“L’acqua e la religione come fattori di integrazione”, in Farnetani, Spica (a cura), Acqua e salute per la popolazione, Gruppo di lavoro Scienze Motorie per la Salute, 2016, pp. 133-46.

Roberto Cipriani


L’ACQUA E LA RELIGIONE COME FATTORI DI INTEGRAZIONE


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


            Si può legittimamente sostenere che alle origini della sociologia sia anche il desiderio di trovare le ragioni della coesione sociale o viceversa della conflittualità. Se Auguste Comte (1852) ebbe a pensare ad una vera e propria “religione dell’umanità”, a carattere universale, per garantire una sorta di tetto protettivo del genere umano, Émile Durkheim (1973) teorizzò un nesso strettissimo fra religione e solidarietà. Non a caso Comte è l’inventore del termine “altruismo” volto a permettere sentimenti di benevolenza e di disinteresse personale, in modo da “vivere per gli altri”. Solidarismo ed integrazione sociale sono i capisaldi del pensiero sia comtiano che durkheimiano, in una visione che pare abbastanza preoccupata ed ansiosa del raggiungimento di un equilibrio sociale senza conflitti e tutto teso a favorire forme di coesione e di collaborazione integrata e partecipata. Comte del resto predicava “l’Amore come principio; l’Ordine come base e il progresso come scopo”: era questo il suo catechismo positivista, che nella prima e nona intervista “fra una Donna ed un Prete dell’Umanità” parla esplicitamente di unità, dunque di integrazione fra individuo e società, a mo’ di sintesi tendente a collegare le diverse soggettività. Ma Durkheim va ancora oltre, se possibile, quasi amalgamando il singolo individuo con la sua società di appartenenza. La sua matrice ebraica lo predispone a fondere insieme connessioni intra-familiari ed inter-familiari, specialmente attraverso le occasioni rituali della religione, che dunque diventa una specie di cemento sociale, anzi un fatto “eminentemente sociale”. Infatti “le rappresentazioni religiose sono rappresentazioni collettive esprimenti realtà collettive; i riti costituiscono modi di agire che nascono entro gruppi costituiti e sono destinati a suscitare, conservare e riprodurre taluni stati mentali dei gruppi stessi. Ora, se le categorie sono di origine religiosa, devono condividere la natura comune di tutti i fatti religiosi: essere anch’esse entità sociali, prodotti del pensiero collettivo. Per lo meno – dato che allo stato attuale delle nostre conoscenze bisogna guardarsi da qualsiasi tesi radicale ed esclusivista – è legittimo supporle ricche di elementi sociali” (Durkheim 1973: 25). Si potrebbe quasi parlare, in merito, di una corrispondenza fra religione e società in termini di embricamento, intreccio inestricabile, non eliminabile. Il sociale è religioso, il religioso è sociale: la loro legittimazione è reciproca. Perciò la collettività è religiosa o non è affatto. L’intersecazione fra società e religione è parallela, si direbbe, a quella fra sociale ed individuale: “l’uomo è duplice. In lui coesistono due esseri: un essere individuale, che ha la sua base nell’organismo e il cui raggio d’azione è, proprio per questo, strettamente limitato, e un essere sociale, che rappresenta in noi, sul piano intellettuale e morale, la realtà più alta da noi osservabile, vale a dire la società” (Durkheim 1973: 31). L’autore ribatte infine il medesimo tasto: la religione si connota come fatto sociale. Le stesse credenze e pratiche non sono che simboli della società. Appunto lo stare insieme è all’origine delle forme religiose.


Acqua e religione


Il rapporto tra acqua e religione è antico, ha radici profonde e si svolge lungo percorsi che appaiono caratteristici per ogni espressione religiosa. Si potrebbe giungere a dire che acqua e religione siano quasi sinonimi: entrambe provengono dal cielo; l’una e l’altra hanno a che vedere con la durata del tempo (misurato anticamente con la clessidra, κλεψύδρα ovvero κλέπτω, chiudo, ‘ύδωρ, acqua, cioè il contenitore d’acqua che scendeva lentamente attraverso una piccola apertura, assegnando così il tempo di parola ad un oratore; analogamente anche la religione contempla di fatto un limite di tempo per la vita) -; la richiesta di acqua rivolta a qualcuno è, secondo lo storico greco Erodoto, un segno manifesto di sottomissione al destinatario della domanda, parimente la religione comporta un rapporto di soggezione alla divinità; inoltre, Francesco d’Assisi scriveva “Laudato si, mi Signore, per sor Aqua, la quale è molto utile e umile e preziosa e casta”, sottolineando dunque il forte legame fra l’acqua ed il Creatore del mondo; ed infine come l’acqua va verso il mare così l’anima religiosa anela al suo Dio (Salmi 42, 2-3) e come l’acqua è necessaria per la sopravvivenza così è la religione che assicura un’esistenza al di là del ciclo terreno.


