Roberto Cipriani
I GIORNI DELLA FESTA: NUOVE PRATICHE DI EDUCAZIONE E SOCIALIZZAZIONE
di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)
1. Premessa
Esiste certamente uno stretto rapporto fra momenti festivi ed andamento del ciclo agricolo annuale. In effetti le feste si collocano lungo la successione fra momenti di ricchezza e momenti di povertà, preferendo utilizzare al massimo le risorse disponibili proprio in concomitanza con le fiestas, cui seguono, anche per il forte consumo tipicamente festivo, situazioni di scarsità dei beni primari, alimentari soprattutto.
Invero le teorizzazioni sociologiche sulle caratteristiche della religione nelle società contemporanee contraddistinte dalla complessità e dall’alto livello di differenziazione hanno insistito soprattutto sulle dinamiche relative a contesti occidentali in cui i processi di inustrializzazione ed urbanizzazione risultano piuttosto accentuati. A questo quadro d’insieme appartengono le prospettive di Thomas Luckmann [1969] sulla religione invisibile, di Robert Towler [1974] sulla religione comune, nonchè quella sulla religione diffusa [Cipriani 1988], o in altro ambito quella di Robert Bellah [1967] sulla religione civile.
In genere è dominante una certa differenziazione rispetto alla cosiddetta religione-di-chiesa, sia pure con un ventaglio assai diversificato di atteggiamenti e comportamenti. Le modalità rilevabili attraverso le suddette prospettive esulano in genere dalle forme rituali e si trovano concentrate attorno a specifici valori ed orientamenti all’azione, che danno luogo ad una sorta di religione profana non legata alle pratiche ufficiali ed aliena rispetto a molti vissuti tipicamente ecclesiastici.
Ciò trova conferma nel ghetto etnocentrico di molta parte della sociologia accademica difficilmente propensa ad aprirsi a problemi di natura comparativa. Se invece l’orizzonte si allarga sino a comprendere società e comunità che non siano europee o nordamericane, ci si accorge di ulteriori percorsi tracciati da gruppi ed individui protesi verso soluzioni esistenziali abbastanza diverse. Queste ultime non rientrano affatto nello spettro di analisi che hanno matrici costruite sullo sfondo dell’industriale avanzato (o del post-industriale che dir si voglia) e che pertanto solo con questo tipo di riferimento sono compatibili e possono, forse, funzionare.
La curiosità scientifica viene a questo punto solleticata dalla domanda relativa ai processi di natura religiosa in atto dove le variabili sociologiche di base appaiono in buona misura differenziate rispetto alla situazione in cui maggiore è lo sviluppo tecnologico e più articolate sono le strumentazioni per l’attività comunicativa. Se poi si aggiunge il dato storico-antropologico di una pregressa, plurisecolare influenza esercitata dalla cultura europea in genere, spagnola in particolare, su modelli autoctoni già in essere da lunga data, l’interesse dell’indagine sale in misura esponenziale, specialmente in considerazione del complicato intreccio-scontro-incontro derivante dal susseguirsi di fasi plurime di acculturazione [Leslie 1960].
Dunque la scelta di studiare un paese come il Messico, definito sovente il “sud degli Stati Uniti”, nasce da un’intenzione in qualche modo provocatoria, nel senso di voler aprire verso itinerari che tengano conto di realtà solitamente espunte nonostante la loro non trascurabile consistenza numerica e la loro rilevanza qualitativa. Il problema posto al centro della ricerca concerne una processualità culturale contraddistinta da una religione dapprima esportata da un paese (la Spagna) ad un altro (il Messico), quindi sopportata dalle comunità indigene (azteche e/o purépecha/tarasche che fossero), poi più o meno direttamente supportata con le antichissime tradizioni locali i cui apporti hanno dato luogo a sincretismi imprevedibili, successivamente asportata dalla sfera liturgica ufficiale di marca cattolica (soprattutto sub specie ordinis Sancti Francisci, almeno nella zona tarasca del pueblo di Nahuatzen, comunità appartenente allo stato di Michoacán e posta a circa un’ora di distanza in auto – 56 chilometri – da Uruapan, due ore – 105 chilometri – da Morelia, capitale dello Stato di Michoacán, e nove ore da Città del Messico) per essere importata nella ritualità quotidiana e festiva di una popolazione che oggi riesce a comportare insieme caratteri di estrazione spagnola e di remota origine americana (nel significato più estensivo ed adeguato del termine).
Il precipitato storico odierno di tutto questo è una sorta di religione senzala chiesa (quella, beninteso, istituzionale), sicchéla comunità del pueblo gestisce in proprio tutti gli aspetti vitali della dimensione simbolico-sacrale, quasi prescindendo del tutto da ogni parametro e riferimento derivanti dalla cosiddetta religione-di-chiesa.
2. La processualità della cultura religiosa
A ragione si è spesso sostenuto che il momento festivo è il clou delle potenzialità espressive e simboliche di una comunità. E appunto a partire da tale assunzione si è tentato di esaminare il pueblo di Nahuatzen in occasione della più importante scadenza annuale legata alle celebrazioni in onore di san Luís Rey, che si svolgono nei giorni dal 24 al 28 agosto.
L’approccio si è fondato essenzialmente su un’analisi processuale condotta con una particolare attenzione alle dinamiche di modernizzazione, pur nella consapevolezza di una possibile valenza ideologica di quest’ultimo termine.
Si trattava in pratica di vedere come funzionasse il rapporto fra struttura ed antistruttura, seguendo per questo le suggestioni di Victor Turner (1969), che individua – com’è noto – nella liminalità rituale il punto focale di esplicitazione della communitas e di proposta dell’antistruttura, ma a sua voltapunto di partenza per nuove ipotesi strutturali. In tal modoè superato il concetto classico di una struttura statica rappresentata dall’insieme delle istituzioni preesistenti ecodificate. Si giunge così a vedere nella medesimastruttura i prodromi di uno sviluppo in progress, che va letto appunto in chiave di processualità.
Appare chiaro così quale importanza rivesta il dato storico, giacchéil quesito posto riguarda l’influenza della modernizzazione, di derivazioneesogena, sulla cultura specifica del pueblo in esame, alfine di appurare se quest’ultima resti sostanzialmente intattao ceda quasi del tutto rispetto ai nuovi trends.Un’alternativa ipotetica potrebbe essere quella di una convivenza pacifica eparallela delle due ways of life (modi di vita), salvo poi verificare una serie di atteggiamenti e comportamenti schizoidi checreerebbero disagi e patologie esistenzialiad individui incapacidi ricomporre le opposte spinte entroun’ottica personale tesa verso una sintesi unitaria.
La celebrazione festivadell’antistruttura non prescinde invero daun’organizzazione strutturata, segnatamente sul piano simbolico (si pensi alla divisione dei ruoli fra i barrios, alla duplicazione di statuedel santo, all’uso di quei simboli par excellence che sonole bandiere, ai significati attribuiti a varioggetti dellacultura materiale).
L’occasione risulta felice per la stessa pratica della communitas e non acaso ha favorito l’inserimento fra pari (inter pares),o quasi, pure dei ricercatori, che altrimenti sarebbero apparsi ancor più estranei alla comunicazionedialogante, in corsodurante tutto l’arco festivoe peculiarmente significata dall’offerta diagua de caña a tutti coloro che si incontrano per via.
I cinque giorni dellafesta – ma in realtà quasi non esiste una soluzione dicontinuità nel ciclo calendariale fra un evento specifico e quellodell’anno successivo – sono in effetti un set di liminalità perché si inseriscono fra duecondizioni strutturali, quellache precede e quella che segue cronologicamente. Vi è come una sospensione dei rapporti consuetudinari, con un recupero – in pari tempo – dei cardini valoriali di riferimento. E dunque ancora unavolta struttura ed antistruttura convivono e si rinviano a vicendain un’ambiguità perenne che dà luogo ad aggiustamenti ed interpretazioni sempre originali.
Avviene dunque che la festa venga organizzata e realizzata dalla gente del pueblo senza tenere in gran conto le autorità politiche e religiose del luogo. E tuttavia la chiesa e il municipio costituiscono due luoghi carichi di significato al punto che ogni fase dell’actio rituale prevede almeno un momento di riconoscimento delle due istituzioni emblematicamente presenti con le loro strutture edilizie proprio nella piazza che funge da crocevia dei 4 barrios di Nahuatzen.
Si hanno allora nel contempo delegittimazione e legittimazione, inosservanza ed osservanza dell’elemento strutturale, persino indifferenza (se nondileggio)ma anche ossequio rispettoso verso il potere costituito.
C’è il ritorno alle fonti della propria cultura, all’antica usanza dell’ubriacatura generale, disapprovata dai frati francescani – “conquistatori spirituali” -, ma consuetudine presente anche fra le divinità purépecha, nonché nella cultura tarasca come si rileva nella lámina 8.a e nella lámina 9.a della Relación de Michoacán dove è rappresentato Tariácuri che cerca occasioni per ubriacarsi e trova la moglie stessa ebbra di pulque [León 1979: 71, 73]. Occorre ricordare che gli ubriachi venivano uccisi con pali, secondo quanto narra Bernardino de Sahagun (1499-1590) [1956; López Austin 1981: 242-243] nella sua Historia Generalis. Occorre ribadire inoltre che anche la lotta-sfida con il toro quale amico-nemico segna uno spazio ed un tempo opportuni per un rapporto con la divinità e con la Weltanschauung che orienta la propria esistenza.
Le stesse infrazioni alle norme solite del vivere in comune altro non fanno se non rinforzare e convalidare la prassi comportamentale vigente: l’ubriacarsi è l’esito pressoché scontato di tutta la partecipazione alla festa, sino a coinvolgere da ultimo anche le donne, in un tripudio della devianza dal quotidiano, con bottiglie levate verso l’alto in un ritmo di danza senza sosta che precede il recorrido (giro) delle bande musicali per il pueblo. Non manca qualche ubriaco che si improvvisa direttore di una delle bande musicali, suscitando l’ilarità degli astanti. Tuttavia vi è sempre qualcuno che riaccompagna a casa chi sia troppo brillo, impedendo così che il malcapitato procuri molestie ad altri e finisca in prigione, da cui potrà uscire solo pagando un cospicuo riscatto. Altri poi evitano in tempo che qualche ubriaco (borracho) finisca incornato dal toro nell’arena dove si svolge il jaripeo, il rodeo taurino.
3. Forme e contenuti della festa
Secondo Cristián Parker [1996: 9-13] vi sarebbe una lotta fra cultura indigena e cristianesimo, con quattro esiti possibili: ribellione rafforzata dal ritorno alla religiosità antica, accettazione mediante integrazione nel cristianesimo, resistenza militante con ricorso ad enfatizzazioni messianiche, accettazione parziale ma con recupero sincretistico dei vecchi modelli culturali. Quest’ultima soluzione è probabilmente la più comune, verificabile anche nel caso della fiesta di Nahuatzen, dove si assiste ad una enfatizzazione della “auto-affermazione della comunità dinanzi al clericalismo della religione ufficiale” [Parker 1996: 107]. Come controcultura la festa afferma la vita, il femminile, il pathos, il vitalismo, l’espressività, la trascendenza. In definitiva essa rappresenta una risposta alla modernità [Parker 1996: 115].
