“La dinamica della socializzazione e alfabetizzazione religiosa”, in Melloni (a cura), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, il Mulino, Bologna, 2014, pp. 27-42.

Roberto Cipriani


LA DINAMICA DELLA SOCIALIZZAZIONE ED ALFABETIZZAZIONE RELIGIOSA


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


Il passaggio di contenuti ideali, norme e valori dall’una all’altra generazione di una medesima società assume il carattere di un processo ereditario che non ha luogo con il decesso dei predecessori ma che avviene molto prima, nel corso di anni e di decenni, molto lentamente, momento per momento, step by step, senza salti vistosi e/o imprevisti. In termini metaforici si potrebbe dire che si tratta piuttosto di una distillazione graduale, dai tempi lunghissimi, per cui il travaso non è immediato ma piuttosto soft e peraltro quasi impercettibile, come l’acqua che goccia dopo goccia scava anche la roccia più resistente. Questa transizione ha inoltre un connotato tipico, quello di essere globale, non parcellizzata, sistemica si direbbe per la sua organicità e completezza, almeno tendenzialmente. I genitori fanno giungere ai loro figli quello che era stato trasmesso ed insegnato da coloro che per i destinatari sono nonni e nonne, che hanno generato gli inculturatori-educatori contemporanei. La linea di discendenza non riguarda solo il DNA ma pure qualcosa di più direttamente verificabile, persino attraverso l’abbigliamento di una prole che specialmente nei primi anni di vita non solo è materialmente rivestita dagli adulti di riferimento domestico ma ne segue le tracce quasi in ogni dettaglio: quante figlie sono vestite come le loro madri e quanti figli imitano i loro padri? Questa co-formazione, che rende conformi ed omogenei gli abiti mentali e tessili, le posture corporee ed i gesti, le espressioni verbali ed i toni di voce, non mette fra parentesi la religione, che anzi ne rappresenta sovente una chiave di volta: la credenza e la pratica religiosa degli adulti trascinano quasi in modo inerziale quelle dei minori.


L’impatto con l’eredità culturale dei maggiori di età è solitamente dapprima morbido, sinuoso quasi, ma a mano a mano che l’età dei più giovani procede avanza altresì lo spirito critico, che si interroga sul senso del tutto. Successivamente si può anche registrare un distacco dal modello attitudinale e comportamentale appreso e nondimeno permane una sua traccia, magari carsica, inespressa e però non esaurita. La tracimazione dei valori ereditati può aver luogo in seguito, nelle occasioni meno prevedibili od in quelle più problematiche, che mettono in gioco il valore della vita, il significato dell’esistere.


Difficilmente il lascito valoriale avviene in forma parziale, per segmenti separati. Insomma il set dei valori non si frammenta in miriadi di eventi e di interventi ma procede con una sua compattezza di fondo. Ogni valore dunque non è un “legato” a se stante, limitato al suo contenuto specifico. Vi è da pensare piuttosto ad una sorta di bagaglio più ampio, capace di contenere principi plurimi, idee-guida articolate, molteplici indirizzi mirati. Appunto l’interconnessione fra i valori appare come una soluzione efficace, in quanto è in grado di orientare in modo tendenzialmente uniforme l’agire dell’individuo sociale.


Ovviamente con il trascorrere del tempo si aprono nuove possibilità di scelta e di operatività, per cui il soggetto accantona taluni elementi e ne valorizza altri, lungo il suo percorso esistenziale. Raramente un’eredità ricevuta permane poi identica a se stessa, senza subire decrementi o incrementi. Del resto un’eredità non sempre è riproposta nella sua interezza, conservando ogni suo dettaglio intatto. Ma intanto essa tende, in un dato contesto culturale, a riprodurre le medesime propensioni del passato, le stesse tradizioni di un tempo, in fondo i medesimi valori essenziali. La sua compattezza globale è altresì una garanzia di maggiore tenuta rispetto ad altre operazioni più frammentate.


La successione nell’eredità non comporta solo il far transitare principi ispiratori e schemi di comportamento ma anche un passaggio delle consegne per l’esercizio del ruolo di inculturatore-educatore-formatore. Pertanto la trasmissione del testimone-bastoncino di un’ipotetica staffetta della vita segna sia l’affidamento di un insieme di idee e valori sia l’attribuzione di un ruolo di responsabilità che concerne il futuro delle generazioni successive. Nella plurisecolare sequenza del patrimonio culturale che passa di mano in mano è implicito di fatto il dovere più che il diritto di assicurare la continuità di una base comune di riferimento a copertura delle necessità di identificazione e di solidarietà – in questo, Durkheim (1912) aveva colto nel segno –.


A ben pensarci, ogni eredità valoriale traina con sé stili e volti del passato, da cui trae forza di validità. Ma ad ogni mutamento di generazione si registra un effetto-valanga che raccoglie e trasporta quanto incontra sul suo percorso sino ad offrire a valle un patrimonio ben più cospicuo ed anche più vario di quello che invece aveva con sé a monte. Si pensi all’esempio delle case-museo (Besana 2007) di tante famiglie che hanno messo insieme cimeli e ricordi del loro lignaggio e della loro stessa appartenenza religiosa (foto di antenati, opere d’arte, immagini sacre): sono tanti messaggi che comunicano l’esistenza di un capitale culturale pregevole e versatile, degno di essere conservato non solo a futura memoria ma soprattutto a futura inculturazione-educazione-formazione.            