            Ma soprattutto non mancano gli usi strettamente religiosi dell’acqua in quanto componente essenziale di alcune cerimonie quali benedizioni, consacrazioni ed esorcismi, in pratica come un sacramentale, cioè affine ad un sacramento ma non istituito da Gesù bensì dalla Chiesa ed operante in base alla fede di chi lo riceve e non per virtù propria. Si comincia con l’acqua battesimale che, preparata (sia con olio catecumenale che con crisma) e benedetta nella notte della veglia pasquale, si conserva nel battistero delle chiese, ed in particolare nel fonte detto appunto battesimale, per essere usata al momento del battesimo, allorquando viene versata sul capo del neonato (ma vi è anche un rito per immersione – che ricorda la discesa di Cristo nella tomba -, ancora usato dai Testimoni di Geova come pure da esponenti di altre religioni, con un vero e proprio bagno in un corso d’acqua o nello stesso fiume Giordano in cui Giovanni il Battista battezzò Gesù Cristo); l’acqua benedetta (preparata con l’aggiunta di sale, che aiuterebbe a scacciare i demoni) serve ai fedeli cristiani per farsi il segno della croce, attingendola dall’acquasantiera (resa obbligatoria dal papa Leone IV in un sinodo alla metà del secolo IX) quando entrano in un tempio, oppure viene aspersa dal celebrante sul feretro di un defunto od anche usata per benedire oggetti, case, mezzi di locomozione, animali e persone; l’acqua santa o benedetta viene anche bevuta come auspicio taumaturgico (è questa la prassi di religiosità popolare che induce i pellegrini recatisi a Lourdes a riportare con sé dell’acquasanta da dare agli ammalati rimasti a casa, impossibilitati a recarsi nel santuario francese, dove si usa fare un’immersione in una piscina ritenuta miracolosa); infine l’acqua benedetta può avere lo scopo di purificare chi ne viene toccato (come accadeva con l’acqua lustrale degli antichi romani) oppure per liberare un luogo od una persona da una presenza od influenza malefica (come nel caso di coloro che vengono considerati in preda ai demoni). Di altro tipo e destinazione è invece la cosiddetta acqua angelica o degli angeli, che è profumata ed avrebbe potenzialità calmanti. Si conosce anche un’altra acqua detta gregoriana, in uso oltre un migliaio di anni fa mescolata con vino, cenere e sale ed adoperata per la consacrazione dei luoghi di culto.


            Una particolare benedizione dell’acqua nella festa dell’Epifania, il 6 gennaio di ogni anno, risulta presente nell’antico rito greco-alessandrino, giunto fino ai giorni nostri in alcune zone italiane (soprattutto al sud) insieme con la sua formula di epiclesi (’επίκλησις, invocazione, dal verbo ’επικαλέω, invoco) che fa memoria del battesimo di Cristo per chiedere a Dio la transustanziazione ovvero trasformazione dell’ostia e del vino in corpo e sangue di Gesù.


            L’uso dell’acquasantiera, infine, si è largamente diffuso in ogni parte del mondo cattolico. Ve ne sono esempi artistici illustri di Giovanni Pisano (in San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia) e di Gian Lorenzo Bernini (nella basilica di San Pietro a Roma), ma in alcune zone se ne trovano ai piedi delle tombe od anche in casa.


L’acqua purificatrice


            L’acqua lava, pulisce lo sporco e dunque ciò che è impuro, in particolare il peccato. In tal modo l’acqua acquista ed esercita una sua sacralità, un suo potere, soprattutto purificatore. Una volta ottenuta la purificazione, si spera in frutti migliori e quindi in risultati più positivi. Oltre la purificazione l’acqua produce effetti di fertilizzazione, chiaramente evidenti nell’azione del fiume “sacro” per gli egiziani, il Nilo. In pratica l’acqua dà la vita e contribuisce a mantenerla. Se però essa viene a mancare, come nel caso di lunghi periodi di siccità, si provvede ad organizzare cerimonie religiose (o para-religiose) per ottenere la pioggia.


            C’è tuttavia un carattere ben peculiare dell’acqua: essa può dare la vita di grazia, non solo liberando uomini e donne – mediante il battesimo – dagli effetti del peccato originale ma anche garantendo il raggiungimento della vita eterna (anche per questo si aspergono i defunti).


            Si ritiene d’altra parte che l’acqua sorgiva sia a contatto con la divinità e mantenga perciò qualche carattere divino. A partire da questa considerazione si comprende meglio il significato di alcuni eventi che connettono direttamente acqua e religione. Forse quello di Lourdes è il caso più emblematico. La cittadina francese è ricca di sorgenti minerali ed è attraversata da un fiume sulla cui riva sorge, non lontana, la grotta di Massabielle, dove si narra sia avvenuta l’apparizione della Madonna alla quattordicenne Bernadette Soubirous. Alla fanciulla la Vergine avrebbe detto di scavare davanti alla grotta per trovare una fonte cui lavarsi ed abbeverarsi. Fu così che si venne a scoprire una sorgente, assolutamente sconosciuta prima di allora e che tuttora produce diverse decine di migliaia di litri ogni giorno. Poi si è cominciato a parlare di guarigioni “miracolose” avvenute grazie all’uso della fonte di Massabielle. I casi di presunta guarigione vengono affidati allo studio di un Bureau médical e di un Bureau d’Études Scientifiques, prima di essere segnalati all’autorità ecclesiastica.


            Come non ricordare che anche a Gerusalemme c’era una piscina purificatrice, detta probatica perché destinata alle pecore (προβατικός significa riguardante le pecore, πρόβατα) che venivano lavate prima di essere portate al sacrificio. Si riteneva anche che quell’acqua fosse in grado di risanare le persone inferme.


            A Vicarello, una località a nord del lago di Bracciano, c’è una sorgente di acque dette Apollinari perché sacre ad Apollo, come documenta peraltro la presenza di oggetti votivi ritrovati nel 1852 in un deposito; nella medesima zona si sono ritrovate anche varie iscrizioni dedicate alla medesima divinità. Fino al 1970 sono state pure in attività le Terme Apollinari di acque minerali bicarbonato-solfato-alcalino-terrose adatte per fanghi, bagni e cure in grotta.


            L’abitudine a collegare sorgenti e presenze sovrumane è costante nei secoli e nelle culture. La mitologia è ricca di esseri quali ninfe, naiadi, dei-fiume, che presiedono a corsi d’acqua che rendono fertili interi territori. Alcuni dei-fiume sono considerati figli di Giove o Nettuno o, in origine, di Oceano. La madre può essere anche un’oceanide. Gli dei-fiume sono in genere proteiformi perché capaci di assumere forme molteplici e cangianti, anche nel nome oltre che nella natura: Glauco, per esempio, da essere mortale diventa una divinità, assumendo il nome di Saggio del mare.