Attraverso l’analisi delle manifestazioni di religiosità popolare è dato comprendere il significato e la portata dei processi di costruzione delle identità in relazione con i culti centrati su specifiche ricorrenze calendariali, il peso delle modalità devozionali riguardanti le figure di santi a partire dai pricipi ispiratori e dai modelli simbolici che li caratterizzano, la rilevanza delle rielaborazioni culturali delle manifestazioni popolari come tramite espressivo di resistenza etnica a proposte provenienti dall’esterno, l’influenza delle soluzioni sincretistiche che mettono insieme i dati più antichi (e più radicati) con quelli nuovi importati da altri. A tal proposito Félix Báez-Jorge parla esplicitamente di una magizzazione dei santi, cioè di un procedimento che trasforma i santi in figure magiche. Si tratterebbe infatti di “santos nagualizados” [Báez-Jorge 1998: 14], per cui i santi subirebbero una trasformazione che li renderebbe come dei maghi (naguales). D’altra parte la presenza del clero, di estrazione europea nella prima fase della conquista e locale in tempi recenti, ha rappresentato e rappresenta una propensione tendenzialmente egemonica, mirante a mortificare se non a reprimere ogni forma di espressione religioso-popolare. La risposta indigena assume di conseguenza varie alternative: adattamento-integrazione, resistenza-reazione, innovazione-creazione; ciascuna operante in modo autonomo, ma anche con intersezioni, intrecci, fra le diverse modalità, sino a trovare quella più efficace per conservare la propria appartenenza originaria, l’identità culturale primigenia, il riferimento etnico abituale.
Inoltre va evidenziato a chiare lettere che “el sistema de fiestas no tiene prácticamente ningún efecto sobre la distribución de los ingresos de la comunidad, ya que únicamente provoca episodios de consumo intensificado, pero no la redistribución de la riqueza” (il sistema di feste non ha di fatto alcun effetto sulla distribuzione degli introiti della comunità, in quanto produce solo episodi di consumo intenso, ma non la ridistribuzione della ricchezza).
Nahuatzen ha una popolazione prevalentemente dedita alla ganaderia, cioè all’allevamento del bestiame, con qualche attività nel campo dell’agricoltura. Il terreno è di origine vulcanica, in quanto la comunidad si trova al centro della Sierra Tarasca (che prende il nome di Sierra de Nahuatzen), non di rado caratterizzata da eruzioni laviche che sommergono interi paesi, come è avvenuto nel 1943 presso il vulcano Paricutín (alto 2.575 metri), che con il suo materiale lavico avrebbe ricoperto pure la tomba (yakata)dei re e dei principi purépecha.
La lingua parlata è per lo più lo spagnolo, ma non mancano di quelli che speciefra gli anziani conosconoanche il purépecha/tarasco,l’idioma degli antichi avi. Quest’ultimo è ben più diffuso nei pueblitos ed annovera una lunga serie dicanti e poesie d’impronta popolare. Tuttavia a scuola l’insegnamento ufficiale è inspagnolo.
Secondo Verástique [2000: 32-33] “presso i Purhépecha, le pratiche di semina e raccolta rivelavano un’ideologia egalitaria del lavoro collettivo. Questo ethos si manifestava nella consumazione festiva e nella generosa ospitalità mediante la ridistribuzione dei raccolti. L’ethos agricolo dei Purhépecha rifletteva anche i valori dello stato. Nel 1519 lo stato Purhépecha era un sistema strutturato verticalmente in cui autorità, status e ricchezza si concentravano al livello più alto. In questa struttura sociale verticale la cooperazione e la solidarietà si identificavano con l’abilità delle caste dell’élite nell’organizzare, determinare e distribuire la produzione annuale”.
I 4 barrios di Nahuatzen (dove solo pochissimi anziani sono in grado di parlare purépecha) svolgonoa turno i ruoli previsti per la festa disan Luís Rey: nell’ordine los soldaditos, los moros, los toros, el castillo. In ogniquartiere vi è un carguero, un responsabile che si autocandida di voltain volta per assumere la gestione della festa in relazioneai compiti affidati alla sua zona. Secondo la consuetudine, nel pueblo si fanno paragoni fra i vari cargueros, che vengonomessi a confronto con i loro predecessori, prendendo in considerazione la riuscita della parte della festa da loro organizzata; si tiene anche conto del fatto che le disponibilità economiche di base, a livello familiare, siano uguali o meno, sicché è considerato degno di maggior prestigio chi pur non avvantaggiato dalle sue condizioni finanziarie sia però riuscito a disimpegnarsi meglio nel suo ruolo, con maggior soddisfazione del barrio di appartenenza e dell’intero pueblo. Il ruolo di maggiorprestigio è quello di carguero de los toros, in quanto èrichiesta una particolarecompetenza organizzativa, accompagnatada una discreta disponibilità finanziaria soprattutto perla realizzazione del jaripeo,che dura tre giorni conspettacoli sia al mattino che al pomeriggio.
Il carguero de los toros nel 1996, nel quarto barrio, aveva con sé non solo l’immagine della Virgen del Cortijo, protettrice tipica per il ruolo dei tori, ma anche quella di santa Helena, patrona de los moros, di cui egli era stato carguero in precedenza; e manifestava pure l’intenzione di candidarsi a carguero per una terza volta.Non è un caso che la prenotazione per questo ruolo venga effettuata con molti anni di anticipo (nel 1996 le prenotazioni per il carguero de los toros arrivavano sino al 2010) [Cancian 1986]. Menoimpegnativoè el castillo, eredità spagnola che si riduce all’incendio di alcuni artifici pirotecnici, ma è opinione condivisa che senza il castillo non c’è fiesta, anche se proprio questo è la manifestazione più evidente dello spreco, cioè del derroche. Una cura maggiore è necessaria per gli altri due aspettiche presuppongono l’impiego di cavalli e costumi particolari (unpo’ più approssimativi quelli dei bambini che si vestono da piccoli soldati, ricercati e costosi quelli dei giovani-adulti che indossano gli abiti sgargianti dei mori).
Jiménez Castillo [1985: 372] descrive con precisione la condizione dei cargueros, con particolare riferimento ai problemi economici che li concernono: “in genere, i cargueros rappresentano una famiglia che ha le possibilità economiche per sostenere il cargo, o che da anni prima ha risparmiato a tal fine; altri che non si trovano in tali condizioni chiedono denaro in prestito per poi restituirlo con prodotti agricoli o stoviglie; alcuni vendono una o due mucche, maiali, cavalli e persino affittano per vari anni le proprie porzioni di terreno agricolo, o le vendono del tutto. Di conseguenza, alcuni cargueros organizzano la celebrazione nella forma più modesta possibile o rifiutano di impegnarsi in un cargo, il che porta in alcuni anni a far sì che la celebrazione si svolga grazie alla collaborazione di tutti gli abitanti della comunità e talora che venga annullata”.
Nahuatzen non è forse nella medesima situazione di difficoltà di Huancito, studiata da Jiménez Castillo (1985), ma ciò non toglie che l’impegno economico assunto da un carguero sia particolarmente gravoso. Il costo della festa nel 1982 risulta di circa600.000 pesos (quasi 12.000.000 di lire italiane dell’epoca) già per lasola prestazione delle bande musicali provenienti da altre zone dello stato di Michoacán (per los soldaditos del primo barrio c’era la Banda de Música La Michoacana de Ichán con director il maestro Argemiro Ascencio; per los moros del secondo barrio la Banda de Música Santa Fe del Rio; per los toros del terzo barrio la Banda Musical de Tarímbaro La San Marqueña). In generalesi può calcolare che perogni famiglia il contributo alla celebrazione comunitaria si aggiri sui 2.000 pesos (circa 40.000lire italiane).
La chiesa locale dal canto suo per l’occasione della festa dichiara offerteper 30.000 pesos (circa 600.000 lire italiane), ma ancora di meno fino al 21 agosto, come documentato in un foglio affisso all’ingresso del tempio: “Donativos entregados en la notaría parroquial, del 15 al 21 para gastos de la fiesta de Patrono San Luís…Total 15.430”; l’offerta minima di una famiglia o di un singolo assomma a 50 pesos, la massima di 1000.
Secondo il cura Rafael Rodriguez, che pare conoscerli bene, i nahuatzeños sono gente rispettosa, munita di una certa nobiltà di carattere e di comportamento (ma qualche contrasto può nascere talvolta tra il parroco e la presidenza municipale). La loro povertà economica li renderebbe anche poco consapevoli dei meccanismi di funzionamento del mercato e della politica. Negli abitanti di Nahuatzen appaiono forti il senso della famiglia ed il rispetto della vita, tanto che l’aborto sarebbe poco praticato, ed anche il divorzio (nel 1987 nessun caso ufficiale, 11 di fatto). Il rispetto, che è detto kashumbikua a San Pedro Ocumicho [Padilla Pineda 2000: 256-260] ma anche altrove (come dimostra anche Jacinto Zavala [1998] nativo di Nahuatzen e vissuto a Cherán), è una caratteristica che emerge soprattutto durante la fiesta e che in realtà, come sottolinea Padilla Pineda [2000: 50], è diffusa in tutta la vita comunitaria, costituendo un insieme di comportamenti, stili di vita, solidarietà a tutto campo: “il comportamento referenziale e ponderato verso gli altri si chiama così, ed è obbligatorio in contesti religiosi e cerimoniali come quelli che comporta l’avere a che fare con le immagini durante le feste. Però è anche di somma importanza nei riti del ciclo di vita individuale. Ugualmente si definisce rispetto – per esempio nell’espressione persona di rispetto – un valore riconosciuto socialmente in un individuo”. In definitiva, secondo Padilla Pineda [2000: 284], “il rispetto – nel senso di riconoscimento – è il tipo di vincolo sociale proprio dell’ordine religioso-cerimoniale”.
Le donne non hanno funzioni specifichedurante la festa, a meno che non partecipino come marichas, cioè ragazze da marito, al gruppo de los toros, portando con sé una piccola riproduzione di un toro (con evidente simbologia sessuale), ballando con i jinetes ed incitandoli a ben cimentarsi nel jaripeo per la conquista della palma, il premio che consiste di solito, secondo le circostanze del momento e le possibilità dell’offerente, in un toro, oppure un cavallo, un elettrodomestico, una lavatrice elettrica od un trofeo, od anche una piccola struttura in legno cui sono appesi vari donativi per il vincitore: abiti, frutta varia, molte banane, bottiglie di alcolici, oggetti di uso quotidiano (camicette, scialli, sigari, cappotti, fazzoletti, radio, televisori) o di divertimento, ecc.
Le donne aiutano nei vari preparativi, masenza far parte della comisión che coadiuvail carguero, la cui moglie o madre è però una sorta di regina. Ella riceve in casa i donativi di contributo alle spese dellafesta e si adornail capo con tanti nastri colorati (listones) in ragione numerica dei doni ricevuti (ma anche ogni nodo o fiocco indica ed enumera un dono avuto). Si usano molto anche i coriandoli di carta (confeti) che vengono lasciati cadere a profusione sul capo dei jinetes come augurio di vittoria o su jinetes e marichas insieme come augurio matrimoniale o comunque su chi si incontra in casa o per strada, chiedendone previamente l’autorizzazione (“con permiso”). Durante il jaripeo invece dei coriandoli, in forma augurale di abbondanza e vittoria, si possono lanciare in campo anche banane, mele ed altra frutta.
Coloro che si recano in visita alla casa del carguero (essa funge per un anno da tempio domestico) “bussano con i piedi” perché le mani sono impegnate per portare i regali. Agli uomini vengono offerti sigari od abiti. Coloro che hanno portato qualche dono ricevono a loro volta un omaggio. Va sottolineato il fatto che il vero carguero della casa non è tanto il giovane che riveste ufficialmente tale ruolo quanto piuttosto suo padre che lo ha posto in condizione di poter onorare compiutamente l’impegno assunto. Di solito chi porta donativi si ferma poi anche a mangiare. Verso gli ultimi giorni della fiesta anche le donne cominciano a percorrere le strade del pueblo danzando e ubriacandosicome gli uomini.
Il sistema di cargos ha senza dubbio creato problemi nei rapporti fra chiesa ufficiale e religiosità popolare, con il sacerdote in opposizione ai devoti, come mostra il caso di Cherán [Castile 1974: 43, 147-153]. Del resto dopo la Rivoluzione del 1910 si erano andati sempre più distinguendo i ruoli gerarchici di tipo civile-amministrativo rispetto a quelli di natura socio-religiosa. Lo stesso Partito Rivoluzionario Istituzionale, sin dalla sua fondazione nel 1929, ha sempre tenuto a separare lo Stato dalla chiesa cattolica. La lunga presenza del P. R. I. al governo del Paese ha favorito ancor più l’atteggiamento anticlericale, impedendo che i ministri del culto indossassero abiti religiosi in pubblico. In alcuni casi si sono anche proibite le feste religiose.
