Category Archives: saggi

LA FAMIGLIA FRA TRADIZIONE E CAMBIAMENTO

Roberto Cipriani


Premessa


         Il Nono Rapporto 2005 del Centro Internazionale Studi Famiglia dal titolo “Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie”[1] affronta fra l’altro i problemi legati alla necessità di conciliare lavoro e famiglia, alle politiche dei tempi lavorativi e dei tempi familiari, alla legislazione del lavoro in rapporto al sostegno delle famiglie. Sullo sfondo di tali questioni resta punto essenziale di riferimento la figura del bambino, che merita tutta l’attenzione possibile della società ed in particolare della famiglia di appartenenza. Ma proprio la costruzione della famiglia e di un certo tipo di famiglia è alla base della socializzazione primaria e dell’attività educativa. Oggi l’operazione del costruire la famiglia trova impedimenti di varia natura. Innanzitutto sono i giovani a dover rinunciare a mettere in piedi una famiglia, angustiati come sono dai problemi dell’occupazione, della sicurezza del lavoro, della casa e della sussistenza. Ed anche quando la famiglia viene costituita è in primo luogo la donna a pagare lo scotto della rinuncia alla maternità, perché non agevole a fronte di tutta una serie di interrogativi esistenziali: il rischio di perdita del lavoro, l’impossibilità di stare dietro agli impegni, alle necessità, ai tempi ed alle emergenze di lavoro, l’inconciliabilità dei ritmi di ufficio o fabbrica con quelli domestici, familiari e genitoriali. Alla fine il tempo a disposizione delle relazioni madre-figli, padre-figli, si riduce oltre ogni limite di accettabilità, tanto da costringere a decisioni drastiche quali l’abbandono della risorsa preziosa dell’occupazione.


         Il Nono Rapporto 2005 del CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia), di cui Pierpaolo Donati è co-autore principale con altri studiosi specialisti del settore, presenta due scenari: quello lavoristico e quello sussidiario. Il primo vede la famiglia tentare delle soluzioni di convivenza con il mercato del lavoro, attraverso facilitazioni adeguate e percorsi flessibili di cui lo Stato può essere il garante nei confronti del mercato. Il secondo considera la famiglia come un capitale sociale da valorizzare e da sostenere con misure appropriate, in grado di superare le contraddizioni ed i contrasti fra mondo familiare e mondo lavorativo, grazie anche al supporto dell’intera comunità. Insomma in un caso è lo Stato a farsi carico del problema ponendosi come mediatore rispetto al mercato del lavoro, nell’altro è l’insieme della comunità a provvedere alla risoluzione dei problemi di conflitto tra famiglia e lavoro.


Dalla socializzazione primaria alla socializzazione secondaria


         La famiglia appare come un’istituzione continuamente in crisi, per diversi motivi: di lavoro, di natura economica, di conflittualità interpersonale, di affettività, di coniugalità, o di altra origine talora incerta ed indecifrabile. Di tutto ciò risentono le generazioni più giovani: da quella infantile a quella adolescenziale, cioè nel periodo più delicato dell’esistenza allorquando comincia ad avere luogo l’inserimento nella società adulta. Proprio in questa lunga fase si è alla ricerca di una qualche sicurezza che abbia un carattere sia fisico che psicologico, quasi anticipando il momento successivo del reperimento di un posto di lavoro, a sua volta fonte di preoccupazioni a più livelli.


         L’ingresso in società con il passaggio all’adultità è pur sempre un evento tendenzialmente traumatico, da assorbire lentamente, con gradualità, dopo tutta una serie di esperienze negative e di desideri insoddisfatti che mettono alla prova le creature più giovani. Di fronte a situazioni irresolubili l’individuo non ancora del tutto socializzato può avere reazioni tra le più diverse: dal mettersi sotto accusa per la propria incapacità fino al rivolgere pesanti rimproveri alla famiglia di appartenenza, dal dubitare della società nel suo complesso sino al rinunciare ad ogni forma fiduciaria nei confronti di singoli individui. Sovente l’esito finale è quello di un adattamento forzato, di un ripiegamento su se stessi, di un’indifferenza nei riguardi dei problemi societari, di un auto-annientamento in forme solipsistiche auto-emarginanti.


         La persona ragazzo/ragazza si trova in balía tra la sua famiglia di origine e la comunità di appartenenza. Una sorta di bombardamento ha luogo nei suoi confronti, con la proposta sovente contrapposta di valori, di principi, di orientamenti, di modelli comportamentali. Le sue esplorazioni sono perciò lente, talora incaute, talora coraggiose, improvvise. Il suo processo di integrazione avanza per gradi, attraverso un “addomesticamento” mirato all’acquisizione dei sistemi di vita dominanti e delle prassi più diffuse.