            L’acqua serve pure per attività divinatorie. Ad esempio nell’ordalía, nel cosiddetto giudizio di Dio, c’era non solo la prova del fuoco ma altresì quella dell’acqua. Com’è noto, si ricorre all’ordalía in caso di incertezza da parte dei giudici nell’emettere una sentenza. L’ordalía dell’acqua consiste, per esempio in India, nel porre immagini sacre in acqua per vedere che cosa succede di esse. In altri casi la prova è effettuata con il ricorso all’acqua bollente oppure a quella fredda. Un’ordalía dell’acqua era usata nell’antica Babilonia, ma una tradizione più cospicua era presso i popoli germanici medievali e particolarmente presso i Longobardi, che la introdussero in Italia.


L’acqua nelle religioni arcaiche


            Sebbene vi sia una certa differenza fra l’acqua di terra e quella di mare nondimeno sin dagli albori della storia dell’umanità (e forse della sua preistoria) si sono registrate interconnessioni continue, esplicitate in primo luogo dalle relazioni fra le divinità dell’uno e dell’altro ambito. Secondo la mitologia greca tutti gli dei e gli esseri umani traevano origine da Oceano, il padre, e da Teti, la madre.


            Oceano era piuttosto un fiume, prima di essere un mare, mentre Teti aveva un carattere meno definito ma di natura femminile. Dall’unione di Oceano e Teti nacquero tutti i progenitori del genere umano, fra cui Urano e Gaia (il cielo e la terra), genitori dei Titani. Oceano e Teti generarono pure le acque della terra e le sorgenti dei fiumi. Secondo un’altra variante, Cielo e Terra provenivano dalle acque primigenie poste attorno all’universo, di cui delimitavano i confini.


            Oceano generava acqua per sorgenti e fiumi grazie a percorsi sotterranei. In seguito i fiumi si gettavano nel mare e riandavano dal padre Oceano, ad est, cioè nel luogo di prima apparizione del sole e dove era collocata la fonte di Oceano. Si aveva dunque una circolarità di flusso. Ma Oceano e Teti ad un certo punto invecchiarono e non generarono più, limitandosi a presiedere l’azione purificatrice svolta dalle acque. Il sole e tutte le stelle infatti si calavano nelle acque oceaniche e ne risorgevano dopo aver goduto di un’azione rigeneratrice.


            Nel mare oceanico c’erano due isole: una destinata agli eletti, oramai salvi per l’eternità; l’altra abitata da Zeus ed Era che disponevano di una fonte di ambrosia per purificare chi la bevesse.


            Nel frattempo anche Oceano svolgeva la sua azione di catarsi, di liberazione e di rigenerazione. Egli rendeva fertili i corsi d’acqua e favoriva condizioni di abbondanza.


            Le acque che scorrevano sotto il livello superficiale finivano nello Stige, altro figlio di Oceano. Anche tali acque erano purificatrici come l’ambrosia. Sullo Stige le divinità giuravano, mettendo in causa la loro stessa origine e la possibilità di avere ancora ambrosia a loro disposizione.


            Per Esiodo, al contrario di quanto tramandato dalla prospettiva mitologica delineata sinora, non era l’acqua ma la terra a porsi come base primigenia di tutto il mondo divino ed umano. Infatti Gaia, dunque la terra, era all’inizio di ogni cosa, in quanto procreava in proprio (senza alcun ausilio di genere maschile) sia Urano, ovvero il cielo, sia Ponto, ovvero il mare che circondava la terra. Il rapporto coniugale fra gli dei non era mai ritenuto incestuoso: Ponto era divinità maschile che si univa a Gaia, sua progenitrice, la quale a sua volta si accoppiava con Urano, suo figlio. Ma la stirpe procreata dalla prima coppia era particolarmente numerosa e di carattere divino primario, mentre i figlie le figlie della seconda unione erano pochi e considerati esseri divini minori. Anche dopo l’esito della battaglia detta Titanomachia, conclusasi con i Titani precipitati nel Tartaro, Oceano continuava a dominare le acque attorno alla terra.


            Tra i figli del mare, Ponto, c’erano Ceto e Forcide, che era simile a Nereo, figlio di Oceano e perciò suo fratello. Nereo abitava il mare, ne conosceva gli strati più profondi ed aveva sposato una figlia di Oceano, chiamata Doride. I loro figli somigliavano molto a quelli di Oceano, per cui spesso si confondeva fra oceanidi e nereidi, divinità femminili connesse alla vita acquatica e solite apparire durante le tempeste, o nelle risacche e nelle onde che si infrangevano sul bagnasciuga.


            Il dio per eccellenza delle acque era tuttavia Poseidone, dio dai molti poteri su ogni genere di acque. Egli era un cronide e dunque nipote di Urano e figlio di Crono. Pur nato da Gaia, la terra, Poseidone restava comunque una divinità marina. Dopo la Titanomachia, Poseidone ottenne il dominio sul mare, Zeus sul cielo ed Ade sugli inferi; tutto il resto apparteneva in comune ai tre. Nondimeno sia Poseidone che Ade erano soggetti a Zeus, che presiedeva l’Olimpo.


            Restava dunque a Poseidone la supremazia sul mare, simbolizzata dal tridente che egli brandiva. Il dio abitava, insieme con la compagna Nereide, un grande edificio in fondo al mare, dove riceveva accoglienze regali dagli esseri marini. Ma sovente egli mostrava la sua ira e scuoteva le acque marine, procurando naufragi e facendo sorgere dal mare mostri orrendi (in particolare dalle fattezze di tori), che naviganti e pescatori cercavano di evitare ingraziandosi il dio. Poseidone era anche vendicativo, come dimostrava facendo sgorgare acqua salata dall’Acropoli ateniese. Ma egli poteva far zampillare anche acque di ottima qualità (come Mosè che poté far scaturire acqua dalla roccia), percuotendo la terra con il tridente e creando terremoti. I cavalli che discendevano da lui (e secondo una tradizione turca il mare era madre del cavallo) avevano la proprietà di far scaturire acqua sorgiva, con il semplice tocco del loro zoccolo. Pure la facoltà opposta era attribuita a Poseidone: quella di rendere arida una fonte già copiosa. Egli aveva generato altresì il gigante Polifemo, che venne poi accecato da Ulisse. Infine conviene ricordare che tutti i mari erano collegati fra loro e ricevevano acqua da Oceano


            Proteo era il Vecchio del mare, allo stesso titolo di Nereo, Forcide ed altri ancora. Di tanto in tanto egli giungeva sulle rive cambiando di aspetto, dunque mettendo in evidenza – in tal maniera – di possedere il carattere fluido dell’acqua. Ma non vi era certezza assoluta sul fatto che Oceano fosse un dio-fiume e Proteo un dio-mare.