Particolarmente diffuso resta il sistema della mayordomía, cioè della responsabilità affidata ad alcuni di presiedere l’organizzazione delle feste religiose. A Nahuatzen, come altrove, dopo l’accordo cardenista e con la pacificazione seguita alla ribellione cristera,sono state riviste le varie cariche civili e religiose. In particolare sono stati chiariti i contenuti e le forme dei cargos religiosos, che hanno il carattere di responsabilità principale o di rappresentanza ma comunque con forte autorità per fare rispettare la pindekua consuetudinaria (il costume tradizionale) [Sepúlveda 1974]. Nonostante la presenza in loco di un cura, sacerdote-parroco, i cargueros religiosi [Jimenez Castillo 1985: 384-387] continuano ad essere nominati anno per anno, barrio per barrio, rispettando la lista di prenotazioni registrate in un apposito quaderno e talora risultano anticipate di molti anni rispetto al periodo di effettivo svolgimento del ruolo assegnato per la festa di san Luís Rey. Tali cariche di prestigio, che legittimano l’affidabilità di un soggetto, assumono altresì un carattere familiare. Solitamente sono dei coniugi che si fanno avanti per poter accedere all’ambito cargo. Dietro la coppia coniugale opera però anche la famiglia di provenienza, insieme con i parenti.
A Nahuatzen di solito il sacerdote residente tende a sminuire la centralità del ruolo dei cargueros, anche in considerazione dell’elevato costo per le famiglie e dello spreco di risorse. Insomma, mentre altrove vi è un confronto fra parroco e comunità a Nahuatzen invece l’autonomia dei cargueros è massima, rappresentando così un’opposizione, una resistenza rispetto alle istanze del rappresentante ecclesiastico. Insomma il cura di Nahuatzen non ha il controllo della fiesta. A Cherán, ad esempio, a lungo si è discusso fra parroco e comunità sull’organizzazione festiva. Il tentativo di creare associazioni religiose fedeli alla gerarchia se riesce sul piano operativo-pastorale della parrocchia non è in grado di scalfire il preesistente sistema di cargos e men che mai riesce a creare le premesse per un subentro di nuovi organismi come promotori della festa patronale. Va precisato però che se la responsabilità è del carguero tuttavia ormai gruppi cospicui di persone, oltre i familiari, intervengono per offrire un sostegno organizzativo ed economico a chi gestisce una delle 4 parti principali della fiesta. Le famiglie da sole, del resto, non sono quasi mai capaci di offrire l’intera somma necessaria per lo svolgimento della parte della fiesta loro assegnata. Per questo alcune persone autorevoli formano una commissione che percorre le strade del barrio raccogliendo il denaro occorrente per l’allestimento di un quarto dell’intero programma festivo. In tal modo si sottolinea anche il legame solidale all’interno della famiglia, nella famiglia estesa (patrilocale e già tipica degli antichi purépecha), fra i parenti, tra gli amici, nell’intero quartiere coinvolto per realizzare una parte del momento celebrativo comunitario. Si forma e si rafforza così una sorta di “credo egalitario de la fiesta” [Brandes 1988: 56, citato da Dietz 1999] e si supera la difficoltà dovuta al fatto che nessuno nel pueblo è in grado da solo o con la sua famiglia di sopportare l’intero carico di un programma festivo articolato su più giorni e con manifestazioni assai dispendiose da organizzare (per fuochi pirotecnici, bande musicali, danze, costumi, toril, cioè l’arena con gradinate in legno per il jaripeo con i tori). Nel 1982, ad esempio, nel primo barrio, probabilmente il più povero del pueblo ma anche il più calador, cioè il più impegnato, la comisión di 60 membri (ognuno dei quali versava 1.000 pesos) raccoglieva – come già ricordato – una somma-base (uguale per tutti i capi-famiglia) di 600 pesos: solo per l’alimentazione già si dovevano spendere 30.000 pesos ogni giorno della festa. Ma in altri barrios si superavano i 1.000 pesos come quota per famiglia.
I comisionados, i membri della commissione, sono di solito i giovani maschi novelli sposi degli ultimi dodici mesi (oppure anche altri che lo chiedono). Chi è in commissione paga una quota più alta degli altri capi-famiglia. Scapoli e nubili non sono tenuti a versare alcuna quota perché non presiedono una famiglia.Il sistema dei cargueros [Sepúlveda 1974] va dunque a sostituire quello dei mayordomos. D’altra parte occorre ricordare che, dopo la conquista spagnola, in ogni comunità purépecha vi era un governo locale degli indios, che veniva eletto ogni anno ed era costituito da “los oficiales de república” (gli ufficiali di repubblica), che si riunivano in cabildo, o república, raccoglievano i tributi, amministravano la giustizia, facevano istanze al governo, gestivano le terre comunali, organizzavano e finanziavano le feste religiose, soprattutto del Natale, della Pasqua, della Pentecoste, del Corpus Christi, del Giovedì Santo ed ovviamente del santo patrono. In effetti la dizione “pueblo de indios” era pienamente legittima sin dalla metà del XVI secolo ed aveva valore giuridico [Tanck de Estrada 2000]. Il termine “indígenas” cominciò ad essere usato dopo il 1821. Per le feste religiose si usava molta parte del denaro comunale, tanto che dal governo statale venivano critiche per il costo dei pranzi, delle bevande, dei fiori, dei razzi, dei fuochi pirotecnici e degli addobbi.
Nel 1982 si era notato che quasi non esisteva alcuna forza pubblica per il controllo dell’ordine durante la festa, fatta eccezione per una guardia che custodiva gli uffici municipali durante la notte. Con il passare del tempo però sono aumentate le violazioni della legge, per cui si è stati costretti ad incrementare il numero dei poliziotti municipali, tutti armati e facenti capo al DSPM, cioè al Dipartimento dei Servizi di Polizia Municipale.
5. Riti e ruoli
Un mese prima dell’inizio della festa vengono formate le commissioni che per ogni barrio organizzeranno la parte di competenza dei festeggiamenti.
Nei giorni precedenti la festa, i danzatori sia del gruppo dei moros che dei soldaditos si preparano intensamente, più volte e sotto la guida di un maestro, per ben eseguire in pubblico la loro danza, in particolare imparando a tenere il ritmo giusto, a fare i movimenti corretti ed esattamente al momento previsto. Uno sparo di mortaretti serve per richiamare moros e soldaditos alle prove di danza che si svolgono nel corral della casa del rispettivo carguero.
Dieci giorni prima della festa ha luogo nella casa del carguero de los toros la danza del cerrito (piccolo monte), che è posto al centro del corral ed attorno al quale ballano marichas e muchachos. In cima al cerrito vi sono delle fasce colorate. Per ogni maricha c’è anche una bottiglia di vino tinto, cioè di colore rosso intenso come il sangue del toro. Alla fine tutte le bottiglie vengono uitilizzate dalle marichas per offrire da bere direttamente alle labbra dei presenti. Poi si chiede a qualche proprietario di tori di fornire il suo hierro quemador, cioè il ferro che serve per marcare gli animali, oppure il registro (patente) attestante la proprietà dei tori. Il ferro (od il registro) viene collocato al centro del cerrito. Per riaverlo il proprietario deve fare un dono. Non è difficile individuare in questa cerimonia un carattere pronubo, ben augurante per le coppie di sposi che stanno per unirsi in matrimonio. Il vino-sangue del toro ha un chiaro significato di liquido seminale, in quanto va a congiungersi a livello labiale grazie all’offerta delle donne. La danza poi è il momento fautore di tutto l’incontro. Il cerrito inoltre è il luogo unificante, la fonte, la matrice emblematica di ogni unione, il punto di convergenza, tratto dal contesto ambientale e dunque carico di immaginario anche per la sua identificazione con la sorgente di ricchezza del pueblo. Infine lo scambio che porta al donativo finale è il suggello dell’alleanza stretta, della compartecipazione legittimata dalla rinunzia ad un bene (l’oggetto del dono) in vista di un acquisto migliore (il recupero della potenza insita nel ferro marchiatore o nel titolo di proprietà).
Il 24 agosto ha luogo la procesión o entrada de la cera con ceri lavorati (come ad Ocumicho, nello stato di Michoacán, ed a Siviglia, in Spagna). Alle 11 c’è la messa delle prime comunioni. Alle 18 si celebra la messa per i cargueros e las comisiones. Ma nel programma ufficiale, affisso alle porte della chiesa e nelle strade, non vi è mai stato, negli anni in cui si è svolta la ricerca, alcun accenno agli altri momenti profani della fiesta.
Il 25 agosto a partire dalle ore 6 del mattino le bande musicali suonano le mañanitas (percorrendo le strade del pueblo) e le alboradas (musica classica, in piazza). Alle ore 6,30 ed alle ore 8 del mattino vengono celebrate due messe. Quella solenne concelebrata ha inizio alle ore 12 ed è accompagnata dai canti del coro parrocchiale e dalla presenza delle marichas; in anni successivi al 1982 si sono visti partecipare anche i moros. Davanti alla porta della chiesa qualche donna vende, insieme con oggetti religiosi, il pan bendito (pane benedetto). Protagonisti della giornata sono i moros ed i soldaditos (erano 34 nel 1982). Questi ultimi rappresenterebbero in realtà degli spagnoli, anche se travestiti da francesi. Pur iniziando le loro danze lo stesso giorno dei moros, i soldaditos però perdono di importanza a tutto vantaggio dei moros, dominatori incontrastati della fiesta anche perché si spostano a cavallo e ne discendono quasi solo per eseguire la loro danza (gruppi di moros danzanti sono presenti in molte altre feste messicane, fra l’altro a San Pedro Ocumicho [Padilla Pineda 2000: 118-120; 222-227] ed a Ihuatzio, dove la festa ha luogo dal 3 al 6 ottobre [van Zantwijk 1974: 177-180]). In verità anche i soldaditos procedono a cavallo, aiutati dai genitori, ma ovviamente si impongono meno dei giovani adulti che impersonano i moros. Comunque, per quanto latente, il confronto tra moros e soldaditos è ricorrente: gli uni e gli altri danzano, vanno a cavallo, sono seguiti da bande musicali, hanno un carguero e una comisión, una protezione religiosa (di san Luís o di santa Helena) e tuttavia l’esito migliore rimane senza ombra di dubbio quello dei moros, cioè, in definitiva, quello degli indigeni in antagonismo con gli stranieri.
Il 25 agosto del 1982 la processione principale, prevista alle ore 4 del pomeriggio, dopo l’esposizione del Santissimo Sacramento, la recita del Rosario, la Benedizione Eucaristica ed il cambio d’abito alla statua grande di san Luís, non si fece perché a detta del cura c’erano solo 30-40 persone e dunque non valeva la pena far uscire la statua del santo per le strade (sembra che in passato intervenisse alla processione anche il vescovo od un suo delegato, ora non più). Un’altra giustificazione fornita era che la statua del santo fosse molto antica e dunque meritasse particolare rispetto. Alla sera si fecero i due castillos (del costo di 50.000 pesos ognuno).
In occasione dell’incendio del castillo entra in funzione il torito, una costruzione in legno a forma di piccolo toro azionata da un pirotecnico. Il torito di luce, con bengala fumanti e scoppi vari, fa la vuelta sulla piazza (mentre s’incendia il castello) ed è preso in giro dai bambini. A carnevale si usa un altro torito fatto di tela; un caporale procede su un asino ed uomini vestiti da donne (maringuiyas) vanno dietro il torito: ancora una volta si dà la burla agli spagnoli. Ma è detta anche torito la danza delle marichas (erano 28 nel 1982), che ballano nelle cerimonie collegate con la parte della fiesta relativa ai toros.
