“Religione e religiosità oggi”, in Arici, Gabbiadini, Moscato (a cura), La risorsa religione e i suoi dinamismi. Studi multidisciplinari in dialogo, FrancoAngeli, Milano, 2014, pp. 29-42.

Roberto Cipriani


RELIGIONE E RELIGIOSITÀ OGGI


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


            Lambert (1991) ha opportunamente distinto fra definizioni sostantive e definizioni funzionali della religione. Ma in verità la tradizione sarebbe l’autorità legittimatrice dell’atto del credere e dunque della religione.


            Si dibatte se sia opportuno procedere all’analisi empirica della religione avendo in mente una definizione specifica di religione o se non convenga giungere ad una definizione solo al termine dell’indagine. L’approccio comprendente invece rimanda – pur senza escludere “una davvero minima definizione sostantiva” (a very minimal substantive definition) legata al soprannaturale – al punto di vista espresso dallo stesso attore sociale mediante la sua definizione della situazione (e quindi della religione).


            Una definizione sociologica della religione è però applicabile al massimo ad un contesto limitato e per un tempo breve. La procedura di costruzione di una definizione della religione prende avvio dalla raccolta dei dati empirici, propone dei concetti orientativi e stabilisce delle strategie di ricerca. Non servirebbero dunque le definizioni di religione che fanno leva sul senso comune, occorrerebbe invece guardare ai processi di costruzione sociale della religione nel loro concreto farsi. Va poi da sé che nessuna delle religioni appare come la religione per antonomasia, per cui verrebbero a cadere anche le remore sull’uso della dizione sociologia della religione invece di sociologia delle religioni.


Le categorie sociologiche per l’analisi della religione


            Si dibatte se sia opportuno procedere all’analisi empirica della religione avendo in mente una definizione specifica di religione o se non convenga giungere ad una definizione solo al termine dell’indagine. In fondo è lo stesso problema della scelta fra un approccio che presuppone l’esistenza di una teoria preformulata rispetto alla ricerca sul campo ed un’opzione favorevole a trarre elementi utili alla costruzione di una teoria solo dopo la raccolta dei dati. Forse la soluzione più efficace è quella che prevede una concettualizzazione iniziale a carattere orientativo e non vincolante, che svolga dunque una funzione “sensibilizzante”, alla maniera suggerita da Herbert Blumer (1954), rispetto al tema da indagare. Sarebbero peraltro da preferire definizioni non troppo rigide, aperte ed abbastanza possibiliste sugli esiti del lavoro empirico.


            Vi sono comunque dei punti fissi od almeno privi di quelle incertezze che inducono a dubitare di proposte piuttosto estensive di ciò che si può intendere come religione.


            Innanzitutto è da prendere in massima considerazione l’aspetto storico. Se una data religione ha dietro di sé una storia lunga di secoli se non di millenni riesce difficile negare il suo stesso statuto, largamente riconosciuto ed accettato sino al punto che quasi non si pone alcun problema in termini di accreditamento sociologico. Di conseguenza nel caso di fenomenologie chiaramente inserite in un filone religioso storicamente radicato dovrebbe essere fuori discussione ammettere il loro carattere di religione. Anche le espressioni marginali, dissenzienti e minoritarie delle grandi religioni presenti nel mondo contemporaneo sono da annoverare quali forme religiose a tutti gli effetti.


            Il problema appare subito più complesso se si debba qualificare come religiose alcune manifestazioni che non hanno precedenti storici alle loro spalle e che divergono in modo significativo dalle modalità religiose più diffuse ed accreditate. Ovviamente nessun giudizio di natura teologica o confessionale potrà impedire di farle considerare come religiose se esse presentano taluni o vari aspetti che siano ritenuti comunemente come peculiari di una religione.


            Ogni tentativo di definire la religione è facilmente soggetto a critiche, anche perché credenza, chiesa, mito, rito, preghiera ed altro ancora sono leggibili ed interpretabili solo nel loro quadro specifico di riferimento. Ogni generalizzazione appare indebita. Pertanto la proposta che qui si avanza ha un carattere provvisorio sebbene sia fondata su molteplici esperienze di ricerca.


            Orbene, pur con tutte le riserve del caso, conviene avere in mente alcuni parametri come elementi di riferimento comunemente accettabili e convenzionalmente condivisibili.