            Sovente una divinità non era facilmente riconoscibile perché assumeva nomi diversi, come del resto le acque cui era collegata. La figlia di Cadmo, chiamata Ino, era finita in mare ed era divenuta una nereide di nome Leucotea. Qualcosa di simile era capitato a Glauco, essere dapprima mortale ma poi divinizzato ed indicato come Saggio del mare.


            La stessa concezione del Caos originario, da cui successivamente si sarebbero sviluppate la terra e l’acqua, dava l’idea di un grande abisso sconfinato ed incommensurabile, appunto χάος, ovvero baratro, proveniente dal verbo χάσκω oppure χαίνω, cioè mi apro (una voragine sotto i piedi).


L’acqua come genitrice e rigeneratrice


            L’acqua è vita, purificazione, rigenerazione. Da qui nascono molteplici possibilità di sviluppo. L’immersione nell’acqua è un ritorno alle origini, con un esito che genera forza e purezza. Le potenzialità dell’acqua sono ampie ed innovatrici. La Pizia, sacerdotessa di Apollo a Delfi, beveva alla sorgente Castalia per poterne trarre ispirazione prima dei suoi vaticini. Ed i pellegrini che si recavano al santuario di Delfi dovevano fare un bagno purificatore nella medesima fonte, come condizione previa per poter consultare l’oracolo.


            L’acqua è forma essenziale, creatrice di vita sia materiale che spirituale. Essa può tendere verso il basso o muoversi orizzontalmente. Ai primordi non vi erano confini per le acque sulla cui superficie era stato covato l’Uovo del mondo. L’acqua era stata dapprima caos e poi si era divisa in acque superiori ed acque inferiori (chiuse in un tempio dedicato al re dei Nâga), corrispondenti alla divisione per generi, maschile e femminile. Ne è simbolo la spirale doppia. L’acqua è dunque possanza universale. Essa stessa è soffio vitale: secondo la Genesi biblica, il soffio divino si muoveva sulle acque. Nella tradizione ebraica l’acqua è stata alla base della creazione, per cui la lettera M indica l’acqua come matrice ed ha un connotato ierofanico, è cioè manifestazione del sacro.


            Jahvè dà l’acqua alla terra per renderla fertile e creare le condizioni necessarie alla vita. Ma c’è anche un’altra acqua, quella metaforica della saggezza che alberga nel cuore dei sapienti, le cui parole hanno la forza dirompente di un torrente. La stessa Torà, cioè la dottrina religiosa contenuta nel Pentateuco biblico (GenesiEsodoLeviticoNumeriDeuteronomio), è fonte di saggezza. Lo Spirito Santo delle religioni cristiane dona l’acqua della saggezza, cioè la vita spirituale, e lava le anime: lo dice chiaramente Gesù nel Vangelo di Giovanni al capitolo 4, versetto 14 (“l’acqua che gli darò diventerà in lui sorgente di acqua, zampillante fino alla vita eterna”). Cristo stesso è fonte di vita. Sant’Attanasio (Ad Serapionem119) sintetizza il tutto con una bella formula: il Padre è la sorgente, il Figlio il fiume, noi beviamo lo Spirito”. Così facendo si entra nella vita eterna. L’acqua dunque salva, lavando dai peccati. Essa è grazia divina.


            L’acqua dà fecondità ed ha un potere medicamentale. Essa serve anche a moderare la forza del vino.


            Presso i taoisti cinesi operano tuttora dei maestri dell’acqua consacrata. Presso gli induisti, per l’inizio del nuovo anno si benedicono statue e persone con l’acqua benedetta, che è simbolo della virtù suprema, ha a che vedere con la saggezza ed è libera di seguire l’andamento del terreno. Nella cultura tibetana l’acqua rimanda ai voti espressi da coloro che intraprendono la vita monastica.


            Nell’ambito di sistemi contrapposti, l’acqua è il contrario del fuoco ma talora è connessa ad esso ed in particolare alla folgore. Infatti essa può purificare proprio come il fuoco.


            Non sempre, tuttavia, l’acqua simboleggia la vita, giacché richiama pure la condizione della morte. Infatti si discende nell’acqua come morti perché gravati dei peccati, tuttavia se ne riemerge vivi, sanati, purificati. Inoltre lo scatenamento delle acque è foriero di grandi catastrofi e dunque di morte, come nel caso del diluvio universale, che però colpì i peccatori e salvò i giusti. Un altro collegamento con la morte si ritrova nell’usanza celtica di porre sulla porta di casa di una persona defunta un contenitore d’acqua lustrale, con cui tutti coloro che si recavano a portare le loro condoglianze si aspergevano, al momento di uscire dalla magione in lutto.


            Nel Corano (14, 32 2, 164) si parla dell’acqua inviata dal cielo per far maturare i frutti e garantire la sopravvivenza del genere umano. L’acqua è poi fondamentale per il musulmano che deve fare le sue abluzioni prima della preghiera.


            Infine l’acqua che scende dal cielo ha un carattere maschile, quella che si trova sulla terra ha invece una connotazione femminile.


