Roberto Cipriani
Il ritorno della sociologia in Italia[1]
Franco Ferrarotti: Ricordo, riandando a molti anni fa, parlo di prima della fine della guerra, stavo già elaborando la traduzione del Veblen[2] e stavo scrivendo i Fondamenti logici della sociologia di Thorstein Veblen.[3] Perché poi io fossi intestardito con la sociologia, questo non me lo sono mai del tutto spiegato io stesso. Qui c’è un elemento indubbiamente metateorico, cioè, detto in parole comprensibili, volevo qualche cosa di meno astratto della filosofia, che allora era la filosofia panlogistica, idealistica, crociana,[4] eccetera, eccetera, anzi, più che crociana, gentiliana.[5] Qualcosa di meno astratto. D’altra parte, qualcosa di meno arido dell’economia politica, dell’economia, che conoscevo soprattutto attraverso Bordin,[6] professore di economia politica a piazza Arbarello, lì alla Facoltà di Economia e Commercio di Torino, dove adesso c’è Francesco Forte,[7] e altri. Debbo dire che vedevo nella sociologia uno strumento, direi una disciplina mediana fra filosofia ed economia. Molto strano però questo. Poi la ragione, se si vuole immediata e contingente, è che io allora passavo interi inverni a Sanremo perché avevo una debolezza di bronchi, insomma per molte ragioni, avevo dei parenti, stavo lì a Sanremo, ci passavo mesi. Devo dire questo però, che questo avveniva prima ancora, proprio negli anni in cui di regola si fa il ginnasio-liceo, a 14-15 anni. E lì frequentavo una biblioteca, la biblioteca che c’è in Piazza del Municipio, su nella Sanremo, all’inizio di Sanremo vecchia per andare al santuario della Madonna della Costa. E lì trovavo moltissimi, splendidi libri. Ma l’acquisto dei libri era fermo al 1920, quindi trovavo praticamente tutti i grandi testi dell’epoca aurea, della stagione aurea del positivismo italiano, da Niceforo[8] a Enrico Ferri,[9] Sighele,[10] Savorgnan,[11] Benini.[12] E io, direi che senza saperlo, grazie a questo ritardo nella politica degli acquisti nelle biblioteche, riscoprivo per conto mio la sociologia, o meglio quell’atmosfera positivistica in cui la sociologia in Italia era fiorita. Perché poi la cosa più strana, ma noi − io però questo l’ho scritto, quindi mi sento un po’ a posto − non ci si rende conto che intorno al 1880-1890 e il 1900 l’Italia era uno dei quei paesi in cui più forte era lo studio della sociologia. Però stranamente la cultura accademica l’aveva sempre tenuta un po’ ai margini, perché non era mai divenuta, non c’era mai stata una cattedra ordinaria. Anche Alessandro Groppali[13] insegnava nelle Facoltà di Giurisprudenza, oppure a medicina, una sociologia vicina alla criminologia. Non esisteva la sociologia in senso pieno, perché uomini come Enrico Ferri erano soprattutto interessati alla vita politica, erano dei politici in sostanza. Ora, le dicevo di Abbagnano.[14] Abbagnano − è noto come è andata − perché io mi son trovato con lui poi nel Quarantanove, terminata la traduzione di Veblen, che è uscita nel gennaio, i primi giorni del Quarantanove, e puntuale il 15 gennaio è arrivata la stroncatura di Croce[15] nel «Corriere della Sera». Io, fin dall’anno prima, credo, quell’inverno, quella sessione invernale mi ero laureato; ma mi ero laureato grazie ad Abbagnano contro Augusto Guzzo[16] che in realtà era il mio relatore. Io venivo da filosofia teoretica e il mio professore, diciamo così, per quel tanto che l’avessi frequentato, era Guzzo, che insegnava allora, teneva il seminario avanzato a via Po 18, di fronte all’università, dall’altra parte, una specie di convento. Andavamo lì, e lì c’era gente tra l’altro come Cecchini, Venuzzo, c’era poi Giovanni Cairolo che sarebbe diventato assistente di Abbagnano ma è morto molto giovane, prima dei trent’anni, è morto di tisi, molto bravo. E poi c’era Pizzorno,[17] tra gli altri, che ricordo un anno o due avanti, ché Pizzorno ha qualche anno più di me. Ma in sostanza io allora mi trovai molto a mal partito perché il mio relatore, Guzzo, non voleva firmarmi la tesi. Perché io la tesi l’avevo scritta a Londra, nel Quarantasei ero a Parigi, nel Quarantasette ero a Londra − tra il Quarantasette e il Quarantotto a Londra − e giustamente a Londra, lì almeno avevo i libri di Veblen, c’erano, andavo alla London School of Economics e tiravo giù i libri. Avendo straudito questa discussione tra me e Guzzo nella sala dei professori, Abbagnano che stava leggendo il suo giornale vicino alla finestra, lontano, si è avvicinato a piccoli passi: «Che è, che è?», «Ah, buongiorno professore». E allora Guzzo gli dice: «Be’, questo sarà un geniaccio, questo nostro clericus vagans» − mi chiamava sempre così per i miei viaggi, no? − «però io non so niente di queste cose, che è questo Veblen, poi sa, la sociologia…». Guzzo era rimasto molto crociano, eh, molto di stretta osservanza! Abbagnano, che invece veniva da Aliotta,[18] da Rensi,[19] aveva un interesse tutto metodologico alle scienze, mi si avvicina: «La firmo io». E appena fatta la tesi, il giorno dopo cominciavamo i «Quaderni di sociologia» e lui accettava di fare il mio vice direttore, cosa che allora mi sembrò del tutto normale. Però glielo domandai: «Ma come mai accetti di…?» e lui mi disse: «Be’, ti dirò che io ho elaborato questa risposta positiva all’esistenzialismo heideggeriano, però se noi diciamo che l’uomo non è né finito né infinito, non è né disperato, né, diciamo, felice per natura, l’uomo è semplicemente nella situazione e fronteggiato da una possibilità, però una possibilità che corrisponde alla sua capacità di stabilire l’equazione migliore fra ciò che vuole e il suo progetto e le circostanze di fatto, allora, detto questo, è chiaro che il seguito critico non può che essere una ricerca sociologica, perché bisogna accertare la situazione». Questo è interessante, perché me lo disse proprio lui, Abbagnano. E me l’ha ricordato ancora recentemente. Penso che sia ormai a una veneranda età e fa l’assessore della cultura a Milano. Sta di fatto che il mio sodalizio con Abbagnano, che per molti è rimasto molto strano, era però invece legato, primo, a un bisogno comune − lui, è chiaro, era già professore ordinario, intendiamo − e il bisogno forte in me di premessa o comunque di un punto di partenza filosofico, in primo luogo. In secondo luogo, una partenza filosofica, che però non cadesse nel panlogismo astratto, quindi io rifiutavo l’essere indeterminato, hegeliano, come punto di partenza, il punto di partenza era la prassi, era la specificità. Terzo, era lì che c’era la convergenza proprio con Abbagnano il quale, d’altro canto, da La struttura dell’esistenza,[20] da quel bel volume, e anche dal suo Le origini irrazionali del pensiero nell’antica Grecia, debbo dire − o Le fonti, Le fonti irrazionali[21] − debbo dire che Abbagnano era in effetti alla ricerca proprio di un esito positivo, di un approdo positivo, perché altrimenti sarebbe rimasto sulla posizione di Heidegger[22] e non voleva però essere sulla posizione di Gabriel Marcel,[23] cioè dell’esistenzialismo cristiano, o di Louis Lavelle,[24] no?, Le moi et son destin,[25] l’io e il suo destino. Non voleva questo, né si contentava, anzi, era abbastanza orripilato dalla tendenza misticheggiante e un po’ solipsistica di Kierkegaard,[26] Il concetto dell’angoscia, che allora era proprio tradotto dalla Sansoni,[27] era uscito in quel momento. Che poi eran tutte cose, bisogna anche capire che tutto l’esistenzialismo era terribilmente in voga. Perché? Perché la crisi era dappertutto, c’erano i bombardamenti, c’era questo senso della solitudine dell’individuo, cioè. E poi avevo un certo non dirò disprezzo, ma prendevo le distanze rispetto a Sartre che reputavo un letterato, insomma. Sa, la cosa molto bella di Abbagnano era che apriva questa categoria della possibilità, della coscienza possibile, quasi, vorrei dire, in termini luckácsiani,[28] no?, un orizzonte di pensiero tutto diverso. E quindi, la sociologia, che io poi sviluppavo, era in fondo… e qui c’è proprio la ragione intrinseca, al di là della simpatia umana, poi non ci si vede più, ma qui c’era qualcosa che è mancato a molti altri sociologi italiani. Non c’era semplicemente l’accettazione del momento sociologico, ormai Croce basta, questo tabù, questo pregiudizio antisociologico, ma c’era invece una vera e propria collaborazione. Cioè la sociologia, senza la guida teorica di un pensiero filosoficamente maturo, per me e per lui scadeva a sociografia. E lui era molto d’accordo con me nel piano di lavoro, quel piano di lavoro che ho scritto io per i «Quaderni di sociologia». La prima collaborazione, abbiamo cominciato nel Cinquantuno, e io dicevo che la sociologia come impresa conoscitiva e ricerca empirica concettualmente orientata non esisteva in Europa e particolarmente in Italia per via della dittatura idealistica che negava addirittura l’esistenza di questa scienza, e neppure negli Stati Uniti. Questo mi è sempre sembrato un po’ forzato, ma neppur negli Stati Uniti, per via del paleo-positivismo che portava al frammentarismo delle ricerche. Poi andai lì, proprio per vedere queste cose, e andando lì mi resi conto che il frammentarismo non era soltanto dovuto a una ragione interna, a una debolezza teoretica, c’era anche questo, ma il frammentarismo era proprio dovuto alla stessa floridezza della ricerca, che era tanto più florida quanto più era subserviente agli interessi, diciamo pratici, vero?, legittimi eh!, interessi legittimi, pratici, per loro natura estremamente diversificati. Per cui si andava − che so io? – dalla città di Chicago, che voleva far fare certe ricerche o comunque si sviluppava, l’azione, eh, lì c’è la Scuola di Chicago, cioè ricerche che stavano fra l’urbanistico, l’economico e l’ecologico, insomma, e poi i vari aspetti della vita metropolitana e le ricerche poi di comunità e soprattutto le ricerche di mercato, le ricerche manageriali di Rensis Lickert,[29] le Yankee City series di Lloyd Warner,[30] e poi più tardi, per esempio, non so, le ricerche sui militari di Stouffer,[31] l’American Soldier,[32] tutte le grandi ricerche americane. Allora di lì veniva anche quello che mi piace chiamare ‘Il sogno di Scipione’, cioè questo unire un pensiero teoretico forte, maturo proprio, diciamo pure di chiara ascendenza sistematica europea, unire questo con le tecniche specifiche di indagine, test di correlazione significante, la significanza, la significatività della correlazione, campioni rappresentativi, questionari, eccetera. Questo era il primo momento, avevo questo entusiasmo, il Cinquantuno quando io sbarcai a New York; poi invece mi resi conto che nelle tecniche era implicito tutto un mondo di valori, no?, non si poteva fare l’unione. Non si poteva perché le tecniche di ricerca, se sono assunte come assoluti, cioè distaccate dal problema, dalla ricerca effettiva, queste tecniche di ricerca hanno in sé una presunta autonomia, un’autosufficienza che le costituisce in opzioni teoriche. Cioè l’item, il frammento, diventa l’inizio e la fine di tutto e le domande globali non vengono più sollevate, perché la domanda globalizzante viene per definizione considerata o come truistica o come misleading, insomma, come fuorviante, o anche come proiezione puramente ideologica. Quarto momento: tanto per farla breve – da notare che nel terzo momento si ha il collegamento fra tecniche di ricerche empiriche e struttura teoretica – le tecniche, cioè, i metodi riduttivamente e specificamente intesi, erano per definizione ancillari rispetto al momento teoretico, sempre. Evidentemente, la chiara visione della degradazione della ricerca, meglio dell’analisi sociologica ad analisi sociografica, proprio per il prevalere della tecnica sull’impostazione teoretica e però anche la realizzazione piena, che io ho sempre avuto, ma l’ho sempre dato un po’, la realizzazione piena che questa degradazione era proprio relativa a un rovesciamento del rapporto, cioè si metteva sopra ciò che andava sotto, si metteva al posto del dominio ciò che invece era ancillare. Ma ciò era dovuto anche al fatto che si era appunto dimenticato ciò che invece stranamente i primi sociologi conoscevano molto bene, si era dimenticata l’importanza – per comprendere i fenomeni sociali – delle testimonianze dei protagonisti, cioè il momento qualitativo. Io l’ho sempre tenuto presente in qualche modo, ma, ecco, in fondo questa era l’eredità negativa del paleo-positivismo: l’avere decapitato, in qualche modo, o meglio, l’aver impoverito la testimonianza umana dei protagonisti dei fenomeni sociali. Cioè i fenomeni sociali alla fin fine erano fenomeni di uomini e donne viventi in società, dentro strutture… Qui recuperavo una certa ispirazione, forse addirittura esistenzialistica, cioè un certo gusto perché nella testimonianza, nelle storie di vita, c’è per esempio la tematica del tempo, l’angoscia del tempo che finisce, l’angoscia della morte. La storia di vita è il corso della vita, no?, il corso della vita, quindi il momento della necessità di periodizzare… dicevano, cioè, c’è tutto, c’è del vissuto. Ora questo vissuto è quando Sartre[33] dice che l’esistenzialismo è un humanisme e anche Heidegger del resto, nella sua lettera sull’umanesimo. In fondo cosa voglio dire: è un vissuto. È un esserci, è un dasein, essere lì, esserci. E c’è qualcosa al di là di noi. Ecco. Questa specie di ontologia ontica, è vero? Ora, questo per me era essenziale. Mi son poi convinto che era essenziale. Quindi, stranamente il ritorno della sociologia in Italia per questa via non recuperava direttamente la sociologia italiana prefascista. Anche se nei vecchi «Quaderni di sociologia» facevo fare i medaglioni, e io stesso ne ho scritto, parlato, eccetera; perché l’iter era diverso, era proprio un iter filosoficamente molto consapevole, molto consapevole. Infatti, debbo dire, era il caso del mio studio preparatorio poi per la mia tesi, che perdetti, un manoscritto che andò smarrito. Venivo in motocicletta da Sanremo, dove stavo e lo perdetti, fu perso; perdetti proprio la valigia, o mi fu rubata, non so come è andata. Perciò io, venendo in moto, l’avevo consegnato a una corriera che faceva servizio. La ditta si chiamava SATTI, società autotrasporti qualcosa,[34] faceva servizio da Sanremo a Torino, tutti i giorni. Io andavo in moto e diedi questa valigia al conducente lì, perché la portasse a Torino, convinto che l’avrei presa la mattina dopo. Ma ci fu un grosso temporale, c’era del cattivo tempo, io dovetti pernottare credo a Novi Ligure, perché la moto non funzionava più e arrivai con un giorno di ritardo e la mia valigia era scomparsa. Lì avevo un manoscritto su Carteggio.