“La preghiera come religione diffusa”, in Terrin (a cura), Preghiera e rito, Messaggero-Abbazia di Santa Giustina, Padova, 2015, pp. 123-53.

di Roberto Cipriani


Premessa


A ben considerare, quella che da tempo è stata definita come religione diffusa (Cipriani, 1983, 1984, 1988, 1992, 2001), cioè come set di valori, pratiche, credenze, simboli, atteggiamenti e comportamenti non del tutto conformi al modello ufficiale della religione-di-chiesa, quasi corrisponde o almeno corrisponde in buona misura ad una parte significativa della società civile. Non si sovrappone perfettamente a quest’ultima ma certamente ne costituisce una quota statisticamente rilevante. In altri termini la religione diffusa abbraccerebbe un ampio ambito della società civile e ne rappresenterebbe il trend principale in chiave di orientamento, almeno nei riguardi della chiesa (o delle chiese). Non tutta la società civile, quindi, collima con il modello della religione diffusa, in quanto essa comprende anche la religione-di-chiesa come pure la dimensione dell’ateismo, dell’indifferenza, dell’agnosticismo. Intanto però la religione diffusa sembra interpretare le istanze portanti ed importanti come peso esercitato all’interno dell’intera società.


In particolare la religione diffusa va comunque distinta dalla religione civile. In essa non si tratta di recuperare la vecchia idea di Rousseau (1712-1778) nel Contratto sociale (cap. VIII, libro IV) o quella più recente di Bellah (1967). Né l’una né l’altra si adattano al caso italiano. Il contesto della prima era settecentesco e pedagogico-filosofico, quello della seconda – pur sociologico – è tuttavia riferito al territorio statunitense con caratteristiche per nulla rinvenibili sulla penisola italica (dal concetto di popolo eletto a quello di centralità dei testi biblici). Soprattutto non è legittimo sostituire la stessa idea di religione a quella di società. Un conto è la religione un altro conto è la società, almeno sul piano dell’analisi sociologica. Insomma non è equiparabile la religione civile alla società civile, perché sono due elementi a parte. Semmai si può parlare di una religione diffusa all’interno della società civile ed eventualmente di una religione civile (da definire di volta in volta) all’interno della società civile.


D’altro canto il ruolo della religione diffusa è precipuamente di auto-difesa dei credenti non allineati, non sintonizzati sulla lunghezza d’onda del magistero ecclesiale e delle direttive della gerarchia ecclesiastica. Ovviamente non è da trascurare un effetto non voluto derivante da una religione diffusa particolarmente orientata a contestare o trascurare i dettami magisteriali: una qualche propensione ad una individualizzazione accentuata del pensare e dell’agire così da allentare anche la tensione in chiave di società civile e di partecipazione attiva alla cittadinanza politica e sociale. Tale allentamento può anche essere una premessa per ulteriori andamenti, tali da favorire esiti autoritari, dovuti all’assenza di interessi di natura pubblica e comunitaria.


Le vicende politiche italiane, che hanno portato alla nascita del partito della Lega Nord e di quelli di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi, ma altresì di quelli non a caso detti dell’Italia dei Valori o di Scelta Civica, ne sono un indicatore significativo. 


Invero però la religione diffusa è anche un luogo di dibattito, realizzabile fuori dell’egida ecclesiastica, in grado di promuovere relazioni amicali, creare e sviluppare opinione pubblica, difendere i diritti umani e civici, rispettare la pluralità delle posizioni ideologiche.


La religione diffusa è anche parte della società religiosa che si confronta con la società politica (sia statale che partitica e sindacale) e dunque è tenuta a tenere conto di interlocutori diversi, sia all’interno del suo riferimento confessionale sia all’esterno (stato, partiti e sindacati).


Se si può dare per scontato che società civile e società politica siano intimamente correlate e reciprocamente funzionali, altrettanto è possibile dire della stessa religione diffusa che sia pure indirettamente arriva a legittimare la struttura religiosa che le fa da scenario. Insomma l’intreccio è inestricabile: la religione diffusa supporta comunque la chiesa ed entrambe insieme fanno da sostegno alla società civile di cui sono parte non trascurabile. Anche l’azione del singolo soggetto ha un carattere adiuvante perché il suo rispetto delle regole in vigore arriva a rafforzare lo statu quo vigente. La sua coscienza di credente e di cittadino non viene meno neanche di fronte a situazioni drammatiche ed anzi è proprio a fronte di queste ultime che emerge una fedeltà di fondo, che arriva a giustificare od almeno a non sanzionare anche fatti non del tutto consoni ai ruoli ricoperti ed alle responsabilità di natura religiosa o politico-statale.