Il kumbh mela


            C’è una festa nel mondo induista che certamente rappresenta al massimo grado il legame tra l’acqua e la religione. Si tratta del festival induista detto della brocca, ovvero kumbh (brocca) mela (festa).Esso ha luogo nel Sangam, cioè alla confluenza fra il fiume Gange ed il fiume Yamuna. Il rito è duodecennale. Secondo la narrazione mitologica contenuta nei Purana, antichi testi induisti, ai primordi del mondo gli dei ed i demoni fecero ribollire le acque oceaniche per ottenere il nettare di vita eterna. Dalle acque ribollenti emerse una brocca con il prezioso liquido. I demoni presero la brocca ma lo spirito Jayanta riuscì ad impossessarsene a sua volta e la portò in cielo, sennonché durante il trasporto quattro gocce del nettare caddero sulla terra, dando origine a quattro città: Hardwar, Allahabad (l’antica Prayaga, ovvero confluenza), Nasik e Ujjain. Il viaggio verso il cielo durò dodici giorni e perciò ogni dodici anni, a turno in ognuna delle quattro città, si svolge il festival della brocca (dunque il kumbh mela ha luogo ogni tre anni in una delle quattro città). La giornata più importante di tutta la celebrazione è quella della luna nuova, allorquando si celebra il grande bagno rituale dei milioni di pellegrini recatisi al Sangam per liberarsi del ciclo di vita e morte, mediante l’immersione. Le coppie di coniugi fanno il bagno insieme. Ma i primi ad entrare in acqua sono gli asceti Nâga, che fanno il cosiddetto bagno reale, Shahi snan. Anche in giorni diversi dalla festa, ogni sera un bramino compie il rito del fuoco, che consiste nel roteare verso l’altro tre candelabri accesi (cioè i fiumi sacri Gange, Yamuna e l’invisibile Sarasvati) per richiamare l’attenzione delle divinità: il fuoco unisce così uomini e dei. Infine le fiammelle, messe in appositi contenitori, vengono lasciate galleggiare sul fiume, per andare verso il mare, dunque verso l’incommensurabile dello spazio (e del tempo). Un’ultima non secondaria considerazione va fatta: il Gange ha un carattere femminile. Infatti è detto Ganga. Lo stesso dicasi per il fiume Yamuna. Entrambe le dee-fiume sorreggono una brocca od anfora d’acqua: la dea Ganga con la mano sinistra e la dea Yamuna con la mano destra, in modo tale che le due figure poste l’una di fronte all’altra appaiano unite simbolicamente proprio dal contenitore d’acqua, testimonianza eloquente del grande culto che gli indiani e gli induisti riservano ai fiumi sacri per il loro potere purificatore e fecondante.


            Di rilevante interesse è un’antica relazione, Datang xiyu ji di Xuanzang, un pellegrino cinese che visitò l’India nel VII secolo dopo Cristo, all’epoca dei grandi T’ang: “Alla confluenza dei due fiumi, ogni giorno ci sono molte centinaia di persone che si bagnano e muoiono. La gente di questo paese ritiene che chiunque desideri rinascere in cielo debba digiunare fino ad un chicco di riso e poi annegare nelle acque. Bagnandosi in queste acque la contaminazione del peccato è lavata via e distrutta; pertanto molti arrivano da varie contrade e da regioni lontane e qui si fermano. Per sette giorni si astengono dal cibo e dopo finiscono la loro vita”.


Le valenze simboliche e religiose


            Non è raro che il pellegrinaggio comporti l’attraversamento di un corso d’acqua, specialmente in prossimità del luogo di arrivo. Orbene il fiume (od anche un semplice torrente) evoca immagini e significati che si legano strettamente a quelli del viaggio. Lo scorrere dell’acqua indica che tutto passa (appunto il “tutto scorre”, il tutto procede di antica memoria filosofica, dal presocratico Eraclito in poi) e che tutto si trasforma, mutando attraverso le forme assunte di volta in volta. Le onde, i cicli, si susseguono senza soluzione di continuità, dando luogo ad innovazioni senza sosta, irrorando vaste aree e rendendole fertili, dunque capaci di produrre frutti essenziali per la vita, rinnovando la natura e la capacità produttiva dei terreni. Ma la corrente d’acqua non s’arresta mai e tutto travolge e supera, dando l’idea del transeunte, del passaggio che dura poco più di un attimo. Platone del resto già esprimeva bene questo concetto nel Cratilo 402 a quando ricordava, con accenti eraclitei, che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Dunque l’acqua che scorre dà l’idea di ciò che passa, cambia, muore. Del resto la vita stessa di una persona ha una durata minima, rispetto allo scorrere dei secoli e dei millenni. Un viaggio, un pellegrinaggio, per quanto lungo è appena un momento nel corso di un’esistenza o semmai dura non più di qualche giorno od uno solo, nell’ampio arco di un intero anno.


            In molti casi si ricorre all’uso di vasti accampamenti, di estese tendopoli, con problemiigienico‑sanitarifacilmente immaginabili. Fra l’altro uno degli inconvenienti più spesso lamentati dai pellegrini islamici che si recano alla Mecca è lamancanza o comunque la scarsezza di acqua (è sintomatico che i proprietari degli alloggi ricevanoinizialmente solo lametà della sommapattuita per l’ospitalità, mentre l’altra metà resta adisposizione dei pellegrini sino alla finedel soggiorno,perché in caso di insufficienteprovvista di acqua essihanno il diritto di spenderetale somma appunto per l’acquisto dell’acqua, senza dovere più nulla ai locatori). Fra le diverse azioni prescritte nel pellegrinaggio alla Mecca, il pellegrino musulmano deve fare il Sa’y, cioè correre fra le colline di al‑Safa e al‑Marwa, dove Hagar cercò acqua per suo figlio, andando disperata avanti e indietro fra le due alture per sette volte, finché non apparve l’angelo Gabriele a far sgorgare acqua dal suolo. In ricordo del fatto prodigioso anche i pellegrini corrono per sette volte fra le due colline.


            L’attraversamento di un corso d’acqua segna anche il limite fra due territori differenziati: tra il profano ed il sacro, tra la morte e la vita. La traversata (o il superamento, eventualmente mediante un ponte) collega la realtà fisica a quella metafisica, la dimensione empirica a quella onirica, il desiderio alla sua realizzazione, l’al di qua con l’al di là. Presso i greci il passaggio di un fiume era accompagnato da riti propiziatori, in omaggio alla divinità fluviale, cui si offrivano anche dei sacrifici animali; inoltre, prima di attraversare, la preghiera ed il lavarsi le mani nello stesso fiume erano considerati atti dovuti.