[35] Le ricerche di logica cartesiana, non solo il Discorso del metodo[36] ma anche Le meditazioni cartesiane,[37] le ho studiate molto attentamente. Nei testi, andavo a Nizza lì, avevo la biblioteca francese, nei testi originali, avevo duecento pagine lì, purtroppo, allora non c’era fotocopiatrice, era tutto scritto a mano, proprio un manoscritto. È andato perduto e allora ho perso, ebbi un momento molto difficile, proprio di crisi personale. Sa, son quelle perdite quasi irreparabili! E poi mi sono scosso, ho detto: «Mah, succede, facciamo un’altra cosa». Ma sempre, per me, per esempio, per riassumere un po’ la crisi, questa, la critica che voleva Cartesio era proprio la famosa critica che poi ormai è di dominio comune, insomma: cogito ergo sum, e io aggiungevo sum cogitans, eh, cogito ergo sum cogitans. A parte il fatto che cogito, in assoluto, pensavo di pensare qualche cosa, lo riannodavo un pochino. Be’, questa è la storia, di Abbagnano. E l’interesse, come mai in Italia – questo, ecco so che lei è interessato a questa questione – insomma… si sono dette molte sciocchezze. Certamente la fine della guerra, e quella fine, quella fine, no?, quel disastro certamente rendevano, sia la guerra, che la fine della guerra, la catastrofe, rendevano l’ottimismo panlogistico hegeliano,[38] hegeliano e crociano, nella sua forma crociana soprattutto, nella dialettica riformata, rendevano tutto, del tutto incongruo. Vero? Non reggeva proprio più. Quindi io annetto una grande importanza. E poi spirava un vento di rinnovamento, cioè molti andavano verso il marxismo, piuttosto, e i marxisti erano violentemente antisociologici. Era una cosa che mi piaceva. Per esempio il mio libro La protesta operaia[39] uscì nel Cinquantacinque e fu violentemente attaccato da un fondo de«l’Unità», molto duro, firmato da Paolo Spriano,[40] lo storico. E Fabrizio Onofri che, poveretto, è morto, che allora era membro del Comitato centrale, era uno degli adepti di Togliatti. Togliatti amava circondarsi di persone chic, un po’ nobili, aristocratici. Qui proprio qui a Roma, lui viveva a Montesacro, Montesacro, non lontano da qui e insomma, anche nobili, così, aveva questo gusto. E poi c’era Franco Rodano.[41] Fabrizio Onofri ne «Il Contemporaneo», mi aveva scritto un terribile articolo contro. Veramente molto. Era un articolo che in fondo avrebbe dovuto farmi soffrire – ma invece non lo presi sul serio – intitolato Il Maometto di Olivetti, i marxisti, i comunisti italiani solo recentemente, e non ancora del tutto, si sono liberati del pregiudizio antisociologico. Sono stati i crociani più fedeli: è una cosa incredibile. Crociani più fedeli, ancor oggi se lei vede bene, per esempio questo libro, io anzi adesso, forse Pozzi[42] lo recensirà, di Portelli, Alessandro Portelli,[43] Biografia di una città,[44] Terni, eccetera. Sempre, insomma, mai, non si parla mai di sociologia, è sempre piuttosto storia, la storia. Piuttosto che far sociologia come tale loro faranno della storia sociale, in ritardo, vent’anni, trent’anni di ritardo rispetto ai francesi, però faranno questo. C’è un forte pregiudizio antisociologico. Quindi la lotta era molto difficile. La lotta era molto difficile, devo anche dire che oggi la generazione intermedia dei sociologi italiani, i quali hanno molte ragioni, perché insomma non sono più tempi così, questi, e poi hanno studiato anche meglio le cose. Però tendono, a mio giudizio, a sottovalutare la difficoltà di quei momenti; è molto difficile. Infatti io personalmente non avevo nessuna speranza nel mondo accademico, tanto che Abbagnano mi disse: «Perché non fai l’assistente di filosofia?». «Beh, io sono, io sono per la sociologia, e filosofia non se ne parla; ma nient’altro, faccio solo sociologia». Lui mi fa: «Ma no, tu non entrerai mai nell’università». Ho detto: «Beh, poco male». Facevo altre cose; avevo molte frecce al mio arco, quindi non è che mi facesse… anzi, devo dire che il mondo accademico non mi attirava molto. Però nel Cinquantatre quando son tornato, e stranamente, ecco, questa è un po’ l’Italia, l’Italia è una società che ti offre all’improvviso delle smagliature. Bastò che io, tornando, così, lavorando un anno al CEPAS,[45] poi al Magistero, proprio perché il Magistero era una facoltà in crisi, una facoltà di scarso prestigio, quindi non più aperta per questo, no, ma diciamo anche più avventurosa, d’altra parte però una facoltà… ci avevano insegnato Guido De Ruggiero,[46] Luigi Pirandello,[47] Antonio Labriola,[48] cioè, voglio dire, una facoltà interessante. Franco Lombardi[49] si diede da fare, Franco Lombardi che poi è un po’ un ‘impresario culturale’, no?, Una brava persona. Ecco, quando si mossero i milanesi e i torinesi, purtroppo era già tardi perché io avevo già fatto una serie di cose. Anche un uomo come Barbano[50] non ce la fece. D’altra parte, siccome avevo detto questo anni prima, avevo pure rifiutato di fare l’assistente di filosofia con Abbagnano, perché ero solo per la sociologia, quando Abbagnano si trovò in commissione (questo me l’hanno raccontato, non so più chi, me l’ha raccontato Lombardi, credo; la prima commissione del primo concorso di sociologia era costituita da Franco Lombardi, Camillo Pellizzi[51] – che insegnava sociologia ma come ex letteratura, era letteratura inglese ed era riuscito a passare a sociologia con un atto di furbizia, bravissimo, Pellizzi in questo aveva capito, no?, con un unico voto del Consiglio superiore dato da don Sturzo, perché Sturzo l’aveva conosciuto a Londra, quando lui era direttore dell’Istituto di Cultura fascista, a Londra, durante la guerra, prima, anche prima della guerra, quando lui, Sturzo, era esule – dunque c’era: Lombardi, Franco, Pellizzi, Camillo Pellizzi, Francesco Vito,[52] della Cattolica, Renato Treves,[53] di Milano, crociano sempre, ma insomma, e poi finalmente Nicola Abbagnano), ebbene, mi fu raccontato che quando cominciarono a discutere, Abbagnano, come al solito, lui, tranquillo, modesto, è intervenuto dopo che tutti avevano già parlato: «Scusate, ho una cosa da dire: sul primo posto non si discute, questa è la mia posizione, non se ne parla neppure, perché il primo posto in questo concorso è per Ferrarotti; poi adesso apriamo il discorso sul secondo e sul terzo». Perché c’era, per esempio Treves preferiva mettere in terna Angelo Pagani;[54] e poi c’erano dei dubbi – i dubbi si sono poi verificati diciamo fondati, si sono rivelati fondati a proposito del fiorentino, è vero?, Giovanni Sartori, che infatti poi due anni dopo passò a Scienza politica –. Invece lui avrebbe dovuto fare Dottrina dello Stato. Quindi praticamente io mi trovai, ero a Parigi, cioè, cioè non avevo neppure, non ho fatto nessun lobbying, non sono neppure andato a trovarli, questi commissari, ho avuto però, questo lo riconosco, infatti lei giustamente lo rileva, c’è stato tra me ed Abbagnano questo incontro. In fondo, poi bisogna anche pensare cosa vuol dire questa rivista messa in piedi così, in fondo fra noi due. Avevo una rivista, potevo farla o con Einaudi, che allora faceva «Cultura e realtà», la rivista della Ginzburg,[55] di, di Cesare Pavese,[56] eccetera, che poi però finì dopo tre numeri, oppure con l’Olivetti, con le Edizioni di Comunità, che riprendevano allora in grande stile e che già pubblicavano allora «Rivista di filosofia». Invece Abbagnano proprio disse: «No. Facciamola noi, così siamo noi, facciamo noi quello che vogliamo, cioè la facciamo uscire con calma, tanto», ha detto, «fa niente, facciamo una piccola cosa e poi mia moglie», dice, – era la seconda moglie, Marion Taylor – «ha una piccola casa editrice»,[57] eccetera, eccetera. Io allora scrissi, diedi loro, siccome poi partivo per l’America proprio nel Cinquantuno, appena uscito il primo numero (e allora partire per gli Stati Uniti, allora era veramente come emigrare per sempre, perché sì, io partii da Genova su una piccola nave, chiamata l’Atlantic, della Home Lines, che adesso m’han detto che è stata messa in disarmo, od usata come nave da carico. Chissà che fine ha fatto?[58] Cioè non sapevo più se tornavo) lasciai a titolo diciamo di beneficio post mortem una dichiarazione a mani proprio della signora Taylor Abbagnano, in cui riconoscevo, benché io fossi responsabile e proprietario della rivista, riconoscevo che la proprietà andava a loro nel caso che io non fossi tornato… Devo dire forse questo è stato da parte mia, io ritenni che fosse doveroso, forse è stato anche un po’ avventato, ma insomma tanto poi le riviste secondo me se uno le inventa poi le manda per il mondo, non è che le deve tenere al guinzaglio, come fossero dei cani. Sa, se presa una certa direzione a uno poi non gli piace, ne fa un’altra; che precisamente è quello che poi ho fatto nel Sessantatre, nel Sessantaquattro, e poi nel Sessantasette con «La critica sociologica». Ma perché poi, c’era prima di tutto questa guerra, poi il processo di industrializzazione. Quando Abbagnano mi diceva: «Faccia filosofia!», io le debbo dire, Cipriani, guardi, io perché avevo la sponda di Olivetti, che lui non aveva, io, giorno per giorno, accanto, perché io ero proprio addetto alla presidenza, non facevo parte della ditta, ma avevo un ufficio accanto al presidente, nella ditta, al secondo piano, in un grosso palazzo di vetro. E mi rendevo conto, ho detto: «la sociologia deve venire». Ecco, qui la gente dice: «è venuta perché c’erano gli americani che hanno vinto la guerra», perché mi pare che qualcuno ha detto l’infelice frase: «al seguito dei carri armati americani». Sciocchezze! Pare che sia stato Alessandro Cavalli[59] a dire una frase del genere, in Jugoslavia o non so più dove. Spero che non l’abbia detto, questo! Certamente però Gallino[60] dice alcune cose anche incredibili… Un fenomeno culturale non lo puoi spiegare solo in termini, diciamo, metaculturali, in termini subculturali. Il fenomeno culturale, però, era vero, vedevo insomma questa società che cambiava. Noi lì nel Canavese addormentato, sa, il paese di Gozzano, no?, una cosa idillica, campestre, un po’ bucolica, eh! Però invece le cose cambiavano. Questa ditta diventava, io ho vissuto i momenti fondamentali attraverso i quali, proprio no?, la Olivetti da impresa relativamente piccola, protetta anche dal fascismo mediante l’autarchia – questo va detto, eh, guardi che i soldi gli Olivetti li hanno fatti facendo la prima guerra mondiale, poi la concorrenza è stata sgominata dal fascismo – ebbene, debbo dire che ho proprio visto come questa ditta stava diventando un’enorme multinazionale. Questa è proprio una grossa esperienza… Altre ragioni?… Credo che c’era un insieme di ragioni. Non c’era una ragione singola. Sì, uno può ipotizzare naturalmente una priorità, una tavola di priorità dei fattori, della loro incidenza relativa, delle novità, quindi rottura delle vecchie, superamento di certe cose, industrializzazione, bisogno di razionalizzare i cicli produttivi, distributivi, i comportamenti sociali, pensare al bisogno proprio di conoscere. Insomma, la società ha bisogno di conoscere se stessa. E da questo punto di vista certo, tutto il sommovimento creato da Torino, Milano, questo pompaggio dal Sud è importante, anche se poi i sociologi non è che abbiano detto molto, ma insomma…
RC: Io vorrei un attimo riferirmi proprio alle origini del discorso. Dunque lei m’ha detto che in sostanza l’incontro con Abbagnano fu casuale, in qualche modo.
FF: Sì, perché io non avevo professori.
RC: Ecco, questo volevo, volevo un attimo accertare.