Il giorno 26 agosto vi è il jaripeo, mattina e pomeriggio. Lo stesso dicasi per i due giorni seguenti.
Nel 1981 un giovane fu colpito da varie coltellate. Scampato alla morte, nell’anno successivo per mantenere una promessa fatta (“para cumplir una promesa”ovvero manda) ha indossato il costume del moro cambiando d’abito ogni giorno (tres capas, tre mantelli, ciascuno in onore di un santo: in primo luogo san Luís, ovviamente, ma poi anche santa Helena,la patrona dei moros). Per far ciò è stata necessaria una somma ingente, raccolta con l’aiuto di familiari, parenti ed amici. Prendersi l’impegno di fare il moro od il soldadito deriva, non infrequentemente, da una promessa (manda) o dal desiderio di voler offrire qualcosa, di privarsi di alcune soddisfazioni, di rinunciare a talune convenienze anche economiche, il tutto inteso come una forma religiosa di devozione e di dedizione.
Nel 1982 ben nove autobus (invece di uno, come al solito) giungevano da Città del Messico, in occasione della festa. Ma in molti usavano il camion come mezzo di trasporto ad uso misto, per merci e persone. Nel 1996 operavano con destinazione Nahuatzen gli autobus della ditta Galeana in collegamento con Sevina, Pátzcuaro e Morelia, nonché quelli della ditta Autobuses de Occidente in collegamento con Cherán, Zamora, Uruapan e Città del Messico.
Nel 1987 l’affitto di una stanza per i giorni della festa costava 6.000 pesos per una persona e 8.000 per due persone.
Seguendo la turnazione dei ruoli festivi affidati di anno in anno a ciascun barrio,nel 1987 il primo barrio curava il castillo, il secondo i soldaditos, il terzo i moros, il quarto i toros. La sequenza abituale resta dunque la seguente: soldaditos, moros, toros e castillo. L’andamento è antiorario rispetto alla disposizione topografica del pueblo, partendo dal primo barrio, proseguendo con il secondo e così via, tenendo conto che l’incrocio fra i 4 barrios è dato dall’intersecarsi della via 18 de Marzo (in orizzontale) con la via Morelos (in verticale), per cui ogni quadrante corrisponde ad un barrio. Il quadrante in cui si trova il municipio (quest’ultimo però è zona neutra) corrisponde al primo barrio mentre quello in cui si trova la chiesa parrocchiale (anch’essa considerata neutrale) appartiene al secondo barrio, invece il quadrante occupato in orizzontale dalle vie I Zaragoza, Abasolo, Melchor Ocampo, Leona Vicario, Venustiano Carranza e Belisario Domínguez ed in verticale dalle vie Lázaro Cárdenas, Juárez ed Emiliano Zapata è quello del terzo barrio, infine l’ultimo quadrante posto sul lato dove si trova il cimitero è il quarto barrio. Il principio territoriale della divisione in barrios è alla base di gran parte dell’organizzazione sociale di Nahuatzen.
PUEBLO DI NAHUATZEN
Divisione in barrios
Ogni sera, soprattutto i giovani – in particolare durante la festa – fanno continuamente il giro della piazza, in modo abbastanza ordinato e concentrico: il cerchio interno, con andamento antiorario, è quello delle donne mentre il cerchio esterno, con andamento orario, è riservato agli uomini. Ciò avviene dalle 7 alle 10 di sera. Si usa dire in proposito: vamos a la vuelta a la plaza (andiamo a fare un giro in piazza). Un’altra espressione tipica dei giovani è: “vamos a tomar” (andiamo a prendere da bere).
Nel corso della fiesta la gioventù ha un momento riservato al baile. Nel 1982 si svolse nello spazio all’aperto antistante una scuola (anche i moros andarono a ballare a suon di ritmi nordamericani; le donne pagavano 250 pesos e gli uomini 350, i posti riservati costavano 400), nel 1987 nell’auditorio municipale (fino alle 2 di notte; i caballeros pagavano 2.000 pesos, le damas 1.500) ed ancora nell’auditorio nel 1996 (suonava il gruppo strumentale dei “Samurai”, con scarsa partecipazione di giovani, un poliziotto con fucile all’ingresso ed un ubriaco mandato fuori). Di solito anche i giovani rimasti all’esterno dei luoghi dei balli a pagamento continuano a danzare agli angoli delle strade, ben oltre la mezzanotte. Comunque, al di fuori della fiesta, ogni sabato la gioventù di Nahuatzen usa andare a ballare a Paracho.
La festa è fortemente aggregante ed è occasione di scambi economici, affettivi e simbolici fondamentali per la vita della comunità. In casa si preparano churipo (zuppa di carne) e ripieni di carne e peperoncino (nacatamales). Si beve mezcal (acquavite di agave) ovvero tequila.
Nei giorni che precedono e seguono il 25 agosto si svolge anche un mercato, che comincia il sabato prima della festa e termina il sabato dopo la festa, cioè inizia e finisce proprio nel giorno settimanale previsto per il suo svolgimento normale in corso d’anno. Ma il mercato della fiesta è assai più ricco e vario di quello consueto. Inoltre arrivano venditori e commercianti anche da luoghi abbastanza lontani da Nahuatzen, tanto importante e redditizia appare ed è l’occasione da un punto di vista economico. Espongono la loro merce commercianti di abiti e calzature, ma anche artigiani della ceramica, confezionatori di canestri e stuoie in giunco. Si vendono dolci e frutta secca, bibite e tartine con peperoncino (enchiladas), piccole frittelle (taquitos), pan con miel (pane e miele), pesce affumicato, pane zoomorfo (con raffigurazione di vari animali). Un alimento speciale è il pozole, cioè brodo di carne, peperoncino e granturco floreado (aperto) cotto. L’abbondanza di cibo durante la fiesta è tale da far dire che anche i cani riescono a festeggiare nel mangiare. Non mancano giochi e giostre (il prezzo per un giro è, nel 1982, di 15 pesos), tiro a segno, lotteria, spettacoli comici, ruota della fortuna, venditori di palloncini (dalle forme più varie, anche di pesce), burattinai (titiriteros) ed uccellini della fortuna (che affacciandosi dalla loro gabbietta estraggono con il becco un bigliettino, a caso fra tanti, per predire il futuro di un avventore). Secondo García López [1984: 106], “el mercado, a través del sistema de fiestas obliga a la comunidad al consumo de diferentes clases de bienes que provienen del sector industrial como del rural” (il mercato attraverso il sistema di feste costringe la comunità al consumo di diversi generi di beni che giungono sia dal settore industriale che da quello rurale).
Mercato e divertimenti attirano molti campesinos del circondario, sia meticci che indigeni. Per la fiesta arrivano anche molti giovani di altre comunità vicine e numerosi emigrati (di rientro da altre città del Messico o dagli Stati Uniti, dove fra l’altro hanno potuto utilizzare la legge Simpson-Rodino del 1986, per la regolarizzazione dei lavoratori stranieri clandestini). Molti tornano al pueblo appositamente per la fiesta: Paulo González Villanueva nel 1984 era tornato dal Canada, ma successivamente è andato a vivere a Zamora. Jaime González Villanueva invece era tornato dall’Ecuador per la festa del Corpus Christi (durante la quale c’è anche il torito).
Il carattere della festa, in effetti, è per vari aspetti secolare: è l’occasione in cui si indossano per la prima volta abiti nuovi o si calza un fiammante paio di scarpe in cuoio, compera di solito piuttosto recente effettuata al mercato in piazza, o si esibisce un nuovo sombrero, magari appena acquistato presso un venditore ambulante (che gira per le strade del pueblo con la sua enorme pila traballante di sombreros di varie fogge, sovrapposti l’uno sull’altro).
Per fare bella figura nella fiesta si fanno molti risparmi in corso d’anno, specialmente se un proprio familiare figurerà come moro, maricha o soldadito. C’è un’idea ricorrente in ogni fase della festa: si applica a chi si espone al giudizio comunitario svolgendo un ruolo specifico. In effetti in base all’impegno economico profuso, si viene valutati (“vale más, gastó más”, cioè vale di più perché ha speso di più; ed il costo maggiore, si sa, è quello de los toros e delle bande musicali).
Nel 1987 la banda dei soldaditos costava 2.000.0000 di pesos (nel 1982 il costo medio di una banda si aggirava attorno ai 200.000 pesos, prezzo pattuito prima del mese di agosto di quell’anno, allorquando si ebbe una forte crisi del valore di acquisto del peso; per questo i costi degli anni successivi risultano lievitati di molto). Le quote da pagarsi da parte dei comisionados erano di 15.000 pesos. Gli altri pagavano 7.000 pesos. Il primero comisionado aveva il sombrero, il secondo comisionado un fiore (la dalia, solitamente bianca, detta anche chaqualalate) sul cappello. Ma c’era anche un tercero comisionado. La banda musicale dei toros costava 2.600.000 pesos (l’ingaggio della banda è considerato un atto fondamentale della festa; si narra che se per esempio qualcuno non volesse provvedervigiungerebbe san Luís stesso su un cavallo bianco a promettere, in cambio, un buon posto di lavoro). Anche ogni comisionado de los toros versava 15.000 pesos, come quelli de los soldaditos. Nello stesso anno i moros erano 40, con un costo di 150.000 pesos per l’abito completo, la ropa, talora prestata da un famiglia all’altra. Il loro addestratore, Luís Herrero (in attività da 19 anni), percepiva 5.000 pesos. La stessa somma era prevista per il trainer dei soldaditos, Rogelio Paleo. Entrambi gli istruttori delle due danze (di moros e soldaditos) risultano poi gli stessi di anno in anno.
Per ogni tablado (corrispondente a 100 posti) nel toril, cioè nell’arena dove si svolge il jaripeo, si versano 4.000 pesos alla presidenza municipale. Il costo dell’accesso per il pubblico è di 300 pesos a persona se il jaripeo ha luogo di mattina, di 500 nel pomeriggio. Pertanto da ogni tablado si ricavano rispettivamente 30.000 e 50.000 pesos. Si può anche chiedere di ottenere un intero tablado: ve ne sono ben 60per un totale di 6.000 posti; l’assegnazione di 40 tablados su 60 si effettua per sorteggio. Per ogni jaripeo sono previsti fra 6 ed 8 tori, ma il totale giornaliero è di 14 tori. Alla fine vengono presentati di solito due toritos (torelli). In definitiva nei tre giorni si esibiscono 42 tori che provengono da sei ranchos diversi, uno per ogni jaripeo mattutino o pomeridiano. In ogni rancho c’è un caporale dei tori: provvede a governarli ed a condurli al jaripeo; si tratta di un lavoro faticoso e rischioso. Nel 1996 Francisco (detto Pancho) Rodriguez, addetto al rancho “Mustang” di proprietà di José de Jesús Villanueva Tórres, poco prima della fiesta è stato ferito gravemente dal corno di un toro, che gli ha procurato una ferita profonda alcuni centimetri. Nondimeno egli ha voluto e potuto svolgere regolarmente il suo compito.
Il costo di ciascun jaripeo di mattina o pomeriggio è sempre di 250.000 pesos (ma occorre ricordare che nel passato non era previsto alcun prezzo da pagare per la partecipazione dei tori all’evento; si narra che se per esempio qualcuno non avesse voluto offrire un suo toro per il jaripeo sarebbe giunto san Luís stesso su un cavallo bianco ed accompagnato dalla banda a promettere, in cambio dell’offerta dell’animale, un buon andamento della ganadería, cioè dell’allevamento). Il costo complessivo per los toros nei tre giorni della festa è di 1.500.000 pesos. Un comisionado od un’altra persona può offrire il pagamento di un jaripeo come omaggio per il carguero.