Diversamente dalla religione-di-chiesa la religione diffusa non dà luogo, in linea di massima e di per sé, a forme associative che possano preludere ad ulteriori impegni a livello di società civile. Ma è indubbio che essa costituisce uno spazio privilegiato ed adeguato per riflessioni critiche ad ampio raggio riguardanti lo stato e la politica e tutta la società civile nel suo complesso. Quest’ultima trova anzi nella stessa religione diffusa una leva importante per opporsi allo Stato, in quanto appunto la religione diffusa è una sorta di palestra che abitua allo spirito libero, alle osservazioni di merito, alle analisi dettagliate, alle disamine attente.


Il tutto avviene a prescindere, di solito, da ordini di scuderia e pertanto in forma tendenzialmente aperta, non soggetta a linee precostituite. I valori religiosi di fondo permangono ma non diventano condizionanti ed esclusivi. Semmai una difficoltà è data dalla mancanza di luoghi e tempi deputati per l’esercizio del pubblico dibattito, per cui ci si deve sovente accontentare del dialogo estemporaneo in un bar, in un salotto, in un ambito convegnistico che è passeggero e frequentato da partecipanti che si incontrano di rado e quindi difficilmente riescono a muoversi congiuntamente per un’azione sociale rilevante all’interno della società civile.


Il ruolo della preghiera e la religione diffusa


Sin dalle origini della sociologia religiosa o, meglio, della sociologia della religione come scienza autonoma e deconfessionalizzata si era posto il problema relativo all’individuazione di indicatori adeguati del fenomeno religioso e delle sue esperienze individuali e collettive. In un primo momento si era pensato che la pratica rituale a scadenza settimanale potesse essere un parametro di riferimento affidabile, in quanto comportamento visibile e controllabile nelle sue dimensioni reali. Così si erano privilegiate nei questionari le domande aventi come obiettivo l’accertamento – attraverso le risposte dell’intervistato – della numerosità della frequenza da parte sua ai riti ufficiali organizzati dalla struttura religiosa di appartenenza. Poi però si sono avanzati dubbi sull’affidabilità dei dati raccolti, più fondati sulle affermazioni estemporanee degli interpellati che su una pratica reale, empiricamente verificabile. Soprattutto si è scoperto che l’andare a messa o prendere parte ad una qualsiasi altra forma di culto poteva avere motivazioni anche non necessariamente e strettamente religiose, per cui si è pensato ad altre soluzioni euristiche, al fine di accertare la portata di una credenza e quella della pratica ad essa correlata. Sono cominciate allora le prime indagini a carattere qualitativo, tendenti a far esprimere più liberamente gli intervistati, lasciando loro campo libero nel modo di organizzare l’andamento del discorso, la narrazione delle proprie esperienze, la definizione del proprio sentire religioso. Così nuove realtà sono emerse, altri dati sono risultati più evidenti, ulteriori interpretazioni si sono affacciate sulla scena della sociologia della religione. E più che l’osservanza festiva ha preso corpo la rilevanza della vita quotidiana, del vissuto religioso ordinario, al di fuori delle celebrazioni liturgiche, senza la presenza di officianti legittimati dall’istituzione religiosa, ma con un chiaro riferimento ai propri principi valoriali, alle proprie scelte di vita, agli orizzonti personali di credenza, ad una religiosità personale in buona misura contrapposta a quella gerarchica della religione-di-chiesa ma senza creare vere e proprie fratture con essa.


Intanto l’affermarsi di nuove metodologie dette non standard, ovvero non quantitativistiche, ha messo in luce alcuni vissuti che hanno evidenziato atteggiamenti e comportamenti non facilmente accertabili in precedenza, allorquando prevalevano quasi solo dimensioni numeriche, percentuali, correlazioni statistiche. Ora invece, grazie anche allo sviluppo di programmi informatici dedicati all’analisi qualitativa, si è reso possibile indagare più a fondo sulla fenomenologia socio-religiosa, giungendo ad individuare percorsi non corrivi con la religione istituzionale, forieri di futuri sviluppi e non sempre inquadrabili nelle categorie concettuali tradizionali di stampo classico, durkheimiano e/o weberiano. 