         La socializzazione primaria avviene soprattutto (se non proprio esclusivamente) in famiglia, dunque da genitori a figli e figlie. I rapporti che la caratterizzano hanno un valore in sé, sono dati per scontati, appaiono di natura essenzialmente affettiva e personale ed approdano a relazioni quasi sempre solidaristiche e comprensive, cioè generose ed accoglienti.


         La socializzazione secondaria si sviluppa quasi sempre al di fuori della famiglia, per raggiungere alcuni scopi predeterminati, fissati consapevolmente dai soggetti interessati. Il tutto avviene mediante rapporti interpersonali indefiniti, impersonali e strumentali e perciò abbastanza concorrenziali e selettivi. Il che rappresenta una chiara contraddizione con la precedente socializzazione primaria.


         Quando chi non è ancora adulto affronta la problematica dell’interazione sociale tende ad entrare in angoscia, perché non conosce e non è in grado di prevedere ciò che gli sta per succedere. Grazie all’avanzamento della socializzazione secondaria si riesce tuttavia ad affrontare più facilmente i problemi che emergono di volta in volta.


         Nell’ambito della socializzazione secondaria istituzioni formali come la famiglia ed informali come la moda del momento sfociano in un unico andamento che conduce ad una sempre maggiore integrazione dell’individuo nella società.


         La natura delle istituzioni di socializzazione primaria (che, secondo alcuni, comprenderebbero – oltre la famiglia – anche la scuola e la chiesa) è tale che esse non possono essere considerate strumentali, utilitaristiche: gli stretti legami con le specifiche istituzioni lo impedirebbero. Invece nelle modalità di socializzazione secondaria appare più evidente la natura strumentale delle forme e dei rapporti di fatto.


Le dinamiche familiari


         La prima e fondamentale forma associativa resta la famiglia. Pertanto è su quest’ultima che si concentrano le potenzialità socializzatrici ed educative. Ovviamente i contenuti e l’incidenza dell’azione di avvio all’inserimento nel sociale variano sensibilmente da famiglia a famiglia, da classe sociale a classe sociale: un conto è l’agire di una famiglia operaia, un altro è quello di un nucleo familiare appartenente alla classe media oppure alla borghesia medio-alta. Gli esiti delle diverse azioni risultano evidenti dagli atteggiamenti e dai comportamenti che assumono poi in concreto ragazze e ragazzi.


         In questo quadro d’insieme la presenza del matrimonio monogamico sembra favorire dinamiche più stabili ed anche più prevedibili, in pratica senza particolari sussulti (salvo eccezioni). La saldezza e la costanza dei rapporti intrafamiliari assicura sviluppi più regolari ed orientabili da parte degli adulti. La permanenza poi in un medesimo ambiente non fa altro che facilitare la continuità e l’efficacia dell’azione socializzatrice.


         Ben diversa sarebbe la situazione di famiglie a tempo determinato, o di matrimoni ad experimentum cioè a titolo di prova, con legami precari, provvisori, non destinati – per definizione – a saldarsi in via definitiva.


         Sia le culture esogamiche, nelle quali la propensione è di cercare moglie (o marito) al di fuori della propria comunità, sia le culture endogamiche, in cui la ricerca del coniuge si muove entro il cerchio stesso del grande gruppo sociale di appartenenza, producono effetti similari per quanto concerne l’educazione dei figli ed il loro adattamento alla società adulta.


         Anche la familia romana dell’epoca classica aveva caratteri specifici, a mezza strada fra una dimensione interna ed una esterna, quest’ultima ancora più accentuata che non nella famiglia greca della classicità. In effetti “a partire dalla civiltà greca, e poi in quella romana, la famiglia viene intesa come un aggregato naturale che coincide con la ‘casa’ (oikìa) quale doppia unione, di un uomo e una donna (con i loro figli) e tra padrone e schiavo (‘domestici’, da domus = casa, o ‘famigli’, da famuli = servi). La famiglia viene così caratterizzata come ‘la comunità costituita secondo natura per la vita di ogni giorno’ (Aristotele), come la sfera privata per eccellenza. Essa è la cellula del villaggio (o gens o tribù), il quale è retto dal più anziano dei capifamiglia; a loro volta, più villaggi, unendosi insieme, formano la città (polis). Le differenze fra la Grecia classica e Roma non sono di poco conto: nella prima la famiglia è sfera ‘privata’ (di minor valore) più di quanto non lo sia nella seconda; la cultura romana presenta una maggiore pubblicizzazione della famiglia (della famiglia Cicerone dice che è seminarium rei publicae). Ma in entrambi i casi l’autorità è patriarcale e la discendenza patrilineare (a differenza di altre popolazioni, per esempio italiche, che erano ad autorità patriarcale e discendenza patrilineare, e di cui tuttora persiste il ricordo nella sub-cultura della Grande Madre meridionale)”[2].