Il concetto sociologico di religione


            Un primo criterio per definire la religione deriva prevalentemente dalla presenza di un riferimento metafisico, metaempirico, che individua in un qualcosa (un ente supremo, un essere superiore con caratteri divini, non assoggettabile a prova razionale, scientifica) l’origine e la gestione delle sorti umane. Ma tale criterio non è di per sé sufficiente, perché può presentarsi come religione anche una serie di atteggiamenti e di comportamenti che prescindono da un rinvio ad un dio e che vedono nella natura stessa una forza, una potenza altrettanto creatrice e pervasiva quanto quella divina. Inoltre non presupponendo la presenza di un dio, l’esistenza può essere vissuta in chiave religiosa e metafisica attraverso l’impegno verso se stessi e gli altri in uno spirito di profonda attenzione all’alterità ed ai problemi dell’umanità.


            Un secondo criterio può essere costituito dalla presenza di credenze e convinzioni più o meno profonde e sentite in merito ad una dimensione in larga misura connotata da contenuti spirituali, non materiali.


            Un terzo criterio vede un apporto significativo a livello di atti rituali orientati da un’ispirazione di fondo in termini di fede, di affidamento alla divinità o comunque ad un essere soprannaturale.


            Come quarto criterio è possibile contemplare l’esistenza di norme comportamentali dettate da un leader carismatico e dai suoi principali seguaci, anche sulla base di una serie di testi scritti e comandamenti da osservare.


            Al quinto criterio sono riconducibili varie azioni che denotano una sostanziale condivisione di prospettive religiose definite e da professare in modo palese.


            L’impegno personale di osservanza dei maggiori principi di una fede religiosa costituisce un criterio, il sesto, per individuare un orientamento religioso più o meno coerentemente vissuto come punto basilare di riferimento, come principio etico.


            La religione può esprimersi a livello di sentimenti, di emozioni, di sensazioni: ed è il settimo criterio, particolarmente sviluppato nelle più recenti indagini sia teoriche che empiriche, con specifico rinvio a nuove esperienze religiose, ai cosiddetti nuovi movimenti religiosi, che vivono spesso di peculiari enfatizzazioni degli aspetti soggettivi.


            In qualche caso si registra un altro criterio, l’ottavo: quello di un atteggiamento reverenziale nei confronti della divinità o del sacro in generale.


            Anche i principi, i dogmi, gli insegnamenti ufficiali rappresentano un corpus significativo da cui non è possibile prescindere, trattandosi di un criterio qualificante (il nono della serie).


            Un decimo criterio è dato dall’osservanza di norme e regole che sono ritenute fondamentali e degne di ogni attenzione, tanto che sul loro rispetto si presta giuramento.


            Come è facile desumere da questa semplice elencazione di criteri in nessun caso è possibile prescindere, in modo astratto, da situazioni culturali determinate, storicamente radicate. Il religare cioè il mantenere il legame riguarda l’obbligo verso le leggi, la tradizione, la prassi, ma anche verso l’appartenenza, il contenuto di fede, l’orientamento confessionale. Si tratta in pari tempo di credenza in dio ma anche di servizio reso a dio.


            Nondimeno qualche tentativo tipologico va effettuato, almeno a titolo orientativo-sensibilizzante. Oltretutto non ci si muove su un terreno del tutto vergine, giacché molto è stato seminato, qualche parte è stata nel frattempo tenuta a maggese – secondo un’espressione cara a Beckford (1991) -, qualche buon frutto è stato già raccolto. Con la consapevolezza della fertilità di ogni accumulazione conoscitiva, si può avviare la ricerca avendo in mente qualche punto di riferimento essenziale. Orbene per religione si possono valutare ai fini investigativi i seguenti approcci, ognuno a sé stante, cioè singolarmente, oppure in combinazione con altri secondo logiche dettate dall’esperienza e dalla metodologia di analisi prescelta.