Educazione e socializzazione


I contenuti religiosi hanno pure il carattere di un’eredità giacente, non ancora raccolta da chi ne ha diritto o possibilità di accesso. Questo avviene fra l’altro nel caso di un fenomeno che nel passato la sociologia della religione considerava un indice di bassa religiosità: la dilazione dei battesimi (Burgalassi 1967) nell’ambito del cattolicesimo, rilevabile specialmente in zone in cui era particolarmente presente l’ateismo o più genericamente l’indifferenza religiosa. Oggi il mancato battesimo subito dopo la nascita risponde a ragioni le più diverse ed ora più cospicue che non nel passato: differenza di matrice religiosa fra i genitori, maggiore spirito critico, minor attaccamento alla tradizione, indebolimento del controllo sociale sui comportamenti, atteggiamento più problematico nei riguardi di una scelta religiosa ritenuta prematura ed inconsapevole da parte del neonato quale diretto interessato.


Intanto però il rinvio del battesimo indebolisce l’influenza del patrimonio accumulato in precedenza, che in quanto capitale non investito tende a perdere valore ed efficacia. Per di più ciò avviene in una fase, quella dell’inculturazione, in cui si gettano le basi per la costruzione della personalità e per la stessa costruzione sociale della realtà, cioè per la visione del mondo che il soggetto sociale avrà in età di ragione, secondo la prospettiva classica di Berger e Luckmann (1966).


L’inculturazione che i genitori promuovono presso la loro discendenza si basa sul retaggio di doti etiche, tradizioni, principi, valori, idee, elementi spirituali, che di fatto pongono le premesse per quello che sarà in seguito l’individuo investito dal processo educativo, cioè da un approccio intenzionale dei suoi adulti più cari e più vicini, orientati ad inserirlo nella società e quindi a fargli affrontare il percorso della socializzazione interpersonale al di fuori dell’ambito familiare e segnatamente presso i coetanei, come pure presso altri adulti che abbiano ruoli educativi (a scuola, nel tempo libero, nelle pratiche religiose, nelle esperienze di comunicazione sempre più globalizzata).


Il succedersi di operazioni di inculturazione non conosce soluzione di continuità, neppure nel caso in cui i genitori, supposti educatori, rinuncino volutamente ed esplicitamente ad esercitare il loro ruolo-compito di trasmettitori dell’eredità culturale, ivi compresa o meno quella religiosa. Invero neanche nel caso di una decisa volontà volta a non trasmettere alcun contenuto di idee, cioè ideologico nel senso neutro del termine, si può ritenere che non vi sia alcuna forma di inculturazione, in quanto la stessa assenza di un messaggio è comunque una forma di comunicazione, che segnala la non rilevanza di talune modalità esperite da altri e propone percorsi alternativi non privi peraltro di contenuti valoriali o ideologici in senso lato. Detto altrimenti vi è sempre un contenuto che passa, che viene emesso perché pervenga al destinatario, ovvero l’infante, il pre-adolescente, l’adolescente, il giovane.


A fronte dell’esperienza della morte, che anche i minori si trovano a dover vivere, una qualche spiegazione appare dovuta: nel senso di indicare l’evento ultimo di una vita come termine di ogni tracciato personale e senza alcuna possibilità di prosieguo oppure nel senso di far intravedere un possibile prolungamento di natura metafisica, dunque fornendo ragioni e supporti di natura religiosa. A questo proposito vale la pena di considerare che il poeta Eugenio Montale, premio Nobel nel 1975, ha detto: “in pratica – per eredità – sono cristiano e non so sottrarmi alla idea che qualcosa di noi può o addirittura deve durare”.


Né va dimenticato, in chiave sociologica, l’impatto di interculturazione-educazione-formazione che rappresentano l’eredità maggiore di una religione: l’insieme di tutti i suoi fedeli, praticanti, frequentanti saltuari, appartenenti senza essere del tutto credenti o credenti che dicono di non appartenere ad alcuna religione (Davie 1994).


Orbene l’eredità patrimoniale culturale eventualmente trasmessa alla propria discendenza è essa stessa soggetta ad interagire a sua volta, giacché il tipo di educazione messo in opera dagli adulti si confronta poi con il carattere del minore, con la sua capacità di reazione e di rivisitazione dei valori ricevuti. In ogni caso non è da trascurare, infine, il dato di fatto costituito dalla dimestichezza e dalla domesticità delle relazioni interpersonali esperite soprattutto nei primi anni di vita allorquando chi è destinato a ricevere un certo patrimonio ne diventa partecipe sin dall’inizio e quasi sempre vi si immedesima, vi si identifica.          


La persistenza della religione


La capacità di resilienza, ovvero di resistenza alle crisi, è solitamente maggiore nelle religioni con più numerose adesioni, ma un’accurata gestione dei periodi difficili permette anche ai gruppi religiosi cosiddetti minori (quantitativamente) di riuscire egualmente a superare i momenti di difficoltà, sconforto, angoscia e sofferenza. Specialmente nelle religioni a carattere piuttosto locale, senza una particolare diffusione a livello mondiale, gli andamenti possono essere imprevedibili: magari esse restano allo stato iniziale (per numero di adepti) abbastanza a lungo, salvo registrare poi crescite subitanee e numericamente esponenziali, in coincidenza con qualche evento straordinario o con l’azione significativamente influente di un particolare leader e del movimento da lui creato. Nel caso delle cosiddette nuove religioni, l’andamento di un’eventuale vicenda giudiziaria, magari amplificata dai mezzi di comunicazione di massa, può ingenerare sospetti ed interrompere un flusso già cospicuo di adesioni. D’altro canto, l’esito non negativo dell’azione civile e penale nei riguardi di un’espressione religiosa può riaccendere lo spirito del proselitismo, far guadagnare nuovi membri, ormai non più indotti a nutrire dubbi sull’affidabilità di un’offerta religiosa. Nello scenario storico a più lunga gittata religioni un tempo prevalenti in un dato contesto sono state poi ridotte ad entità appena accertabili sociologicamente. In altri casi si sono verificati sviluppi imprevedibili, con aumento della capacità di influenza e di diffusione. Non è possibile individuarne in generale le ragioni, che vanno invece reperite caso per caso.