FF: Ma se avessi avuto professori non avrei potuto fare sociologia, perché la sociologia era la tipica scienza di un cane sciolto. Non si poteva scegliere, perché non c’era proprio. Lo stesso Abbagnano non è che la volesse. Anzi una volta Lombardi mi disse che non Abbagnano aveva fatto un favore a me, ma io a lui, perché lui era arrivato in fondo, alla fine del suo pensiero. Doveva allora cominciare a far ricerche per le quali non era equipaggiato… Però sta di fatto che il suo aiuto, per esempio nel concorso, fu molto importante. Perché poi fu chiesto il concorso. E lì ci sono delle cose di ordine molto pratico. Per esempio Francesco Piccolo[61] che era il preside da sempre, è vero?, di Magistero, quando io diventai professore ordinario al Magistero, entrai come professore di ruolo e poi ordinario, eravamo in sette; si fa presto: non c’era ancora Filiasi Carcano,[62] non c’era Pietro Prini,[63] non Giorgio Petrocchi,[64] non c’era il buon Gaetano, come si chiama, Mariani,[65] che è morto. Niente, c’era: Piccolo, Umberto Bosco,[66] Luigi Volpicelli,[67] Caraci,[68] Marmorale,[69] Franco Lombardi, che stava andando via, e io. Sette. E il criterio di Piccolo fu incredibile. Un bel momento si trovarono, nel Cinquantanove, con una cattedra in più. Avevano già dato le cattedre, e Umberto Bosco, io fui anche favorito dal conservazionismo, non voleva troppe cattedre per non dover chiamar troppa gente. «Che ne facciamo di questa cattedra?», questo è il punto. Allora non si sapeva bene. E niente, Piccolo disse – ricorderò sempre questo criterio, di un pragmatismo sconcertante –, proprio questo filologo romanzo, il quale dice: «Beh, la diamo a quelli che hanno fatto più tesi di laurea». Io all’epoca, devo dire grazie poi al buon Antiochia,[70] meno forse ad Ancona[71] (Ancona brillava per la sua pigrizia), Antiochia in quegli anni, io gli sarò per sempre, poi le cose sono andate come sono andate,[72] io gli sarò sempre molto, molto, molto fedele e grato per quello che lui fece, perché… Intendiamoci, lui lavorava per l’IMI,[73] mezza giornata; ha fatto l’assistente volontario, veniva dal Partito Comunista dopo l’Ungheria del Cinquantasei, veniva dai sindacati, era stato segretario di Di Vittorio,[74] soprattutto di Bitossi, Renato Bitossi[75] che era il negoziatore, anche Di Vittorio sindacalista. Veniva dalla cavalleria di Pinerolo, un uomo con la sua esperienza. Lui mi era molto grato perché l’avevo preso così, senza neppur chiedergli chi era. Un giorno è comparso lì, mi ha detto: «Mah, io ho fatto il sindacalista, da ultimo, ma molte altre cose». Ho detto: «Mi basta questo». Lo presi. Allora si lavorava molto. Io adesso non discuto, non voglio dire, non so, dovremmo ascoltare uno di oggi, della generazione intermedia, tipo non so, uno Statera.[76] Dice: «Là si lavorava male». Sì forse, anche, non è…, però, (si trattava) di un lavoro imponente. Noi facevamo più tesi di tutti gli altri. Allora, cosa, io poi tenevo anche lì sacrificate evidentemente delle ore che avrei potuto usare diversamente; ma tenevo anche Scienze politiche, Lettere, è vero?, poi c’era, dopo poco c’era Trento; ero anche tra i fondatori di Trento, andavo su è giù tutti i lunedì, partivo domenica sera tornavo lunedì sera, col vagone letto. Il buon Piccolo dice: «Vediamo chi ha fatto più tesi». Sociologia risultò una delle materie col maggior numero di tesi. E allora, niente: «Teniamo sociologia». Lì io poi dovevo, lei lo sa, dovetti affrontare una seconda difficoltà. La difficoltà era che il buon Gaetano Floridi, il vicedirettore generale della Pubblica istruzione, uomo stupendo, adesso in pensione, credo, Gaetano Floridi mi dice: «Beh, Sociologia deve andare a Statistica, oppure a Giurisprudenza», cioè il Ministero, non per cattiveria, per carità, ma proprio, il Ministero seguiva la tradizione, seguiva l’immagine tradizionale. Io allora, siccome abitavo a Monteverde vecchio, al Gianicolo, via Innocenzo decimo, allora per me era facile; venivo giù, via Dandolo, mi fermavo lì, e per qualcosa come tre-quattro mesi, due-tre volte a settimana, mi fermavo e salivo al secondo piano o al quarto piano, dov’è l’istruzione superiore. Andavo da Gaità, Gaetano, no?, Gaità, Gaetano Floridi,[77] per spiegargli come e qualmente la sociologia era una materia perfettamente umanistica e per questo andava bene al Magistero. Quindi noi fummo favoriti da questa spregiudicatezza incredibile del filologo romanzo Piccolo, vero?, preside; gli altri, Volpicelli, Bosco, che insomma accettarono. Poi, dalla relativa, diciamo, mancanza di prestigio di quella facoltà, che quindi era più aperta agli sperimentalismi, alle cose nuove – cosa che poi è stata verificata anche dalla presenza di psicologia, per esempio –, e infine da questa sotterranea, piccola cospirazione con Gaetano Floridi, il quale materialmente metteva poi i titoli delle cattedre sul tabellone; che allora lui aveva nella sua stanza, un enorme tabellone con tutte le facoltà e tutte le cattedre disponibili; come erano distribuite?, con colori diversi: gialli, azzurri, rossi, no? Niente! Finalmente, un bel giorno, la sera, arrivai lì e mi disse: «Franco, allora, beh, t’abbiamo accontentato. Abbiamo messo sociologia». Ora lui non si rendeva forse conto, neppur io francamente, però era una cosa abbastanza storica; era la prima volta. Quasi subito dopo, celebrato il concorso, io ebbi una riunione di cui ho vivo il ricordo, con Sergio Cotta,[78] da poco venuto qui a Giurisprudenza a Roma, come filosofo del diritto, e Norberto Bobbio.[79] Devo confessare una mia debolezza, vero?, andavo, andavo di fretta e quella mattina arrivai anche un po’ in ritardo. Loro erano già riuniti alla Facoltà di Giurisprudenza nell’ufficio di Cotta, loro due. Io non capii bene, non percepii, cioè capii che era una cosa importante perché uomini come Cotta, ma soprattutto come Bobbio, già allora, non è che provocano una riunione così per battere l’aria; è gente che… Ma in sostanza non riuscii, cioè avevo, mah, avevo una certa prevenzione contro di loro. Non contro di loro come persone, ma contro il formalismo. Perché oggi si può dire tutto quello che si vuole, ma la sociologia è tornata in Italia contro il veto, crociano d’accordo, il veto marxistico d’accordo, ma anche contro il veto formalistico giuridico, che fu totale. E infatti loro poi deviarono cercando di, misero in piedi Scienza politica. Perché Scienza politica, la politologia, è tutta concepita in funzione antisociologica. Questo lo debbo dire. E la sociologia è considerata slabbrata, episodica, non seria, eccetera, eccetera. In fondo, un po’ contestataria. Beh. Quella riunione fu molto importante, retrospettivamente considerata, perché, con l’appoggio di Sergio Cotta, Bobbio mi disse con molta chiarezza, mi disse: «Caro Ferrarotti, tu hai in mano la sociologia, no? Così come noi, come io tempo fa avevo in mano la filosofia del diritto. Allora hai due strade davanti. Intanto, premessa: bisogna fare quello che Cesare Musatti[80] e Gemelli, Agostino Gemelli[81] hanno fatto a Milano, cioè bisogna costituzionalizzare la situazione: uno a te e uno a me. Quanti? Pochi! Perché le vie son due: la via di un controllo serio – il discorso era sempre fatto in nome della serietà scientifica –, controllo molto serio, la via impone un numero esiguo. Quindi, pochi concorsi, poche cattedre, cinque al massimo nei prossimi quindici anni, come filosofia del diritto, e secondo un criterio metà-e-metà: laici e cattolici, cattolici e laici, come Gemelli e Musatti avevano fatto per Milano». Beh, io gli dissi di no; in faccia. Non lo so. Insomma parlarono… cioè io dissi di no, probabilmente proprio perché ero contro persino l’idea di pensare in termini costituzionali questa faccenda. Loro avevano ragione, forse, a considerare oggi il fatto che la disciplina ha imbarcato degli avventurieri, delle persone, in fondo, diciamo la verità, con cui uno non si sta bene insieme perché non sono studiosi. Sono degli avventurieri. Io stesso poi, piantando lì, ho chiamato persone che si son poi rivelate, magari sull’onda emotiva, ideologica, sembrava, poi in realtà si sono rivelati poveretti. Niente. Ma io, però, rifiutai l’approccio malthusiano. Nettamente!
RC: Questo avviene…
FF: Quando io avevo…, nel Sessantadue…
RC: …abbastanza dopo.
FF: …eh, beh, però, nel Sessantadue feci la mia prolusione di ordinariato. Scattati i tre anni solari, è vero?, io ero ordinario. Anzi, la mia prolusione di ordinariato fu poi pubblicata. Era Macchina e uomo nella società industriale, quello della ERI.[82] Fu pubblicato. Tenni, tenni proprio la prolusione nel Magistero, lì al piano di sopra. C’erano ancora però gli statistici, ancora lì, ma insomma, noi avevamo già una stanza, una, o in biblioteca forse. Vennero, vennero tutti. Fu una bella cerimonia. E io dissi di no. Questo avvenne proprio non appena fui ordinario. E cioè dissi di no perché ritenevo che la sociologia non dovesse essere una disciplina diciamo minoritaria, piccoli numeri. Vedevo nella sociologia proprio una vera vocazione sociale. Una vocazione sociale a diventare, anche ai vari livelli, anche operativa, vero? Quindi ci volevano dei numeri, ci volevano grossi numeri. Tra l’altro non avevo tutti i torti, perché negli anni in cui ero incaricato vedevo queste migliaia di persone che venivano a far… vabbe’, ci sarà stato un venti, un trenta per cento di profittatori, restava però un sessanta, settanta, l’ottanta per cento di gente che aveva interesse. E c’era nell’aria. Poi a questo bisogna aggiungere una certa mia attività televisiva, all’epoca, no?, facevo Vivere insieme. Bisogna aggiungere il Convegno dei cinque,[83] che presiedevo molto spesso. Bisogna, non lo so, bisogna aggiungere anche il fatto olivettiano, l’industria. Il Sud si muoveva, l’immigrazione, insomma c’era il boom, il boom era dal Cinquantacinque al Sessantasette, alla contestazione. Il primo raffreddamento del boom era capitato proprio nel Sessantadue, con la nazionalizzazione della Edison, la prima grande nazionalizzazione, l’unica grande nazionalizzazione: l’industria elettrica. Quello fu un colpo forte, infatti, mah, insomma. Io avevo finito nel Sessantuno-Sessantadue di costruire questa casa ed è da allora che abitiamo qui.[84] In sostanza era il boom, era ancora il boom. Non so, l’uscita dell’Italia dal mondo rurale, proprio, importante. E poi io non avevo mai fatto vita accademica, quindi non capivo questa logica; non ero mai stato discepolo di nessuno nell’università. L’incontro con Abbagnano era stato appunto una coincidenza; voglio dire un convergere casuale di persone che si trovano simpatiche e pensano abbastanza allo stesso modo. Non a caso venivo, da autodidatta, da letture tardo Ottocento, primo Novecento; lui era l’allievo, l’ex allievo di Aliotta a Napoli, lettore di Rensi, studioso di metodologia, di storia della scienza; oh Dio, lui aveva anche, per bisogno di guadagnare, forse, credo, aveva anche lasciato un po’ i suoi studi originali, aveva fatto queste grandi opere manualistiche, è vero?, Storia della filosofia,[85] il Dizionario,[86] proprio, così mi pare d’aver capito.
RC: in quelle riunioni erano presenti Cotta…
FF: Cotta e Bobbio.
RC: Cotta e Bobbio.
FF: Noi tre. E devo dire, adesso schematizzo un po’ perché fu una riunione, io almeno la percepii in questo modo: loro erano due professori di filosofia del diritto; vedevano e chiedevano a me di vedere – e mi davano cioè un consiglio fraterno, per il quale io avrei dovuto essere grato –, vedevano la sociologia al loro livello. Cioè la sociologia, loro adesso son sette o otto mi sembra e ecco, non di più, una, e io… non capivo questo, non potevo capirlo perché ero contro il formalismo giuridico, avevo delle obiezioni contro lo stesso Bobbio, contro Cotta, eccetera. E loro in realtà, retrospettivamente parlando, forse non avevano tutti i torti, perché facevano, ragionavano da accademici; ragionavano da universitari. Io invece ragionavo da inventore, ecco… Il contrasto era anche col lato più umano. Il contrasto era tra amministratori di discipline accademiche: oculati, attenti, studiosi seri; e, diciamo, inventore di, quindi portato all’espansione, è vero? Questo è un po’…
RC: Ma perché proprio loro? Perché proprio questi due filosofi del diritto e non altri?
FF: Mah, fu una circostanza. Io sono anche tuttora abbastanza amico, eccetera, vicino, e voglio dire, a una persona come Bobbio. Perché allora, no?, (la cattedra) fece molta impressione (…) Allora la prima cattedra di sociologia, nel mondo accademico di allora, fece una enorme impressione. E allora credo che ci fu una certa preoccupazione: forse questi sociologi diventano troppo importanti. Troppo numerosi, troppo… (…); dall’altro punto di vista, magari sa, vedevano che io avevo molte esperienza ma non conoscevo niente del mondo accademico, non ero mai stato, per esempio, assistente. (…) Non avevo fatto la carriera accademica, venivo dall’esterno, ero un outsider. Tra l’altro, forse loro questo non lo sapevano: proprio perché outsider avevo potuto aver l’idea di sociologia, cioè di una materia che non c’era. L’outsider non vuole ripetere, vuole una cosa che non c’era. Allora credo, ebbero la preoccupazione, per un verso se si vuole fare una, diciamo così, dare una interpretazione poco generosa, di non essere, diciamo, noyants[87] per un verso; ma io credo che per un altro verso, magari, (si trattasse) appunto di stabilire dei rapporti di collaborazione. Non dimentichiamo che Bobbio era molto legato poi a Renato Treves e viceversa. Treves d’altra parte ha sempre avuto la funzione fondamentale nella cosa sociologica di interessarsi della sociologia al fine di controllarne un po’ l’ambito, attraverso il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale[88], attraverso la prima AISS.[89] Basti dire che quando io fui eletto presidente dell’AISS, perché ormai ero ordinario, quindi dovevo essere io, non solo si dovette votare per una giornata intera – lui non voleva dimettersi – non solo, ma l’AISS cessò dal funzionare, perché io avevo Angelo Pagani nella mia cosa, avevo, no?, e questi qui semplicemente avevano De Rita. Cioè il peso, il peso del gruppo milanese era tremendo. E io credo che dietro questo invito di Cotta – Cotta fungeva da ospite, ci ospitava –, e Bobbio, c’era una preoccupazione milanese. Ma questa è un’interpretazione. Un’altra interpretazione che io ne do, che è un’interpretazione proprio di massima buonafede, era un consiglio fraterno. Era anche una concezione diversa della vita accademica. Io avevo già una concezione post-contestazione, una concezione democratica aperta, un po’ slabbrata, disordinata, un po’ caotica, ma insomma molto presa dall’uomo, dal diverso, (…) Bobbio ancor oggi è la quintessenza del, basta vedere come per esempio, quando presenta le cose, quando parla, è efficacissimo, efficace proprio perché il pubblico italiano da un professore s’attende, s’attende il pastore che parla, s’attende il verbo, il verbo, no?, il verbo. C’è un, diciamo così: c’è un’unzione particolare. Naturalmente poi, diciamo pure la verità, tutta la verità, vero?, sulle labbra, sulla bocca di un uomo di grande valore, con dei meriti notevoli. Nessuno ha dimenticato la sua polemica con Togliatti[90] a proposito delle regole della democrazia, eccetera, no, come Roderigo di Castiglia,[91] famoso, Politica e cultura,[92] vabbe’; un uomo che ha dei grandi meriti. Però, anche molto ligio alla figura, al ruolo dell’accademico tradizionale. Molto bravo.