            In primo luogo la religione è fatta di relazioni interpersonali con altri soggetti umani e/o con una o più divinità. Tali relazioni sono costituite principalmente da convinzioni (credenze), sentimenti (emozioni), principi (valori) e pratiche (riti, cioè atti cultuali, ma anche azioni, sia quotidiane che straordinarie), interconnesse fra loro in modo più o meno coerente. La libertà del soggetto nella sua imprevedibilità produce eventi non usuali e congiunzioni singolari. Intanto però la tradizione delle religioni storicamente riconosciute continua a consolidare i suoi tratti più significativi attraverso nozioni, precetti, cerimonie, secondo le contingenze temporali ed ambientali. Non rientra nella ricerca sociologica stabilire l’esistenza di un dio, l’immortalità dell’anima, il ciclo della reincarnazione, il sistema premiale o sanzionatorio del comportamento umano, la vita ultraterrena, la rivelazione divina all’uomo, ma ciascuno di questi elementi può essere qualificante per l’una o l’altra religione e rientrare dunque in uno schema definitorio (debitamente contestualizzato) non suscettibile però di prova empirica. Va poi da sé che nessuna delle religioni appare come la religione per antonomasia, per cui vengono a cadere anche le remore sull’uso della dizione sociologia della religione invece di sociologia delle religioni.


            In secondo luogo la religione si estrinseca come legame con la divinità, che tiene uniti gli uomini fra loro in chiave universale anche attraverso il sentimento di devozione verso un dio, per il rispetto che gli è dovuto. Pertanto l’oggetto di tale venerazione diventa qualcosa di sacro, di altamente diverso, intoccabile, superiore. Verso di esso ci si fa scrupolo di osservare con deferenza e reverenza ogni buona norma e prassi secondo precetti prestabiliti.


            In terzo luogo la religione è manifestazione di un credere profondo e convinto, è professione di fede anche accentuata e non del tutto riflessiva, non necessariamente critica, in rapporto a concezioni della vita che hanno il carattere di cogenza, di valore paradigmatico, con un’accettazione quasi incondizionata. La fede si esprime appunto nell’affidamento ai valori ritenuti fondamentali, indefettibili. Essi presiedono quasi ad ogni scelta, per quanto minima.


            In quarto luogo la religione è fervore, impegno, dedizione, pratica continua, comportamento devoto, pietà, in fondo religiosità manifestata esteriormente nel raccoglimento, nella compunzione, nella meditazione, nella riflessione, nel silenzio.


            Questi connotati della religione sono semplicemente una traccia dialogica ed aperta, in funzione di guida per la ricerca teorica ed empirica.


I dati empirici sull’Italia religiosa


A tre lustri di distanza dalla prima indagine completamente dedicata al fenomeno religioso in Italia, per di più sulla base di un campione realmente statisticamente rappresentativo dell’intero territorio nazionale (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), non è agevole rendere conto della situazione odierna relativa alla Chiesa cattolica nel nostro paese. Sono molte le dinamiche sociologiche intervenute nel frattempo a livello sociale, politico, economico e culturale, nonché attitudinale e comportamentale, che andrebbero debitamente analizzate ed interpretate. Com’è noto, la ricerca scientifica in questi ultimi anni ha subito pesanti restrizioni economiche che non hanno consentito il decollo di progetti d’indagine pur necessari.


Ci si deve dunque ridurre a trarre indicazioni da indizi e dati di diversa provenienza e natura, per potere tentare – in assenza di elementi più probanti – di offrire un quadro della situazione in termini sufficientemente plausibili, ma non certo del tutto soddisfacenti, rispetto a quello che la vasta problematica in esame meriterebbe.


Non sono mancati invero alcuni contributi anche significativi, ma si tratta di studi parziali, territorialmente circoscritti e dunque non in grado di fornire una visione complessiva relativa all’intera popolazione nazionale.


Ma qualche dato significativo si può trarre anche a seguito dell’accordo stipulato nel 1984 con lo Stato italiano che ha dato adito alla Chiesa cattolica di acquisire risorse importanti, specialmente grazie alla legge successiva, promulgata nel 1985, sul cosiddetto otto per mille. Tale operazione ha dato indubbiamente linfa vitale alle strutture ecclesiastiche italiane, che se ne sono giovate ampiamente, come mostrano le cifre e segnatamente l’andamento sostanzialmente costante delle entrate a loro favore.