Nel 1987 ogni capofamiglia (jefe de casa) versava 10.000 pesos per l’organizzazione della parte della fiesta di competenza del suo barrio (nel 1980 la quota era di 300 pesos, 500 nell’anno successivo [García López 1984: 101], ma la cospicua differenza registrata negli anni seguenti si spiega con la forte svalutazione del peso avvenuta nel 1982). In genere, però, chi era impossibilitato a versare la sua quota partecipava prestando la sua forza lavoro.
Da un barrio con 350 capifamiglia si ricavano 3.500.000 pesos. Ma il quarto barrio nel 1987 aveva solo 140 jefes de casa, per cui era in difficoltà per l’organizzazione della sua parte per la fiesta. I membri della commissione erano 124 (detti comisionados o incabezados).
Per l’accoglienza delle bande musicali si comprano letti di materia vegetale (stuoie di giunco), detti petates. Dopo l’uso per la festa, vengono rivenduti. Ogni carguero deve offrire un giorno di vitto (comida) per la banda. Negli altri giorni si provvederà diversamente. Il soggiorno della banda dei toros è il più lungo e costoso perché dura 5 giorni (a partire dal pomeriggio del 24 agosto). La banda giudicata migliore ottiene un premio (per esempio nel 1986 è stato consegnato un oggetto in rame, in altri anni una coppa od un trofeo).
Il sistema di cargos e l’attribuzione del ruolo del carguero seguono una rotazione annuale e danno luogo a due figure diverse: il proprietario ed il suplente nel cargo. Il carguero e la sua famiglia, di solito di umili origini e di povere condizioni o poco più, assumono l’impegno di patrocinare un santo per un anno intero e di rivestirlo con un nuovo abito: presso la loro casa, un’apposita stanza viene adornata di fiori ed adibita al culto del santo (collegato al ruolo specifico assegnato al barrio per quell’anno). Ma il cura Rafael Rodriguez non attribuisce a tale luogo il carattere di un tempio domestico, in contrapposizione al tempio ufficiale, e lo considera solo un modo per riunirsi, ritrovarsi, solidarizzare e parlare con il carguero, dare importanza alla sua famiglia; pertanto – a suo parere – non esisterebbe alcun conflitto, neppur latente, fra la statua del santo conservata nel barrio e quella venerata in chiesa. La percezione del parroco è che comunque tutti si rechino in chiesa, dopo l’omaggio reso in casa del carguero. Anzi la chiesa cattolica sembra essere una casa comune per tutti, visto che anche i protestanti locali, alcuni battisti, visiterebbero sia il tempio che il sacerdote, così come i testimoni di Geova, tanto impegnati nelle loro visite casa per casa nel pueblo con attacchi all’eucarestia, ai preti, al matrimonio ed alla Vergine Maria. Quel che Rafael Rodriguez nega chiaramente è che vi sia una qualche continuità fra l’antica religione purépecha e quella cattolica, ma al tempo stesso attribuisce ai francescani, già operanti proprio a Nahuatzen, il merito di aver capito che i purépecha non erano affatto politeisti ma monoteisti, con la loro concezione di Tata Juriata, ovvero Tata Dios, di cui i santi non sarebbero altro che degli amici e dunque possibili intercessori.
È necessario ricordare che sin dalla fine del XIX secolo [Lumholtz 1981] era evidente che il sistema di cargos e cargueros era particolarmente dispendioso, sino a rovinare intere famiglie per i prestiti richiesti a commercianti ed altri soggetti piuttosto abbienti, che poi si rifacevano del denaro prestato impadronendosi di fatto delle terre di coloro cui avevano fatto credito. Fu forse anche questa la ragione per la quale negli anni 30 del secolo scorso gli agraristi si scagliarono contro le feste religiose, occasione di indebitamento dei campesinos e di arricchimento dei prestatori di denaro.
Infine occorre citare il netto punto di vista di van Zantwijk [1974: 281-286] sul sistema di cargos. A suo dire esso ostacola ogni forma di sviluppo aperto, non consente alla comunità di uscire dal suo contesto, restringe le possibilità di espansione economica, indirizza le risorse più cospicue verso forme di appariscenza in loco, che sarebbero un fine a se stesse. Ci sarebbe un obbligo verso il passato che impedisce di investire nel presente e nel futuro. Il rispetto della tradizione diventerebbe di fatto un impedimento al miglioramento delle condizioni di vita.
Le interpretazioni storiche, antropologiche e sociologiche della cultura religiosa purépecha o tarasca sono state varie e non tutte convergenti. Per Beals [1946] si tratta di un’ampia rielaborazione di elementi europei rimodellati dalla presenza di idee native, originali dei taraschi, sulla base di un cattolicesimo popolare di derivazione cinquecentesca e seicentesca, modificato a livello locale senza che si possano scorgere gli aspetti originali. L’accorpamento fra l’antica religione purépecha ed il cattolicesimo popolare trasmesso dai missionari avrebbe dato luogo ad una religiosità cattolica particolare, non riconducibile del tutto né alle forme ed ai riti dell’ufficialità cattolica né ai contenuti specifici della cultura religiosa purépecha: insomma né l’una né l’altra da sole, ma qualcosa di peculiare che sembra prescindere da entrambe. Per Carrasco [1976] la religione dei taraschi è cristiana, di marca controriformista, ma contrapposta al cattolicesimo ufficiale e senza rinvii ad elementi di religione indigena e preispanica. Per van Zantwijk [1974] invece il carattere autonomo, tarasco, precoloniale, appare abbastanza evidente soprattutto nelle feste, in cui il cristianesimo è appena presente, quasi a latere, in forma supplementare, non fondante. Sempre secondo il medesimo autore la religione indigena originaria sarebbe stata a carattere politeista (ma altri non condividono tale opinione), perdendo successivamente alcuni connotati ed acquisendone altri. Pertanto il contatto con gli spagnoli, con i meticci e con i missionari francescani non avrebbe prodotto alcun effetto o quasi.
Vi sono altre interpretazioni possibili su versanti un po’ più ampi: la religione indigena assume di fatto il carattere di una opposizione (di protesta, se – più raramente – è consapevole; come protesta, cioè in sostituzione della critica aperta e fattiva, se la consapevolezza è minore) [Cirese 1976: 113-118]. Inoltre essa ha pure la valenza di un’utopia ispiratrice delle azioni dei soggetti. Non manca tuttavia di trasmettere nel contempo i modelli della cultura cattolica dominante ma li rivisita, modificandoli in base alla sensibilità tipica della cultura religiosa popolare. In definitiva si può essere d’accordo con Tapia Santamaría [1986: 237-238] sul dato di fatto che “la religione popolare è un bene suscettibile di essere gestito dai gruppi popolari come risorsa nelle sue relazioni di scambio, come strumento di legittimazione e di contestazione di rapporti di dominazione, e come sintesi che racchiude nella sua organizzazione e nelle sue rappresentazioni le rielaborazioni della cultura dominante operate dai gruppi popolari”.
Sta di fatto che “la religione nei gruppi indigeni del Messico è un fenomeno assai complesso” [Jiménez Castillo 1985: 223]. Si parla di cattolicesimo popolare ma anche di sincretismo, di giustapposizione fra culture diverse, interne ed esterne, indigene e spagnole. A prima vista sembrerebbe di trovarsi di fronte a due realtà diverse, quella popolare indigena e quella ufficiale centralizzata a livello nazionale ed internazionale. Invero entrambe convivono lungo una medesima traiettoria storica e socio-antropologica: si crede alle influenze della luna e si venera la Vergine di Guadalupa, si praticano riti domestici legati al fuoco e si va in chiesa per la messa.
6. La festa dei barrios: los soldaditos, los moros, los toros e el castillo
Durante i giorni festivi tutto il pueblo presenta un’atmosfera speciale. Lungo le strade si costruiscono altarini dove si poseranno le immagini sacre nel corso delle processioni. Alle scale delle case (specie all’ingresso) viene aggiunto un mattone per permettere che vi possano salire anche anziani e bambini. Nonostante la festa, però, non si tolgono dalle soglie delle abitazioni i fiocchi neri che ricordano un lutto più o meno recente e che restano esposti sino alla loro totale consunzione.
Intensi sono gli scambi culturali con gli altri pueblos, attraverso la presenza delle bande musicali (per esempio nel 1996 sono state ingaggiate due bande provenienti dalle immediate vicinanze di Nahuatzen: la Banda San Francisco de Cherán per los soldaditos del secondo barrio e la Banda Tata Vasco de Sevina per los moros del terzo barrio), di numerosi giovani visitatori e di nuovi clienti del mercato. La dimensione interculturale si sviluppa anche grazie ai prestiti di abiti e maschere provenienti dai paesi vicini. Nella piazza si trovano in vendita alimenti speciali, erbe medicinali, polveri medicamentose, prodotti tipici della regione, solitamente portati ed esposti da indigeni purépecha. L’annuncio della festa del 2004 è anche in Internet (http://geocities.com/nahuatzen2002/nahuatzen), con la segnalazione del periodo (dal 24 al 31 agosto), dello svolgimento di peregrinaciones (religiosas), delle esecuzioni di música, dell’organizzazione di jaripeos, dell’accensione di fuegos pirotécnicos, della realizzazione di eventos culturales e della possibilità di hospitalidad. Il tutto risulta sponsorizzato con la presenza di sette loghi, con quello del municipio in testa, seguito da Mayoreo, “La Necesidad” A. C., Carpintería Irepan, Modas El Toque Nuevo, Mueblería Morales, Servimadera Centro de Acopio Nahuatzen.Ecco dunque che la fiesta è modernizzata e globalizzata in pari tempo. Si confermano le caratteristiche di base dell’economia locale (legno ed abbigliamento) e si apre la porta, grazie al momento festivo, verso mercati più ampi. Per poterlo fare, servono bene allo scopo – nella pagina di Internet – le colorate immagini della statua di san Luís sulla sinistra, della chiesa antica e di quella moderna al centro, di un giovane vestito da moro che si affaccia dietro l’angolo del tempio, di una maricha in primo piano sulla destra, con sullo sfondo un gruppo di uomini impegnati in un momento della celebrazione.
Data la grande affluenza di persone, nei giorni che precedono la festa si fanno abbondanti provviste di acqua, elemento fondamentale anche nella preparazione del cibo. La fiesta è davvero un momento straordinario, speciale: rappresenta il centro dell’anno mentre il quotidiano ne costituisce la periferia [Shils 1994]. Non è un caso che in essa si concentrino anche i riflessi di conflitti e tensioni presenti in campo familiare ed anche politico. Ma forse il segno più evidente di una contrapposizione è dato dalla presenza di due leaders (il cura ed il carguero), di due statue del santo patrono (san Luís e san Luisito, entrambi con barba, probabilmente a sottolinearne l’appartenenza all’ordine francescano, che è caratterizzato appunto dalla presenza della barba come appare anche da alcune immagini di frati risalenti all’epoca della “conquista spirituale”) e di due chiese (quella parrocchiale e la casa del carguero). Non è peraltro senza significato che pure la costruzione di una casa preveda tutta una serie di riti tra il sacro ed il profano, fra il religioso e l’extrareligioso, che sottolineano l’importanza dell’operazione e dell’edificio che sta per sorgere.
Singolare è pure la narrazione del mito fondativo del culto dedicato a san Luís. Si dice che nel corso del XVIII secolo la chiesa di Nahuatzen fosse stata costruita per un ordine proveniente direttamente dal Vaticano e che si fosse pensato a san Francesco come patrono, mentre san Luís sarebbe stato destinato a Cherán. Le casse provenienti dall’Europa e contenenti le immagini dei due santi sarebbero state scambiate. Si pensò a correggere l’errore, ma quando si provvide alla loro apertura si trovò che san Luís era tornato nel contenitore destinato a Nahuatzen. Si volle dunque rispettare la volontà de due santi. Così san Luís restò a Nahuatzen e san Francesco finì a Cherán. Durante il periodo della rivoluzione messicana, poi, si racconta che san Luís sia apparso al bandolero (brigante) Inés Chávez, che voleva distruggere il pueblo di Nahuatzen. Infatti giunto al passo di Sevina, sul ponte di Talavera, il bandito incontrò un jinete (cavaliere) che gli disse: “no les conviene entrar; asómense en esa loma y verán que ejército tan grande los espera con cañones y fusiles” (non conviene loro entrare; si affaccino su questa collinetta e vedranno quale grande esercito li aspetta con cannoni e fucili). Un messo del bandolero confermò il tutto e dunque la ritirata ebbe inizio. Quando più tardi Inés Chávez ritornò a Nahuatzen, andando in chiesa riconobbe in san Luís il cavaliere che gli aveva impedito l’ingresso nel pueblo.