RC: Ecco questo su un versante. Su un altro versante c’è l’esperienza della Facoltà di Lettere e filosofia qui a Roma,
FF: Sì.
RC: che ha accolto la sociologia e che però poi, in qualche maniera, non ha più voluto.
FF: Sì. Ora, devo dire come cominciai. Cominciai col Magistero. Cominciai immediatamente ad avere, diciamo, offerte di andare altrove perché il Magistero, come ho detto poc’anzi, era facoltà di scarso prestigio, ed era per lo più considerato un trampolino di lancio. Si veniva al Magistero per venire a Roma. Una volta a Roma, si andava… Allora le facoltà erano due: c’era Scienze politiche da una parte, con il vecchio preside Raffaele D’Addario,[93] che mi voleva molto bene. Ma era un fatto proprio, non lo so, di simpatia umana, non so. Non aveva figli, (…) lui per me stravedeva, questo D’Addario, e mi diede subito degli assistenti. Li portò via a Salvatore Valitutti,[94] mi diede Carlo Mongardini,[95] eccetera. Dall’altra parte c’era Lombardi: Lettere. E tutti mi dicevano: «Vieni a Lettere, dove c’è filosofia; tu sei anche filosofo», eccetera, eccetera. Dall’altra parte invece: «Vieni a Scienze politiche. Cosa stai a fare con queste ragazzine, no?, del Magistero, queste maestrine? Tu vieni qui, è una cosa seria». Io debbo dire che un’offerta cancellava l’altra. Dirò con molta chiarezza. Primo: Scienze politiche era una facoltà dove avevo molto rispetto, ma piena di ‘elefanti’. Dal senatore Medici[96] all’onorevole Moro,[97] più tardi, però. Io anche votai per Moro, insomma; Fanfani, no, Fanfani era Economia e commercio. Chi altri c’era? Era pieno di politici. Brave persone. Mi trovavo molto bene con loro. C’era Marzano,[98] vecchio ragioniere generale dello Stato; c’era Mario Toscano,[99] storico dei trattati, Ministero degli esteri. No, mi sono trovato sempre molto bene. Però c’era quest’aria di cimitero di elefanti, non so come dire, di grosso parcheggio per uomini che hanno fatto il loro cursus honorum e che si preparano a una morte gloriosa, tranquilla ma degna, no?, tutti così, tutti: ex ministri, ex primi ministri. C’era poi Franco Valsecchi[100] di storia moderna, nemico giurato della sociologia: «Scienze storico, storico-sociali. Cosa vuol dire? O sono scienze sociali, che non esistono, oppure son scienze storiche, la storia». Questo era tipico, insomma. Più complesso il discorso di Lettere. Io a Lettere ho avuto grandi soddisfazioni, prova ne sia che gran parte del mio aiuto, personale d’aiuto al Magistero, veniva da Lettere. A Lettere mi trovavo molto bene, umanamente, eccetera. Andavo bene con Vittorio Somenzi,[101] andavo bene con Gaetano Calabrò,[102] benissimo Franco Lombardi, naturalmente e persino Ugo Spirito[103] e all’inizio persino Carlo Antoni,[104] negli ultimi anni Carlo Antoni disse in pubblico: «Ferrarotti mi ha convinto», in una specie di convegno che si tenne in quegli anni, ma molto prima questo, eh, prima, io ero solo incaricato, al teatrino della Vittoria, a via Vittoria, vicino a piazza di Spagna. E lui disse – in un convegno, non so, sulla libertà, qualcosa del genere, dopo che aveva parlato Riccardo Lombardi,[105] io avevo fatto una relazione che fu poi pubblicata come Sociologia e realtà sociale,[106] – e debbo dargli atto, un ricordo veramente straordinario, questo, Carlo Antoni ha preso la parola, direi proprio il discepolo più fervente di Croce, è vero?, disse: «Oggi Ferrarotti mi ha convinto della opportunità e della utilità della sociologia». Proprio! La gente non credeva alle proprie orecchie. Sa, queste cose si son dimenticate. Questa cosa fu pubblicata poi da Carlo Ludovico Ragghianti[107] nella sua rivista, rivista gialla che faceva a Firenze, chiamata «Criterio»;[108] di cui uscì qualche numero, poi scomparve.
RC: Questo, in che anno, più o meno?
FF: Era il 1956. Quindi siamo, io ero incaricato, ma insomma prima del concorso, Cinquantotto-Cinquantanove, poi è stato espletato nel Cinquantanove-Sessanta, nel Sessantadue ero ordinario. Ora, perché è più complessa la cosa di Lettere? Dunque, Spirito andava bene anche lui, anche se era contro la sociologia; ma la vera opposizione alla sociologia lì a Lettere, stranamente, è venuta dal gruppo Calogero.[109] Ed è venuta soprattutto non tanto quando c’era lui, che andava molto bene, perché, insomma, io attraverso il CEPAS che era stato fondato allora, andava molto bene. Ma soprattutto quando venne colui che aveva sposato la figlia di Calogero, Gennaro Sasso.[110] Lì cominciò in effetti nella discussione delle tesi, in cui mi trovavo benissimo con Morghen,[111] mi trovavo benissimo, (…) mi trovavo splendidamente bene con Gabrieli, Francesco Gabrieli,[112] mi trovavo bene con Santo Mazzarino,[113] lo storico; bene con tutti. Meno bene coi giovani leoni della filosofia tipo, tipo Lucio Colletti,[114] no?, allora lui, che ha una mentalità da poliziotto, cioè lo dico con amicizia, cioè lui o fa la sentinella dello stalinismo, o fa la sentinella è vero?, della libertà, del liberalismo. Ma son persone, sono teste assolutizzanti che non possono… e allora lì era tutto proprio per la linea, no?, dura, no?, eccetera. Vabbe’. Quindi c’era questa situazione. Situazione difficile che faceva, che produceva un certo disagio, al punto che il nostro successo, che era indubbio, grande successo, però era visto, era un successo che dava sospetto, non solo per invidia, se volete. Beh, ci fu un fatto drammatico una volta, drammatico per modo di dire. Che senza dire nulla, mentre facevamo gli esami, Guido Calogero entra e si siede lì, accanto a noi. Non fa domande, niente, ma prende nota: il tempo di esame, le domande fatte agli esami, eccetera. Io naturalmente appena ho visto questo ho accelerato ancora di più gli esami. E questi dopo un po’ andò via. Non solo. Gli feci sapere che avrebbe dovuto venire. Se voleva venire doveva però, come era tenuto a fare, fare parte della commissione formalmente, doveva venire sempre, a tutti gli esami. Se non veniva sempre non sarebbe stato… Questo fu molto duro per lui e… Poi ci fu, ci fu, niente, su una rivista, non so più quale, forse la «Rassegna di Sociologia»[115]… Anzi, no; comunque nel Sessantasette ci fu una sparata – insufflata però – di Spirito contro le tesi di laurea in sociologia, e una mia risposta in cui dicevo semplicemente che mi stupivo di queste istanze critiche di Ugo Spirito a proposito delle tesi di laurea in sociologia, che non era strumentalmente in grado di leggere. Quindi, lui era stato un po’ pesante, ma la mia risposta non era leggera, insomma. Infatti lui se la legò al dito. Poveretto, poi doveva morire di lì a poco. Quindi, io poi francamente… Terzo punto. Dunque: no a Scienze politiche, no anche a Lettere, ma perché, non solo per questi motivi negativi, ma perché io, in modo se si vuole abbastanza irrazionale, sono rimasto molto legato e riconoscente alla Facoltà di Magistero. Capisco, non è una facoltà che mi interessi più tanto, questo lo ammetto. Tanto che (…) ero molto favorevole al dipartimento, in funzione antifacoltà. Non avrei mai potuto immaginare che sarebbe rimasta la facoltà insieme col dipartimento, ma insomma! Ma perché…, insomma, il Magistero, cambiato com’è, per me resta quel punto di inserzione nella struttura accademica italiana dentro la quale senza questa, questa smagliatura non sarei mai entrato. Ora non sto a dire se è stato un bene o un male, non lo so; questo nessuno può dirlo della propria vita. Però sta di fatto che mi piaceva trattare libri, mi piaceva scrivere o parlare di queste cose e lì son capitato e lì l’ho potuto fare. M’hanno chiamato. Quando il buon Marcello Boldrini[116] stava diventando presidente dell’ENI[117] mi chiese di andare, portare la cattedra a Trento, io mi opposi ad Alberoni,[118] (…) «Beh, allora perché non vieni tu?». «Beh, io sto a Roma, sto al Magistero, mi ha chiesto la prima cattedra, come posso lasciare?». E lui mi ha detto: «Sai, Alberoni anche a me non piace tanto, però ci porta la cattedra. E poi viene dalla Cattolica. Lì c’è sempre, uno può essere peccatore finché si vuole, però viene dalla Cattolica e quindi è un ‘nostro’, insomma. No? Perché questo c’è, eh, fra i cattolici. Lei lo sa meglio di me che c’è questa mentalità». Io dissi a Marcello Boldrini, ricordo sempre una telefonataccia: «Caro Marcello, segnati le mie parole, ti pentirai amaramente. E io da domani sono dimissionario». Mandai la lettera. E chi andò però a fare, insieme con l’Andreatta,[119] a fare la ciliegia sul Saint Honoré? Vedi caso: Bobbio. Costantemente, capito? Proprio direi come se in qualche modo io fossi un pesce pilota. No? Appena lasciato, il momento, il laico, il laico diciamo, il cosmetico, la cipria laica, subito, eh, per avere un minimo di controllo, nel Comitato Tecnico, fu lui. Ora tutto questo ha avuto una sua storia, poi io direi che in fondo (…) se io avessi voluto andare a Lettere ci andavo e andando a Lettere, impostando bene un lavoro a Lettere, eccetera, si potevano fare grandi cose. Certamente più che al Magistero.
RC: Però voglio dire…
FF: Però allora questo, scusi, per finire la sua domanda, la sua domanda è importante, a un certo punto, questo umore, è successa una cosa interessante, allora. Allora lei deve sapere che Calogero – queste son cose riservate, va da sé – ma Calogero pubblicava una rivista chiamata «La Cultura»[120]. E Franco Lombardi mi disse che questa rivista era pagata dai massoni, un gruppo di massoni. No?, la cosa è molto interessante a Lettere, perché lì, insomma, lì, c’era, fra gli altri, un giovane studente che veniva da me, che prendeva appunti che poi io ho ritrovato ne La conoscenza sociologica,[121] vero?, che era Statera. Statera che all’epoca era veramente brillante e che…, ambiziosissimo, aiutava Antiochia a mia insaputa. Io spesso – avevo una pessima abitudine, mie cattive abitudini di cui, per carità, (…) accetto tutta la mia responsabilità, l’accetto anche perché non posso farne a meno –, ma, la mia responsabilità consiste in questo: per esempio io avevo Trento, Scienze politiche, Magistero, poi avevo la diplomazia, deputato, eccetera, allora, dicevo per esempio ad Antiochia: «Scusi, non ho tempo di andare lì a far quella lezione, vada lei». Mi è poi risultato, dopo, mi fu riferito dalla Piccone Stella[122] dopo, mi fu riferito da, De Domenico,[123] e altri – De Domenico veniva da Scienze politiche, come Pozzi del resto – allora, niente, io mandavo Antiochia, Antiochia s’appoggiava a parecchia gente tra cui Statera. Uno era Pacitti…[124] E Statera era bravissimo nell’infilarsi, nel brillare per diligenza, ma vera diligenza, eh, lui proprio, con me, del resto io gli telefonavo a mezzanotte: «Domani alle sette mi porti, sette di mattina, mi porti la graduatoria con…, secondo questi criteri: uno, due, tre, eccetera». Lui pronto, battuto a macchina, batteva tutta la notte, bravissimo. Ma in qualche modo, secondo il famoso, il famoso teorema hegeliano del servo-padrone, (…) faceva le cose e guadagnava. Ora Statera era l’uomo di Calogero e in parte di Lombardi, attraverso il padre,[125] vecchio giornalista parlamentare, eccetera, tant’è che la sua tesi di laurea era su Neurath, Neurath e il positivismo logico. Quando si trattò, lui fece…, venne subito a trovarmi. Fui io che telefonai ad Abbagnano: «La pubblichiamo». Resta il miglior libro forse di Statera.[126] (…) Io gli dissi: «Be’ perché non sta lì? S’è laureato con Guido Calogero, mah, stia lì». Fece una festa poi alla vigna, alla sua vigna, a cui io non andai, polemicamente. E invece lui fu consigliato e fu usato per inserirsi nella sociologia. E fu una specie proprio, guardi (…) non ci abbandonò più, attraverso queste debolezze di Antiochia lui si inserì (…) con grande abilità. Devo anche dire, per esempio, però, in questo voglio essere molto equo: un posto di assistente che ci avevano portato via, lui ce lo fece ridare, naturalmente per sempre. Fu lo stesso posto in cui fu riconosciuta idonea la Piccone Stella, che poi andò a Messina, poi da Messina da assistente diventò associata. E anche qualcun altro, e anche lo stesso De Domenico. No, De Domenico partecipò ma fu fatto fuori, anzi era molto offeso con me, perché…, e… ci furono due o tre cose buone, ma con questo fine. Sempre. E da lì si può dire che era una tipica…, era una persona che s’era inserita, non che io l’avessi chiamato. Semmai io l’ho tollerato, un po’ così, per distrazione. Ma era il loro uomo, si potrebbe dire era proprio l’agente di questo gruppo. Tant’è che quando lui lasciò Lettere la cosa cadde. E cadde perché lui la volle far cadere, d’accordo, ma cadde anche perché, perché veniva meno… Per conto mio non potevano farmi nulla, no?, perché ero così, ma un successore: o era Statera o non era nessuno. E infatti fu chiuso, ci fu Losito per un certo tempo credo, no?, ma poi…
RC: Sta di fatto che a tutt’oggi la Facoltà di Lettere e filosofia non ha nessun insegnamento di sociologia.