Invero anche nelle ricerche a carattere quantitativo era stato messo in rilievo il peso della preghiera come connotazione soprattutto individuale. Le informazioni empiriche in proposito parlavano chiaro: c’era molta più gente che pregava rispetto a quella che andava in chiesa. Ora però sembra che, mentre i tassi di pratica religiosa festiva regolare sarebbero in decremento, siano invece almeno tendenzialmente stabili quelli sul ricorso al colloquio diretto con la divinità, attraverso lo strumento dell’orazione, sia essa del tutto personale oppure basata su formule apprese nel corso della socializzazione religiosa, o più semplicemente discorsiva e quasi alla pari con il destinatario soprannaturale.


Ognuna delle diverse modalità di interlocuzione fra gli esseri umani e l’ente superiore definibile come Dio (o dio) non è di solito un frutto spontaneo, ma il precipitato storico di un lungo processo di radicamento di pratiche ed esperienze a volte anche plurimillenarie. Le varie organizzazioni religiose, più o meno formalizzate, operando nel tempo hanno posto le premesse per una lunga e salda permanenza di modelli comportamentali non agevolmente eliminabili o emarginabili.


Appunto la preghiera rientra nell’ambito di tali modelli e rappresenta il risultato di un’azione diuturna ed efficace che ha condotto varie generazioni di attori sociali (Giordan e Swatos, 2011) a farvi ricorso in occasioni più o meno prestabilite ma non particolarmente difformi fra di loro neanche con il passare dei secoli. Né manca chi ritiene di poter provare che vi siano effetti positivi della preghiera anche sul piano dell’equilibrio e dell’igiene mentale (Ellison et al., 2014; http://psychcentral.com/blog/archives/2014/09/18/new-study-examines-the-effects-of prayer-on-mental-health/).


Non è un caso, fra l’altro, che oggi si sia tornati, per esempio in ambito cattolico, ad usare la stessa postura rinvenibile nei documenti pittorici dei siti catacombali, dove l’orante è raffigurato con le braccia aperte, giusto come effettivamente si vede fare al momento della recita del Pater Noster nel corso delle celebrazioni eucaristiche odierne.


Non è difficile poi immaginare che gran parte delle consuetudini di preghiera si perpetui da un secolo ad un altro essenzialmente a partire da un uso mnemonico-rammentativo dei testi appresi, delle formule più diffuse, delle giaculatorie continuamente ripetute, dei formulari rimati che perciò sono dei formidabili adiuvanti per il permanere del ricordo (Giordan e Woodhead, 2013).


Oltretutto l’esistenza di formule preconfezionate, fornite anche dell’imprimatur ecclesiastico o comunque riconosciute ufficialmente dalla gerarchia, costituisce un’ancora di forte presa per soggetti poco avvezzi a soluzioni religiose personalizzate e dunque propensi a rifugiarsi in quanto è stato tramandato a memoria od anche in testi non voluminosi, tascabili, di scarso ingombro, facilmente trasportabili ed usufruibili.


Non va poi dimenticato che in larga misura la catechesi di base in preparazione ai riti di passaggio, ai sacramenti, viene impartita facendo riferimento principalmente a preghiere, formule rituali, recitazioni di versetti e di espressioni brevi e memorizzabili. Non a caso il catechismo detto di Pio X è tutto un susseguirsi di domande e risposte, semplici e concise, da mandare a memoria per poter superare la prova finale di accesso ai riti sacramentali. Ecco perché questa porzione e pozione di religione diffusa permane nel tempo e resiste quasi a tutto, all’indebolimento della credenza e della pratica come all’allontanamento quasi completo dai collegamenti con la religione di prima socializzazione (Sharp, 2012).


Oltre le strutture di chiesa anche le famiglie contribuiscono con dosi notevoli all’indottrinamento delle nuove generazioni, sia in termini di vissuti esemplari sia in chiave di suggestioni teoriche ed ideologiche fornite a sostegno del proprio credo religioso di fondo. Lo scenario religioso familiare non è estraneo, in generale, a tutto il quadro normativo che accompagna ed orienta adolescenti e  giovani lungo il loro percorso di crescita nella vita sociale.


Pure altri enti, infine, danno una mano nel medesimo senso, proponendo tracce, sistemi, soluzioni, che verranno riutilizzati anche in seguito. E dunque la stessa preghiera, sebbene non sempre consolidata come «abitudine del cuore -» per dirla con Rousseau e Bellah (1985) -, nondimeno riaffiora anche in assenza di altre abitudini religiose.