         Già nel Terzo Rapporto del CISF sulla famiglia[3] era emersa la centralità della famiglia sia in relazione alla natura degli affetti interpersonali sia in rapporto con la dimensione societaria e comunitaria. Il fatto è che lo Stato e la società non sostengono la famiglia, non offrono servizi socio-sanitari, non consentono agevolazioni fiscali adeguate. Insomma è come se la famiglia non avesse funzioni sociali significative, non svolgesse compiti di mediazione sociale, non fosse degna di alcuna cittadinanza sociale, non potesse godere di diritti specifici (pure già presenti nel diritto romano di molti secoli fa).


         La realtà attuale ha visto sorgere nuove e promettenti iniziative che hanno a che vedere con i tentativi di superare i contrasti fra Stato e mercato mediante l’intervento del cosiddetto terzo settore (in cui la presenza cattolica non è secondaria). Le stesse famiglie si sono spesso associate territorialmente per affrontare problemi comuni e suggerire soluzioni convincenti ed efficaci. A fronte di uno Stato incapace di gestire tutto e talora troppo sensibile ed attento a sovvenzionare frange minoritarie e clientelistiche, il movimento del volontariato ha cominciato a dire parole nuove, a superare il negativismo ad ogni costo e l’immobilismo costante.


         Non è un caso che proprio il volontariato stia supportando soprattutto le famiglie, nella convinzione che un ambiente familiare preparato ed efficiente sia in grado di garantire l’accesso dei fanciulli e delle fanciulle all’esterno del nido domestico, rassicurando i più impacciati per ragioni di età, fornendo riferimenti di valore, di stile di vita, di modalità comportamentale. Si evita così il rattrappirsi delle speranze e si entra maggiormente in sintonia con il presente.


         Le famiglie riescono a dotare i più piccoli di speranze per la vita, di progetti per l’avvenire, di obiettivi da raggiungere. L’aiuto genitoriale è fondamentale in questa fase. Qui la famiglia costruisce le basi delle nuove famiglie, trasmettendo i contenuti educativi essenziali. In fondo ogni familiare diventa un esperto, un competente, che pur nell’asimmetria dei rapporti (da adulto ad infante o adolescente) diviene indispensabile per promuovere atteggiamenti e comportamenti che non sono affatto negoziabili: comprensione, generosità, altruismo.


La costruzione della famiglia


         Oggi più che mai la famiglia rischia di essere decostruita dalle difficoltà che insorgono nel mantenere insieme esigenze di lavoro e necessità domestiche. La sinergia tra famiglia e lavoro appare difficile. In effetti non c’è una vera e propria politica sociale per la qualità dei tempi lavorativi e di quelli familiari, in quanto è arduo riuscire a mettere d’accordo gli uni con gli altri (e neppure l’organizzazione stessa della vita quotidiana lo consente).


         D’altro canto non è immaginabile che si possa fare a meno del lavoro, giacché in questo caso l’esito avrebbe conseguenze del tutto contrarie ad ogni ipotesi costruttiva della famiglia: chi è senza lavoro non si propone a cuor leggero di avviarsi lungo l’itinerario familiare ed ancor meno pensa a mettere al mondo figli. Così la famiglia non ha più spazio, il tasso demografico decresce, la società non si rinnova.


         La situazione più difficile è però quella della donna sola, magari non sposata o separata o divorziata o rimasta vedova, che è indotta a rinunciare alla maternità per ragioni contingenti e non certo solo a causa del lavoro. Vengono dunque meno le condizioni minimali per la costruzione di nuove famiglie.


         Nei casi in cui si riesce comunque a creare una famiglia è da considerare che ai fini di una crescita del senso di appartenenza ad essa diventano fondamentali i riti di passaggio, nella misura in cui vengano celebrati e solennizzati anche con cerimonie, anche di natura religiosa, che ne sottolineino il carattere fondante, altamente emblematico, ricco di significati vitali. In fondo è in queste occasioni che gli adulti “scoprono” l’infanzia, si rendono maggiormente conto del ruolo che attende le future generazioni, si chinano a guardare verso il mondo dei minori, evitando – per quanto possibile – ambiguità e fraintendimenti. In proposito è illuminante ed emblematico il caso esemplare proposto da Jean-Paul Sartre, che nel suo L’idiota della famiglia ci presenta una situazione (non infrequente) di un ragazzo del tutto incompreso dai suoi familiari ma poi capace di muoversi ai livelli più alti, per esempio in campo letterario, come appunto Gustave Flaubert.