FF: E non credo che sia.
RC: Allora, voglio dire, qual è l’atteggiamento dei filosofi della scuola romana nei riguardi della sociologia? Favorevoli in parte?
FF: È un atteggiamento, purtroppo, di chiusura, mentre noi abbiamo continuato e io credo che abbiamo fatto bene. Si veda per esempio Bianco, Franco Bianco[127] da noi, eccetera. Io ho sempre detto, al di là delle simpatie e antipatie, ci sono questi personaggi che non sono per niente simpatici, però ho sempre insistito perché dovevamo avere la sponda filosofica. (…) Mentre io mi muovo sulla base di un discorso teorico, d’una esigenza multidisciplinare, eccetera, che quindi faccio valere anche per Lanternari,[128] anche per Tentori,[129] e anche per Lütte,[130] indipendente dalla simpatia-antipatia, cioè alla fine vado al di là di questo; non mi interessa. La gente passa. Debbo dire che il gruppo di Lettere, il gruppo dell’Istituto di Filosofia, Lettere, ha sempre fatto, diciamo, una politica familistica, dinastica, di gruppo ristretto. O si entrava nel gruppo o no. E in qualche modo questa è considerata anche una posizione di élite; la presenza di alcune persone, per esempio c’è poi Romeo,[131] vero?, se pure, evidentemente ha di molto aggravato, accentuato, ecco, diciamo aggravato, da un giudizio negativo, ha accentuato questa tendenza.
RC: Quindi non è un discrimine ideologico, è un discrimine proprio di tipo dinastico-familiare nel senso più brutale?
FF: Non c’è dubbio. Su questo io non avrei molti dubbi. Non avrei dubbi su questo.
RC: Perché sennò non si spiega che alcuni sono favorevoli.
FF: E poi c’è, secondo me, delle persone che decidono lì, c’è ancora un pregiudizio antisociologico di tipo diciamo scientifico. Tanto che poi l’ultimo, il più tardo, diciamo, Spirito espresse questa cosa dicendo: «Due false scienze: la sociologia e la psicanalisi». Naturalmente facendo ridere. Almeno per quanto mi riguarda, io risposi con tre righe dicendo: un po’ patetico il fatto che uno pensi di potere a tavolino freddamente decidere quali scienze esistono e quali no! esiste una scienza quando ci sono gruppi di studiosi che bene o male, identificandosi in una certa cosa, conducono ricerche. (…) È molto strano, cioè il vecchio, il tardo Spirito tornava alle sue vecchie, alle sue primitive posizioni comtiane. E lui è sempre stato, sempre stato un fascista corporativista gentiliano e nello stesso tempo positivista comtiano, perché tutti e due i disegni sono disegni globali di organizzazione della società, in maniera teocratica, insomma, no?, monocentrica. Questo è quello che io chiamo, ho sempre chiamato il sociocentrismo, vero?, di Comte. Era in fondo rovesciato, non era diciamo lontano rispetto alla globalità dell’autoctisi, l’autofondazione di Gentile, l’atto puro, no?, lo spirito come atto puro. Sono concezioni diciamo monistiche sistematiche senza residui; non ci sono mai, non c’è la contingenza, non c’è margine, non c’è il momento dell’indeterminazione. E poi, sa, quando c’è un uomo come Sasso…
RC: E uno come Gregory?[132]
FF: Gregory. Ecco io sono amico, sono stato personalmente un amico di Gregory, eccetera. Gregory è appunto un duro organizzatore. Merker[133] andrebbe già molto meglio per me. Però loro non c’erano, è molto recente.
RC: Sì però ricordo che Gregory…
FF: Gregory.
RC: aveva una certa politica nei riguardi…
FF: Gregory, Gregory è sempre stato per una emarginazione della sociologia, cioè la sociologia è accettabile in piccolissime dosi, condotta da una persona d’alto livello; non si può chiamare, così, un incarico. Andata via questa persona, che ero io nel caso (specifico), e venuto meno per incompatibilità l’uomo di fiducia, l’uomo che appartiene alla famiglia, io non appartenevo alla famiglia, però ero al di sopra, allora la cosa tace. O la si controlla, oppure meglio il silenzio. Devo dire che è piuttosto scandaloso, io son d’accordo, è naturale. Però c’è, voglio dire, c’è una quasi inevitabile diciamo evoluzione, nelle cose, perché alla fin fine chi è impoverito non è tanto la sociologia son quelli che la escludono. Questo…
RC: Fra l’altro han dato spazio ad altre discipline delle scienze sociali che però interferiscono meno, tipo antropologia culturale, tradizioni popolari, etnomusicologia.
FF: Tutto ciò che si riferisce… Il problema è questo, così come lo posso dire, tutto ciò che si riferisce alla descrittiva sistematica di usi e costumi, tutto ciò che ha a che vedere con una, diciamo così, una esplorazione a livello morfologico elementare del sociale, va molto bene. Laddove si voglia avallare o far funzionare una concezione della sociologia come scienza teoreticamente forte e autonoma, con i suoi contenuti teorici, le sue premesse filosofiche, ma per carità, questo non si può, (…) E infatti fu su questo su cui sostanzialmente le cose… Infatti anche pedagogia, c’è quest’uomo che poi tra l’altro contribuii a far venire a Roma, lui era d’Aosta, no?, Visalberghi,[134] fu allora, diedi voto favorevole, fui consultato. Certo. Perché? Perché io ricordavo il traduttore di Dewey, The Logic of Inquiry, La logica della ricerca,[135] ricordavo appunto questa pedagogia che era in realtà strettamente legata alla sociologia e alla ricerca sociale, la comunità e i suoi problemi, il pubblico e i suoi problemi, insomma. È arrivato lì, è diventato un esperto di docimologia, il grande progetto IARD,[136] no?, scoperta dei talenti. Facemmo una sola ricerca insieme, lo ricordo, gli demmo una mano, questa ricerca, le due cattedre. Ma debbo dire che a un certo punto le riunioni comuni con lui mi riuscivano così fastidiose, così noiose che, insomma, sarà che io sono un po’ allergico… No, no, voglio dire tutto quel che va detto (…) Ecco, ho una scarsissima capacità di sopportazione, mai avuta la capacità di sopportazione della noia. Minute, pedanti riunioni sul nulla, poi, va beh, lunghissime, poi tutte profumate – per modo di dire – da queste pipe, queste pipate interminabili. No, questo quindi lì fu un po’, devo dire, un’occasione mancata. È stata anche un po’ la cattiva azione di Statera. (…) Venendo via lui sapeva, d’altra parte lui si trovò, la legge gli imponeva di scegliere di qua o di là. Qua c’era la cattedra. Là no. Cattedra che poi naturalmente, nella famosa riunione a Padova con Acquaviva[137] e gli altri, nessuno aveva fatto il suo nome. Io dissi: «Beh, Izzo[138] da una parte, diciamo teorico storico, dall’altra però ci vorrebbe un metodologo per Roma anche, chi lo fa? Ecco Statera». Tutti sanno che lui è andato in cattedra per il mio intervento. Sennò lui era già fuori, non lo consideravano per niente. Lui era per niente considerato. Anzi mi dicevano che a Roma dopotutto uno era già sufficiente. No? Io per averne due, non avevo altri sottomano. Debbo dire, se guardo indietro − lei mi costringe a guardare indietro, giustamente, bisogna farlo −, bisogna dire che la sola scusa che potrei trovare per tanti esiti più o meno felici sarebbe questa: ognuno se vuol costruire deve costruire con i mattoni che ha, o con i mattoni che ci sono, no?, e i mattoni erano spesso quelli. Vabbe’, io ho commesso errori, tipo quando Franco Crespi[139] voleva venire – è stato mio assistente – voleva venire a Roma, forse avrei potuto chiamare lui invece che chiamare altri, insomma. Avevo anche questa specie di tendenza − glielo posso dire, in vena di confidenza −, questa specie di convinzione, cioè una tendenza pratica che corrispondeva a una convinzione teorica: che il rinnovamento dell’università dovesse passare anche attraverso il rinnovamento delle persone dal punto di vista esistenziale, cioè bisognava chiamare persone appartenenti a famiglie che non avessero avuto né universitari, né contatti forti. Per esempio Marcello Santoloni.[140] Ecco, poi naturalmente adesso, se mi consente una confidenza, visto che siamo su questo piano, a volte mi prende il rimorso che forse gli ho dato una cosa per lui avvelenata, cioè l’ho costretto a uno stress costante. Perché? Perché la cattedra universitaria gli andava un po’ larga, ecco. Credo, credo. Perché questa è una grossa responsabilità, uno può rovinare una persona dando una possibilità a questa persona, un posto eccessivo. Eccessivo, così come anche per Antiochia, appena sono riuscito a farlo diventare aggregato, professore ordinario, in fondo, come Santoloni, beh, nel momento in cui questo succede, l’ultima cosa che Santoloni… era la prefazione di questo libro su Acciarito,[141] no?, tutti e due si danno al bere. Sa, la cosa che mi fa pensare spesso, molto, soprattutto nel caso di Santoloni, così, voleva venirmi a trovare, non avevo mai tempo. Non avevo mai tempo anche perché capivo che, sa, l’uomo era già partito alle dieci di mattina, spesso. Cos’è questo se non l’angoscia di non potercela fare, di non (riuscire), il peso di una posizione di eccessiva responsabilità? Anche il fatto che coloro che hanno un passato accademico già in famiglia, oppure in strutture di studi, eccetera, sono poi proprio coloro che possono vivere quella vita. La vita intellettuale, proprio questo è un errore che ho fatto, in alcuni casi. Un altro tipo, come Viola.[142] Sì, è un bel gesto perché rinnova il mondo accademico portando dentro i sottoproletari, d’accordo, si può fare; però, però il prezzo poi da pagare – per loro, parlo di loro – è fortissimo, perché delle due l’una: o si danno alla bottiglia o si danno alla rivoluzione. Eh, insomma, sì. Fu al di fuori delle coordinate del discorso scientifico, cioè della communis opinio scientifica, vero?, … Non perché si debba stare dentro, si può stare al di fuori ma non ignoranti, cioè conoscenti, cioè si può stare al di fuori essendo invitati a entrare dentro, questo è. Lì invece no. Questo è stato. Ma la scelta strategica era quella dell’approccio malthusiano, restrittivo, oppure approccio aperto. Io ho seguito per istinto, perché non credo nella restrizione del commercio, non credo nell’oligopolio e tanto meno nel monopolio, ho seguito la seconda. Devo anche dire che c’è un’altra ragione. La ragione è che ero talmente sicuro della mia influenza, del mio potere, del mio primato, da pensare di non aver bisogno di avere un mio piccolo gruppo. Sarebbe bastata sempre solo la mia presenza. E questo naturalmente è sbagliato. È un errore… Se vuole un’analogia un po’ grossolana, in Francia lei consideri i due, diciamo, schemi di comportamento di Bourdieu[143] da una parte e Touraine[144] dall’altra. Touraine, grande parlatore, d’accordo, più anziano, eccetera, niente, finisce col nulla: ha parlato, parlato a studenti, poi ha smesso, niente. E Bourdieu, invece, piccolo gruppo, molto coeso, chiesuola quasi, no?, una setta, molto (coesa)…, eccetera, però Collège de France, grosso riconoscimento. Un altro è anche Crozier[145] che ha il suo piccolo gruppo, eccetera, su un altro piano. Touraine mica stupido, Touraine. Ma Touraine ha pensato in fondo come ho pensato io, seppure in condizioni diverse, … − loro avevano già Durkheim alle spalle −, ha pensato che in fondo sarebbe bastato il suo nome. Non basta. Se vuoi costruire, e infatti poi l’ho imparata questa lezione e bene o male adesso abbiamo, attraverso «La Critica»,[146] abbiamo questo gruppetto di collaboratori abbastanza abituali e anzi adesso vorrei fare una riunione di redazione un po’, diciamo de «La Critica», e lo dico già da parecchio, bisogna che la facciamo. E debbo dire, ecco, se non altro, intorno a un tema, per esempio il qualitativo, si va coagulando un’interessante cosa. Il qualitativo che non esclude il quantitativo ma lo mette al suo posto, eh, questo va sempre detto. E chi lo sa che fra alcuni anni si possa anche arrivare ad avere… Certo che è andata molto male se io penso a tipi come Viola, fatti venir lì, per avere Viola ho dovuto lottare contro tutta la Facoltà. Intendiamoci, con quali risultati? Tipi come Marcello Santoloni, tipi come Antiochia, son perdite gravi, perché è tutta gente che poteva ancora essere lì oggi. Eh, niente. Sono perdite insostituibili, eccetera. Per esempio Statera, invece, lui segue lo schema leninista, proprio, nell’organizzazione. Lui fa un’organizzazione piramidale…, è vero? La cosa che naturalmente lo limita è che non ha, è un uomo, un uomo d’organizzazione, un capitano, non ha il gusto della vita intellettuale. Non ha un problema, cioè ha il problema di guadagnare, ce l’abbiamo tutti evidentemente, ma insomma lui lo mette al di sopra.
RC: Senta, a proposito di, in tutto questo quadro, sta un po’ in ombra quello che potrebbe essere stato l’apporto di matrice cattolica, per esempio. Allora, Sturzo ritorna da Londra, Sturzo primi anni Quaranta, anni Cinquanta.
FF: Mah, no, io…
RC: Penso anche al rapporto…
FF: Devo dire, devo dire, dato che non ragiono mai in termini di steccato ideologico, mi riesce persino difficile, però mi è capitato, per esempio, di avere i rapporti con lo stesso Ardigò,[147] abbastanza buoni, al tempo di Cerveteri. I cattolici in quel momento (…) erano molto minoritari, molto minoritari.
RC: Perché diceva Cerveteri? Al tempo della ricerca?
FF: Sì della ricerca Tra vecchio e nuovo.[148] E così. Tipi che però hanno chiesto il mio aiuto, io glielo ho dato, Gianfranco Morra, Morra.[149]
RC: Che è un filosofo in sostanza.