L’entrata in vigore della normativa approvata non è stata immediata ma ha avuto inizio nel 1990, allorquando per la prima volta si sono contate le scelte operate dai contribuenti italiani tra le opzioni possibili, che elencavano, fra l’altro, sia lo Stato che la Chiesa cattolica. L’andamento nel corso degli anni è stato altalenante, con incrementi e decrementi di volta in volta, senza che si potesse individuare una chiara linea di tendenza a lunga gittata, ma in linea di massima si è registrata una discreta tenuta dei flussi. Però fare ora delle previsioni per quanto concerne l’immediato futuro rischia di essere fallace. Giova comunque tenere presente la dinamica del numero delle firme (o, meglio, delle quote percentuali riconosciute dallo Stato) in favore della Chiesa cattolica, di anno in anno:


Tab. 1


QUOTE COMPLESSIVE* DELL’8‰ PER LA CHIESA CATTOLICA



Anno


Quote

per la Chiesa cattolica

%

*


Differenza

in aumento (+)

o in diminuzione (-)

rispetto all’anno precedente


1990


76,17


=


1991


81,43


+


1992


84,92


+


1993


85,76


+


1994


83,60




1995


83,68


+


1996


82,56




1997


81,58




1998


83,30


+


1999


86,58


+


2000


87,17


+


2001


87,25


+


2002


88,83


+


2003


89,16


+


2004


89,81


+


2005


89,82


+


2006


86,05



* Va considerato che l’ammontare delle somme attribuite


deriva dalle firme effettivamente apposte ma anche dalla ridistribuzione in percentuale


della quota parte non assegnata (per mancanza di firme).


Pertanto il numero reale di firme per la Chiesa cattolica


è di fatto inferiore alle percentuali indicate in tabella.


Fonte: Elaborazione su Comunicazioni dello Stato italiano alla Conferenza Episcopale Italiana


Uno dei vantaggi derivanti dalla legge 222 è connesso al fatto che l’entità del sussidio statale non è più commisurato al numero dei sacerdoti secolari e regolari (che è andato diminuendo, nel suo complesso, in questo ultimo ventennio) ma al totale delle firme a favore della Chiesa cattolica, cui si aggiunge la percentuale derivante (in misura proporzionale al numero di firme) dalle quote non assegnabili per mancanza di scelta da parte del contribuente fra le alternative possibili.      Insomma anche chi non firma risulta offrire comunque un vantaggio al maggiore destinatario, appunto la Chiesa cattolica.


Un dato, anche se imprecisato (non si hanno informazioni chiare e puntuali al riguardo), resta comunque certo: il numero dei contribuenti che sceglie con apposita firma l’attribuzione dell’otto per mille alla Chiesa cattolica non si attesta sulle percentuali complessive fornite ufficialmente e dallo Sato italiano e dalla Chiesa cattolica. Verosimilmente si è ben al di sotto delle percentuali che danno un tasso costantemente superiore all’80%: il numero effettivo delle firme è di qualche decina di punti percentuali in meno, comunque meno della metà (per esempio nel 2004 le dichiarazioni dei redditi sono state 40.316.692, di cui 16.290.418 ovvero il 40,40% avevano una scelta valida relativa all’otto per mille ripartita tra Chiesa Cattolica, Stato, Chiesa evangelica valdese, Unione delle comunità ebraiche italiane, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia). Insomma la Chiesa cattolica in Italia non gode di consensi straripanti, come lascerebbero invece intendere le cifre messe a disposizione ed una loro ulteriore elaborazione.


Religione diffusa e religione dei valori


Nel corso degli ultimi decenni si è constatato che le relazioni fra Chiesa cattolica e Stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso, fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova per la capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane.


Peraltro il nucleo essenziale della religione cattolica diffusa è rinvenibile proprio nell’insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento.


La religione diffusa oggi in Italia non sembra accentuatamente diversa da quella di un quindicennio fa. Anzi proprio la sua persistenza ne costituisce una caratteristica peculiare. Se qualcosa è cambiato ciò è avvenuto a livello secondario, in aspetti di dettaglio e non di sostanza. Dunque la religione diffusa continua ad essere il risultato di una vasta azione di socializzazione religiosa che pervade anche tuttora la realtà italiana e non solo. Come spiegare altrimenti la tenuta massmediatica di un personaggio come il papa (anche indipendentemente dal suo carisma personale)? Il carattere di religione diffusa resta perché nasce comunque dalla religione, è intriso fortemente di religione e non è certo un fenomeno anticattolico, come del resto non è antireligioso neppure negli altri contesti in cui una religione è dominante e risulta diffusa.


Solitamente l’appartenente alla religione diffusa è poco praticante e poco attento agli insegnamenti direttamente legati a conseguenze pratiche immediate.