La situazione italiana


In Italia è Franco Garelli (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003, pp. 77-114) ad evidenziare il ruolo del sentire religioso fra tensione spirituale ed espressione religiosa, esaminando i risultati di un’inchiesta sul pluralismo, statisticamente rappresentativa a livello nazionale. La tipologia individuata è piuttosto articolata. Infatti in merito alla «coscienza di essere una persona religiosa e percezione di avere una vita spirituale» vengono individuate sette categorie: l’ateo/agnosticismo cioè né religiosità né spiritualità (12,3%), la religiosità etnico/culturale cioè medio-alta religiosità e scarsa-nessuna spiritualità (17,3%), la spiritualità critica cioè scarsa-nessuna religiosità e medio-alta spiritualità (8,8%), la credenza debole cioè religiosità media e spiritualità media (23%), la religiosità maggiore della spiritualità cioè alta religiosità e media spiritualità (10,3%), la spiritualità maggiore della religiosità cioè alta spiritualità e media religiosità (9,5%) ed infine la fedeltà cioè alta religiosità ed alta spiritualità (18,8%).


Da tale scenario risulta che «a) In primo luogo, il termine religiosità desta nella popolazione più consensi del termine spiritualità, in quanto sono più numerose le persone che si definiscono religiose di quelle che ritengono di avere una vita spirituale. […] b) Tra i vari tipi di religiosità individuati quello della spiritualità critica desta particolare interesse, sia per l’orientamento culturale sotteso sia per i soggetti che più lo esprimono. […] c) Sulle due dimensioni qui rilevate (religiosità e spiritualità) quanti esprimono posizioni di marcata congruenza ammontano a circa il 50% della popolazione, mentre il 26% dei casi palesa un atteggiamento di sensibile incongruenza. […] d) In margine a quanto rilevato, si può ancora notare che la quasi totalità della popolazione riconosce il significato di termini quali religiosità e spiritualità ed è in grado di definire il proprio grado di coinvolgimento in queste due dimensioni» (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003, 88-92, passim).


Inoltre viene notato che «la rivalutazione maggiore spetta al rito funebre, a indicare che il momento della morte è quello più associato nella nostra cultura a una qualche forma di significato religioso. Nell’immaginario collettivo questa esperienza estrema di ‘rottura’ deve essere accompagnata con un rituale religioso, il cui senso indubbiamente cambia a seconda del grado di convinzione religiosa di chi lo richiede. La morte si presenta dunque come l’esperienza umana di fronte alla quale anche molti non credenti accettano il rituale religioso attingendo in qualche modo ad un capitale simbolico presente nella nostra cultura per far fronte a interrogativi cui pare difficile rispondere con prospettive profane» (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003, p. 100). Il che parrebbe una conferma della valenza del rituale e del lamento funebre, incentrato sul senso della morte e dunque della vita stessa.     


D’altro canto il peso del contesto socio-culturale appare evidente anche dal dato relativo all’apporto dell’insegnamento scolastico della religione cattolica ai fini dell’alfabetizzazione religiosa, in quanto l’ora di religione nelle scuole fa «incrementare i livelli di conoscenza dei gruppi con minori occasioni di conoscere la religione cattolica, rispetto ai livelli manifestati dai gruppi che dispongono di un maggior numero di fonti di socializzazione a ciò orientate. Le conoscenze specifiche proposte dell’Insegnamento della Religione Cattolica ‘arrivano’ infatti ai ragazzi in proporzione maggiore delle conoscenze religiose generali. L’insegnamento sembrerebbe dunque effettivamente in grado di ridurre in una certa misura le differenze nei livelli di alfabetizzazione che la socializzazione extrascolastica determina» (Castegnaro 2009, p. 219). Anche questo è un esito della religione diffusa, che produce a sua volte effetti a catena sul piano della cultura complessiva e degli atteggiamenti e comportamenti che vi si rifanno, ivi compreso l’orientamento verso la preghiera.