FF: Sì, però…
RC: Ha una sola…
FF: …quando parla di cose così. E per esempio un’altra persona, così, all’epoca ancora legata era qui alla Pro Deo, era proprio Crespi, Crespi, ecco. Poi sto pensando, Padre Rosa[150] per esempio, per Trento. No, io non ho mai (…) poi tutto il gruppo di San Fedele,[151] perché io nel Cinquantaquattro andai lì per Olivetti[152] contro Angelo Costa,[153] che era presidente della Confindustria all’epoca, a fare una terribile polemica, perché Olivetti aveva accusato gli industriali italiani di essersi mangiati i fondi ERP,[154] che erano i fondi per la ricostruzione, il Piano Marshall. Questo, figurati!, andò su tutte le furie, no?, perché la cosa era uscita sui giornali americani e Olivetti mandò me a difendere… E diventai molto amico dei gesuiti, così come qui a Villa Malta[155] avevo degli ottimi amici, padre Caldiroli[156] e altri. Poi anche Messineo[157] avevo incontrato all’epoca, per sindacati e questioni sociali. Messineo con Caldiroli faceva… Io avevo pubblicato Il dilemma dei sindacati americani.[158] Però debbo dire che in linea di massima io non ho mai, beh, politicamente io ho avuto una stagione molto vicina, non solo a Cesare Pavese che era l’ala laica della Einaudi, ma Felice Balbo[159] del mondo cattolico. Ma i miei contatti coi cattolici sono sempre stati contatti con individui cattolici, per la verità. Con grande interesse, avendone sempre dei grandi stimoli. Anzi, devo dire, nel caso di Felice Balbo, noi eravamo così diversi eppure ci trovavamo in una consonanza meravigliosa, e debbo dire che anche il recupero del vissuto come espressione della persona è in fondo, può essere concepito come un riflesso di posizione cattolica. Perché io parlo proprio della persona, e questo è indubbiamente, non solo, ma è proprio il senso della morte. Il pensiero laico (…) è aperto, cioè non ha il senso proprio preciso della finitudine. Non l’accetta. Entrerebbe in crisi se l’accettasse, no? Quindi ecco, io, per esempio, ero riuscito, riuscivo ad avere simultaneamente un colloquio aperto con Felice Balbo e sull’altra sponda un colloquio, anzi un colloquio aperto con Nicola Abbagnano. Nicola Abbagnano, diciamo il greco, no?, l’epicureo nel senso classico, il sereno, diciamo, μηδὲν ἄγαν,[160] ne quid nimis, sempre. Eh? E Balbo, invece, così, alla ricerca. C’era sempre ciò con cui non potevo legare: era il giurista formalista. Il giurista formalista, direi che se c’è un’antifigura, no?, è proprio quella. Perché per me il giurista formalista è la negazione della sociologia. Perché è la vittoria della istituzione formale codificata, rispetto alla fluidità del sociale, rispetto alla società civile, rispetto…
RC: Ecco vorrei per un attimo ritornare a Sturzo. Cioè, in sostanza il suo peso è stato trascurabile.
FF: No, no, io a Sturzo ho dedicato, nel manuale della ERI[161] che la ERI adesso ha sepolto, una larga sezione. (…) Sturzo per me era importante nel senso che (…) riscopriva sempre la società civile, cioè homo quam res publica senior: la persona viene prima dello Stato. E questo secondo me è, se si vuole, l’anarchismo intrinseco, rispetto allo Stato, del pensiero cattolico; e da questo punto di vista anche il tardo Sturzo con quelle sue terribili polemiche contro gli enti di Stato. Sturzo mica è stato capito in pieno.
RC: Sturzo non ha esercitato…
FF: Sturzo, secondo me, vabbe’, però quel libro La società. Sua natura e leggi,[162] è vero?, è un bel libro, nel metro sociologico è un buon libro. Io ho letto attentamente Sturzo. Credo di avergli dedicato qualche pagina in una nelle ultime edizioni del manuale della ERI: Sociologia. Storia – Concetti – Metodi. No, il fatto è che non solo a Sturzo, che poi aveva avuto una giovinezza, vero?, di militante di primordine, era un grosso organizzatore politico, perché aveva un’esperienza di gruppi sociali nel loro farsi; era a Caltagirone, molto, al livello comunale; a livello comunale era temibile; era un vero grosso politico, uno dei grossi politici.
RC: Cioè, in sostanza, perché non fa presa soprattutto per quanto concerne la sociologia, c’è anche nell’area cattolica un’avversione ideologica.
FF: Oggi come oggi non voglio dare giudizi. Ne ho già dati anche troppi in questa conversazione, soprattutto appunto parlando di Lettere. Questi qui, i crociani, post-crociani, eccetera, i calogeriani. Ma nessun dubbio che i cattolici di oggi, secondo me, soffrono di strani complessi di inferiorità, non hanno piena fiducia in se stessi, nelle loro radici, nelle loro… Per esempio, io sono, lei l’ha visto, nella Teologia per atei[163] ci sono interi capitoli, per Maritain stesso, insomma, ci sono interi capitoli che sono, che, che sono assenti nei sociologi. Ma perché? Perché secondo me essendo arrivati un po’ tardi, non hanno digerito quel momento egemonico americano o sistematico anche luhmanniano per esempio, che in fondo, sì, può dire delle cose interessanti ma non più di tanto. Perché io sono sempre stupito del (fatto che), per esempio viene a parlare Niklas Luhmann,[164] Niklas Luhmann è diventato una sorta di, cioè si passa prima da Harvard, poi Habermas, poi Luhmann, poi tutto, Parsons come scusa. Se tu leggi, se uno legge attentamente quel libro di Sturzo: La società. Sua natura e leggi, non voglio dire che ci sia il sistema sociale di Parsons ma c’è un senso storico e sistematico nello stesso tempo, direi quasi il sistema come contrazione, proprio, sintesi, vero?, del momento storico che sarebbe straordinariamente utile esplicitarlo, ma, strano, (…) non viene fatto, non viene. E non solo, ma anche l’esigenza, per esempio, del decentramento, l’esigenza della democrazia di base, l’esigenza dei gruppi sociali contro le istituzioni formali, in Sturzo è fortissima. Le sue prime pubblicazioni credo sono in difesa della libertà comunale. Le posso dire una cosa? C’è molta ignoranza. Purtroppo, forse siamo tutti troppo occupati; troppe riunioni, troppe lezioni e troppe ricerche, troppe faccende, sa. Io poi per esempio, lei prenda un uomo come Ardigò, che è un uomo certamente intelligente: eh, la cotta che sembra essersi presa per Niklas Luhmann, per me, non è concepibile, non è concepibile! Ma non è solo, lei pensi a Messedaglia,[165] pensi a tutti quei sociologi – non mi viene il nome, ma sono parecchi – che durante il fascismo, cioè la corrente, non è solo Toniolo,[166] ma la corrente, chiamiamola sociologica-cattolica, forse proprio in virtù del suo essere cattolica riuscì a sopravvivere, anche durante il fascismo; e non è stata una delle ultime cause di quella perenne fronda antifascista che animava l’Azione Cattolica. È sempre stata la riserva notevole, anzi, a volte notevole. Non lo so. Le debbo confessare che sono, è una domanda questa, per quanto mi riguarda, io credo, siccome non ho diciamo tabù, veti ideologici, per me il pensiero sociologico elaborato da cattolici ha eguale dignità, anzi spesso è più utile, prova ne siano i nomi, vero?, prova ne siano i nomi che ho citato. Ma quello che mi stupisce molto nei sociologi diciamo cattolici, di area cattolica italiani, è questo incredibile sbavare verso gli ultimi esiti, più recenti poi, esiti, vero?, della sociologia o americana o tedesca o francese; basta vedere anche un po’ «Studi di sociologia».[167] Ho una sola spiegazione, che non è di tipo scientifico, ma psicologico: che ci sia quasi il bisogno, attraverso questa sorta di avanguardismo, diciamo di ostensione di informazione, di far capire che si tratta sì di cattolici, ma non per questo di cattolici in sacrestia. Insomma, di cattolici aggiornati. E il fatto di essere cattolico non vuol dire in fondo, appunto, di essere fermi a Toniolo. Ma in questo modo però intanto si trascurano in fondo le proprie radici. Per esempio, che spiegazione dare del fatto che a un certo punto Ardigò, per esempio, esce anche lì nel discorso (…) sulla legge finanziaria e societaria, eccetera? Insomma, c’è questa, questa teoria dei sistemi,[168] eccetera, tra l’altro non sempre intesa correttamente. Io non posso dar la certezza, cioè, far vedere che: «Noi siamo cattolici, ma badate non siamo in sacrestia, siamo più in là» (…) Non, non può. Cioè una sorta di pudore per cui non si fa riferimento alla tradizione del pensiero sociologico cattolico, perché essendo cattolici bisogna dimostrare di conoscere anche il pensiero degli altri, essere cattolici più, un po’ come i cattolici marxisti, perché sono marxisti, eh, più hanno anche il Vangelo. Poi così: «Ci abbiamo una cosa in più». Cioè sono i marxisti col più. E loro sono cattolici, sono sociologi col più. Sono cattolici col più! Ma questa, può darsi che questa sia una spiegazione. Certo lei mi pone una domanda imbarazzante.
RC: No, perché vedo una strana coincidenza, cioè uno iato dopo gli anni ’10: trionfa il positivismo, però c’è il sopravanzare dell’idealismo romantico, interruzione dell’interesse sociologico come fatto diffuso.
FF: Certo.
RC: Lei parla di una continuità della sociologia soprattutto di stampo cattolico anche durante il fascismo, una…
FF: C’è, c’è. Anzi è la sola corrente che si salva. Perché il positivismo diventa mentalità media comune. No? Croce sbaraglia completamente le cose. E Gentile come ministro della Pubblica Istruzione. Non c’è più una catechesi. Oggi si dice essere di moda. C’è uno a Pisa, mi ricordo, Pogliano,[169] credo si chiami, un professore: «Ah, quelli che dicono che la sociologia è stata venduta agli idealisti, non è vero, perché in fondo il positivismo…». Sì, il positivismo è vero che è diventato, diciamo, mentalità comune, la gente è più fattuale, (…) è diventato costume. Oh, però, una cultura è fatta anche degli strumenti di questa cultura. Vai a vedere le cattedre: tutte soppresse, cacciate via, mancate, impedite. A un certo punto Croce e Gentile han dominato veramente la scena per quarant’anni, aiutati indirettamente dal fascismo, uno perché era fascista e l’altro perché antifascista. Però siccome non c’era altro, «La Critica»[170] diventava la grande rivista dove tu potevi prendere una boccata d’ossigeno. Tutto lì. Intere correnti di pensiero. Ora in tutto questo, questo panorama, i cattolici, il pensiero sociologico cattolico, secondo me, che aveva, aveva una sua, una sua extraterritorialità. Perché? Perché in fondo era un pensiero con radici storiche saldissime. Che però non è stato, a mio giudizio, non è stato sfruttato, non è … Bene o male i conti con chi son stati fatti? Io credo di averli fatti. Per questo la cattedra poi è stata data ed è stata data a me, perché c’è stata una battaglia culturale. Io a Croce, quando lui stroncò, il 15 gennaio 1949 nel «Corriere della sera», La teoria della classe agiata e accusò Veblen della più completa ottusità nel cogliere il carattere storico dei fatti, io risposi duramente nella «Rivista di filosofia» con due articoli e addirittura scrissi a «Critica economica»[171] diretta da Antonio Pesenti[172] – che è morto – scrissi una lettera, no?, con cui dicevo … Il direttore e poi un certo Vittorio Angiolini, che era il capo redattore, fecero una risposta a me, alla mia lettera che pur pubblicarono, dicendo: «Mah, ci dicono che costui sia il traduttore dell’opera. Ma come si permette questo» – non diceva proprio così, ma il, diciamo, senso era questo – «presuntuoso saputello?» Vero? Così, eh! Questi erano marxisti, erano d’accordo con Croce, contro (di me). Io, per carità, avevo vent’anni, quindi probabilmente non misuravo le parole, avevo mandato una lettera certamente dal tono arrogante, però la battaglia, cioè i conti son stati fatti, io ho cercato di farli, nel mio piccolo; e continuo a farli.[173] Adesso i conti bisogna farli con i quantitativisti, però dopo aver vinto quella battaglia, insomma. Ecco, io ho l’impressione che i sociologi cattolici, in Italia, non facciano il loro dovere, se si può parlare di un dovere in questi casi. Cioè non fanno né i conti critici con la loro tradizione, né l’accettano in blocco questa tradizione. Cosa fanno? La ignorano.
RC: Ardigò per esempio non cita mai Sturzo, nemmeno in chiave critica, come se non esistesse. Ecco perché dicevo c’è questo iato da prima degli anni Dieci e poi in sostanza dopo gli anni Cinquanta. Cioè, una presenza cattolica nel campo della sociologia comincia ad affacciarsi molto tardi, alla fine degli anni Sessanta, gli inizi degli anni Settanta. In precedenza, voglio dire, è come se non fosse esistito nulla,
FF: Non c’è dubbio.
RC: Nonostante la Cattolica di Milano, che pure aveva dei riferimenti di sociologia.
FF: Sono perfettamente d’accordo. Sono perfettamente d’accordo. È difficile dire.
RC: Cioè, mi domando: può essere stata una sorta di ipoteca filosofica rispetto allo sviluppo della sociologia a impedire che ci fosse un ruolo di peso, dei cattolici all’interno di,
FF: Certo.
RC: delle discipline di scienze sociali?
FF: Certo che nella prima commissione, nella commissione giudicatrice del primo concorso, del mio concorso, è vero?, lì di cattolici in senso pieno c’era Francesco Vito, il Rettore della Cattolica e presidente, per età, della commissione.
RC: Quale fu il suo atteggiamento?
FF: Vito, che io conoscevo, a parte l’economia, faceva un certo tipo di politica economica, economia politica, e per quanto concerneva proprio il pensiero sociologico non arrivava mai al piano critico della discussione. Era un bravo economista, informato, Francesco Vito, degno, vero?, ma più che mai un amministratore. E poi, no?, se uno pensa che c’è una rivista, ce ne sono altre due, con quella dello Sturzo,[174] eccetera… Devo anche dire che (…) io vedrei con grande favore una ripresa critica del pensiero di Sturzo, perché secondo me ci sono delle cose da imparare. Importanti. Ma non mi pare che andiamo in quella direzione. Cioè, poi, chi sono i sociologi diciamo cattolici oggi in Italia? Sono maggioranza; una volta erano minoranza, ma quando erano minoranza, stranamente, erano più visibili. Adesso così, per esempio Ardigò, gli altri sono passati, il gruppo di Bologna, [dicono cose da ridere]. Qui adesso c’è la LUISS,[175] non hanno più tanto. Tuttavia in sostanza i gruppi non contano per i numeri, vero?, per la quantità delle persone, eccetera, contano per le idee. Non vedo le idee. Non le vedo proprio. Per esempio consideri anche tutta questa crisi dello stato del benessere. Sa, in fondo Ardigò è molto preso dalla questione sanitaria, è chiaro, ma è una questione già applicativa, non lo so. (…) Per esempio, il modo con cui s’è buttato su questi ‘mondi vitali’,[176] secondo me, teoricamente non, insomma, io torno sempre alla mia idea: laici e cattolici, i sociologi in generale in questo paese studiano troppo poco, hanno prospettive limitate, scarsa originalità, ripetono. Molta di questa sociologia è derivativa. Derivativa. Sa, sempre in attesa di un profeta: o Parsons[177] o Lazarsfeld[178] o Habermas[179] o Luhmann.