Sta di fatto che, in aumento o in crescita che siano le appartenenze religiose, quasi viene da pensare ad un sistema di vasi comunicanti, per cui agli incrementi dell’una corrisponderebbero dei cali dell’altra religione, come se il quantitativo complessivo dei soggetti religiosamente orientati non dovesse cambiare di molto nel suo insieme, ma solo variare distributivamente all’interno delle specifiche connessioni con ciascuna delle religioni. Non è da sottovalutare il dato, abbastanza costante (quali che siano la latitudine e la longitudine) secondo cui qualche forma religiosa – durkheimianamente intesa (Durkheim 1912) od anche secondo altre prospettive – è comunque rintracciabile quasi ovunque. Non si vuole con questo sostenere l’ineluttabilità del sentire religioso ma solo segnalare un elemento sociologico ricorrente, che però non ha molte possibilità di confronto con altri caratteri del vissuto sociale, non altrettanto diffusi. Va nondimeno sfatato il presunto universalismo della religione, cioè l’idea che essa sia un dato scontato in ogni realtà sociale. Ormai si sa per certo che esistono anche popolazioni prive del tutto di riferimenti a carattere religioso di tipo tradizionale e che perciò non sono catalogabili come contraddistinte da una esperienza religiosa concreta. Posta la questione in questi termini, c’è da chiedersi che cosa renda una religione tale e quali ne siano i caratteri sociologici. Va subito chiarito che il riferimento alla trascendenza, al soprannaturale, all’esistenza di qualcosa prima della nascita e dopo la morte, non è una condizione assolutamente necessaria, sociologicamente, per qualificare una fenomenologia come religiosa. E non è neppure detto che una religione debba contemplare sia credenze che riti: essa può essere accompagnata dalle prime ma non anche dai secondi o viceversa. Se poi è anche accertabile che il rinvio ad una divinità, ad un essere avente natura diversa da quella umana, è caratteristica rintracciabile nelle cosiddette religioni universali, non è tuttavia indispensabile parlare di un dio per poter definire religioso un vissuto o un atteggiamento. In effetti ci possono essere attitudini ed azioni che hanno un contenuto religioso senza per questo doversi sottintendere l’esistenza di un essere superiore verso cui rivolgere attenzioni devote, omaggi cultuali, riconoscimenti di superiorità od altro ancora (affine a tutto ciò).


I contenuti religiosi


I contenuti della religione possono dunque rifarsi ai significati dell’esistenza, alle esperienze di influenza decisiva da parte dei valori nell’orientamento della azioni. Insomma si può registrare e considerare come religione anche quanto non rientra in nessun canone confessionale delle religioni storiche riconosciute. Ma, per evitare ampliamenti indebiti ed ingiustificati, conviene ribadire che almeno la presenza dei valori deve avere un grado così rilevante da assumere connotazioni preminenti e costitutive del modo di pensare e di agire. A tal riguardo è opportuno tracciare una linea di demarcazione, rispetto ad altre proposte in merito, avanzate da autori come Thomas Luckmann (1967) per esempio. Qui, nel nostro caso, non si tratta di individuare temi religiosi moderni (individualismo, familismo, tempo libero, ecc.) o sostituti funzionali della religione ma modi di vedere la realtà (con comportamenti conseguenti) che abbiano la forza di portare il soggetto sociale a scegliere fra più opzioni possibili, sulla base di considerazioni-guida che dunque costituiscono la base dell’azione individuale e sociale. Questa ottica aconfessionale consente di indagare esperienze sia storiche che innovative, sia già riconosciute a livello di comune sentire sia da includere ex novo nell’ambito della fenomenologia religiosa di interesse sociologico.


Si lascia così il solco tracciato dalle religioni ufficialmente riconosciute e non si affronta ex cathedra (magari universitaria) il problema della distinzione fra religione e non religione (di cui sovente ha pagato lo scotto il buddismo, classificato semmai come una filosofia e non come una vera e propria religione, sociologicamente intesa). Si addiviene dunque ad una diversa impostazione, che non esclude a priori una qualunque forma che possa presentare appena qualche elemento di natura religiosa. Sovente, nel passato, è prevalso, anche fra i sociologi più avvertiti, l’idea di una sorta di definizione ufficiale di religione, data per scontata nella misura in cui rientrava nei canoni delle forme religiose storicamente legittimate dalle stesse chiese, dalle denominazioni, dalle sette, dai movimenti, dalle comunità, insomma dai sodalizi già autoproclamatisi come religiosi.


Non appare peraltro indispensabile stabilire in anticipo come debba essere una religione. Si può anche partire da una semplice “sensibilità teorica” nei confronti delle modalità religiose, per poi passare alla raccolta ed all’analisi dei dati, cui applicare infine alcuni “concetti sensibilizzanti” derivanti dai dati medesimi. Insomma un approccio alla maniera della Grounded Theory (Glaser, Strauss 1967), rivisitata e modificata, può tornare molto utile per uscire dalle pastoie di una sociologia della religione pre-definita, pre-ordinata, pre-orientata.


Non si tratta di affidarsi ad una generica cogenza dei risultati della ricerca quanto piuttosto di evitare schematizzazioni pre-concette, etichettamenti infondati, prese di posizione ingenue ed inconsapevoli.