            L’acqua infatti in quanto purificatrice pone il soggetto nella condizione migliore per accedere allo spazio del sacro, allo “stato di grazia” (è appena il caso di ricordare che Giovanni Battista battezzò il Cristo con l’acqua e nell’acqua del fiume Giordano). Nell’antica Cina i promessi sposi usavano attraversare un fiume nell’equinozio di primavera (momento di transizione calendariale e stagionale) come modalità purificatrice e propiziatoria in vista della fertilità matrimoniale.


            Un contenitore abituale di acqua è il pozzo, il cui carattere sacro è dato dalla sintesi fra cielo, terra, inferi. L’acqua offerta ad un nomade (e chiesta pregando) è simbolo che procura gioia, perché evita la morte per sete e dunque è come una manna. Lo stesso Mosè ebbe a fermarsi presso un pozzo, quello di Getro, riconoscendolo in tal modo come un centro spirituale, sia pure di livello minore; esso, come tutte le fonti, permetteva la nascita dell’amore mediante l’avvio di storie di innamoramento.


            Ogni viaggio o pellegrinaggio dipende dalla disponibilità di acqua, solitamente reperibile in un luogo di pace come l’oasi. Il pozzo è una sorta di microcosmo, che permette altresì la comunicazione con i defunti. Il suo misterioso contesto non ne indebolisce il carattere di crocevia. Va considerato che, a parte la collocazione verticale dell’imboccatura, il pozzo è anche una caverna, di cui condivide molti aspetti sul piano di una lettura metaforica.


            La terra degli israeliani e dei palestinesi è costellata da corsi d’acqua. A Gerusalemme è disponibile l’acqua preziosa di Siloe. All’ospite si offre acqua fresca e si lavano i piedi in segno di buona accoglienza. Lo stesso Jahvè è considerato in Osea 6, 3 come una benefica pioggia, sia invernale che primaverile. E l’uomo giusto è come un albero piantato lungo le rive di corsi d’acqua (Numeri 24,6).


            Non è raro altresì che un fiume scorra ai piedi di una montagna dove si trova un santuario. In tal modo la pregnanza del significato simbolico è enfatizzata al massimo. Come nel caso di Delfi, nell’antica Grecia, ogni santuario ha di solito una sua fonte, un pozzo d’acqua, una sorgente.


       Da un ombelico primordiale sarebbe nato il mondo. E dall’ombelico di Visnù, secondo un’antica tradizione induista, ebbe origine il fiore di loto che schiudendosi costituì la prima comparsa della vita. Il centro del loto era occupato dal monte Meru, asse del mondo. Fiore puro ed incontaminato, il loto è anche simbolo di una capacità di resistenza persino in acque torbide, dunque è un chiaro segno dell’inattaccabilità del bene da parte del male. Infine non è da trascurare il nesso precipuo fra il loto-ombelico e l’acqua, linfa di vita e contenitore di vita (nel grembo materno).        Vi è poi il legame con la croce. Infatti “la croce assume i temi fondamentali della Bibbia. Essa è albero di vita (Genesi 2, 9), saggezza (Proverbi 3, 18), legno (quello dell’arca, quello delle verghe di Mosè che fecero sgorgare l’acqua, quello cui è legato il serpente di bronzo). L’albero di vita simbolizza in modo reciprocamente scambievole il legno della croce, da cui l’espressione usata dai Latini: sacramentum ligni vitae” (Chevalier, Gheerbrant 1982: 323).


       Inoltre è significativo che nel proemio del Purgatorio ricorra la metafora del viaggio e più specificamente della navigazione, della “navicella dell’ingegno” del poeta che si lascia alle spalle un “mare crudele” e si appresta a percorrere “miglior acque”; tale metafora è ripresa all’inizio del canto II del Paradiso, dove il poeta ammonisce i lettori che hanno seguito il suo “legno” “in piccioletta barca” a non discostarsi dalla scia della sua nave. “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse” può dire con fierezza Dante, protagonista di un’impresa audace, simile a quella degli Argonauti, richiamata nei vv. 16-18 del medesimo canto, o all’ultimo viaggio di Ulisse, celebrato nel canto XXVI dell’Inferno, e però non un “folle volo”, perché intrapreso alla luce della fede” (Rigobello 1997: 21-2).


L’acqua come integrazione fra vivi e defunti


            La letteratura sulle divinità dell’acqua è ampia ed approfondita, comprende studi sull’Africa e sull’Asia, sull’Australia e sull’intero continente settentrionale, centrale e meridionale dell’America, nonché su realtà “minori” come quelle dei nomadi e degli Yoruba nigeriani.


            Com’è noto più di due terzi del corpo umano è composto di acqua, cioè di un terzo di ossigeno e di due terzi di idrogeno. Non meraviglia dunque la rilevanza attribuita all’acqua in tutte le dimensioni esistenziali, che peraltro hanno nella religione una componente significativa. Soprattutto viene enfatizzato, come si è già detto, il carattere fertilizzante dell’acqua, creatrice di vita. Essa permette anche la transizione dal profano al sacro, il che ha luogo appunto “passando le acque”, cioè andando dal fisico al metafisico, dalla terra al cielo. Anche i pagani aspergevano di acqua lustrale i loro defunti al momento dei funerali. Del resto lo stesso ciclo calendariale annuale è un susseguirsi di cicli legati all’acqua: “primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera”, come suona il titolo di un affascinante film, tutto incentrato sull’acqua e sulle sue varianti da neve a pioggia, da flusso che inonda a flusso che si ritira.