RC: I francesi ci rimproverano di tradurre troppo.
FF: Sì, infatti, io sono…
RC: Loro esagerano per un altro verso però.
FF: No, no. Io credo, per esempio, che tra le due situazioni meglio forse la nostra. Però il fatto che si traduca, si butta sul mercato. È venuto a trovarmi un rappresentante de il Mulino l’altro giorno. Appunto, a getto continuo, questi testi, anche dei manuali, ma senza una riga di introduzione, di acclimatazione al nostro, ai nostri problemi. A me sembra incredibile. Ma come è possibile? Ma è una cosa incredibile! Persino quella di Berger,[180] di lui e della moglie,[181] così[182]. Ma come è possibile? Cioè, oltretutto vuol dire avere un certo disprezzo (…) Mi dispiace che questa chiacchierata è stata un po’ disordinata, però la pregherei di prendere quella recensione, quelle due prefazioni, più anche quella di, quella io gliela voglio dare, più anche quelle due che ci sono, tre del Max Weber e il destino della ragione,[183] quelle nuove edizioni. Quelli sono elementi molto personali. Io mi sfogo sempre nelle prefazioni, è una vecchia abitudine.
RC: No, comunque, eh, sicuramente questa chiacchierata servirà per questo saggio che devo preparare per i rapporti tra filosofia e sociologia[184] in Italia, però, però penso di utilizzarla poi anche in vista di questo volume.
FF: Certo. Certo. Ma in generale, no? E poi, sì, proprio, quando poi si tratta dei rapporti in senso stretto tra sociologia e filosofia ci son molte cose da dire e bisogna interrogarsi su quale filosofia dava un minimo di apertura alla sociologia. La caduta, a Lettere, di sociologia è tutto sommato – forse appare scandaloso (…) ma è anche molto coerente. Con un tipo di filosofia neo-crociana, o impostazione, oppure puramente storico-evolutiva come (quella di) Gregory, non c’è dubbio che la sociologia è un bruscolo nell’occhio, non è tollerabile.
RC: Però voglio dire, un uomo come Calogero, sostenitore della filosofia del dialogo, voglio dire che il suo atteggiamento antisociologico era una negazione del suo stesso pensiero, tutto sommato.
FF: In un certo senso sì, però, però è anche una concorrenza del suo pensiero.
RC: Sì, il dialogo. Poi allora dice: «Il dialogo lo dico io come va fatto».
FF: Questo è molto, e poi devo anche dire, ci sono appunto, anche lì, io sono colpito degli stereotipi che continuano a vagare, no?, come rari nantes in gurgite vasto che (non) sono legati a nulla delle immagini della sociologia. Quando un uomo come il buon Spirito diceva, buonanima, «La sociologia non può esistere». Vabbe’, che cosa aveva in mente? Questo è un po’… E così, anche, se mi è permesso, Calogero, anche Gregory e così anche gli altri. Cioè, io, per carità, non voglio mica dire che la gente sia costretta a leggere sociologia − che oltretutto i sociologi scrivono male −, però, quel tanto di umiltà per informarsi sulle cose che si criticano, no?, anzi sulle cose di cui si nega l’esistenza mi sembra…
RC: Però c’è anche questo, in sostanza c’è stato un decennio, forse due, durante i quali la sociologia è stata in buona misura gestita da filosofi. Per esempio, uno come Felice Battaglia,[185] chi era?
FF: Ah no, ma Battaglia per la verità io lo ricordo molto bene. All’epoca però non è che avesse avuto mai una forte influenza. La sola persona che ha avuto influenza forte, perché è stato un preside di tipo organizzativo oltretutto, è stato Treves, che però fungeva da vice di Bobbio. Questa è stata, è una cosa cui ancora sto pensando. Cioè, è stata una manovra elegante di cooptazione. Il pensiero crociano più avanzato, riconosciuta la legittimità di queste scienze di osservazione, si è preoccupato affinché l’osservazione avvenisse secondo determinate regole, che dettero certi altri (risultati). Questo è.
RC: Però, voglio dire, Battaglia è uno che ha gestito l’Istituto Sturzo per molti anni, per esempio.
RC: No, no. Battaglia era, secondo me, io ricordo, con molto, molto interesse questa sua filosofia del lavoro, le sue cose, anche questo volume…[186] Però Battaglia, Bologna, Rettore, eccetera, sì, ma poi il momento più alto fu quando rischiò di essere ministro della Pubblica Istruzione. Lo mandarono a cercare. Lui partì da Bologna convinto di essere ministro e arrivò a Roma e non lo era più. Capito lo scherzo un po’ da prete che gli han fatto? Comunque poi subito dopo morì. Battaglia, però, così come lo posso io ricordare, non, non aveva, non ha mai avuto una, un vero impact filosofico-concettuale. Era, questo volume, di cui io ricordo molto bene per aver letto attentamente, era però un catalogo ragionato delle varie concezioni del lavoro. Questo era, non c’è un pensiero filosofico. Il pensiero robusto non c’era. Io devo dire una cosa: non capisco bene l’Istituto Sturzo. Invece di fare tutte queste cose benemerite che fa, oltretutto molto importanti, ma non si dà da, un po’ da fare per conoscere di più Sturzo.
RC: Ma lo ha fatto sul versante storico.
FF: Beh, no. Ma Sturzo, Sturzo è un sociologo. Per esempio, un convegno, beh sì, ma l’attualità della sociologia di Sturzo. Si vadano a prendere i libri e si legga e lì c’è cosa leggere e si vede cosa è applicabile oggi. Voglio vedere. Io parlo di società policentrica. Parlo contro l’equazione tra pubblico e statale, lì c’è tutto. E non è un caso che uno che nasce alla politica sul piano locale è un prete, nasce sul piano locale. Un grosso personaggio. Sa, c’è Franco Rizzo[187] da noi, che è matto, però, abbiamo, però m’ha detto delle cose. Abbiamo discusso anni e anni fa, mi riferisco a molti anni fa, quando io ero deputato e lui era al seguito di Fiorentino Sullo[188] e lui aveva, si era un po’ interessato, in maniera un po’ autodidattica. No, insomma, chi sono i grandi sociologi – laici più o meno lo sappiamo – i grandi sociologi della tradizione cattolica in Italia chi sono? In Italia? Lasciamo stare, non so, i belgi, (…) i francesi, potremmo citare Leclercq,[189] altri, che so? Ma i sociologi cattolici, proprio, in Italia: uno, c’è monsignor Olgiati,[190] vabbe’, è più un educatore, poi non è più filosofo; c’è, certo Toniolo; poi bisognerebbe scavare in tutti questi, Messedaglia, mi sembra, (…) Igino Petrone,[191] un altro importante, Petrone. Ma non si capisce mai bene: spesso sono medici, altre volte sono biologi, no?, così. Sturzo secondo me resta l’unico nome. Tra l’altro poi, questi, questi rinnegamenti della propria tradizione secondo me sono proprio, si mutano in veleno, sa (…) indeboliscono moltissimo. Infatti, secondo me, una volta era minoranza sparuta, la pattuglia dei cattolici. Adesso invece è molto cresciuta di numero, ma non di peso. Numero, sì, possono avere delle cattedre. Comunque, questa, questa è una questione aperta per tutti i sociologi, non solo per i cattolici. È la perdita della propria coscienza storica. Questo è, io lo vedo, lo vedo per i cattolici e lo vedo anche però per, lo vedo molto duramente, con preoccupazione crescente anche per i cosiddetti laici; lo vedo per i sociologi in generale. Cioè, il fatto cattolico, seconde me, non è che una fattispecie confermante, è vero? (…) E questo perché non si ritiene più o non si ritiene affatto che i concetti di cui si serve la sociologia siano concetti storici, cioè storicamente maturati. C’è ormai, (…) indubbiamente, c’è una grossa crisi dello storicismo, anzi lo storicismo è finito, siamo entrati nell’età sincronica. La sistematica, l’impostazione sistemica aiuta a capire le interdipendenze funzionali fra le diverse variabili. È tutto sullo stesso piano, quindi un enorme presente, non c’è più passato. Va bene. Questo può essere comodo, ma non è vero, perché noi, anche per capire questa interdipendenza funzionale, abbiamo bisogno di… E poi c’è un problema d’identità perché, o si cancella tutto, (…) ma gli stessi problemi poi emergono solo storicamente, sono significativi in base al retroterra storico… Da che cosa è derivato questo? Secondo me è derivato da un fatto solo: che, se tu fai valere la tua coscienza storica, sei costretto a fare certe ricerche ma a rifiutarne altre. Se tu vuoi fare tutte le ricerche che ti dà il mercato, allora tu riconosci nel mercato il solo fondamento storico e giustificativo di quello che fai. Allora tu fai, c’è la crisi della sanità, la riforma della sanità, e fai la sociologia sanitaria; c’è la crisi delle banche, fai la sociologia bancaria; c’è la crisi della pubblica amministrazione, fai la…; c’è la crisi dei partiti e fai la sociologia dei partiti. Cioè, non è più un disegno. Io rimprovero oggi ai cattolici, ma anche ai laici, ai sociologi in generale, rimprovero la mancanza di un disegno. Ma il disegno, tuo, autonomo, può venirti solo da una considerazione critica delle tue radici, delle tue basi di partenza. Hanno venduto questo loro diritto fondamentale per un piatto di lenticchie. Magari invece che un piatto di lenticchie ci sarà anche, che so io, l’antipasto, il secondo piatto, non lo so, non mi interessa la quantità. Il fatto è che questo è. Io dal tempo de La sociologia alternativa[192] – chiaramente era un libro polemico, per certi aspetti anche sbagliato – debbo però dire che ancor oggi in America, qui, ovunque, siccome la nostra disciplina è una scienza d’osservazione che ha una valenza teorica, ma anche una valenza pratica organizzativa che costa, quindi è una scienza per svilupparsi e per svilupparsi ha bisogno di soldi, eccetera. A un certo punto il finanziamento diventa la struttura teoretica portante! E beh, accidenti, allora! Purtroppo, lei lo sa, lì c’è l’università che dovrebbe garantire, che dovrebbe garantire un finanziamento libero, in modo da non essere condizionati.
[1]Intervista di Roberto Cipriani a Franco Ferrarotti su filosofia e sociologia (Roma, 13 febbraio 1986). Trascrizione di Stefano Delli Poggi.
[2] Thorstein Veblen (1857-1929), economista e sociologo statunitense.
[3] Introduzione, prefazione e cura di Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata, Torino, UTET, 1949 (ed. or., The Theory of Leisure Class, London, Allen & Unwin, 1924).
[4] Benedetto Croce (1866-1952), filosofo e storico.
[5] Giovanni Gentile (1875-1944), filosofo.
[6] Arrigo Bordin (1898-1963), economista.
[7] Francesco Forte (1929-), economista e politico.
[8] Alfredo Niceforo (1876-1960), statistico e criminologo.
[9] Enrico Ferri (1856-1929), criminologo e politico.
[10] Scipio Sighele (1868-1913), criminologo e psicologo.
[11] Franco Rodolfo Savorgnan (1879-1963), statistico e demografo.
[12] Rodolfo Benini (1862-1956), statistico ed economista.
[13] Alessandro Groppali (1874-1959), filosofo e sociologo, autore di Alessandro Groppali, Elementi di sociologia, Genova, Libreria Moderna, 1905.
[14] Nicola Abbagnano (1901-1990), filosofo.
[15] Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, storico e politico.
[16] Augusto Guzzo (1894-1986), filosofo.
[17] Alessandro Pizzorno (1924-), sociologo.
[18] Antonio Aliotta (1881-1964), filosofo.
[19] Giuseppe Rensi (1871-1941), filosofo.
[20] Torino, Paravia, 1939.
[21] Nicola Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero, Genova-Napoli-Firenze-Città di Castello, Società Anonima Editrice Francesco Perrella, 1923.
[22] Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco.
[23] Gabriel-Honoré Marcel (1889-1973), filosofo francese.
[24] Louis Lavelle (1883-1951), filosofo francese.
[25] Paris, Aubier, 1936.
[26] Soren Kierkegaard (1813-1855), filosofo danese.
[27] Soren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Milano, Bocca, 1941; Milano, Sansoni, 1966 (ed. or., 1844).
[28] György Lukács (1885-1971), filosofo ungherese.
[29] Rensis Lickert (1903-1981), psicologo statunitense.
[30] William Lloyd Warner (1898-1970), sociologo e antropologo statunitense.
[31] Samuel A. Stouffer (1900-1960), sociologo statunitense.
[32] Samuel A. Stouffer, Edward A. Suchman, Leland C. DeVinney, Shirley A. Star, Robin M. Williams, Jr., Studies in Social Psychology in World War II, vol. I, The American Soldier: Adjustment during Army Life, Princeton, Princeton University Press, 1949. Samuel A. Stouffer, Arthur A. Lumsdaine, Marion Harper Lumsdaine, Robin M. Williams, Jr., M. Brewster Smith, Irving L. Janis, Shirley A. Star, Leonard S. Cottrell, Jr., Studies in Social Psychology in World War II, vol. II, The American Soldier: Combat and Its Aftermath, Princeton, Princeton University Press, 1949.
[33] Jean-Paul Sartre (1905-1980), filosofo francese.
[34] Società Autonoma Torinese Tranvie Intercomunali.
[35] René Descartes (1596-1650), filosofo e matematico francese.
[36] René Descartes, Discorso sul metodo, Napoli, Loffredo, 1937 (ed. or., 1637).