La sociologia della religione


In fondo, la sociologia non è nata come disciplina di conforto per le istituzioni e la sociologia della religione in particolare non lavora per conservare un titolo di spesa a suo nome nel libro-paga delle chiese e delle congregazioni religiose. Essa è e resta un’analisi critica e perciò non succube, non protesa alla difesa dello statu quo. Anzi il suo atteggiamento critico è da considerare tale a trecentosessanta gradi, in chiave di riflessività sul proprio passato e sul proprio ruolo attuale.     L’indagine sociologica non può essere al servizio se non della scienza, ovviamente non in chiave scientista fine a se stessa, ma con un impegno metodologico corretto sul piano procedurale e disincantato rispetto alle sirene delle istituzioni e del facile consenso (Bourdieu 1987). Specialmente in un campo come quello religioso, la deontologia professionale è chiamata in causa per offrire il meglio di sé, senza correre a dare man forte nello spingere il carro di un vincitore momentaneo e neppure quello trionfale di un potere che esula dall’ambito religioso per colonizzare altri territori.


Ma intanto l’azione più efficace delle religioni e delle chiese è già avvenuta, nel passato più remoto ed in quello più recente, creando e favorendo le condizioni di un’adesione non trascurabile in termini di cifre, visto che miliardi di persone nel mondo si riconoscono fedeli di una religione. Il tasso dei praticanti è in genere molto più basso di quello dei credenti, degli affiliati, dei simpatizzanti. Questo, però, non significa che l’influenza complessiva di un particolare punto di vista religioso perda vigore in modo corrispondente al divario numerico fra i partecipanti al rito ed il resto degli appartenenti più o meno solidali.


La soluzione operativa che rende più redditizia l’azione delle chiese e dei gruppi religiosi è quella di intervenire nei primi anni di vita ed in genere nei primi tre lustri (fino ai quindici anni) dell’esistenza, cioè in un periodo formativo di primaria rilevanza, durante il quale si decidono molte sorti di un soggetto.


La socializzazione


Dal tipo di educazione-socializzazione-formazione ricevuta dipende il futuro di un individuo ancora in crescita, grosso modo appunto fino ai 15-16 anni di età. Durante questi anni, si pongono le basi che saranno a fondamento dell’agency di una persona che entra a far parte di una società. Ovviamente è di importanza strategica l’opera socializzatrice degli adulti-genitori nei riguardi della propria prole. Ma anche altri sono gli operatori partecipi: insegnanti e varie figure educative (a carattere religioso e non), amici e gruppi di amici di pari età, educatori professionali a diverso titolo (animatori culturali, figure laiche e religiose, dirigenti associativi, responsabili di gruppi e movimenti, educatori comunitari ed altri ancora).


Tutti costoro, in forma congiunta ma anche separata, predispongono il percorso che poi l’adolescente dovrà affrontare da solo.


In diversi casi, avviene durante questa fase la diffusione di una religione che è di fatto prevalente nel contesto di riferimento, ampio o ristretto che sia. Mette quindi radici la religione diffusa, che trae origine dalla famiglia di nascita (di appartenenza) e prosegue poi con la famiglia successiva (di procreazione). Da una generazione all’altra il verbo religioso transita quasi senza interruzione, salvo modifiche personali dovute all’uno od all’altro genitore, a questo o quell’educatore.


Difficilmente, senza questa fase iniziale di trasmissione dei contenuti religiosi, potrebbero successivamente inserirsi gli specialisti della catechesi e della formazione religiosa. I semi della prima socializzazione religiosa danno frutti immediati con l’iniziazione religiosa dei giovani e con la loro partecipazione alla vita religiosa pubblica. In seguito può notarsi un ulteriore approfondimento dei parametri religiosi di riferimento oppure un parziale distacco, con prese di posizione più o meno accentuate. Tuttavia sarà ben più tardi che i valori diffusi in ambito familiare ed extra-familiare cominceranno ad operare, rappresentando il discrimine fra un’azione ed un’altra, fra una scelta e quella alternativa, fra un atto virtuoso ed uno in senso contrario.


I valori religiosi


La religione diffusa odierna non è molto diversa da quella del passato. Anzi proprio la sua persistenza ne costituisce una caratteristica peculiare, quasi strutturale alla maniera in cui l’avrebbe potuta intendere Claude Lévi-Strauss, cioè come uno zoccolo duro non facilmente scalfibile dal tempo, sebbene soggetta comunque a delle variazioni, sia pure non facilmente percettibili. Se qualcosa è cambiato ciò è avvenuto a livello secondario, in aspetti di dettaglio e non di sostanza. Dunque la religione diffusa continua ad essere il risultato di una vasta azione di socializzazione religiosa che pervade anche tuttora la realtà culturale e non solo. Come spiegare altrimenti la tenuta massmediatica di un personaggio come papa Giovanni Paolo II – nonostante gli ultimi anni di malattia – fino alla sua morte e ben oltre?


Il carattere pervasivo della religione resta perché nasce comunque dalla stessa religione, è intriso fortemente di connotati religiosi. Lo stesso ateismo, per esempio all’interno di un paese cattolico, non è sempre e comunque un fenomeno anticattolico, come del resto esso non è antireligioso neppure negli altri contesti in cui una religione è dominante e diventa diffusa, come nel caso dell’islam o dell’induismo, dello scintoismo o del buddismo.


Solitamente poi l’appartenente alla religione diffusa è poco praticante e scarsamente attento agli insegnamenti direttamente legati a conseguenze pratiche immediate più che ad orientamenti di ordine generale.


Un discorso a parte andrebbe fatto per l’insieme dei valori di riferimento, ovvero per l’etica di tipo protestante, che in linea di massima non sembra avere caratteri di universalità o comunque di dominanza comparabili con quelli del cattolicesimo. D’altra parte i valori diffusi più o meno legati al protestantesimo non sempre sembrano attinenti alla dimensione dell’impegno forte in campo lavorativo. Anzi si potrebbe piuttosto sostenere il contrario. Per questo l’etica protestante non è la matrice per eccellenza del capitalismo, che peraltro si espande e si radica ben al di là dei contesti territoriali tipicamente contraddistinti dalla presenza protestante, come mostra chiaramente il fenomeno di taluni nuovi ricchi.