C’è poi una spiegazione ufficiale anche per il ballo de los moros, fuori della chiesa, al termine della messa: sarebbe a ricordo della liberazione dei luoghi santi dai mussulmani. Per quanto concerne invece los soldaditos essi sarebbero parte dell’Esercito Reale che sostenne la lotta di difesa dai mori; va precisato che altrove – per esempio a Ihuatzio, sul lago di Pátzcuaro – i soldati non sono rappresentati da bambini ma da adulti, con divise pure francesi però napoleoniche [van Zantwijk 1974: 177]. Infine delle marichas si dice che in origine fossero solo cinque, elette per la loro buona condotta, e che venissero addette a portare l’immagine della Vergine.
La fiesta è di tale importanza che arriva ad offrire lo scenario per la realizzazione di un film dal titolo Pueblo Chico, Inferno Grande con gli attori Verónica Castro e Juan Soler. La storia, piuttosto tragica, è collocata alla fine del XIX secolo e parla di una vedova, Leonarda, che si innamora di un suo giovane impiegato, Genaro. Tutto ha inizio durante la processione di san Luís, allorquando due adolescenti, la stessa Leonarda ed Elmiro, allacciano un legame d’amore, che però non ha un seguito positivo. Leonarda sposa un vecchio milionario, Rodendo, che muore poco dopo le nozze. Leonarda resta dunque vedova ma più tardi incontra Genaro.
L’organizzazione della festa è complessa e coinvolge migliaia di persone residenti a Nahuatzen nei 4 barrios, che non hanno un nome specifico ma vengono indicati con il numero ordinale: primo, secondo, terzo e quarto. L’ordine dei 4 momenti festivi comporta una successione cronologica annuale di barrio in barrio, ognuno dei quali, in stretto andamento sequenziale, è impegnato ad assicurare la realizzazione de los soldaditos, de los moros, de los toros, de el castillo. Così, se nel 1982 il primo barrio era impegnato per los soldaditos, il secondo lo era per los moros, il terzo per los toros, il quarto per el castillo, l’anno successivo, nel 1983, il primo barrio ha avuto a che fare con el castillo, il secondo con los soldaditos, il terzo con los moros, il quarto con los toros, e due anni dopo, nel 1984, il primo barrio ha curato los toros, il secondo el castillo, il terzo los soldaditos, il quarto los moros; tre anni dopo, nel 1985 al primo sono toccati los moros, al secondo los toros, al terzo el castillo, al quarto los soldaditos. Esauriti infine i quattro turni, il primo barrio ha ricominciato da capo nel 1986 con los soldaditos e così via.
Fra il 15 ed il 24 luglio, di anno in anno, si organizza una riunione di tutti i capifamiglia di ogni barrio. Viene nominata una commissione sia per la gestione della parte specifica che tocca in turno a ciascun barrio,sia per la raccolta di fondi. In genere la commissione comprende alcune decine persone. Il 25 luglio tutti i membri delle 4 commissioni si riuniscono insieme per dare inizio a la vuelta, cioè al giro per le strade del pueblo, con lo scopo di raccogliere il necessario per la celebrazione. Ogni commissione ha un primero encabezado (primo responsabile). Qualche volta escono per il giro, insieme con il carguero, anche i gruppi di danzatori de los moros o de los soldaditos, accompagnati dalle bande musicali, secondo necessità e disponibilità. Coloro che partecipano a la vuelta fanno anche visita alle case dei cargueros e dei primeros encabezados. Successivamente le commissioni si recano casa per casa, nel proprio barrio, a raccogliere le somme dovute da ogni padre de familia. L’esazione può avvenire in unica soluzione o in abonos, cioè a credito. La raccolta di denaro continua anche nei successivi giorni di festa, con accompagnamento di banda musciale ed offerta di aguardiente a tutti coloro che si incontrano (non è possibile rinunciare all’offerta del bicchierino debitamente riempito di alcool). Nel frattempo spari di razzi (cohetes) cominciano a far pregustare il clima della festa.
Nei giorni che seguono, le marichas provvedono a riassettare la chiesa. Nelle case si preparano alacremente los estrenos, cioè le novità che caratterizzeranno la festa: vestiti, scarpe, cappelli, soprabiti, mantelli, scialli.
All’alba del 24 agosto una composta e devota processione con la statua piccola di san Luís, proveniente dalla casa del carguero de los soldaditos,raggiunge il tempio principale del pueblo, tra inni, preghiere, invocazioni ed odore d’incenso diffuso da un apposito contenitore tenuto da un’anziana signora che conduce il corteo. Prima di entrare in chiesa qualcuno ne tocca la soglia con la mano. La piccola edicola in vetro con san Luisito viene poi poggiata alla sinistra dell’altare maggiore (rispetto a chi entra in chiesa). La statua grande di san Luís si trova invece a destra. C’è pure una statua di san Francisco, insieme con un labaro del Terz’Ordine Francescano.Alcuni devoti attraversano la chiesa in ginocchio fino all’altare (tale pratica devozionale è insegnata pure ai bambini). Poi tutti assistono alla celebrazione della messa, restando in preghiera con le candele accese.
La festa vera e propria inizia allorquando a la víspera, cioè alla vigilia, nelle ore vespertine, giungono le bande musicali, che vengono dapprima accolte all’ingresso del pueblo e poi si recano sul sagrato del tempio o direttamente alle case dei rispettivi cargueros. Una prima presentazione delle danze avviene sul tardi, di fronte alla chiesa: questa fase della festa è detta el Real. La sera poi si provvede all’incendio del castillo (nel 1982 era uno solo, costato 45.000 pesos, ma in altri anni ve ne sono stati 2). Vi prendono parte con musiche appropriate anche le bande, giacché il barrio organizzatore del fuoco pirotecnico non dispone di alcun gruppo musicale. Insieme con l’accensione del castello dinanzi al tempio, ha luogo l’esibizione del torito, una piccola struttura in legno a forma di toro, con bengala ed altri materiali scoppiettanti, mossa abilmente da un pirotecnico, tra la folla impaurita ed allo stesso tempo divertita. Infine chiude la serata una gara musicale di serenatas (con musiche purépecha, classiche e popolari, paso doble)eseguite dalle tre bande, dinanzi alla presidenza municipale e fin quasi all’alba (la madrugada comincia all’una della notte). Durante tutti i giorni della festa, specialmente al mattino ed alla sera, si sentono molti scoppi.
Il 25 agosto, giorno principale della fiesta, si va in chiesa per la messa solenne officiata da un delegato vescovile (la partecipazione all’eucarestia invero non è massiccia: nella festa del 1982 risultano solo 240 comunioni), si ammirano gli addobbi predisposti da ciascun barrio e si provvede a sciogliere le promesse fatte a san Luís per ottenerne i favori. Di solito un talloncino con l’immagine del santo è predisposto dalla parrocchia per invitare alla preghiera: “Señor Dios y padre nuestro, te suplicamos, por intercesión de nuestro Santo Patrono San Luís Rey, que sepamos llevar una vida honrada y justa y así construyamos tu Reino entre nosotros, amen” (Signore Dio e padre nostro, ti supplichiamo, per intercessione del nostro Santo Patrono San Luís Rey, che sappiamo condurre una vita onorata e giusta e così costruiamo il tuo Regno fra noi, amen).Intanto dinanzi al tempio le bande si esibiscono nella mattinata musicale, detta alborada. Poi vanno a casa del loro carguero di riferimento per la colazione (almorzo). Successivamente i danzatori si recano con la propria banda in varie abitazioni per ballare e ricevere donativi in contanti od in natura. Los moros partecipano alla messa solenne, entrando in chiesa procedendo in ginocchio per andare a baciare il mantello di san Luís. All’uscita dalla chiesa eseguono la loro danza, con relativa musica. Anche los soldaditos danzano nella medesima piazza, accompagnati dalla loro banda. Per il pranzo si formano vari gruppi che si raccolgono soprattutto presso le dimore dei cargueros (che peraltro trovano pure il tempo di scambiarsi visite fra loro). Durante il convito le bande suonano qualche pezzo. Il padre, padrone di casa, è servito dalle figlie. Le donne restano in cucina sotto la sovrintenendeza di una signora anziana (tatita). Poi danzatori e bande riprendono a fare il giro del pueblo, visitando varie case, nel cui corral (addobbato a festa con lunghe strisce di carta colorata e festoni di ogni genere)si esibiscono con grande gioia e viva partecipazione dei presenti, che di tanto in tanto inneggiano con grida di giubilo come “Arriba el barrio” (evviva il barrio) ovviamente specificando anche quale (primer o secundo o tercero o cuarto). Il pavimento è di solito tutto cosparso di foglie verdi, di aghi di pino, di rametti, come segno di festa. La banda de los toros però si limita all’alborada in onore del carguero, del primero encabezado e di altre persone di riguardo, nelle rispettive magioni; solo nel pomeriggio essa fa la sua entrada ufficiale, preceduta dalle marichas. Più tardi, alla sera, vi è in piazza, davanti alla chiesa, l’accensione di due castelli, intervallata dall’accompagnamento musicale delle tre bande, che poi si trasferiscono nell’androne (portal) del municipio per un’altra gara di serenatas.
Il 26 agosto proseguono le alboradas al mattino e poi le danze ed i giri delle bande. Comincia l’attività del jaripeo, cioè de los toros (ma la rispettiva banda, con qualche fiocco rosso sugli strumenti ed insieme con le marichas, ha iniziato le performances già dal pomeriggio del giorno 24 e dunque si esibisce per 5 giorni di seguito). Un’arena (toril) era appositamente costruita in passato completamente in legno: nel 1982 aveva 44 tribune di 15 gradinate ciascuna per un totale di 660 gradinate, ognuna delle quali capace di accogliere fra 8 e 10 persone per un massimo dunque di 6.600 spettatori. Ora l’arena per los toros ha strutture più stabili, in due diversi angoli del pueblo: l’uno per il primo ed il secondo barrio e l’altro per il terzo ed il quarto.
Sono previsti per tre giorni consecutivi due spettacoli, uno al mattino e l’altro nel pomeriggio. Quello del mattino comincia con il cosiddetto toro de once, toro delle undici, perché è questa più o meno l’ora del mattino in cui è previsto l’arrivo delle marichas, che recano in mano un piccolo toro in legno o plastica od altro materiale e sono vestite con l’abito tradizionale purépecha. Arrivano al toril danzando al suono della banda de los toros, che di tanto in tanto imita il muggito taurino. Dinanzi ad alcune case sono esposte le palmas, cioè il premio per il jinete che, riuscendo a tumbar (battere) il toro ovvero che se le quede al toro (riesce a stare in groppa al toro), risulterà vincitore nel jaripeo: è un triangolo in legno di quasi un metro e mezzo per lato che sorregge, in bella mostra, vari doni (banane, mele, frutta, abiti, camicie, piccoli elettrodomestici, bottiglie di alcolici). Nella predisposizione delle palmas contribuiscono in primo luogo il padre della maricha e poi con offerte in denaro ed in natura anche parenti ed amici dell’offerente. Va precisato che non sempre c’è un legame diretto fra maricha che offre il premio e jinete impegnato nel jaripeo. Il collegamento fra i due può essere dunque del tutto casuale. Nel 1982 risulta raccolto altresì un premio in denaro di circa 2.000 pesos per ciascun jinete vincitore, a seguito di una colletta di quasi 50 pesos in ognuna delle 44 tribune del toril. Di solito i vincitori del jaripeo ricevono un fiocco rosso dal carguero de los toros. Inoltre la maricha che ha offerto la palma si toglie il suo fazzoletto per metterlo attorno al collo del vincente. Fino agli anni Settanta del secolo scorso se invece era il toro a tumbar, cioè a far cadere il cavaliere, il premio andava al proprietario (dueño) dell’animale.