Inoltre nel caso italiano va pure considerato che appunto la presenza del riferimento al cattolicesimo, rintracciabile pure nei discorsi quotidiani, è la riprova dell’esistenza di una religione il cui peso non sfugge certo a quanti sono alla ricerca di leve potenti per accrescere il loro consenso politico-elettorale. Invero la religione diffusa può essere soggetta a strumentalizzazioni facili giacché il richiamo a valori religiosi ha sempre un suo fascino, un suo appeal.


E così allora non è molto facile distinguere fra religione diffusa e religione dei valori: la prima è inclusa nella seconda, che abbraccia un più largo settore della popolazione caratterizzata da diversi livelli di credenza. Le contingenze politiche e soprattutto i risultati elettorali non si spiegano solo con gli appoggi confessionali o con i rinvii a tematiche religiose: molti e complessi fattori interferiscono, al di là delle apparenze e dei pronunciamenti religiosi ufficiali e/o privati.


Indubbiamente la presenza di valori è una costante delle religioni storiche, più radicate a livello culturale. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.


Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice ovvero di opzione ragionata), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.


Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei gruppi di soggetti aventi pari età). In effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.


Intanto è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, partendo dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, si approda poi ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.


Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis che aggrega gruppi di individui con caratteristiche simili). Peraltro la diversificazione della religione diffusa rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico.


Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali.


In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di Chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how. Dell’efficacia di tali azioni la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche.


Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.    


La religione diffusa potrebbe anche essere classificata come una “religione invisibile” (Luckmann 1969, 1985) sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una “semiappartenenza” o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi).


Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è però presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa.


Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra.


Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei criteri valoriali laici però vagamente ispirati od ispirabili a modelli religiosi.


Anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa religione diffusa. Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti della religione diffusa anche l’approccio sociologico si modifica, mette a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scava più a fondo nella realtà e cerca verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.


Invero sino alla fine degli anni ’80, non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque anche sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori (Cipriani 1992) alla già citata indagine nazionale su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), a quella a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism (Garelli, Guizzardi, Pace 2003).


La preghiera


In Italia è stato soprattutto Franco Garelli (Garelli, Guizzardi, Pace 2003: 77-114) ad evidenziare il ruolo del sentire religioso fra tensione spirituale ed espressione religiosa, esaminando i risultati di un’inchiesta sul pluralismo, statisticamente rappresentativa a livello nazionale. In merito alla «coscienza di essere una persona religiosa e percezione di avere una vita spirituale» vengono individuate sette categorie: l’ateo/agnosticismo cioè né religiosità né spiritualità (12,3%), la religiosità etnico/culturale cioè medio-alta religiosità e scarsa-nessuna spiritualità (17,3%), la spiritualità critica cioè scarsa-nessuna religiosità e medio-alta spiritualità (8,8%), la credenza debole cioè religiosità media e spiritualità media (23%), la religiosità maggiore della spiritualità cioè alta religiosità e media spiritualità (10,3%), la spiritualità maggiore della religiosità cioè alta spiritualità e media religiosità (9,5%) ed infine la fedeltà cioè alta religiosità ed alta spiritualità (18,8%).


Da tale scenario risulta che “a) In primo luogo, il termine religiosità desta nella popolazione più consensi del termine spiritualità, in quanto sono più numerose le persone che si definiscono religiose di quelle che ritengono di avere una vita spirituale. […] b) Tra i vari tipi di religiosità individuati quello della spiritualità critica desta particolare interesse, sia per l’orientamento culturale sotteso sia per i soggetti che più lo esprimono. […] c) Sulle due dimensioni qui rilevate (religiosità e spiritualità) quanti esprimono posizioni di marcata congruenza ammontano a circa il 50% della popolazione, mentre il 26% dei casi palesa un atteggiamento di sensibile incongruenza. […] d) In margine a quanto rilevato, si può ancora notare che la quasi totalità della popolazione riconosce il significato di termini quali religiosità e spiritualità ed è in grado di definire il proprio grado di coinvolgimento in queste due dimensioni” (Garelli in Garelli, Guizzardi, Pace 2003: 88-92 passim).