Non è senza significato che nell’indagine nazionale sulla religiosità in Italia (Cesareo et al., 1995, p. 91) si sia accertato che «gli italiani di 18-74 anni che dichiarano di aver pregato almeno qualche volta durante l’anno sono l’83%. Pregano anche i non credenti, soprattutto se sono in un atteggiamento di ricerca (49%) e coloro che credono in un essere supremo ma non appartengono ad una specifica religione (44%). Perfino tra coloro che si dichiarano atei c’è una quota, seppur piccola (8%), che prega». Le motivazioni della preghiera ripercorrono puntualmente la tipologia classica che annovera la categoria del misticismo (ricerca di relazione con la divinità: 44%), quella dell’impetrazione-perorazione per ottenere un sostegno nei momenti di difficoltà (44%), quella mista che vede insieme il desiderio di rapporto con Dio e la richiesta di un suo intervento, quella di ringraziamento (circa il 25%) che contempla sia la gratitudine che il pentimento per qualche colpa, quella fatta per tradizione ovvero per insegnamento ricevuto, quella dovuta ad una ricerca personale ed infine quella per domandare grazie (che sarebbe la meno frequente in Italia: 10%). Le conclusioni sono che la preghiera «sia una modalità di espressione del proprio sentimento religioso ancora saldamente radicata e quindi destinata a permanere nel tempo, anche se circoscritta ad una minoranza della popolazione» (Cesareo et al., 1995, p. 94). Tale carattere minoritario previsto per il futuro non presenta ancora indicatori consolidati. Ma è anche vero che «le generazioni a noi più vicine e le persone più istruite rifuggono da comportamenti ascrittivi (pregare perché è un dovere o perché così è stato insegnato loro) e privilegiano più degli altri intervistati la forma di preghiera che forse meglio si addice all’uomo contemporaneo: quella intenzionata a far chiarezza dentro di sé» (Cesareo et al., 1995, p. 96).


Senza soluzione di continuità anche ricerche successive rimangono nella medesima linea e confermano i modi tipici del pregare: come ringraziamento, come pentimento; privato-individuale-separato/pubblico-collettivo-unito; orale-detto/silente-mentale; laudativo/perorativo; fiducioso/supplice; spontaneo/fondato su testi (dalla Bibbia – per esempio i Salmi 1, 77 e 118 -, al Sūtra del Loto – per esempio il capitolo XXV che è un’impetrazione per liberarsi da ogni negatività -).


Nonostante questa ampiezza di possibilità non è detto che vi sia sempre consapevolezza da parte dei soggetti intervistati. Per esempio nell’arcidiocesi urbinate la preghiera è posta al sesto posto fra le azioni da privilegiare da parte di un credente: la predilige appena l’11% dei rispondenti (Parma, 2004, p. 121). Ma quando si passa alla domanda sulla frequenza della preghiera (Parma, 2004, p. 160) risulta che il 10,4% prega ogni giorno, il 31,3% circa una volta al giorno, il 15% qualche volta la settimana, il 10% qualche volta al mese, l’11,7% qualche volta durante l’anno ed il 21,6% mai. E giustamente si osserva preliminarmente che «l’importanza di analizzare la preghiera esercitata al di fuori dei riti religiosi deriva dal fatto che tale comportamento è presente in tutte le religioni e spesso riguarda anche chi si dichiara non credente» (Parma, 2004, p. 160).  Ma è opportuno sottolineare il fatto che «gli intervistati, per la maggior parte, quando pregano utilizzano le tradizionali formule di preghiera trasmesse attraverso il processo di socializzazione religiosa e ascoltate frequentando i vari riti e culti» (Parma, 2004, pp. 163-164). Insomma si rientra sempre nel canone della religione diffusa e dunque della preghiera diffusa. Pure fra i giovani l’influenza della socializzazione religiosa pregressa rimane: se il 30% non prega mai, il 26% lo fa una o più volte al giorno, il 16,2% una o più volte ogni settimana ed il 13,4% qualche volta in un mese (Parma, 2004, p. 303). «Le modalità della preghiera riguardano principalmente la recita di formule conosciute (59,2%), stando in silenzio, in ascolto o in contemplazione (25%), ma anche riflettendo sulla propria vita e su quanto capita intorno a noi (50%), o attraverso l’uso di parole o espressioni proprie (50%). I giovani, rispetto al totale, privilegiano maggiormente la preghiera personale e la ricerca interiore» (Parma, 2004, p. 304).


Gli universi locali


Anche nel teatino-vastese i giovani presentano tassi cospicui: il 27,56% prega spesso, il 41,99% talvolta, il 20,21% raramente ed il 9,97% mai (Di Francesco, 2008, p. 59). Ma «essi sembrano poco inclini, se non per quella quota peraltro non trascurabile che si individua come il nucleo dei ‘ferventi’, ad utilizzare modalità ritualizzate e tradizionali» (Di Francesco, 2008, p. 61). I giovani interpellati preferiscono «comunicazione, contatto con Dio» (27,75%), «dialogo con Dio, con i Santi, con i defunti» (14%), «riflessione e meditazione personale» (12,25%), «vicinanza con dio» (11,5%). Da notare, fra questi dati (Di Francesco, 2008, p. 152), la presenza dei defunti come destinatari della preghiera, anche se la domanda posta mettendo insieme pure Dio ed i Santi non consente poi di discernere quale peso abbia nella risposta la parte relativa ai defunti. Da ultimo è da prendere in considerazione il modo del pregare: il 29,66% usa parole sue, il 23,36% frasi e formule di preghiera tradizionali, il 19,95% riflette sulla sua vita, il 13,39% dialoga interiormente con Dio (Di Francesco, 2008, p. 153).