         La famiglia peraltro se dipende dalla negoziazione fra mercato e lavoro rischia di rimanere schiacciata, debole com’è a fronte di impellenze di maggior peso. Solo un’azione di sussidiarietà comunitaria e societaria permette di valorizzare rapporti e ritmi lavorativi e familiari sino al punto da ottenere soluzioni soddisfacenti, grazie ad attori sociali impegnati e fattivi, magari legati in rete fra loro e capaci di incrementare al massimo il capitale sociale rappresentato dall’istituzione familiare.


La famiglia oggi


         Oggi la famiglia coniugale pare perdere importanza a favore di altre situazioni che sono unioni di fatto, oppure nuclei monopersonali (con un solo individuo), od ancora monogenitoriali (solo il padre o solo la madre, con figli), od invece ricostituiti dopo precedenti esperienze familiari di diverso tipo (di fatto, coniugale, monopersonale, monogenitoriale), in cui risulta prevalere la dimensione affettiva rispetto a quella della consanguineità.


         In altri contesti, più complessa ed articolata è la fenomenologia che riguarda un territorio molto ampio come quello cinese, dove si riscontrano famiglie estese e molteplici (ma invero tali caratteristiche stanno venendo sempre meno, anche come conseguenza della riduzione del tasso di fecondità, per imposizione governativa).


         Ben diversa è invece la condizione prevalente nel continente africano, dove non si registrano differenze peculiari rispetto al passato, giacché la famiglia coniugale è la modalità più presente, insieme con un alto tasso di fecondità che raggiunge la media di 6,2 figli per ogni donna. Il che è agevolato pure dalla poliginia (o poligamia), che vede un uomo avere più donne.


         Indubbiamente, con l’introduzione della legge che consente, in vari Paesi, il divorzio, sono aumentate le famiglie ricostituite, nelle quali cioè uno dei due coniugi contrae un secondo matrimonio (si tratta di circa il 50% dei casi negli Stati Uniti; in Italia non si è lontani da tali livelli ma occorrerà verificare in futuro se ed in che misura un simile andamento prenderà piede anche da noi).


         Sovente il ricorso alla ricostituzione di una famiglia non deriva dalla morte di un coniuge bensì da altre ragioni e decisioni. I dati empirici mettono in evidenza che in linea di massima il secondo matrimonio tende ad essere più fragile del precedente, giacché presenta incertezza, ambiguità, indefinitezza. Incidono su tali difficoltà motivi vari: non si condivide la medesima abitazione, i cognomi dei soggetti minori che compongono la famiglia non sono i medesimi, non vi è consanguineità fra i membri del nucleo, i modelli educativi sono diversi, la socializzazione ricevuta è differenziata sino ad apparire contrastante e conflittuale. Inoltre i processi di legittimazione e di istituzionalizzazione familiare sono controversi e disomogenei, tanto da rischiare di divenire problematici al punto da sfociare in incomprensioni, mancanza di dialogo e rotture irreparabili. Per non dire degli scontri intergenerazionali, interculturali ed interconfessionali. Soprattutto tra i figli nati da matrimoni diversi scaturiscono divergenze di opinioni e comportamenti che producono esiti deleteri per il mantenimento dell’equilibrio intrafamiliare, già messo a dura prova per la sua stessa origine e composizione.


         In Italia, negli ultimi decenni la famiglia ha goduto di una maggiore stabilità nel periodo dal 1946 al 1965 ma in seguito l’andamento è stato altalenante, con perdite e recuperi in successione irregolare. Non si sono tuttavia avuti eventi eclatanti come quelli tipici degli Stati Uniti d’America che già nel 1955 vedevano la durata media della famiglia attestarsi intorno ai 31 anni e successivamente, sin dagli anni Settanta, presentavano un numero di matrimoni poi finiti a seguito di divorzio superiore a quelli terminati per ragioni di vedovanza di uno dei due coniugi.


         L’instabilità matrimoniale è pure da attribuirsi al venire meno dei vincoli di natura economica e patrimoniale, all’avanzare del processo di secolarizzazione delle società occidentali, al cospicuo ingresso delle donne nel mondo del lavoro (in precedenza tendenzialmente escluso dalle loro prospettive esistenziali ed occupazionali).


