, e quello più orientato in una prospettiva conviviale, indubbiamente assai più efficace a livello intersoggettivo.
I limiti del riferimento organizzativo
Non si tratta tuttavia di estendere il riferimento organizzativo ad ogni spazio, sino a colonizzare tutti gli ambiti dell’attività. Il punto-chiave è un altro. Sarebbe auspicabile un impianto gestionale così rispettoso del soggetto da non far sentire il peso di una presenza ingombrante ma accettata perché gradita, utile, persino piacevole. La compresenza di dirigenti e maestranze, se opportunamente calibrata nei tempi (e, ovviamente, pure nei luoghi), in un quadro complessivo di incontri, confronti, verifiche, che favoriscano la maturazione personale di tutti, può costituire una dinamica continua che vede nella cogestione del processo organizzativo un mezzo formidabile di sintonizzazione con gli eventi, di comprensione profonda delle nuove situazioni, di affinamento della prassi gestionale, in chiave di maggior consapevolezza e di aumento dell’efficacia operativa.
Sempre più si sta affermando, in tempi recenti, la propensione ad una metodologia diversificata nei modi e nei mezzi. Sembra particolarmente accreditata, ora più che mai, la soluzione di tipo laboratoriale come luogo innovativo rispetto alle strutture tradizionali di reparto. Va però detto che il cambiamento di nome non è sufficiente a testimoniare un reale mutamento di rotta. Serve a ben poco, in pratica, mettere sulla porta un cartello con la scritta “laboratorio” se non si registra una netta virata per quanto concerne la mentalità dei soggetti che entrano in contatto fra loro in modo opportuno, coerente e personalizzato.
Orbene, proprio la formula laboratoriale è prevedibile sia la prospettiva vincente dell’approccio organizzativo nell’immediato o prossimo futuro. La tendenza è già in atto ed è rafforzata dalla larga diffusione delle tecniche computeristiche. Alcuni dati di fatto appaiono particolarmente significativi: innanzitutto le competenze divengono facilmente superate grazie all’accelerato andamento delle modifiche tecnologiche; in secondo luogo risulterà sempre più difficile operare a livello individuale, giacché l’interdipendenza diverrà sempre più vincolante, il che comporterà ancor più un’azione di équipe, debitamente programmata e guidata da una leadership accorta e preparata; in terzo luogo va considerato che nel processo di globalizzazione di molti processi (economici, culturali, linguistici, tecnologici) le turbolenze, gli imprevisti, le difficoltà, gli incidenti di percorso sono da ritenere vieppiù come una costante, un punto fisso continuamente riemergente.
Le conseguenze
Tutto questo non è privo di conseguenze: i soggetti impegnati nella relazione interpersonale sono indotti a rivedere molte delle loro convinzioni precedenti, ad assumere un atteggiamento ed un comportamento di notevole (ma non eccessiva) apertura alle novità del loro settore, a riqualificarsi di continuo senza inutili e controproducenti resistenze, a ricominciare sempre da capo per trovare le risposte più giuste anche alle istanze più imprevedibili, a misurarsi in via normale, quotidiana, con il proprio know how, il sapere organizzativo, e con il quadro culturale specifico di riferimento, rinunciando a velleitarismi personali e cercando piuttosto le forme più opportune di cooperazione e di disponibilità nei riguardi altrui.
Diventa peraltro necessaria una divisione sempre definita dei compiti, dei ruoli, delle finalità, delle metodologie. Ogni pressapochismo potrebbe sfociare in danni rilevanti per l’organizzazione. Del resto è ben noto che un errore gestionale è in grado di annientare anni di duro lavoro; un intervento fuori luogo, magari intempestivo, può rompere definitivamente un legame, un’intesa faticosamente raggiunta. Una volta interrotta la comunicazione, è assai ardua la ripresa (gli stessi tentativi di recupero, sovente maldestri, potrebbero in effetti peggiorare la situazione).