Inoltre la presenza del riferimento alla religione, rintracciabile nei discorsi dei politici è la riprova dell’esistenza di una particolare caratteristica allo stesso tempo emotiva e persuasiva della religione diffusa, il cui peso non sfugge certo a quanti sono alla ricerca di leve potenti per accrescere il loro consenso politico-elettorale. Va tuttavia precisato che per esempio tra la religione civile (non civic) statunitense e quella diffusa italiana non c’è alcun rapporto diretto, nemmeno in termini metaforici. Quanto spiega Robert Bellah (1970) basandosi sui concetti di “esodo”, “popolo eletto”, “terra promessa”, “nuova Gerusalemme”, “morte sacrificale” e “resurrezione”, in riferimento alla presunta eredità nazionale e culturale del popolo degli Stati Uniti d’America, non risulta applicabile altrove, meno che mai in Italia ed in Europa, dove le vicende storiche sono molto diverse, hanno cronologie ben differenziate, i contenuti trasmessi di generazione in generazione non presentano specifici rinvii ad una trasmigrazione o ad una predilezione divina della nazione o ad una palingenesi dopo la distruzione della “vecchia Gerusalemme” o dopo la scelta del sacrificio supremo in vista della rinascita e del rinnovamento. Sono scenari, questi, che appaiono estranei al patrimonio culturale italiano e che in ogni caso non sono prevalenti. Il che significa che alla fine dei conti e delle comparazioni si deve pur constatare ed ammettere che esistono modalità plurime di inculturazione, ovvero di trasmissione di valori da una generazione all’altra e dunque di lascito patrimoniale riguardante una religione già diffusa nel passato, ancora operante nel presente e destinata in qualche modo a protrarsi nel futuro.


L’attrattiva religiosa  


D’altra parte va tenuto presente che la religione diffusa può essere soggetta a strumentalizzazioni facili giacché il richiamo a valori religiosi ha sempre un suo fascino, un suo appeal. Più che di termini biblici o contenuti in altri testi sacri, i politici fanno uso di richiami semplici, usuali, soprattutto legati ad alcuni personaggi popolari, ben noti alle masse orientate dalla religione diffusa vigente nel loro contesto: Padre Pio come il papa, una Madonna protettrice di un luogo o un santo ritenuto grande taumaturgo, un santone o un guru, un ayatollah o un profeta, un leader carismatico o un marabutto, un rabbino o un imām, uno sciamano o un bonzo.


Del resto non è facile distinguere fra religione diffusa e religione dei valori: la prima è inclusa nella seconda, che abbraccia un più largo settore della popolazione caratterizzata da diversi livelli di credenza. In effetti la religione diffusa in senso stretto riguarda una categoria di persone che non fanno della religione la ragione principale della loro esistenza, il fulcro del loro agire e nondimeno si richiamano ai contenuti valoriali della religione in occasione di decisioni importanti, di scelte cruciali che coinvolgono appunto i livelli più rilevanti in chiave etica.


Invece la “religione dei valori” interessa un arco più ampio di atteggiamenti e comportamenti, che possono essere più o meno corrivi con il cosiddetto modello ufficiale della religione di appartenenza e/o di riferimento. Così nella religione dei valori rientrano modalità ortodosse, cioè osservanti, di religione, nonché forme più critiche e persino divergenti se non proprio distanti dal credo e dal rito ufficiale. Ma l’effetto diffusivo della religione nel suo complesso non si esaurisce nel suo medesimo ambito. Essa riesce ad influenzare pure quelle aree di pensiero e di azione che esulano dal suo orientamento più tipico ed anzi ne prendono le distanze: si tratta di quei contesti in cui si rintraccia una dimensione morale che sebbene non allineata con quella della religione preminente nondimeno ne conserva qualche traccia, almeno come afflato etico universale, cui non è detto che sia del tutto estraneo un precedente impatto con i valori religiosi, per ragioni biografiche legate alla famiglia di origine, all’educazione ricevuta, alla socializzazione sperimentata. 


Infine anche le contingenze politiche e soprattutto i risultati elettorali non si spiegano solo con gli appoggi confessionali o con i rinvii a tematiche religiose: molti e complessi fattori interferiscono, al di là delle apparenze e dei pronunciamenti religiosi ufficiali e/o privati.


A partire da un presupposto teorico di questo genere, riassumibile come religione diffusa mediante valori, si può passare dopo ad una procedura empirica volta a costruire un’ulteriore teoria, tendenzialmente a medio raggio oppure con ridotte potenzialità di implementazione, in relazione essenzialmente ai dati ottenuti nel corso della ricerca. Si può parlare, a questo proposto, di una nuova forma di triangolazione, non più e non solo fra strumenti metodologici quantitativi e/o qualitativi, ma in primo luogo fra teoria preliminare di sfondo e teoria derivante dalla ricerca (o basata sui dati, appunto la Grounded Theory).


Si avrebbe pertanto una doppia garanzia scientifica, derivata dalla duplice e convergente teorizzazione, sia di sfondo che di ricerca, e da una triangolazione anche di metodi, solitamente foriera di interpretazioni più approfondite del solito, più convincenti, più corroborate dall’insieme dei risultati.


Seguendo un tale percorso, l’idea di una religione diffusa mediante valori troverebbe un più adeguato profilo complessivo, arricchito dal portato di una disamina ad ampio spettro, in ogni direzione e senza preclusione di sorta.


Il futuro del cattolicesimo


Quali potrebbero essere le prospettive future del cattolicesimo e della religiosità in Italia?

Se osserviamo con attenzione il dato della “pratica religiosa” regolare quello italiano attuale si aggira attorno al 25%; negli Usa il 37% va a messa almeno una volta alla settimana; quindi quest’ultima è una percentuale più alta di una decina di punti rispetto all’Italia.