         Diversa è la situazione del mondo arabo, dove la formula del ripudio era ed è agevole in quanto è sufficiente proclamare per tre volte dinanzi a due testimoni la frase “io divorzio da te” per essere legittimati a contrarre nuovi legami. Dunque anche in tale contesto il ricorso al divorzio permane una prerogativa tipicamente maschile.


         In Europa, peraltro, il tasso dei divorzi è in aumento ed ha luogo in un quarto dei casi entro il quinto anno dalla celebrazione delle nozze.


         Non è poi trascurabile il dato che concerne l’immigrazione dai Paesi extraeuropei verso le nazioni europee: la catena familiare e parentale è certamente il fattore di maggior peso perché è in tal modo che hanno luogo scambi, forme di sostegno, azioni di protezione, iniziative di risposta ai bisogni primari della popolazione immigrata. Ogni scelta è informata soprattutto alle esigenze di carattere familiare: alloggio, alimentazione, divisione delle spese e delle risorse.


         Di solito la famiglia nucleare (padre, madre e figli) mantiene contatti e relazioni con le due famiglie di origine, cioè dei nonni (ovvero dei genitori rispettivamente del padre e della madre), in modo da utilizzare al meglio la rete delle conoscenze, il sistema delle segnalazioni (e raccomandazioni), l’insieme degli aiuti psico-affettivi e dei sostegni finanziari, l’offerta di regali e servizi (talora parte non trascurabile di un budget familiare: si pensi all’assistenza prestata gratuitamente nei confronti dei più piccoli o alla serie di piccoli e grandi doni che talora sovvengono ad una necessità impellente). Se poi la residenza delle famiglie di origine non dista molto da quella del nucleo familiare di procreazione, insomma se nonni, figlie e nipoti si vedono quasi quotidianamente, allora il quadro di interscambi è talmente cospicuo che quasi non c’è soluzione di continuità tra una famiglia e l’altra e tra una generazione e le altre.


         In verità, delle relazioni di tipo parentale (con cugini e procugini, zii e prozii, nipoti e pronipoti e così via) sono soprattutto le donne ad interessarsi, quasi per tacita divisione dei compiti. Infatti ad esse capita solitamente di provvedere ad organizzare incontri e cene, gite e feste, celebrazioni e ricorrenze, scambi di donativi e cortesie reciproche. Il tutto, del resto, può anche inserirsi in una logica a larga portata, che si connette a questioni economiche, professionali, lavorative e promozionali. Però vi sono differenze sostanziali a livello di classi sociali. Se nelle classi medio-alte i genitori sono più propensi a fornire un aiuto diretto ai figli (per esempio assicurando loro l’ereditarietà di una posizione privilegiata o la successione nella proprietà di un’azienda o di beni immobili), nel caso invece delle altre classi sociali si interviene a favore dei minori e dei più giovani garantendo più che altro servizi utili, a vario titolo.


         Infine “perché lo Stato non aiuta le famiglie nelle quali le madri, all’arrivo del figlio, lasciano il lavoro per far crescere il figlio? Quando il lavoro in famiglia sarà considerato anche un lavoro come un altro?”. Questi due interrogativi mi sono giunti per iscritto su un foglietto, al termine di un mio intervento sul tema “Costruire la famiglia”, in occasione di un recente convegno nazionale. Gli interrogativi posti sono largamente condivisibili. Troveranno soddisfazione solo quando la cultura legata alla famiglia ridurrà la componente economicistica ad una semplice variabile dipendente e non la considererà più del tutto indipendente, come lo è ora, visto che gran parte della nostra esistenza è costretta a legarsi ad esigenze di natura economica: occupazione, salario, tempi lavorativi. Ed intanto i tempi familiari continuano a non essere soppesati come meriterebbero.


Famiglia e figli


         Il nesso tra famiglia e figli è talmente intrinseco, scontato, che quasi non serve aggiungere alcuna considerazione in proposito. Basti considerare che la continuità demografica non avrebbe più alcun seguito senza la sua base costitutiva, cioè un legame significativo, stabile (almeno tendenzialmente), capace di assicurare non solo la trasmissione della vita ma pure l’azione socializzatrice che permette di preparare le nuove generazioni perché siano protagoniste del loro futuro come soggetti sociali consapevoli e adeguati alle sfide della vita.