La formazione organizzativa davanti allo schermo di un computer è diversa ma parallela rispetto a quella dinanzi ad un televisore. In comune i due media hanno l’interfaccia tra l’uomo e l’immagine. Ma in realtà c’è qualcosa di ben diverso nei due sets di azione. In un caso il soggetto è in grado di interagire direttamente, di stabilire che cosa fare con il mezzo, nel secondo caso la discrezionalità è ben limitata, l’interattività inesistente, con lo zapping che appare per quel che in effetti è: una parvenza di libertà a fronte di una serie di gabbie costruite da altri. Quest’ultimo particolare del discorso può valere anche per il computer, dato il carattere tendenzialmente rigido dei programmi di scrittura, disegno, calcolo. Anche la stessa navigazione in Internet segue percorsi obbligati e obbliganti: si aprono nuovi mercati di vendita forzosa, si intravedono orizzonti per il libero esercizio della fantasia ma sapersi districare in un’eccedenza ossessiva di offerte è impresa che riesce a ben pochi, impertinenti oppositori che non si lasciano irretire nelle maglie fitte di una rete tanto ampia quanto capace di imbrigliare le resistenze più vigorose.
A questo punto un quesito cruciale va posto: chi possiede capacità, conoscenze, soluzioni, metodi, strumenti adeguati al bisogno impellente di un’organizzazione mirata ad una saggia utenza dei mass media? Quale azienda ha fornito sinora qualche formula almeno approssimata per risolvere questa drammatica emergenza?
Il fatto è che ancora ci si trastulla con schede e formulari, con pianificazioni astratte ed avulse dalla realtà, con progetti più utili agli interessi dei proponenti che a quelli dei fruitori.
Il gap è dunque vistoso. Basti dire che molti sedicenti esperti di organizzazione non posseggono neppure le basi elementari per maneggiare agevolmente queste nuove risorse. Come possono poi pensare di interagire con gli altri o farlo in modo non distorto da manipolazioni di vario genere?
Se si pensa che le ultime generazioni sono cresciute con le trovate ammiccanti degli spots televisivi e con le abilità digitali (nel senso del muovere destramente le dita) delle playstations per i videogames, dunque con luoghi fittizi, altamente virtuali, cioè con non luoghi fatti passare per reali, com’è possibile da parte dei managers odierni recuperare il terreno perduto ed avere un’idea più precisa in merito ai nuovi modi dell’intersoggettività?
Conclusione
Nell’impossibilità di realizzare in breve spazio di tempo un’immersione totale nelle nuove dimensioni organizzative, conviene almeno non arrendersi del tutto ma avvicinarsi con intelligenza e perspicacia a quanto sta avvenendo nella realtà sociale. Ancora una volta, come sempre, prima di pensare a che cosa fare è conveniente dare uno sguardo al campo di azione, per capire in modo fondato quali siano e come siano i nuovi modelli organizzativi.
In fondo bisogna pur prendere atto che le modalità tradizionali oggi più che nel passato non sono più gli unici strumenti dell’intervento gestionale. Anche in termini di spazio-tempo sono di fatto altri sistemi e contesti a prevalere. Infatti il numero di ore trascorso dinanzi ad un televisore o ad un computer già eguaglia se proprio non supera la quantità di tempo trascorsa in famiglia intrattenendo relazioni significative. Lo stare in casa o a scuola o in azienda e magari il restarvi per molte ore non rapppresentano di per sé una prova scontata dell’esistenza di un rapporto fondante. Del resto – com’è noto – si può essere fisicamente presenti ma mentalmente distratti. Non a caso si cerca la fuga, resa manifesta con il continuo assentarsi dal luogo di lavoro od il marinare la scuola, o la separazione dal nucleo familiare, ben esemplificata dal chiudersi in camera da parte di chi vive sotto lo stesso tetto ma in separazione quasi completa (la stessa convivialità del pranzare insieme viene infatti meno).
Va dunque riaperta la comunicazione, va rinnovato lo sforzo organizzativo. Nondimeno tale riavvicinamento ha da essere delicato, attento, rispettoso, prudente, cercando in prima istanza di capire le ragioni dell’altro, le motivazioni inespresse, i problemi connessi, il senso di un rifugio in luoghi che affidati all’autoregolazione ed all’autoeducazione dei singoli non consentono un approccio graduale, calibrato, strategicamente misurato per affrontare le contraddizioni, gli imprevisti, le avversità di un’esistenza che non sempre lascia spazio alla normalità del quotidiano ed alla serenità della spensieratezza.
Bibliografia di riferimento
S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
I. Illich, Convivialità, Red/Studio redazionale, 1993.
R. Maragliano, Esseri multimediali. Immagini del bambino di fine millennio, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1996.
M. Wolf, Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano, 1992.