Nel corso del jaripeo alcuni spettatori scendono nell’arena per affrontare il toro, magari cercando di mettersi la coda dell’animale tra le gambe, in segno di sfida od in forma bene augurante. Qualche ubriaco, magari con una maglietta rossa, può creare problemi e finire calpestato dall’animale, ma senza gravi conseguenze grazie all’intervento provvidenziale ed immediato di tutti coloro che sono particolarmente esperti nel trattare con i tori, risolvendo le situazioni più rischiose e drammatiche.
Nel pomeriggio ha luogo un altro jaripeo detto de la tarde (del pomeriggio, appunto). Nei due giorni successivi ci saranno altrettanti jaripeos o jineteadas sia de once che de la tarde.
Il 27 agosto proseguono le attività incentrate su los toros. In chiusura di giornata la banda de los toros e le marichas fanno ancora il giro del pueblo. Il rientro è nella casa del carguero. A mezzogiorno la statua di san Luisito torna nella casa del carguero de los soldaditos. Nello stesso giorno hanno anche luogo le ultime danze dei piccoli soldati e dei mori. Verso sera i due rispettivi cargueros provvedono alla consegna del simbolo della danza (una bandiera) al barrio che se ne incaricherà l’anno successivo. Folta è la partecipazione al momento del passaggio da un barrio all’altro. Si fanno ancora danze e brindisi, con gran giubilo di tutti.
Il 28 agosto si presentano nel jaripeo i tori migliori. L’affluenza di spettatori è al massimo. Si eseguono balli e musiche popolari (jarabes). Si termina nel tardo pomeriggio con un ultimo giro di banda e di marichas per le vie del pueblo ed in piazza. Poi si va a casa del carguero per procedere con lui alla consegna del simbolo (la bandiera) de los toros al barrio cui toccherà organizzare il jaripeo l’anno seguente. Sul retro delle bandiere usate per i diversi ruoli della fiesta si possono leggere alcune scritte a ricamo, come per esempio: “Rec(uerdo) de El S(eño)r Leonardo Esaino – Agosto 25 de 1975” (bandiera di colore verde e rosso) oppure “Rec(uerdo) de la familia Magaña 1980” o “San Luís Rey de F(rancia) – Nahuatzen. Michoacán, Soldaditos. Fam(ilia) Sanchez Rosas – 25-VIII-80”. Ma i ricordi più cospicui della partecipazione delle singole famiglie alla fiesta si ritrovano nelle case (fotografie di soldaditos, moros, marichas, jinetes, fiori bianchi di carta, coppe) o tra gli ex voto (collane, anelli, piccoli tori, bambole) collocati vicino alle statue.
Il 3 settembre, ottava della festa del patrono, si realizza ancora una volta il jaripeo e si assiste ai fuochi pirotecnici dei castelli. Le statue dei santi tenute per un anno intero presso le case dei cargueros vanno dapprima in chiesa e poi nelle case dei nuovi cargueros, che successivamente organizzeranno qualche cerimonia religiosa nella loro abitazione, dove in molti si recheranno a venerare le sacre immagini.I padri dei cargueros uscenti de los soldaditos e de los moros regalano ai rispettivi figli una bottiglia di aguardiente (acquavite), quasi a suggellare il compimento dell’attività assegnata e ad apprezzarne la buona gestione.
Se si dà credito, pur con qualche dubbio, a García Canclini e Sevilla Villalobos [1985: 31-34] l’origine della danza dei moros nella regione di Michoacán sarebbe da rintracciare in una relazione di fra’ Alonso Ponce relativa ad un episodio risalente al 1590 che ebbe come protagonisti i purépecha di Patamban ed i chichimecas: i primi andarono incontro ai secondi per dar loro il benvenuto e lo fecero procedendo a cavallo e vestiti da spagnoli con spade di legno ed altre armi finte; i secondi ballavano attorno ad un signore dalla capigliatura bianca ed a cavallo; dopo qualche schermaglia, gli uni e gli altri si misero a danzare insieme. L’ipotesi avanzata è che in seguito i chichimecas siano stati sostituiti dai moros. Intanto anche gli scontri sono scomparsi. La danza risulta eseguita anche più volte in un medesimo anno a San Pedro Ocumicho, Patamban, Uruapa, Ihuatzio, Cucuchucho, Janitzio, Santa Fe de la Laguna. Qualche volta oltre i moros compaiono anche i soldados. Il ballo è in tre parti (enredos) ed è accompagnato da bande musicali.In genere la danza dei soldati precede quella dei mori, almeno nell’area michoacana (altrove ci sono variazioni). Infine la larga diffusione della rappresentazione che vede protagonisti i moros in varie parti del Messico [Mompradé, Gutiérrez 1981: 245-252] fa pensare piuttosto ad una evidente derivazione europea, in particolare dalla Spagna medievale [Barman 1972a] e dalla tradizione della lotta (lucha) fra cristiani e mori che si conclude con la vittoria cristiana e l’incendio del castello moresco.
La danza sarebbe stata importata dai frati francescani sin dal XVI secolo [Mompradé, Gutiérrez 1981: 245] ma le sue origini più remote arriverebbero al 1150 ed al periodo delle chansons de geste. La prima testimonianza documentata concerne quanto riferisce Díaz del Castillo [1992] in merito all’accoglienza riservata a Cortés verso il 1524-1525 (quando giunse a Coatzacoalcos) con archi di trionfo e “ciertas emboscadas de cristianos y moros” (certe imboscate di cristiani e mori). La danza venne poi adottata dagli indigeni e dai meticci e raggiunse varie regioni e località del Messico tra cui: Chiapas, Jalisco, Veracruz, Guerrero, Aguascalientes, San Luís Potosí, Cholula, Jilotzingo (Zacatlán), Puebla, Toluca. Mompradé e Gutiérrez [1981: 250-251] precisano pure che “solían incluso construirse dos castillos simulados, baluartes de los dos bandos contendientes, quémandose al final el castillo de los moros con cohetes o “castillos” pirotécnicos” (si costruivano di solito due castelli finti, roccaforti delle due parti in contesa, bruciando infine il castello dei mori con razzi o “castelli” pirotecnici).
La tradizione dei fuochi pirotecnici come momento identitario e di socialità festiva è tuttora viva ed attuale in Spagna, dove mantiene pure contenuti satirici espressi nella sfera pubblica, perfettamente incorporati nella dialettica fra cultura tradizionale e processi di modernizzazione: emblematico è a tal proposito il caso delle Fallas di Valencia, consistenti in figure allegoriche che vengono bruciate nella notte della vigilia di san Giuseppe, al termine di una Cavalcata di marionette, dette Ninots,che danzano e suonano coinvolgendo anche gli spettatori [Costa 2002a, 2000b].
Il costume dei mori comprendeva “turbanti in seta, fiori di carta, latta, orpelli, specchi, palline di carta sottile e filo di perle” [Mompradé, Gutiérrez 1981: 251; 384, lámina VIII]. Un turbante in parte simile a quello dei moros michoacani è in uso, nelle feste religiose, pure presso i Tarahumara della Sierra Madre Occidentale [Tommaseo 1984: 94].
Per ricostruire con maggiori dettagli tutta la complessa storia della danza dei mori e dei cristiani conviene rifarsi all’opera fondamentale in questo campo scritta da Max Harris [2000], dal titolo Aztecs, Moors, and Christians. Festivals of Reconquest in Mexico and Spain. Si tratta di un lavoro ben documentato, meticoloso, certamente affidabile sul piano scientifico. La tesi principale sostenuta da Harris è che le battaglie fra mori e cristiani hanno un’evidente valenza di dissenso rispetto allo statu quo. Pertanto l’attenzione rivolta dalle popolazioni indigene a tale genere di manifestazioni pubbliche, dal carattere burlesco, ha a che vedere con il desiderio di rivedere gli indigeni messicani riconquistare il loro territorio ponendo termine alla conquista-occupazione-colonizzazione degli spagnoli-cristiani. Gli attori-danzatori che impersonano i mori si identificherebbero pienamente con gli Aztechi (o con i purépecha nel caso di Nahuatzen) al fine di svolgere una funzione profetica, di annuncio cioè della speranza che un giorno i legittimi titolari del territorio possano liberarsi defintivamente delle sovrastanti ed ingombranti presenze non indigene.
Harris si sofferma sulle celebrazioni di Zacatecas nel 1996, con 2.550 mori [Harris 2000: 3-17], e di Cuetzalan nel 1998 [Harris 2000: 18-27]. A Zacatecas nota il carattere orgiastico delle danze condotte (anche dalle donne) in preda all’alcool. A Cuetzalan utilizza la distinzione fra “trascrizione pubblica” e “trascrizione nascosta” [Scott 1990] delle manifestazioni pubbliche, cercando di cogliere il significato reale delle performances moresche: la trascrizione pubblica riguarda ciò che avviene in forma palese nel rapporto fra dominatore e dominato; quella nascosta può concernere sia chi ha potere sia chi ne è privo. Nel primo caso è difficile giungere a cogliere qual è il reale punto di vista delle élites al potere, ma nel secondo caso l’impresa è ancora meno agevole perché occorre sia entrare nelle conversazioni private sia disporre delle registrazioni di tali colloqui per poterne fare un uso scientifico. Tuttavia la situazione in quest’ultimo caso dei senza potere offre un destro in quanto sovente la trascrizione nascosta è fornita in modo patente, aperto, sebbene in forma mascherata (non a caso i mori celano il loro volto con un grande turbante e con un ampio fazzoletto che, agganciato ai due lati di una sorta di turbante, copre in buona misura il viso, lasciando scoperti solo gli occhi).
Ma la maschera non si limita a questo. Tutta la danza dei mori è una forma mascherata per dire qualcosa che a ben leggere è abbastanza evidente. In effetti “i vari modi in cui le popolazioni subordinate inseriscono la loro resistenza nella trascrizione pubblica sono testimonianza non solo della creatività umana in condizioni difficili ma del “tremendo desiderio e della volontà” di tali gruppi di esprimere pubblicamente, nonostante il rischio di punizione da parte dei detentori del potere, il messaggio della trascrizione nascosta” [Harris 2000: 24-25]. E di questa volontà non manca del tutto la consapevolezza. Così si giunge a criticare le pretese imperialistiche degli spagnoli e comunque degli stranieri (come nel caso dei francesi rappresentati dai bimbi-soldaditos di Nahuatzen, che non possono non far pensare alla presenza storica di Massimiliano d’Absburgo, inviato da Napoleone III e dichiaratosi imperatore del Messico, nella seconda metà dell’Ottocento; ovviamente la conoscenza precisa di tale possibile origine della danza dei piccoli soldati vestiti alla maniera della legione straniera non è approfondita e circostanziata ma ciò non impedisce alla manifestazione di esplicitare un disagio, espresso dal ricorso all’ironia). Alla fine però Harris propende per considerare la duplice possibilità sia di consapevolezza che di inconsapevolezza per entrambe le categorie, quella dei detentori del potere e quella dei deprivati di ogni forma di potere (se non quella di esprimersi in trascrizione nascosta).