         Ecco perché la presenza e la funzione del ruolo genitoriale-educativo diventano elementi preganti della famiglia. E dunque emerge la centralità della condizione che si può definire infantile e filiale al medesimo tempo. Non a caso proprio su questo punto ha centrato la sua attenzione, in un recente, documentato saggio, la sociologa della famiglia Gabriella Mangiarotti Frugiuele[4], che molto insiste sulla dimensione del ragazzo e della ragazza piuttosto come figlio e figlia, in una prospettiva che è chiaramente espressa: “nella relazione educativa attraverso l’esperire empatico si struttura il legame sociale, il quale mediante i processi di socializzazione, culturalmente connotati, si sviluppa nelle forme istituzionali e nei modelli informali della vita quotidiana, costituendo la condizione di sopravvivenza della stessa società”[5]


         Ancora più esplicito, se possibile, è quanto segue: “un processo di svalutazione ideologico-istituzionale della realtà familiare iniziata nel secondo dopoguerra, ha avuto il suo apice nella seconda metà del Novecento e si può considerare tuttora in corso, nonostante l’emergere evidente di dati scientifici e sociali ce ne rivelano la centralità e la vitalità. Esso ha contribuito alla formazione di atteggiamenti e comportamenti erosivi di quella dimensione dell’appartenenza indispensabile nella strutturazione dell’identità personale e della personalità. La famiglia costituisce infatti l’ambito primario di formazione della persona e della sua identità, dove si elabora quella sicurezza di base così cruciale per una corretta crescita e senza la quale anche l’esito socializzativo diviene incerto e forse incompleto”[6].


         Come immaginare infatti una società del tutto senza famiglia, una famiglia senza bambini, i bambini senza famiglia? Ognuna di queste tre situazioni appare problematica. Certamente vi possono essere condizioni legate a catastrofi naturali, ad impedimenti di natura genetica ostativi alla procreazione, ad eventi tragici, che diano luogo alla distruzione di interi nuclei familiari, alla mancanza di figli in una famiglia, all’assenza di genitori per una figliolanza, ma si tratta pur sempre di fatti fuori dell’ordinario, non della regola, giacché se tale fosse non si potrebbe far altro che pensare ad una fine della storia, non più alla Fukuyama, bensì in senso reale come fine dell’umanità stessa. Fuor di retorica ed al di là di ogni catastrofismo indebito è un dato inoppugnabile che l’esperienza familiare è largamente condivisa a livello universale, pur nel differenziarsi delle forme, che vedono prevalere nell’82,59% un modello poliginico (cioè uomo che si unisce con più donne), seguito – nel 15,89% delle società esaminate – dal modello monogamico (cioè uomo o donna che si unisce, rispettivamente, con una sola donna o con un solo uomo), mentre è quasi trascurabile, attestata allo 0,46%, la presenza del sistema poliandrico (cioè una donna che si unisce con più uomini). In quasi un migliaio di società censite nel mondo a livello etnografico la formula matrimoniale dà luogo a gruppi sociali ristretti composti da almeno due persone che hanno una medesima residenza, condividono le risorse economiche e provvedono alla procreazione e dunque alla riproduzione della specie umana. Forse il carattere più soggetto ad eccezioni è quello del luogo condiviso come abitazione, ma gli altri due elementi della compartecipazione e della generazione appaiono piuttosto indefettibili.


         In chiave di residenza, in particolare, domina la soluzione patrilocale (con residenza postmatrimoniale presso la casa paterna dello sposo) nel 68,53% delle società prese in esame nel mondo, mentre la matrilocale (con residenza dopo il matrimonio presso la casa di famiglia della sposa) riguarda il 13,05 dei casi. E tuttavia non vanno trascurate altre soluzioni che assommano al 18,41%, con residenza bilocale (cioè a periodi alternati tra patrilocalità e matrilocalità), neolocale (cioè con una nuova residenza che prescinde da patrilocalità e matrilocalità), avunculocale (cioè presso la casa dello zio materno dello sposo), duolocale (cioè allorquando sia lo sposo che la sposa continuano a vivere presso la rispettiva famiglia di origine).


         Da tutta questa varietà di tipi di matrimonio e di opzioni relative alla residenza familiare non possono non discendere conseguenze rilevanti per l’azione esercitata dai genitori nei riguardi dei loro figli: si assiste così ad una pluralità di interventi già a livello strettamente genitoriale in relazione al fatto che un padre introduca nel quadro familiare presenze femminili adulte plurime. La stessa residenza familiare presso i nonni paterni o quelli materni non può non incidere sulla socializzazione delle nuove generazioni.


Le nuove dinamiche: dal fidanzamento alla convivenza


         Una recente indagine dell’Istituto Centrale di Statistica su La vita di coppia, pubblicata nel 2006 e realizzata su un campione di 19.000 famiglie e 49.000 individui, mette in evidenza alcuni fatti nuovi rispetto al passato.