[37] Edmund Husserl (1859-1938, filosofo tedesco); cfr. Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, Roma, Armando, 1999 (ed. or., 1931).
[38] Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), filosofo tedesco.
[39] Franco Ferrarotti, La protesta operaia, Milano, Comunità, 1955.
[40] Paolo Spriano (1925-1988), storico.
[41] Franco Rodano (1920-1983), filosofo e politico.
[42] Enrico Pozzi (1946-), sociologo e psicoanalista.
[43] Alessandro Portelli (1942-), storico ed anglista.
[44] Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni, 1830-1985, Torino, Einaudi, 1985.
[45] Centro per l’Educazione degli Assistenti Sociali, fondato nel 1946 e trasformato nel 1966 in Scuola Speciale di Assistenza Sociale e Ricerca per le Scienze Morali e Sociali e poi nel 1971 in Scuola diretta a fini speciali nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
[46] Guido de Ruggiero (1888-1948), filosofo.
[47] Luigi Pirandello (1867-1936), scrittore e drammaturgo, premio Nobel per la letteratura nel 1934.
[48] Antonio Labriola (1843-1904), filosofo.
[49] Franco Lombardi (1906-1989), filosofo.
[50] Filippo Barbano (1922-2011), sociologo.
[51] Camillo Pellizzi (1896-1979), saggista e sociologo.
[52] Francesco Vito (1902-1968), economista.
[53] Renato Treves (1907-1992), filosofo e sociologo.
[54] Angelo Pagani (1918-1972), sociologo.
[55] Natalia Ginzburg (1916-1991), scrittrice.
[56] Cesare Pavese (1908-1950), scrittore.
[57] Torino, Taylor.
[58] Nel 1978 dopo un incendio in Grecia in effetti è stata messa in disarmo. Dal 1927 al 1937 era stata usata dalle Matson Lines con il nome di Malolo, cambiato poi in Matsonia nel 1937. Acquistata dalle Home Lines nel 1948 era stata ridenominata Atlantic. Nel 1954 era passata alla National Hellenic American Line (collegata alle Home Lines) ed intitolata Queen Federica. Era stata acquistata dalle Chandris Lines greche nel 1965. Ormeggiata nel fiume Dart all’inizio degli anni Settanta, era stata noleggiata nel 1973 dalle Sun Cruises.
[59] Alessandro Cavalli (1939-), sociologo.
[60] Luciano Gallino (1927-), sociologo.
[61] Francesco Piccolo (1892-1970), filologo romanzo.
[62] Paolo Filiasi Carcano (1911-1977), filosofo.
[63] Pietro Prini (1915-2008), filosofo.
[64] Giorgio Petrocchi (1921-1989), critico, filologo e storico della letteratura italiana.
[65] Gaetano Mariani (1923-1983), critico e storico della letteratura italiana.
[66] Umberto Bosco (1900-1987), critico, filologo e storico della letteratura italiana.
[67] Luigi Volpicelli (1900-1983), pedagogista.
[68] Giuseppe Caraci (1893-1971), geografo.
[69] Enzo Vincenzo Marmorale (1907-2000), latinista.
[70] Corrado Antiochia (1914-1999), sociologo.
[71] Martino Ancona (1923-1992), sociologo.
[72] Si allude qui al fatto che Antiochia non divenne ordinario.
[73] Istituto Mobiliare Italiano, ente di diritto pubblico per il credito industriale.
[74] Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), sindacalista della Confederazione Generale Italiana del Lavoro.
[75] Renato Bitossi (1899-1969), sindacalista della Confederazione Generale Italiana del Lavoro.
[76] Gianni Statera (1943-1999), sociologo.
[77] Gaetano Floridi, originario di Guarcino (Frosinone), direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione.
[78] Sergio Cotta (1920-2007), filosofo.
[79] Norberto Bobbio (1909-2004), filosofo.
[80] Cesare Musatti (1897-1989), psicologo e psicoanalista.
[81] Agostino Gemelli (1878-1959), religioso francescano, medico e psicologo.
[82] Franco Ferrarotti, Macchina e uomo nella societàindustriale, Torino, ERI, 1963.
[83] Trasmissione radiofonica settimanale iniziata il 25 aprile 1946 e proseguita fino al 31 ottobre 1990.
[84] Via Appennini 42, a Roma.
[85] Nicola Abbagnano, Storia della filosofica, Torino, UTET, 1946; 1948; 1950; 1963.
[86] Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1961.
[87] Affoganti, cioè affossatori.
[88] Fondato a Milano nel 1948 da Adolfo Beria di Argentine (1920-2000), giurista, magistrato e giornalista.
[89] Associazione Italiana di Scienze Sociali, fondata a Bologna nel 1957 ed attraversata da alterne vicende fino a quando nel 1971 un tentativo di ricostituzione fallì per una contestazione da parte dei sociologi più giovani. Il 5 aprile 1982 nacque l’Associazione Italiana di Sociologia.
[90] Palmiro Togliatti (1893-1964), politico.
[91] Rodrigo di Castiglia, conte di Castiglia (pseudonimo usato da Palmiro Togliatti sulla rivista «Rinascita»).
[92] Norberto Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955.
[93] Raffaele D’Addario (1899-1974), statistico.
[94] Salvatore Valitutti (1907-1992), politico e docente di Dottrina dello Stato.
[95] Carlo Mongardini (1938-), sociologo.
[96] Giuseppe Medici (1907-2000), economista e politico.
[97] Aldo Moro (1916-1978), politico e docente di Diritto e procedura penale.
[98] Carlo Marzano, ragioniere generale dello Stato dal 1956 al 1967.
[99] Mario Toscano (1908-1968), storico e diplomatico.
[100] Franco Valsecchi (1903-1991), storico.
[101] Vittorio Somenzi (1918-2003), filosofo.
[102] Gaetano Calabrò (1926-), filosofo.
[103] Ugo Spirito (1996-1979), filosofo.
[104] Carlo Antoni (1896-1959), filosofo e storico.
[105] Riccardo Lombardi (1901-1984), politico.
[106] Franco Ferrarotti, Sociologia e realtàsociale, Roma, Opere nuove, 1958.
[107] Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), critico e storico dell’arte.
[108] Mensile di cultura, società e politica, pubblicato dal gennaio 1957 al maggio-giugno 1958, per un totale di 15 numeri.
[109] Guido Calogero (1904-1986), filosofo.
[110] Gennaro Sasso (1928-), filosofo.
[111] Raffaello Morghen (1896-1983), storico.
[112] Francesco Gabrieli (1904-1996), arabista.
[113] Santo Mazzarino (1916-1987), storico.
[114] Lucio Colletti (1924-2001), filosofo.
[115] «Rassegna Italiana di Sociologia», fondata da Camillo Pellizzi nel 1960.
[116] Marcello Boldrini (1890-1966), statistico.
[117] Ente Nazionale Idrocarburi, nato nel 1953 e presieduto da Enrico Mattei (1906-1962), imprenditore.
[118] Francesco Alberoni (1929-), sociologo.
[119] Beniamino Andreatta (1928-2007), economista e politico.
[120] Fondata nel 1881 da Ruggero Bonghi, soppressa nel 1936, ripresa da Guido Calogero nel 1963 e diretta da Gennaro Sasso dal 1987.
[121] Gianni Statera, La conoscenza sociologica. Aspetti e problemi, Napoli, Liguori, 1970; edizione ampliata, La conoscenza sociologica. Problemi e metodo, Napoli, Liguori, 1974.
[122] Simonetta Piccone Stella (1935-), sociologa.
[123] Francesco De Domenico (1943-), sociologo e dirigente RAI.
[124] Achille Pacitti (1940-), sociologo.
[125] Vittorio Statera (1909-1987), giornalista e collaboratore del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
[126] Gianni Statera, Logica, linguaggio e sociologia. Studio su Otto Neurath e il neopositivismo, Torino, Taylor, 1967.
[127] Franco Bianco (1932-2006), filosofo.
[128] Vittorio Lanternari (1918-2010), etnologo.
[129] Tullio Tentori (1920-2003), antropologo culturale.
[130] Gérard Lütte (1929-), psicologo.
[131] Rosario Romeo (1924-1987), storico.
[132] Tullio Gregory (1929-), filosofo.
[133] Nicolao Merker (1931-), filosofo.
[134] Aldo Visalberghi (1919-2007), pedagogista.
[135] John Dewey (1859-1952); cfr. John Dewey, Logic: the Theory of Inquiry, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1938; trad. it., Logica, teoria dell’indagine, Torino, Einaudi, 1949.
[136] Individuazione e Assistenza Ragazzi Dotati, associazione nata a Milano nel 1961.
[137] Sabino Samele Acquaviva (1927-), sociologo.
[138] Alberto Izzo (1933-2014), sociologo.
[139] Franco Crespi (1930-), sociologo.
[140] Marcello Santoloni (1934-1985), sociologo.
[141] Pietro Acciarito (1871-1943), anarchico che tentò di pugnalare Umberto I il 22 aprile 1897 a Napoli e fu condannato all’ergastolo.
[142] Filippo Viola (1933-), sociologo.
[143] Pierre Bourdieu (1930-2002), sociologo.
[144] Alain Touraine (1925-), sociologo.
[145] Michel Crozier (1922-2013), sociologo.
[146] «La critica sociologica», fondata da Franco Ferrarotti nel 1967.
[147] Achille Ardigò (1921-2008), sociologo.
[148] Achille Ardigò, Cerveteri tra vecchio e nuovo: note sui cambiamenti di struttura sociale in un comune rurale arretrato nei primi anni della riforma fondiaria, Bologna, Centro Studi Sociali e Amministrativi, 1958.
[149] Gianfranco Morra (1930-), sociologo.
[150] Padre Luigi Rosa (1920-1980), gesuita e fautore della fondazione della Libera Università di Trento.
[151] Centro Studi Sociali di Milano, noto come ‘Centro Culturale San Fedele’ e ‘Fondazione Culturale San Fedele’ della Comunità Gesuiti, che pubblica la rivista «Aggiornamenti Sociali», nata nel 1950.
[152] Adriano Olivetti (1901-1960), imprenditore.
[153] Angelo Costa (1901-1976), imprenditore.
[154] European Ricovery Program, che prevedeva un finanziamento di oltre 17 miliardi di dollari statunitensi in 4 anni.
[155] A Roma, in via di Porta Pinciana 1, sede della rivista dei gesuiti «La Civiltà Cattolica», fondata a Napoli nel 1850.
[156] Padre Luciano Caldiroli (1916-), gesuita.
[157] Padre Antonio Messineo (1897-1978), gesuita.
[158] Franco Ferrarotti, Il dilemma dei sindacati americani, Milano, Comunità, 1954; edizione ampliata, Sindacati e potere negli Stati Uniti d’America, Milano, Comunità, 1961.
[159] Felice Balbo (1914-1964), filosofo e scrittore.
[160] Medèn ágan: niente di troppo.
[161] Franco Ferrarotti, La sociologia. Storia – Concetti – Metodi, Torino, ERI, 1961.
[162] Luigi Sturzo, La società. Sua natura e leggi. Sociologia storicista, originale in lingua francese, 1935; prima serie, vol. I, in Opera Omnia, Milano-Bergamo, Atlas, 1949; prima serie, opere, vol. 3, in Opera omnia di Luigi Sturzo,Bologna, Zanichelli, 1960.
[163] Franco Ferrarotti, Una teologia per atei. La religione perenne, Roma-Bari, Laterza, 1983.
[164] Niklas Luhmann (1927-1998), sociologo tedesco.
[165] Angelo Messedaglia (1876-1960), statistico e sociologo.
[166] Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo.
[167] Rivista fondata nel 1962 e pubblicata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
[168] Il riferimento è alla teoria luhmanniana.
[169] Claudio Pogliano (1953-), storico. Il riferimento è al suo capitolo, il 23, Claudio Pogliano, Nuovi temi e interpretazioni del positivismo, in Il positivismo nella cultura italiana tra Otto e Novecento, a cura di Emilio R. Papa, Milano, Franco Angeli, 1985, prefazione di Norberto Bobbio e saggi, tra gli altri, di Filippo Barbano, Luciano Gallino, Giorgio Sola, Renato Treves.
[170] Rivista di letteratura, storia e filosofia, fondata nel 1903 e diretta da Benedetto Croce fino al 1944 (Giovanni Gentile ne fu condirettore fino al 1923).
[171] Fondata da Antonio Pesenti nel 1945.
[172] Antonio Pesenti (1910-1973), economista e politico.
[173] Per una rivisitazione più recente della questione si rinvia a Tiziana Foresti, Ancora sulla Teoria della classe agiata di Thorstein B. Veblen: intervista a Franco Ferrarotti sul dibattito italiano del 1949, «Studi e Note di Economia», XVI, 2, 2011, pp. 273-281.
[174] Fondato a Roma nel 1951.
[175] Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, già nota come ‘Pro Deo’ (fondata da Padre Andrew Félix Morlion, domenicano belga, 1904-1987), a Roma.
[176] Achille Ardigò, Crisi di governabilitàe mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980.
[177] Talcott Parsons (1902-1979), sociologo statunitense.
[178] Paul Felix Lazarsfeld (1901-1976), sociologo statunitense.
[179] Jürgen Habermas (1929-), filosofo e sociologo tedesco.
[180] Peter L. Berger (1929-), sociologo statunitense.
[181] Brigitte Berger.
[182] Peter L. Berger, Brigitte Berger, Sociology. A Biographical Approach, New York, Basic Books, 1972; trad. it., Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, Bologna, il Mulino, 1977.
[183] Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Roma-Bari, Laterza, 1965; 1968; 1985.
[184] Roberto Cipriani, Dalla filosofia alla sociologia, in Dova va la sociologia oggi? Studi in onore di Gianfranco Morra, a cura di Leonardo Allodi, Siena, Cantagalli, 2010, pp. 135-145.
[185] Felice Battaglia (1902-1977), filosofo.
[186] Felice Battaglia, Filosofia del lavoro, Bologna, Zuffi, 1951.
[187] Francesco Saverio Rizzo (1927-2011), sociologo.
[188] Fiorentino Sullo (1921-2000), politico.
[189] Jacques Leclercq (1891-1971), filosofo e sociologo belga.
[190] Francesco Olgiati (1902-1964), filosofo.
[191] Igino Petrone (1870-1943), filosofo e giurista.
[192] Franco Ferrarotti, Una sociologia alternativa: dalla sociologia come tecnica del conformismo alla sociologia critica, Bari, De Donato, 1972.