            Ma forse uno dei luoghi più intriganti sul rapporto fra acqua e religione si trova in Grecia, nei pressi di Preveza, in Epiro, e precisamente nel Νεκρομαντείο (da νεκρóς, morto, e μαντεία, oracolo), dove è stato ritrovato (nel periodo 1958-1977) un santuario in cui aveva luogo la comunicazione fra vivi e defunti. Il Νεκρομαντείο è antichissimo ed è collocato sulla riva nord del fiume Acheronte, presso le rovine di un monastero del XVIII secolo dedicato a San Giovanni Battista (dunque anche quest’ultimo particolare del santo titolare del tempio cristiano non è affatto casuale e sembra sottolineare chiaramente il nesso con il valore simbolico dell’acqua). Il punto centrale del Νεκρομαντείο è costituito da un’aula sacra la cui volta ha quindici archi: è questo il palazzo di Ade (ovvero Plutone) e Persefone, in cui le ombre dei morti apparivano per comunicare con quanti si recavano a consultare l’oracolo. L’intero complesso risale alla fine del IV secolo avanti Cristo od agli inizi del III secolo. Lungo le spesse mura della sala principale esiste una sorta di passaggio segreto che rendeva possibile al sacerdote vaticinante di muoversi inosservato. Inoltre i pellegrini erano sottoposti ad una dieta di fagioli e lupini che creava le condizioni ideali per la comunicazione con i defunti. Prima di accedere alla zona principale del santuario i visitatori dovevano provvedere alle operazioni di purificazione in un’apposita sala dedicata allo scopo. All’esterno del santuario sono visibili enormi anfore che presumibilmente contenevano l’acqua lustrale da servire per le abluzioni purificatrici. A fianco del Νεκρομαντείο scorre il fiume Acheronte, su cui secondo la mitologia greca Hermes traghettava i morti per farli giungere alle porte dell’Ade, cioè degli inferi, la cui entrata corrisponderebbe appunto al Νεκρομαντείο. Infatti per gli antichi le grotte, le gole profonde, le aperture nel terreno, le fenditure, erano da considerare delle zone di accesso all’al di là. C’era la credenza che i morti, privati del corpo e divenuti ombre, avessero raggiunto l’immortalità e potessero predire il futuro a coloro che avessero seguito talune prescrizioni (alimentazione particolare, sacrifici, lavacri ed altro ancora). Nel Νεκρομαντείο apposite sale più piccole servivano per l’incubazione, cioè la preparazione lenta, meticolosa e ritualizzata per predisporsi ad un’azione sacra come quella dell’interrogare i defunti (anche Ulisse lo aveva fatto, come si legge nell’Odissea). Infine è da notare che l’Acheronte ha una parte sotterranea del suo corso che poi sfocia nella palude detta Acherusia, giusto dove si collocava l’ingresso agli inferi (Odissea X, 513). Per questo presso i Latini il nome Acheronte era sinonimo del regno ultraterreno.


Conclusione


            Sullo sfondo rimane tuttavia soprattutto il massimo problema di tipo integrativo, quello che vede ancora un forte divario fra chi dispone di risorse idriche sufficienti e chi invece deve cercare soluzioni alternative, con sforzi enormi e scarsi risultati. Quasi tre miliardi di persone nel mondo non dispongono di adeguati servizi igienici per scarsità di acqua. Ciò pur stimolando soluzioni solidaristiche non permette di dedicare tempo ed attenzione agli aspetti relativi alla condivisione sociale, alla consapevolezza civile, al rispetto dei diritti, all’osservanza dei doveri. Ed intanto permangono insoluti ben altri problemi: la conservazione dell’ambiente, la gestione delle risorse floro-faunistiche, la politica sanitaria, il controllo delle malattie, delle infezioni, delle epidemie, della malaria, delle arbovirosi provenienti dagli animali artropodi (ma non solo) – arthropod borne viruses –, la corretta conduzione dell’acquacultura (Kay 1999).


            Il fatto è che spesso sono le minoranze di ogni genere che corrono maggiori rischi perché risiedono vicino ad acque inquinate. Varie ricerche hanno messo in evidenza come la distanza dai luoghi di approvvigionamento dell’acqua è direttamente proporzionale al rischio di ammalarsi, per cui le condizioni ambientali più prossime hanno un’incidenza strategica sulla salute delle persone.


            La sociologia dell’acqua (Gambescia 2006) può essere di aiuto a studiare fenomenologie e dinamiche collegate ai tassi di disponibilità idrica, onde studiare impatti e conseguenze ma pure soluzioni e rimedi. Va però anche riconosciuto che si tratta di un’attività scientifica piuttosto ardua perché contrasta con interessi consolidati, privati, privilegiati, rendendo difficile la stessa percezione dell’esistenza di un problema, più di frequente segnalato dagli scienziati sociali che non da altri studiosi di discipline non umanistiche. D’altro canto il confronto è destinato a scontrarsi con criteri facilmente manipolabili da parte di chi avendo il know how specifico è portato in ogni caso a contestare le prove altrui, definite come deboli, non affidabili, non significative, non rappresentative. Neppure di fronte ad elementi di schiacciante evidenza ci si può aspettare un atteggiamento di disponibile consenso. Sul versante opposto si muove la proposta del rispetto dell’ILVA, cioè dell’Indigenous Land Use Agreement, in quanto accettazione – da parte di chi vi risiede – del tipo di uso da fare del terreno disponibile.