Ma particolarmente interessante è il segnale relativo alla “preghiera personale”. “Quando preghi regolarmente, a parte la messa?” Il 54% risponde: “Ogni giorno”. Forse questo potrebbe essere il risultato più rimarchevole anche di una futura indagine. D’altra parte la preghiera non è sottoposta a sanzione pubblica o a controllo sociale, come nel caso della messa in cui si può verificare se vi si è partecipato o meno. La preghiera è un fatto personale cui nessuno è costretto, in quanto nessuno può effettuare controlli. Siamo dunque di fronte a germi di religiosità latente, invisibile, ma ben diversa da quella detta pure “invisibile” ed ipotizzata in un titolo di libro (per volontà del’editore) ma non debitamente sviluppata come tale da Luckmann (1967). Inoltre da un approccio strutturale, statistico, la religiosità presente in Italia emerge in modo complesso e composito, se si conduce un’analisi dei dati sciolta dall’ipoteca ideologica e tale da renderne immediata e chiara la comprensione. Certamente potremmo discutere se si sia di fronte ad una sorta di “ecclesiosfera”, come la definirebbe Émile Poulat (1986): L’eglise c’est un monde, la Chiesa è veramente un mondo, un mondo articolato, poco omogeneo e piuttosto differenziato.

Una prima tendenza riguarda le sorti della fede tradizionale nelle società via via interessate da un maggior pluralismo religioso. Contrariamente a quanto si poteva supporre, l’aumento della varietà culturale e religiosa non incrina necessariamente il senso di appartenenza della popolazione alla religione dei propri avi. In alcuni casi la compresenza di orientamenti religiosi diversi può produrre un indebolimento delle credenze e delle appartenenze più diffuse; in altri casi, invece, si delineano reazioni opposte, tipiche di quanti sono spinti dalla presenza di altre fedi a radicarsi maggiormente nel sentire religioso della tradizione. Ciò vale soprattutto nelle nazioni come l’Italia in cui le chiese e i gruppi religiosi continuano ad avere un forte radicamento sociale, per cui la popolazione ha alle spalle una lunga prassi di socializzazione ed educazione religiosa.


Il pluralismo


Intanto il pluralismo non risparmia nemmeno i contesti che – in base a fattori storici e culturali – risultano religiosamente più omogenei, alimentando nella popolazione modi assai diversi di interpretare il comune riferimento di fede e l’adesione alla confessione religiosa prevalente.

Da un’altra angolatura, si osserva che il senso di appartenenza religiosa è oggi condizionato sia dall’individualismo del credere sia dalla difficoltà delle grandi istituzioni religiose di offrire una “sacra volta” – sacred canopy secondo la terminologia di Peter Berger (1984) – capace di interpretare il bisogno di senso nella modernità avanzata. Per varie ragioni, dunque, gli individui hanno maggiori gradi di autonomia e di scelta anche nel campo religioso, tendenza questa che ai livelli massimi è ben delineata dalla figura del “credente solitario” (ancora Berger), simbolo di una condizione in cui il credere è relativamente indipendente dall’appartenenza.

Proprio la coppia “credenza-appartenenza” è sempre più al centro della riflessione di molti sociologi della religione, che vedono nella scissione del rapporto una delle tendenze emergenti. In genere si pensa che la “credenza senza appartenenza” abbia ad interessare soggetti particolarmente riflessivi, capaci di radicarsi su una convinzione religiosa anche senza il supporto delle strutture e dei gruppi religiosi (Davie 1994). Tuttavia, altri autori – tra cui B. Wilson – hanno da tempo sottolineato il fatto che questo tipo di atteggiamento può avere un carattere più passivo, come si conviene a persone che non mettono in discussione i riferimenti religiosi convenzionali pur avendo difficoltà a identificarsi con le chiese o i gruppi religiosi che ne sono i depositari. Il “credere senza appartenenza” è comunque soltanto una delle nuove combinazioni religiose che oggi si osservano nella società. Un’altra è rappresentata dall’“appartenenza senza credenza”, che caratterizza i soggetti che rivalutano la religione della tradizione più per motivi culturali ed etnici che per ragioni spirituali. In una società culturalmente sempre più aperta e multietnica, molti possono ricercare nell’appartenenza religiosa convenzionale un sentire comune che offre orientamento, rassicurazione e certezze.

Se è già difficile leggere sociologicamente la realtà all’interno della sfera ecclesiale, che pure ha una sua marcata visibilità, ancor più complicato risulta porsi interrogativi ed attese in chiave di religiosità in generale, giacché si è di fronte ad una fenomenologia quasi imperscrutabile, non auto-evidente, abbastanza personalizzata, cioè piuttosto soggettiva. Nondimeno l’obiettivo è quello di analizzare dati da cui possono emergere:

a) forme di religiosità molto eterogenee sia dal punto di vista della credenza che della pratica;

b) consistenti presenze di atteggiamenti e comportamenti parareligiosi o similreligiosi che operano come sostituti funzionali del religioso (sia secondo la suggestione di Thomas Luckmann (1967) sui “nuovi temi moderni” dell’auto-espressione, dell’auto-realizzazione, dell’autonomia individuale, dell’identità, della sessualità, del familismo, della mobilità, del denaro, del tempo libero; sia secondo la prospettiva proposta da Danièle Hervieu-Léger (1989) sul ruolo delle emozioni in campo religioso);

c) domande religiose orientate a soddisfare bisogni di senso e di solidarietà;

d) istanze etiche che esigono un fondamento anche di natura religiosa;

e) scollamenti fra appartenenza religiosa e comportamento, con una ridotta coerenza etica, riconducibile – in ipotesi – a forme di disorientamento tipiche della società pluralista oppure a propensioni volte a soggettivizzare al massimo la dimensione religiosa.