         Innanzitutto è da registrare una tendenza verso una maggiore durata del fidanzamento. Se prima del 1964 il periodo medio era di 3 anni e 4 mesi invece dopo il 1993 esso è giunto sino al quinquennio.


E sono cambiati anche i luoghi deputati per la conoscenza reciproca che porta poi al fidanzamento. In precedenza tutto si svolgeva piuttosto nell’ambito del vicinato o nelle case di amici e parenti o nelle feste paesane, dopo però si è passati a privilegiare le feste amicali, seguite – percentualmente – dalle occasioni di incontro in casa di amici e parenti, e poi, nell’ordine, da quelle in ambiente lavorativo, ricreativo o di studio. C’è dunque una prevalenza di contesti extrafamiliari, meno soggetti dunque al controllo della famiglia di provenienza.


         Anche dopo il matrimonio si cerca di evitare il riferimento al proprio quadro familiare di origine, nei cui riguardi si assume una certa distanza. La ricerca di autonomia si allarga a quasi tutti gli aspetti concernenti la nuova famiglia, in primo luogo quelli relativi alla procreazione ed all’educazione.


La propensione delle donne ad avere figli è in crescita, giacché in media ne desidererebbero un po’ più di due. Su questo c’è un buon accordo fra i coniugi, almeno in tre quarti dei casi. Nel Meridione e nelle Isole la scelta di fecondità è però maggiore: rispettivamente 2,3 e 2,2 figli in media per ogni donna, mentre nel Centro e nel Nord la percentuale è sul 2%. 


         Qualche disaccordo di coppia sembra sorgere sul modo di spendere il denaro a disposizione, mentre in anni pregressi emergeva sulle modalità educative da intrattenere con i figli. Invero le donne hanno acquisito una loro maggiore autonomia sul piano finanziario: il 18,8% di esse ha almeno un conto corrente personale ed il 48,8% ne ha uno co-intestato. Ma se si considerano quante vivono in coppia e non sono coniugate ufficialmente il possesso di un proprio conto postale o bancario arriva al 50,3%. Il che si riscontra principalmente nel Nord (87,4% in media), un po’ meno nel Centro (79,9%) e in misura più ridotta nel Sud (56,4%) e nelle Isole (56,7%).


Le donne, inoltre, in particolare divergono dai loro coniugi sul livello del dialogo all’interno della coppia, sull’utilizzo del tempo libero e sulle relazioni con i parenti. Non è da trascurare il dissidio che sorge sul lavoro domestico, specie quando la donna ha una sua occupazione, che non sia solo quella casalinga.


Anche sull’avere o non avere figli si discute, ma in genere è la donna che obietta, in relazione al peso del lavoro di ciascun coniuge. In proposito si hanno differenze tra le diverse aree geografiche del paese, ma non sono poi tanto marcate e dipendono, in qualche misura, da situazioni locali (come le discoteche quali luoghi di incontro, specie in Emilia-Romagna) e da modalità culturali abbastanza radicate (come il risiedere delle nuove coppie presso i genitori della sposa, soprattutto in Campania).


         Peraltro stanno crescendo le opzioni a favore della convivenza prematrimoniale: prima del 1974 si trattava di una minoranza, cioè appena l’1,4% dei matrimoni celebrati; nel 2003 si è raggiunta la quota del 25,1%, ma con valori più alti nel settentrione e ben più contenuti nell’Italia insulare. Sono in primo luogo coloro che già sono stati sposati a scegliere la formula della convivenza, la quale in genere ha una durata di circa quattro anni (questo è il dato rilevato fra quanti hanno contratto matrimonio nel decennio fra il 1993 ed il 2003). Questa tendenza appare in ulteriore incremento.


         In realtà le convivenze possono anche protrarsi per il semplice motivo che un coniuge è in attesa di divorzio. In parti tempo si può constatare che anche fra quanti hanno scelto la soluzione della coabitazione le intenzioni di matrimonio sono cospicue, sebbene in calo: si tratta del 49,7% (ma prima del 1974 erano al 70,4%). Anche qui sono da evidenziare alcune diversità di orientamento a livello territoriale: nel sud la prospettiva di matrimonio da parte dei conviventi è sostenuta dal 70,6% degli intervistati. Dunque la convivenza ha chiaramente un carattere di sperimentazione. Ma d’altra parte proprio la prova condotta convince a contrarre matrimonio – e nella misura del 60,5% – pure quelli che non ne avevano alcuna intenzione, almeno agli inizi.