Non è senza significato che sin dall’indagine nazionale sulla religiosità in Italia si sia accertato che “gli italiani di 18-74 anni che dichiarano di aver pregato almeno qualche volta durante l’anno sono l’83%. Pregano anche i non credenti, soprattutto se sono in un atteggiamento di ricerca (49%) e coloro che credono in un essere supremo ma non appartengono ad una specifica religione (44%). Perfino tra coloro che si dichiarano atei c’è una quota, seppur piccola (8%), che prega” (Garelli in Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 91).


Le motivazioni della preghiera ripercorrono puntualmente la tipologia classica che annovera la categoria del misticismo (ricerca di relazione con la divinità: 44%), quella dell’impetrazione-perorazione per ottenere un sostegno nei momenti di difficoltà (44%), quella mista che vede insieme il desiderio di rapporto con Dio e la richiesta di un suo intervento, quella di ringraziamento (circa il 25%) che contempla sia la gratitudine che il pentimento per qualche colpa, quella fatta per tradizione ovvero per insegnamento ricevuto, quella dovuta ad una ricerca personale ed infine quella per domandare grazie (che sarebbe la meno frequente in Italia: 10%).


Le conclusioni sono che la preghiera “sia una modalità di espressione del proprio sentimento religioso ancora saldamente radicata e quindi destinata a permanere nel tempo, anche se circoscritta ad una minoranza della popolazione” (Garelli in Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 94).


Tale carattere minoritario previsto per il futuro non presenta ancora indicatori consolidati. Ma è anche vero che “le generazioni a noi più vicine e le persone più istruite rifuggono da comportamenti ascrittivi (pregare perché è un dovere o perché così è stato insegnato loro) e privilegiano più degli altri intervistati la forma di preghiera che forse meglio si addice all’uomo contemporaneo: quella intenzionata a far chiarezza dentro di sé” (Garelli in Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 96).


Senza soluzione di continuità anche ricerche successive sono rimaste nella medesima linea ed hanno confermato i modi tipici del pregare: come ringraziamento, come pentimento; privato-individuale-separato/pubblico-collettivo-unito; orale-detto/silente-mentale; laudativo/perorativo; fiducioso/supplice; spontaneo/fondato su testi.


In particolare torna utile segnalare quanto accertato ancora da Garelli (2011) più di recente: il 63,2% di 2411 intervistati in Italia si rivolge più spesso a Dio nella preghiera, il 42,3% alla Madonna, il 38,6% a Gesù Cristo, il 14,7% ai santi, il 13,1% ai defunti, il 5,2% allo Spirito Santo, il 3,7% agli Angeli.


Lanzetti (2011) evidenzia peraltro una “individualizzazione del credere”, che consiste nel mettersi in rapporto con Dio in un modo proprio, del tutto personale. Non a caso la pratica religiosa più diffusa è la preghiera: il 36% prega ogni giorno ed il 22% “con una discreta frequenza”.      


La religiosità popolare


Misconosciuta per decenni, criticata a lungo, rivalutata strumentalmente, quasi dimenticata negli ultimi tempi, la religiosità popolare torna a far parlare di sé per episodi inconsueti, per eventi inattesi, per usi diversificati nel tempo e nello spazio.


Innanzitutto è da chiarire che è preferibile dire e discutere di religiosità popolare piuttosto che di religione popolare, facendo perciò una scelta precisa sul piano terminologico, seguendo la lezione di un autore classico come il sociologo tedesco Georg Simmel (1992), sostenitore di una celebre distinzione appunto fra religione, come fatto storico-istituzionale, e religiosità, come sentimento diffuso e reso visibile in atti di pratica religiosa, cioè di comportamento empiricamente rilevabile. Ovviamente tale opzione apparentemente solo nominalistica è soggetta ad osservazioni critiche, ma intanto essa risulta chiara nei suoi contenuti sin dall’inizio della disamina scientifica riguardante il fenomeno sociologico in esame.


La religiosità popolare ha un suo andamento lento ma costante, duraturo ma non vistoso, per cui ci si accorge di essa quando qualche episodio di realtà quotidiana crea clamore e richiama l’attenzione momentanea dei mezzi di comunicazione di massa, per poi rientrare nel suo alveo quasi naturale, tanto incisivo perché dato abbastanza per scontato, divenuto abituale, come parte indefettibile della cultura specifica di un territorio.