L’appartenenza

Certamente uno dei cardini su cui ruota tutto questo insieme è il rapporto fra appartenenza e non appartenenza. I sociologi della religione (sia i classici, sia gli studiosi della società contemporanea) hanno sempre prestato grande attenzione al tema dell’appartenenza religiosa, considerata come una delle dimensioni costitutive non soltanto della religiosità delle persone ma anche del modo in cui i gruppi religiosi agiscono nella società. Lo studio dei fenomeni religiosi inoltre si applica certamente ai temi delle credenze, dei simboli e dei rituali, della visione della realtà ispirata dalla fede, dell’etica individuale e sociale promossa dai gruppi religiosi, delle diverse forme di organizzazione (istituzioni, strutture e ruoli specializzati) funzionali a mantenere, controllare e diffondere nel tempo le convinzioni religiose; ma accanto a questi importanti aspetti un’attenzione specifica viene riservata al senso e alle modalità di appartenenza delle persone ai gruppi religiosi. All’analisi di questa dimensione ha dato un grande contributo anche la psicologia della religione, evidenziando quanto l’appartenenza religiosa rifletta condizioni del vissuto e tratti della personalità. L’appartenenza implica sempre una qualche forma di identificazione e di legame ad una realtà sociale. 

Ovviamente il sentimento di appartenenza ad un gruppo religioso o a una chiesa si manifesta in forme e con intensità diverse; per alcuni ha un carattere individuale, riguardando solo il vissuto, mentre per altri ha una valenza sociale e culturale più ampia; in qualche caso si è di fronte ad appartenenze forti e totalizzanti, mentre in altri si delineano legami più deboli o incerti, tipici di un’adesione parziale o con riserva alle idee o alle finalità del gruppo o dell’istituzione religiosa; ancora, un conto sono le appartenenze religiose molto motivate e attive, altro conto sono quelle dovute alla consuetudine ed alla tradizione.

C’è da chiedersi quanto ampia possa essere questa variabilità di base e che cosa ci si debba aspettare da coloro i quali stanno vivendo in quest’epoca una situazione particolarmente critica sul piano professionale ed economico, che si ripercuote sul vissuto quotidiano e mette in dubbio molte certezze ideali e tante sicurezze identitarie del passato.


Il cambiamento

Il processo di trasformazione che attraversa e caratterizza la dimensione religiosa all’interno delle società moderne non è, meno che mai, passibile di un’analisi dicotomica in termini di presenza/assenza del sacro, persistenza/declino delle credenze e delle appartenenze religiose, prospettando per di più delle omologie non proponibili tra sacro, credenze religiose e appartenenze ecclesiali.

In realtà, la dimensione religiosa nella società contemporanea conosce molto più spesso un percorso di adattamento e di ricerca di compatibilità. In altri termini la secolarizzazione delle istituzioni non prelude ad una scomparsa del sacro, ma pone certamente le premesse per una sua ricomposizione. In che termini tutto ciò è riscontrabile tra la popolazione italiana?

Si ipotizza che si produca un processo di adattamento tra dimensione religiosa e società moderna, tra una trascendenza ed una dimensione meta-umana da un lato ed un’integrazione in una società immanente che di questa trascendenza e di questa dimensione fa strutturalmente a meno. In questo processo sarebbero le trasformazioni nelle credenze religiose a costituire l’indicatore maggiormente visibile, proprio perché rappresentano il luogo dell’adattamento personale, della revisione individuale ed interiore.

Accanto alla tesi classica che vede il processo di secolarizzazione manifestarsi e definirsi attraverso la semplice marginalizzazione della dimensione religiosa e la sua esclusione da ciascuno dei diversi ambiti della vita sociale, esisterebbe pertanto una seconda modalità di analisi che potrebbe vedere le trasformazioni della dimensione religiosa manifestarsi nella disuguale sottoscrizione delle credenze. Alcune di queste non cessano di essere condivise, mentre altre sono oggetto di un consenso minore e sempre più in declino. Si può rubricare un simile processo nella categoria della personalizzazione (Ferrarotti 1990), in quella dell’individualizzazione (Hervieu-Léger 1989) o della razionalizzazione (Boudon 1979), ma resta il fatto che l’analisi delle credenze sottoscritte e di quelle lasciate in ombra, quando non addirittura abbandonate, costituisce uno degli indicatori più sensibili circa il mutamento della religiosità in un contesto di modernità.

Gli studi più recenti hanno evidenziato i molti cambiamenti che interessano l’appartenenza religiosa nella società contemporanea, che in parte rientrano in quelle che Hervieu-Léger definisce come le “produzioni religiose” della modernità avanzata. Permane invero l’interesse per la religiosità (senso religioso, condotte religiose, spiritualità) in tutte le sue dimensioni rilevabili, ma rimane largamente in ombra il suo momento genetico, il dinamismo che ne segna lo sviluppo in età evolutiva e le trasformazioni in età adulta. Questo dinamismo infatti esige di essere studiato in termini multidisciplinari, con l’apporto decisivo anche di categorie psicologiche e pedagogiche. Non è possibile tuttavia affrontare esaurientemente il fenomeno della religiosità (come dato sociologico e antropologico) senza contemporaneamente indagarne la genesi e la trasformazione nel corso della vita personale. Tuttavia l’indagine sul dinamismo della religiosità esige la negoziazione e/o la ridefinizione delle categorie di lettura socio-antropologiche utilizzate per studiare le condotte religiose. Ne deriva la necessità prioritaria di un confronto multidisciplinare, già nella genesi degli strumenti di ricerca, e di una stretta collaborazione, o almeno di uno scambio in parallelo, nei percorsi di ricerca sui temi religiosi, fra sociologi, antropologi, psicologi e pedagogisti.