In un’inchiesta effettata nel Basso Lazio (Meglio, 2010, p. 104), i giovani dicono di rivolgersi alla propria fede nei momenti difficili, in misura differenziata: sempre il 29,3%, spesso il 28,7%, qualche volta il 32,2%, mai il 9,8%. Non c’è un esplicito riferimento alla preghiera ma tale elemento appare sottinteso, anche perché la stratificazione dell’intensità del comportamento corrisponde in linea di massima a quanto già rilevato, appunto in relazione alla preghiera giovanile.


Nella diocesi di Oristano in Sardegna (Cipriani, Lanzetti, 2010) la preghiera personale occupa un posto rilevante perché la frequenza è «spesso (tutti i giorni o quasi)» nella misura del 45,4%, «qualche volta» per il 34,4% degli intervistati e «mai» per il 20,2% (con una particolare accentuazione nel caso di soggetti maschi). Le medie italiane registrate nel 2009 in un’inchiesta con campione nazionale erano un po’ diverse (rispettivamente 50,8%, 31,9% e 17,3) per cui la popolazione oristanese appare di qualche punto percentuale meno «religiosa» di quella italiana.


Sulle motivazioni, nondimeno, il sentire religioso è accentuato: il 47% prega per sentirsi più vicino a Dio ed una medesima percentuale lo fa per ottenere un supporto nelle difficoltà, mentre il 31% è mosso dal desiderio di lodare e ringraziare Dio ed il 23% per pentirsi e fare penitenza. Il peso dell’insegnamento ricevuto tocca appena l’11% e quello del dovere il 14%, invece la ricerca di chiarezza con se stessi arriva al 18%. Si riduce infine al 10% la motivazione di una domanda di grazie. In definitiva la preghiera strumentale riguarda una quota ridotta della popolazione ma non è destinata a scomparire, visto che fra i giovani essa permane, anche se contenuta entro gli stessi limiti percentuali fatti registrare dall’intero campione dell’indagine.


Provocatoriamente Introvigne e Zoccatelli (2010) si chiedono, al termine di uno studio sociologico sulla diocesi siciliana di Piazza Armerina, se la messa non sia finita, se cioè la pratica religiosa cattolica più emblematica nei giorni festivi non sia destinata a ridursi se non proprio a scomparire. Un punto qualificante del tentativo di Introvigne e Zoccatelli è la verifica della differenza intercorrente fra le dichiarazioni di pratica e la pratica effettiva, cioè la questione dell’over-reporting. Nel caso in esame la partecipazione al culto festivo (cattolico e non) in modo regolare (una volta o più per ogni settimana) secondo le risposte degli intervistati raggiunge il 33,6%, invece un controllo sul numero effettivo di presenti nei luoghi di culto fa scendere il tasso percentuale al 18,5%. Gli autori fanno tuttavia osservare che «se qualche cosa ‘dimostrano’ le indagini sull’over-reporting compiute negli anni negli Stai Uniti, in Polonia e in Italia è precisamente che la pratica dichiarata è, appunto, ‘dichiarata’: misura un’identità e forse anche un’identificazione, ma non misura fatti e comportamenti» (Introvigne e Zoccatelli, 2010, p. 86). Dunque non sarebbero da ritenere percentuali probanti né quella del 33,6% né quella del 18,5%, in quanto entrambe sono parziali e non rappresentano adeguatamente l’intero set comportamentale (ed attitudinale, da non trascurare). Anche in questa inchiesta non si parla esplicitamente della fenomenologia della preghiera ma si può inferire che sia i dati sulla pratica domenicale sia le riflessioni metodologiche sull’over-reporting siano applicabili anche al quadro sociologico relativo alla frequenza della preghiera nella Sicilia Centrale (Cipriani, 1992) ed altrove.