Secondo Marino Niola, antropologo dell’Università di Napoli, “la Chiesa afferma che un buon cristiano deve essere anche un buon cittadino. In una certa cultura, però, l’etica non è universalista, ma funziona per aree, è riservata alla sfera della famiglia, intesa come clan, vicinato. Fuori valgono altre regole. È il contrasto tra un’etica civica che si basa su diritti e doveri e questa fondata sull’appartenenza. Quando il killer della camorra va a battersi il petto, piange e striscia sulle ginocchia fino all’altare della Madonna dell’Arco, non finge. Non avverte il fatto di essere spezzato in due: nel momento in cui ne avesse consapevolezza, avrebbe già fatto un salto di cittadinanza” (Jesus, settembre 2000, pagine 53-54).


            Questo tipo di spiegazione può anche apparire convincente ma il dato di fatto è che il magistero ufficiale della Chiesa cattolica in Italia non ha di solito la dimestichezza di affrontare tematiche di siffatta natura con strumenti essenzialmente scientifici. Prevalgono infatti altre motivazioni, spiccatamente teologiche e pastorali, le quali obnubilano ogni tentativo di comprensione che vada al di là della mera operazione evangelizzatrice. Insomma di quello che dicono gli specialisti del settore, anche di matrice cattolica, non si tiene molto conto. Pertanto ogni tentativo di analisi in proposito, per mancanza di consapevolezza del proprio wishful thinking, cioè di quel pensiero carico di desiderio volto direttamente all’obiettivo della conversione o della persuasione o della convinzione, crea un corto circuito con la stessa realtà dei fatti, oltre che con il mondo scientifico. La presunzione a volte è quella di dare quasi tutto per scontato senza lo sforzo e l’umiltà di una epoché, almeno temporanea, nei riguardi della problematica in esame. Certo non sono mancati esempi illustri di esponenti della gerarchia e dell’intellighentsia cattolica in grado di misurarsi con la ricerca empirica, con gli studi messi a punto dalle scienze sociali.


            Intanto però il linguaggio dei documenti ufficiali, delle dichiarazioni pubbliche e delle prese di posizione operative rimane sostanzialmente identico da un secolo all’altro, da un millennio all’altro: insomma la religiosità popolare è sempre e comunque da “purificare” come se in essa fosse intrinseco sempre e comunque qualcosa di “impuro”, di illegittimamente sincretico, di pagano, di superstizioso, di magico.


            Ed invece chi segue con mentalità scientificamente orientata le dinamiche interne ai fenomeni di religiosità sa abbastanza bene che diversi aspetti sono mutati nel tempo, simboli efficaci nel passato non lo sono altrettanto oggi, costumi e contenuti tengono conto delle istanze del contesto e dell’epoca.


            D’altra parte atteggiamenti di impronta iconoclastica hanno messo da parte riti millenari sostituendoli con liturgie improvvisate, creando una soluzione di continuità col passato, sprecando cospicue risorse in termini di capitale culturale e sociale, impedendo altresì una partecipazione diretta dei protagonisti alle scelte che li riguardano.


             Si sostiene certo che la religiosità popolare è sociologicamente rilevante e funge da collante sociale e religioso ma in pari tempo si segnala la necessità di andare al di là di essa perché non adatta alla pianificazione impostata ed imposta dalle strutture verticistiche di Chiesa.


Pietà popolare e “purificazione”


         Nel documento della Conferenza Episcopale Italiana per gli orientamenti pastorali 2010-2020, sotto il titolo Educare alla vita buona del Vangelo, i vescovi scrivono che “la pietà popolare costituisce anche ai giorni nostri una dimensione rilevante della vita ecclesiale e può diventare veicolo educativo ai valori della tradizione cristiana, riscoperti nel loro significato più autentico. Purificata da eventuali eccessi e da elementi estranei e rinnovata nei contenuti e nelle forme, permette di raggiungere con l’annuncio tante persone che altrimenti resterebbero ai margini della vita ecclesiale. In essa devono risaltare la parola di Dio, la predicazione e la catechesi, la preghiera e i sacramenti dell’Eucarestia e della riconciliazione e, non ultimo, l’impegno per la carità versi i poveri”.