L’educazione

Si deve poi considerare il fatto che, almeno negli ultimi venti anni, l’interesse in Italia per i temi religiosi in rapporto all’educazione è cresciuto, sia in ambito socio-antropologico, sia in ambito psico-pedagogico, in relazione a due rilevanti e caratterizzanti fenomeni sociali. L’espansione dei flussi migratori in arrivo in tutte le nazioni europee (anche quelle mediterranee che, fino ai primi anni Novanta, erano state tradizionalmente all’origine di flussi migratori verso il Nord Europa) ha riportato all’attenzione le identità religiose dei gruppi immigrati (identità differenti e variegate anche all’interno di una stessa confessione formale), contestando di fatto la rappresentazione occidentale della religiosità come fenomeno culturalmente “residuale”. La presenza straniera ha determinato in concreto la necessità di dialogare in situazione anche con identità caratterizzate da diverse forme di religiosità. Da ciò una sensibilità rinnovata, fra gli scienziati sociali e dell’educazione, rispetto alle identità religiose ed al loro intrecciarsi con i processi di educazione e formazione di gruppi diversi.

Vi è dunque la necessità di ulteriori approfondimenti per rispondere a tutta una serie di interrogativi. Oramai occorre riconoscere che le informazioni raccolte venti anni fa non sono in grado di rispondere a tante e così complesse domande. C’è dunque bisogno di un salto di qualità. Sarà pure interessante sapere di quanti punti percentuali è scesa la pratica religiosa regolare settimanale, ma sarà ancora più importante capire che cosa è avvenuto, che cosa stia avvenendo e che cosa avverrà della religiosità nel nostro paese. La questione non è di poco momento, come le vicende politiche e sociali degli ultimi anni hanno ben messo in mostra. Si parlava fino a pochi anni fa di un inarrestabile declino del peso della religione ed in particolare della religione storica organizzata ed ora si deve constatare che non solo non vi è stata alcuna eclissi ma anzi si deve registrare una sostanziale continuità con il passato. Ma a quali costi per la credibilità degli attori religiosi più organicamente radicati? Con quali sviluppi per le giovani generazioni di oggi?


Le conseguenze riguardano anche le politiche educative. È ancora possibile un discorso di solidarietà sociale, di cittadinanza, di rispetto interpersonale, di convergenza pacifica, di condivisione di diritti e doveri, senza più alcun riferimento al mondo dei valori religiosi od anche con un evidente indebolimento della loro capacità di attrazione? Stanno forse facendosi strada soluzioni alternative, più laiche, meno condizionate, meno influenzate da istituzioni consolidate come le Chiese? E comunque le formule tradizionali di legittimazione delle forme civili mediante il suggello-sigillo della ritualità religiosa (dal matrimonio al funerale) stanno per essere abbandonate? E lo saranno definitivamente fra non molto tempo?


Conclusione

Dopo la pubblicazione del volume su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995) il dibattito sulla tenuta della religione in Italia ha visto alternarsi posizioni contraddittorie, ora propense a sottolineare la forza della secolarizzazione, ora tese a scoprire filoni cospicui di ritorno del sacro. Tutto questo però ha avuto come fondamento quasi esclusivamente una serie di riflessioni teoriche a tavolino, scarsamente sostenute dai dati della ricerca empirica, cioè dalle misurazioni effettuate sul campo. Non è che nel frattempo siano mancati dei lavori seri ed articolati volti a verificare alcune ipotesi di fondo. Il fatto è che di solito non si basano su un campionamento effettivamente rappresentativo dell’universo nazionale italiano. Tutt’al più si tratta di studi di carattere locale, al massimo regionale (ma anche in questo caso la metodologia lascia a desiderare e denota carenze e superficialità). Sembra dunque venuto il momento di fare ancora una volta il punto per conoscere realmente quale sia la situazione socio-religiosa nel nostro paese, al nord come al centro e al sud.


Tale indagine è oggetto di un progetto di ricerca a carattere nazionale che sta per essere avviato nei prossimi anni.


La realtà del nostro paese verrà considerata secondo diverse prospettive sia contenutistiche che metodologiche. L’analisi in particolare verrà articolata in diversi settori:

– la socializzazione religiosa delle persone;

– la conoscenza e l’adesione ai contenuti religiosi;

– la partecipazione ai rituali religiosi;

– le motivazioni e le esperienze personali riferite al vissuto religioso;

– la consequenzialità etica (rapporto tra credenza, pratica religiosa e comportamenti nella vita quotidiana, familiare e sociale);

– la spiritualità personale.

Particolare attenzione verrà inoltre posta a:

– manifestazioni del sacro e del religioso extra-ecclesiale;

– ragioni dell’ateismo e dell’indifferenza religiosa;

– tendenze alla privatizzazione dell’esperienza religiosa;

– immagine di Dio, della Chiesa, del ministro religioso e del laico religiosamente impegnato nella cultura;

– ruolo della religione nell’ambito sociale (realtà ed attese);

– legame tra religione e valori emergenti in relazione a ecologia, bio-etica, soggettività, transnazionalità, ecc.;

– atteggiamenti nei confronti dell’aborto, del divorzio e della eutanasia;

– fattori culturali e strutturali che condizionano il fenomeno religioso.

La cultura e le espressioni religiose, infine,verranno rapportate alle subculture oggi presenti in Italia: quella marxista, quella laica, quella liberale, quella socialista, quella radicale, quella leghista, quella ecologista, ecc., nonché quella cattolica (tradizionale e non). L’approfondimento di alcune situazioni locali consentirà di cogliere significative differenziazioni territoriali nel rapporto tra valori e dinamiche sociali, con particolare riferimento ai processi di socializzazione ed ai loro effetti.




Riferimenti bibliografici


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– Boudon R. (1979), La logique du social, Hachette, Paris.


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