            Come scrive Gambescia (2006) “il problema della proprietà pubblica dell’acqua (ma sarebbe preferibile definirla ‘collettiva’), come del resto altre grandi questioni ‘ambientaliste’, sta assumendo un’importanza strategica, per un capitale privato, sempre più affamato di profitti. E questo spiega il silenzio del ‘Corriere della Sera’, ‘Repubblica’, ‘Stampa’, per non parlare dei giornali della destra conservatrice e liberale. Tutti dipendono finanziariamente, chi più chi meno, da quei ‘poteri forti’, non solo italiani, che vogliono appropriarsi di un ‘bene comune’, come l’acqua, per trasformarlo, in una ennesima fonte di lucrosi guadagni. Di qui la necessità di opporsi. Ma anche di una spiegazione sociologica del processo in corso. L’idea economicistica di fondo è che non esistono beni collettivi, ma solo beni privati e acquisibili, sul mercato, pagando un ‘prezzo’. L’assioma sociologico sottostante è che l’individuo è tutto e la collettività nulla. Attenzione, si crede nell’individuo autosufficiente in grado di lavorare e acquistare i beni di cui ha bisogno. Si dà, insomma, per scontato che tutti siano in grado di farcela da soli. E che chi ‘non riesce’ sia colpevole, perché non si è abbastanza impegnato. Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo anni Ottanta, ama ripetere nei suoi libri, con autentico sadismo, che nel capitalismo ‘nessun pasto è gratis’: ogni bene ha un prezzo. E soprattutto che nessuno può pretendere di vivere alle spalle dell’altro. Tuttavia, affinché si giunga alla mercificazione totale è prima necessario attribuire al bene un carattere di ‘fruibilità limitata’. La scarsità di un bene determina il suo prezzo, e proprio perché il bene è scarso, e quindi raro, il suo prezzo non deve essere eccessivamente basso. E comunque, sarà il mercato, attraverso la concorrenza a fissare il prezzo ‘giusto’ per produttori e consumatori. Questa, in breve, la vulgata liberista. Che, una volta compresa nelle sue linee di massima, consente però di distinguere le tre principali fasi di un processo ‘idealtipico di privatizzazione’: 1) si dichiara l’acqua un ‘bene scarso’; 2) si danno per scontate l’autosufficienza dell’individuo e la bontà dei meccanismi concorrenziali; 3) si dà il via alle privatizzazioni… L’acqua non è un bene scarso. Ma è un risorsa mal distribuita e poco condivisa (soprattutto tra Nord e Sud del mondo). E anche se lo fosse, in quanto risorsa necessaria alla riproduzione della vita, andrebbe messa gratuitamente a disposizione di tutti, evitando sprechi e razionalizzandone, con investimenti pubblici, la rete di produzione e distribuzione. L’uomo non è un’isola: l’individuo non sempre è autosufficiente, e dunque ha bisogno di un sostegno pubblico e di una rete di solidarietà. E soprattutto di non essere mai privato di quelle risorse, come l’acqua, necessarie alla sua riproduzione fisica. I mercati, oltre a essere imperfetti, escludono coloro che non possono ‘accedervi’, perché privi di lavoro, e dunque di reddito spendibile. Privatizzare il settore significa avviare un processo di concentrazione monopolistica e di conseguente assorbimento delle imprese più piccole da parte di imprese più grandi, e probabilmente straniere. Sono verità “sociologiche” semplici, direi quasi luoghi comuni”.


            Con un taglio più scientifico la rivista Worldviews. Global Religions, Culture, and Ecology (volume 17, n. 2, 2013) ha dedicato al tema un suo numero speciale dal titolo “Living Water”: articoli di diversa impostazione e specifico contenuto affrontano il significato ed il ruolo dell’acqua nella vita sociale a partire da una prospettiva buddista (Butcher: 103-114), da una visione estrema quale può essere quella di un contesto artico siberiano ai limiti della sopravvivenza fra liquido e solido (Crate: 115-124), dalla situazione di straordinaria abbondanza di acqua nel Kirghizistan costellato di mazars cioè di luoghi che sono insieme sacri e terapeutici (Bunn: 125-137), dal ruolo dei guaritori-indovini Nguni del Sudafrica impegnati nella ritualità dell’acqua perenne ovvero living water (Bernard: 138-149), dai tre indicatori usati a Boston per testare la qualità delle acque cioè aringhe, batteri e gigli d’acqua (Scaramelli: 150-160), dalle relazioni dei gruppi umani con altre specie a seguito della costruzione di una diga (Strang: 161-173), dalle rapide del fiume Kemi (in Lapponia) chiamato “corrente di vita” (Krause 174-185). Emblematicamente i curatori sostengono che “per molte persone l’acqua compendia le connessioni e l’integrazione di processi vitali: come l’elemento fonte di vita che permette la produzione e la riproduzione, e come un’essenza della comunità e dell’appartenenza” (Krause, Strang: 96). Ed in conclusione “l’acqua può essere sia fonte di vita che minaccia per la vita, e molto dipende dal momento, dalla quantità, dalla composizione, dalla distribuzione spaziale e dal controllo socio-economico dei flussi d’acqua. Concentrarsi sui problemi dell’acqua serve anche ad esprimere le più ampie vulnerabilità ed ansietà delle persone, fornendo una nuova prospettiva sulle relazioni socio-politiche” (Kraus, Strang: 96-97).  


Riferimenti bibliografici


Comte A. (1852), Catèchisme positiviste ou sommaire exposition de la religion universelle, en onze entretiens systématiques entre une Femme et un Prêtre de l’Humanité, Paris, chez l’Auteur et chez Carilian-Goeury et V. Dalmont.


Chevalier J., A. Gheerbrant (1982), Dictionnaire des symboles. Mythes, rêves, coutumes, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, Paris, Robert Laffont/Jupiter, pp. 374-382.


Durkheim É. (1973), Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Roma, Newton Compton Italiana; ed. or., Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Paris. Alcan, 1912.


Gambescia C. (2006), Sociologia dell’acqua, Arianna Editrice, www.ariannaeditrice.it


Kay B. H. (1999), Water Resources: Health, Environment and Development, London, E & FN Spon.


Rigobello G. (1997), “Ulissidi, cavalieri erranti, viandanti, pellegrini e stranieri”, in AA. VV., Stranieri e pellegrini, Roma, Meic.


Rudhardt J. (1989), “Acqua. Divinità delle acque nella mitologia greca”, in Bonnefoy Y. (1989), Dizionario delle mitologie e delle religioni. Le divinità, l’immaginario, i riti, il mondo antico, le civiltà orientali, le società arcaiche, vol. primo A-E, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, pp. 1-9; ed. or., Dictionnaire des Mythologies, Paris, Flammarion, 1981.