I dati internazionali


Si deve dunque procedere con cautela anche nei riguardi dei dati raccolti nel corso di indagini internazionali sui valori effettuate in Italia (Gubert, 1992, p. 595; Gubert e Pollini, 2000, p. 521). Salvatore Abruzzese, contestando l’eclissi del trascendente, ricorda che «nella rilevazione del 1999 il 53% degli italiani intervistati ha dichiarato di pregare al di fuori delle cerimonie religiose e di farlo più di una volta la settimana» (Abbruzzese, 2010, p. 114), indicando «ogni giorno» (37,4%) o «più di una volta la settimana» (16,5%), a fronte di alternative che prevedevano «una volta la settimana» (7,3%), «almeno una volta al mese» (5,7%), «più volte nell’anno» (5%), «raramente» (14%), «mai» (12,7%), «non so» e «non risponde» (1,5%). Dall’insieme delle risposte alla domanda (rimasta invariata rispetto al 1990) «Con quale frequenza prega Dio, al di fuori delle cerimonie religiose?» si evidenziava che circa tre quarti della popolazione italiana pregava, anche se con ritmi abbastanza diversificati.


Nell’European Values Survey del 1981 la domanda sulla preghiera non era stata posta. Nel 1990 la risposta «prega spesso» aveva fatto registrare il 33,5%, mentre nel 1999 la risposta «prega ogni giorno» ha raggiunto il 37,4%. Quindi è stato quanto mai utile nel 1999 cambiare le risposte possibili e renderle più chiare rispetto a quelle piuttosto generiche usate nel 1990 («spesso», 33,5%; «qualche volt»a, 32%; «quasi mai», 9%; «solo nei momenti di crisi», 8,1%; «mai», 16,8%; «non so» (0,6%); «non risponde», 0%).


Più facilmente è comparabile la risposta «mai» perché identica nelle due rilevazioni dell’European Values Survey del 1990 e del 1999: dapprima è stata al livello del 16,8% e poi al 12,7%. Da quest’ultimo punto di vista l’Italia (insieme con il Portogallo) sembrerebbe in controtendenza, in quanto in altri paesi europei (soprattutto Francia, 54,7%; Olanda, 49,5%; Belgio, 37,9%; Germania, 27,8%; Spagna, 25,3%) risulta aumentato il tasso di quanti non pregano affatto, confermando dunque l’andamento secolarizzante (Abbruzzese, 2010, pp. 130-131).


La centralità della preghiera nelle religioni rimane nondimeno una costante, dall’ebraismo al cristianesimo, dal buddismo all’islam, dall’induismo allo scintoismo e così via. Anche le correnti migratorie fanno leva sul patrimonio del capitale culturale costituito dalle preghiere, sino ad utilizzare il termine nelle loro stesse denominazioni come nel caso del Bethel Prayer Ministery International, attivo fra l’altro anche in Italia (Tellia, 2010, pp. 99-101).


La nuova prospettiva dell’analisi qualitativa


Ancor più dei dati quantitativi c’è da aspettarsi che siano i risultati qualitativi a fornire corroborazioni sul nesso fra religione diffusa e diffusione della preghiera. Un contributo convincente giunge da uno studio qualitativo sulla spiritualità giovanile (Castegnaro et al., 2010). Va segnalato come strategico un paragrafo dedicato a «Davanti alla morte e al dolore» (Castegnaro et al., 2010, pp. 192-194), in cui si mostra come «l’evento della morte svolga ancora oggi il suo ruolo antropologico di connessione tra i mondi, obbligando chi vive questo tragico avvenimento a doversi interrogare su ciò che va oltre la vita, e spingendo molti a tirare in ballo Dio nel tentativo di formulare una risposta plausibile. Ciò può succedere a chi pensava di aver chiuso i ponti con la religione» (Castegnaro et al., 2010, p. 192). Ed appunto «attraverso la pratica della preghiera si può entrare in relazione con il radicalmente altro: sentirne l’abbraccio o l’abbandono; si possono esprimere i propri dubbi e le proprie convinzioni sull’esistenza o meno di qualcosa che va oltre l’umano; ci si può riferire all’appartenenza alla propria chiesa o gruppo religioso/ecclesiale con la possibilità di diversificare forme e ruoli del pregare; e infine anche attraverso la preghiera si può ‘esercitare’ la propria conoscenza dei testi sacri. La preghiera rappresenta quindi un punto di potenziale convergenza delle diverse dimensioni della religiosità: la pratica, l’esperienza, la credenza, l’appartenenza e anche la conoscenza» (Castegnaro et al., 2010, p. 385).