         Ebbene innanzitutto si ripresenta come un ritornello ineliminabile il riferimento nominalistico alla pietà popolare, che tornando con insistenza come espressione contrapposta a quella comunemente in uso da parte degli scienziati sociali, che preferiscono parlare di religiosità (o religione popolare), risulta essere una chiara dichiarazione di intenti di non comunicazione con la compagine scientifica. Indubbiamente l’opzione a favore della pietà popolare ha precedenti prestigiosi nelle opere di don Giuseppe De Luca e di Gabriele De Rosa, ma per loro non rappresentava certo un’azione voluta di contrasto con il dibattito scientifico in corso, di cui anzi accoglievano le osservazioni critiche e le suggestioni più convincenti.


         Invero l’indefettibilità dell’idea di pietà popolare presenta i caratteri di una incapsulazione categoriale per evitare confronti e misure con altre posizioni ermeneutiche. Lo stesso discorso vale per l’altra costante presente nel linguaggio di Chiesa: il ricorso alla purificazione, insomma il voler emendare, senza una previa ed approfondita conoscenza dei dati di fatto. Numerosi sono i casi documentabili di lettere pastorali, di prescrizioni, di ordinanze, di regole dettate per ingabbiare la religiosità popolare, renderla inerte. In verità però il religioso popolare ha i suoi meccanismi interni di resistenza. Per cui alla fine la normativa resta senza conseguenze, i firmatari passano, i destinatari anche, ma poi le radici storico-culturali del comportamento popolar-religioso riescono a sormontare ostacoli e difficoltà per riemergere di continuo e proseguire nel tempo. Sicché gli stessi avversari di un rito religioso popolare potrebbero successivamente decidere di adattarsi ed anzi di inserirsi come protagonisti. Il che non avviene necessariamente con i medesimi personaggi ma con i loro successori più o meno diretti.


         Anche l’espressione relativa ad una evangelizzazione della pietà popolare (o, meglio, della religiosità popolare) ha il carattere di un sinonimo che sa di sostituto funzionale volto a sottendere la medesima volontà di purificazione. Così la lettera apostolica di Giovanni Paolo II denominata Vicesimus Quintus Annus mentre riconosce la centralità del popolare ne propone l’evangelizzazione, sic et simpliciter, senza operazioni previe, senza alcuna mediazione opportuna: “la pietà popolare non può essere né ignorata, né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a Dio”. Nondimeno però essa “ha bisogno di essere di continuo evangelizzata affinché la fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo ed autentico”. In altri termini, sì la pietà popolare è un contenitore di valori, esprime la religiosità, la fede, ma necessita di un riconoscimento di legittimità e di un marchio di autenticità che solo la Chiesa dunque sarebbe in grado di fornire.


         Infine nel Direttorio della Santa Sede su pietà popolare e liturgia, invero, si riconosce che vi siano state decisioni improvvide che hanno cancellato forme del passato senza proporre nulla in loro vece. Inoltre si dà atto che la pietà popolare è “espressione del sentire profondo maturato dai credenti in un dato spazio e tempo”. Dunque una maturazione ci sarebbe ed allora non sarebbe ancora da raggiungere e vedere approvata come legittima. Però si rileva, di converso, che vi sono “modi imperfetti o errati di devozione, che allontanano dalla genuina rivelazione biblica e sono in concorrenza con l’economia sacramentale”. Il punto discriminante è perciò l’esercizio del giudizio di genuinità rispetto alla Bibbia o di concorrenza più o meno leale con l’amministrazione dei sacramenti. Ovviamente la struttura gerarchica avoca a sé questo diritto perché di sua esclusiva competenza. Ed il confronto prosegue: tra un approccio istituzionale che intende tutto gestire e regolare ed una religiosità popolare abituata ad autoregolarsi ed a trovare le sue soluzioni di sopravvivenza.


         Forse sono maturi i tempi per una interazione maggiore fra protagonisti della religiosità popolare (gerarchie ecclesiastiche comprese) e studiosi del settore, al fine di una migliore ovvero più adeguata conoscenza della materia in esame. Gli anatemi reciproci non producono scienza e non contribuiscono al cambiamento sociale in chiave di vantaggio per le persone coinvolte nelle esperienze religiose collettive ed individuali.


         Sovente si è operato in modo indiscriminato nei riguardi di celebrazioni, riti, tradizioni, intervenendo con decisione al fine di abolire, emarginare, misconoscere. Oggi invece sembra che una nuova consapevolezza stia maturando. Basterebbe un semplice ascolto delle diverse istanze, per poi discuterne ed eventualmente assumere le decisioni più opportune in chiave sociale e religiosa insieme.                         


Riferimenti bibliografici


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