Segue, nell’opera di Harris, una lunga e dettagliata trattazione del modello spagnolo, tra il 1150 ed il 1521, della lotta fra mori e cristiani [Harris 2000: 31-63]. Subito dopo si passa al periodo antecedente la colonizzazione in Messico, dal 1321 al 1521, per mostrare che nel calendario azteco erano già previste delle battaglie burlesche da svolgersi in occasione di feste [Harris 2000: 67-114]. La parte più significativa è però quella successiva che abbraccia il periodo messicano fra il 1521 ed il 1600 [Harris 2000: 117-169]: in essa si cercano i precedenti più rilevanti per quanto può rinviare al finto confronto fra mori e cristiani. Così si risale alla lotta simulata, fittizia, fra canoe messicane e fanteria chichimeca nel 1531 o nel 1566 in onore della Vergine di Guadalupa oppure alla rappresentazione messicana della conquista di Rodi che ebbe luogo a Città del Messico nel febbraio del 1539, avendo come scenario alcuni castelli ed una città tutta in legno, immaginata come Rodi, luogo conteso fra cristiani e turchi od infine alla conquista di Gerusalemme ricordata a Tlaxcala nel 1539 con cristiani e mori a confronto. Anche Harris non manca di citare fra’ Alonso Ponce [García Canclini, Sevilla Villalobos 1985: 31-34], viaggiatore instancabile, accompagnato dal suo segretario Antonio de Ciudad Real, autore di un prezioso diario [de Ciudad Real 1993]. Harris si riferiva ovviamente alla nota relazione di Ponce sul villaggio di Patamban e sugli indios vestiti da spagnoli e protagonisti di una finta battaglia con i chichimecas [Harris 2000: 158-159]. Alla fine del XVI secolo sono documentate da de Ciudad Real varie manifestazioni aventi come protagonisti mori e cristiani. L’ultima rappresentazione citata da Harris è quella del pomeriggio dell’8 settembre 1598, per la conquista del New Mexico, allorquando “l’intero campo celebrò con una buona messinscena la battaglia fra Mori e Cristiani, questi ultimi a piedi e con archibugi, gli altri a cavallo con lance e scudi” [Harris 2000: 163].
Anche la tradizione taurina viene da lontano e si è radicata in Messico certamente grazie all’influsso spagnolo, ma con cambiamenti sostanziali rispetto al modello della corrida. Il jaripeo non comporta la morte dell’animale ed anzi è assai più rischioso per l’uomo, come dimostrano i numerosi incidenti anche mortali che ne hanno costellato la storia più o meno recente. L’attaccamento allo spettacolo nel toril ha del religioso, del sacrale, come mostra anche la speciale preghiera che i jinetes recitano prima della sfida. Essa suona così: “Signore… noi jinetes non ti chiediamo favori speciali, solo… ti chiediamo di darci forza per cavalcare nell’arena della vita; questa vita che tu vuoi che viviamo; e… quando arriva il momento dell’ultimo ed inevitabile gran jaripeo e ci chiami là… dove le praterie son ricche di pascoli e l’acqua è cristallina: ci dica che il nostro biglietto d’ingresso è già pagato! Amen”. Il 26 agosto 1996 così il signor José de Jesús Villanueva Tórres, proprietario della ganaderia “Rancho Mustang” ha invitato i 10 jinetes a pregare, prima di affrontare nell’ordine i seguenti tori: Pilón, Halcón, Cartucho, Consejo, Chupacabras, Charrasqueado, Tesorito, Borrego, Renegado e Depredador. Per l’occasione i jinetes hanno calzato gli speroni della Vergine del Cortijo.
Nei riguardi del toro c’è una sorta di culto basato su 3 elementi: el guante, la fuerza e el gusto. El guante significa l’accettazione della sfida di organizzare un jaripeo, la fuerza riguarda la possibilità che ha una persona di accettare la sfida magari aiutato dai familiari e dagli amici, el gusto è il legame con il toro che si sviluppa attraverso la socializzazione primaria e secondaria che porta a sperimentare vari ruoli, di montatore (l’andare in groppa all’animale), di jinete (sfidando a cavallo il toro), di torero (che secondo modalità quasi affini alla corrida cerca di distrarre il toro, specialmente se il montatore è caduto) e di semplice spettatore. Va tenuto presente che in alcuni casi, come a Nahuatzen, c’è sovrapposizione fra il termine jinete e quello di montatore giacché si tratta di fatto del medesimo ruolo.
Attorno al mondo dei tori ruotano varie figure: vivandieri, commercianti, musicanti (di strumenti a fiato: música de viento), caporali (addetti agli animali), esperti nell’uso della corda per bloccare l’animale per le corna o per le gambe, collaboratori vari, membri della palomilla, cioè del gruppo di seguaci di un montatore professionale in qualità di toreri e di volontari che cercano di evitare che l’animale disarcioni chi gli sta in groppa. Gli speroni sono fondamentali per riuscire a restare a cavalcioni dell’animale, pertanto bisogna sistemarli bene e saperli utilizzare al meglio. Molto importante è il braguero cioè la corda che cinge il toro ed a cui si aggrappa il montatore. Ecco perché è fondamentale il ruolo di chi pone il braguero al toro. Gli animali taurini si dividono in vitelli (becerros, fino a due anni), torelli (novillos, da due a tre anni, non ancora domati), tori veri e propri, buoi di rimedio (de reparo). Il loro allevamento non è da tutti. Ci vogliono persone addestrate per accudirli. Necessitano terreni per il pascolo. I campesinos spesso dipendono dai padroni degli animali per i loro lavori in cui hanno bisogno di molta forza (aratura, trasporto, ecc.). In passato i tori per il jaripeo erano offerti da proprietari delle aziende, ora occorre pagarli. Si considera un pregio presentare in un jaripeo tori aventi tutti la pelle del medesimo colore. Infine occorre ricordare che “una delle ragioni fondamentali delle celebrazioni sta nell’assicurare l’impegno di qualche forma di reciprocità tra le diverse famiglie. “I tori” è uno di questi casi” [Morayta Mendoza 1992: 87].
Sovente capita che vi sia pioggia durante il jaripeo o durante altri momenti della fiesta, ma tutto prosegue come se nulla fosse. Non si presta particolare cura a ripararsi dalle intemperie. Gli ombrelli sono poco usati. La gioia festiva è pervasiva e non fa quasi pensare ad altro che non abbia a che vedere con le danze, la musica, il jaripeo.
Dopo la festa capita che vi siano “fughe” di fidanzati che poi chiedono “perdono”. Si tratta di un’usanza tradizionale che si collega all’evento festivo, durante il quale un buon numero di marichas, peraltro, si predispongono al loro matrimonio. Forse è anche per questo che una delle melodie preferite, fra quelle eseguite durante la fiesta, ha per titolo “dos arbolitos”, due alberelli, con chiaro riferimento all’unione coniugale.
LA STRUTTURA DELLA FIESTA
EL CASTILLO forestieri fuochi pirotecnici dal 24 al 25 agosto Carguero Commissione LOS TOROS (Virgen del Cortijo) giovani jinetes e marichas jaripeo dal 26 al 28 agosto banda tori Carguero Commissione |
LOS MOROS (santa Helena) giovani danza dal 24 al 27 agosto banda cavalli Carguero Commissione |
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2. Riferimenti videografici
“Con el cielo en la planta de los pies” (1996), (La danza conchera queretana), Dirección y Guión Tecnico: Rebeca Padilla, Guión Literario: Genaro Zalpa R., Cámara: Raúl Mendieta R., Asistente de Cámara: José Felipe Martinez, Edición: Eugenia Peregrina, Musicalización: Nicanor Altamira, Voz: José Davila, Producción: Sergio Valdivia, La Casa del Mitote a. c. y El Fondo Nacional para la Cultura y las Artes, FONCA, 40 minuti.
“El ejido colectivo como agroempresa”, México, Instituto Nacional Indigenista.
“Fiesta en la Meseta Purépecha” (1988), Dirección: Rebeca Padilla, Guión: Genaro Zalpa, Cámaras: Raúl Mendieta R., Nicanor Altamira, Edición: Geny Peregrina, Musicalización: Nicanor Altamira, Voz: Angela Mejia, Producción: Sergio Valdivia, La Casa del Mitote a. c. y El Fondo Nacional para la Cultura y las Artes, FONCA, 25 minuti.
“Fiori per Guadalupe”, di Judith Cleason, Elisa Mereghetti, Marco Mensa, Fotografia: Marco Mensa, Montaggio: Danilo Grossi, da “Geo Magazine”, videoteca RAI, 28 minuti.
“Gaban Weberei in Nahuatzen” (1994), IWF, Göttingen, 28 minuti e mezzo (anche in 16 mm.).
“Gigantes del Ruedo. Fiestas de San Luís Rey de Francia en Nahuatzen, Michoacán” (1995) (26 agosto, 11:00 am: Selección de la Sierra; 26 agosto: 4:00 pm: Nahuatzen versus Tiripetio; 27 agosto, 11:00 am: Cerro de Noriega; 27 agosto: 4:00 pm: Selección de la Sierra; 28 agosto, 11:00 am: Ganadería de Zuñiga; 28 agosto: 4:00 pm: Selección Michoacana; 29 agosto, 11:00 am: Selección de la Sierra; 29 agosto: 4:00 pm: Tiripetio de Joaquin Ballesteros), Video Filmaciones Medina, Morelia, Michoacán.
“Gli uomini senza volto. Storie della rivolta del Chiapas” (1996), di Massimo Tennenini e Fiamma Montezemolo, 28 minuti.
“Las fiestas de San Luís” (1996), di Roberto Cipriani e Toni Occhiello, Roma, Università di Roma “La Sapienza”, 50 minuti (reperibile sul sito: http://www.imdb.com/name/nm1698566/).
“Mascaras cerimoniales tarascos, Michoacán”, México, Instituto Nacional Indigenista.
“Ocumicho sauvé par les diables”, di Frédéric Choffat, Julie Gilbert, Cécile Gouy Gilbert, Les Films Oeil Sud, sottotitoli in francese, 26 minuti.
“Organización social de los mercados campesinos”, México, Instituto Nacional Indigenista.
“Pindekua Tembuchecua. La costumbre del matrimonio” (1989), Dirección y Guión Tecnico: Rebeca Padilla, Guión Literario: Genaro Zalpa R., Cámara: Raúl Mendieta R., Asistente de Cámara: José Felipe Martinez, Edición: Eugenia Peregrina, Musicalización: Nicanor Altamira, Voz: José Davila, Producción: Sergio Valdivia, Videoproducción Docente, Universidad Autónoma de Aguascalientes, 20 minuti.
“Purépechas, los que viven la vida” (1982), di Roy Roberto Meza, Instituto Nacional Indigenista, México, 35 minuti.
“Uomini e dei. Il Messico e l’indio messicano. I primi grandi templi”, Consulenti: Elizabeth Carmichael, Alberto Cruz, Produzione: Marco Ortiz, George Ruz, Alex Branson, Gill Bart, George Farley, Operatori: John Hooper, Colin Waldeck, Montaggio: Raoul Sobel, prodotto in collaborazione con Reiner Morits Prductions, British Museum di Londra e Museo Nacional de Antropología di Città del Messico, videoteca RAI, 27 minuti.
“Venimos, Señor, a bailarte”, Cámaras: G. Zalpa Ramirez, Dirección: Rebeca Padilla de la Torre, Edición: Ma. Eugenia Peregrina, Foto Fija: Juan Carlos Escalera, Voz: Nicanor Altamira, Productor: Sergio Valdivia, Asesor de Producción: Raúl Mendieta, Apoyos Gráficos: Rubén González, Audio: Nicanor Altamira, Mario de Avila, Videoproducción Docente, Universidad Autónoma de Aguascalientes, 25 minuti.
3. Riferimenti cinematografici
“Nahuatzen. Agosto 1982” (1982), film-ricerca di Roberto Cipriani, sonoro, super8, 30 minuti.
“Patamban, a village of potters. Daily life and work of a family” (Michoacán, Messico) (1997), di Beate Engelbrecht e Manfred Krüger, 88 minuti.
“Qué viva México!” (1931-1979), film di Sergei Eisenstein, Kino Video, 85 minuti.