Seguono poi diversi esempi tratti dai documenti raccolti nel corso dell’indagine qualitativa su 72 giovani vicentini, con la tecnica del focus group. Emblematicamente da una persona intervistata viene riproposta esplicitamente la dimensione ultraterrena come locus di interlocuzione: ella si rivolge a suo nonno defunto perché le riesce più facile, «recuperando ed andando oltre una lunga tradizione che attraversa le religioni» (Castegnaro et al., 2010, p. 395). Ed ovviamente non mancano Dio e santi come interlocutori: la serie di brani estratti dalle diverse dichiarazioni dei giovani è lunga ed articolata e verifica il carattere sociale della preghiera, «tra obbligo e personalizzazione», anche se fatta in privato e nell’intimità (Castegnaro et al., 2010, pp. 385-418).


Il quadro d’insieme che scaturisce dalla ricerca vicentina testimonia quale sia l’incidenza della preghiera nell’universo mentale giovanile: essa si colloca al ventottesimo posto (seguita da Vangelo, valori, morte e paura) di una lista di «parole piene di media frequenza» che comincia con «Dio» e termina con «scelte» (Castegnaro et al., 2010, p. 611) e nella sua area tematica (settima per numero di frequenze, dopo «figure sacre», «familiari», «messa», «aldilà», «clero» e «chiesa») (Castegnaro et al., 2010, p. 614) rientrano «Atto di dolore, Ave Maria, il credo, Padre nostro, Lodi, pregare, preghiera comunitaria, preghiera di lode, preghiera di ringraziamento, preghiera libera, preghiera mattutina, preghiere della sera, salteri/o, vespri ecc. » (Castegnaro et al., 2010, p. 612).


Infine l’analisi delle corrispondenze mette in relazione la preghiera soprattutto con le figure sacre, la Parola ed i sacramenti e, sul piano sociale, con i movimenti (Castegnaro et al., 2010, p. 615).  


Conclusione


Il filone carsico plurimillenario che ha fatto giungere fino a noi la tradizione della preghiera ha avuto probabilmente origine in congiunzione con crisi esistenziali primordiali, con l’esperienza della morte altrui e poi con il timore ed il rischio di quella propria.


La presenza del lamento funebre volto a superare la crisi di presenza instauratasi al momento dell’esito letale ha innescato presumibilmente meccanismi di narrazione che poi sono divenuti anche di riflessione più matura sul significato della vita e quindi della morte.


A questo punto si sarebbe innestato il problema di una presenza altra rispetto a quella umana. Con tale alterità è iniziato allora un tentativo di colloquio, in forma di richiesta di sostegno, poi divenuta insieme di lode e ringraziamento, ma anche molto altro: richiesta di un intervento straordinario (la grazia del miracolo che poi comporta il rendere grazie per il favore ricevuto), invocazione, pentimento, atto pubblico, azione cerimoniale, espressione di fiducia, dialogo privato, orazione mentale, testo sacro ed altro ancora, in forme originali e diversificate secondo le varie religioni ma abbastanza convergenti nelle funzioni esercitate in ambito culturale.


La diffusione della preghiera è essenzialmente frutto dell’azione socializzatrice svolta dalle confessioni religiose con le loro strutture educative e legittimatrici, che perpetuano forme e contenuti della preghiera, lasciando spazio anche ad innovazioni che lungi dall’erodere il patrimonio esistente ne rimotivano e ne riadattano le proposte, a tutto vantaggio di una religione diffusa che si fa forte dell’apporto di intere generazioni del passato le quali hanno conservato nel tempo le testimonianze pregresse.


Non è fuor di luogo potere immaginare che anche le resistenze da parte dei giovani ad usare il capitale culturale pre-esistente risponda – alla lunga – ad un’esigenza di conservazione non garantibile dalle sole strutture operative già in atto. Del resto se anche si prescinde da formule consolidate e da soluzioni già disponibili nondimeno un afflato religioso e spirituale insieme pare mantenere in essere una «abitudine del cuore», per dirla ancora con Rousseau e Bellah (1985), dura a morire perché correlata alla morte stessa, con cui si confronta continuamente, attraverso lo schermo-copertura della figura sacra che funge da interlocutore utile, anche se ritenuto fittizio.


In che misura tutto ciò possa trovare conferma anche nel futuro non è facile stabilire a priori, ma date le sue vetuste e solide radici non avverrà all’improvviso una sua scomparsa. Se così fosse vorrebbe dire avere già risolto il problema della morte ed aver trovato il cammino verso una vita senza fine (Uche, 2008).  


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