         A livello comportamentale le coppie coniugate e con prole restano più spesso in casa e giocano con i figli (40,2% dei casi), ma non disdegnano di uscire con loro (nella misura del 35,7%). D’altro canto i coniugi che non hanno formalizzato la loro unione preferiscono ampiamente stare insieme fuori casa per pranzare o cenare (il 70,9%) o per passare il fine settimana (il 38,9%).


         Un’ultima e significativa constatazione attiene la pratica religiosa: è rilevabile particolarmente presso le donne più anziane, specie se coniugate (il 54,6%). Invece le coppie non coniugate partecipano ai riti religiosi nella misura del 27,4%.   


La situazione di fatto: i dati di base sui matrimoni


         Non si può affrontare un discorso scientificamente corretto in merito alle trasformazioni in atto nella famiglia contemporanea senza fare riferimento alle informazioni essenziali sulle dinamiche in atto. Sono in aumento i matrimoni? Sono in aumento i divorzi? Comparativamente qual è la situazione italiana al confronto con quella di altri paesi europei?


         Conviene partire dalle statistiche più recenti (per quanto possibile). Oltre i dati provenienti dal censimento del 2001, ulteriori informazioni provengono dalle stime per il 2003 sui matrimoni e dai risultati accertati per il 2002 sulle separazioni e sui divorzi. Le differenze regionali sono talora particolarmente marcate e vanno dunque considerate con particolare attenzione.


         La situazione non appare mutata di molto rispetto ad un recente passato. Le linee di tendenza sono evidenti ma il loro andamento non appare particolarmente accentuato. Separazioni e divorzi in Italia hanno un certo peso ma rappresentano più l’eccezione che la norma, anche se la loro portata non è del tutto trascurabile. In effetti può colpire subito il dato di 79642 separazioni cui si aggiungono 41835 divorzi per un totale di 121477 casi che evidenziano una crisi del matrimonio a fronte di 258580 nuove nozze celebrate in un anno. Ma in realtà va tenuto presente che non si è di fronte ad un rapporto di 1 a 2 fra crisi accertate e nuovi matrimoni, giacché più correttamente occorre stabilire il rapporto non con il dato dei matrimoni contratti nell’anno ma con il totale di tutti i matrimoni in essere e che si sono cumulati in tutti gli anni precedenti. Pertanto se in Italia vi erano nel 2003 ben 57888000 soggetti registrati anagraficamente (ma erano ancor meno nel 1991, cioè 56778031) e nel censimento del 1991 risultavano 19766000 famiglie censite (probabilmente aumentate di poco nel 2003) il dato finale del rapporto fra matrimoni ancora in vigore e numero complessivo annuale di separazioni e divorzi è ben al di sotto dell’1%.


Matrimoni (stima per il 2003), separazioni e divorzi (dati accertati per il 2002)



Regioni


Matrimoni


% matrimoni civili


Separazioni


Divorzi


Piemonte


16666


36,6


  8214


5065


Valle d’Aosta


    423


43,5


    254


  171


Lombardia


36520


35,0


14768


8085


Trentino/Alto Adige


  3832


47,5


  1285


  760


Veneto


19576


35,0


  5906


3548


Friuli/Venezia Giulia


  4693


52,7


  2054


1358


Liguria


  6024


43,9


  2750


1656


Emilia Romagna


14358


40,1


  6415


3800


Toscana


14580


40,8


  5855


3006


Umbria


  3731


26,9


  1131


  514


Marche


  5896


26,2


  1805


  957


Lazio


27818


28,6


10636


4706


Abruzzo


  4867


21,5


  1376


  714


Molise


  1217


14,3


    256


  122


Campania


32471


19,0


  5215


2181


Puglia


20550


13,4


  3510


1388


Basilicata


  2692


11,6


    189


  149


Calabria


  9422


12,8


  1286


  568


Sicilia


26150


18,6


  4819


2334


Sardegna


  7094


31,0


  1918


  753


Totale


     258580


28,5


         79642


        41835


         Vanno poi considerati i quozienti di nuzialità, separazionalità e divorzialità, in modo da vedere quali siano le tendenze in atto nell’arco di un decennio dal 1993 al 2003.


Matrimoni, separazioni e divorzi nel 1993[7]



Regioni


Matrimoni


% matrimoni civili


Separazioni


Divorzi


Piemonte


21109


21,0


  5014


2675


Valle d’Aosta


    567


28,7


    214


    96


Lombardia


42121


19,8


  9025


5119


Trentino/Alto Adige


  4680


30,9


   870


  540


Veneto


21981


17,2


  2983


1633


Friuli/Venezia Giulia


  5311


29,4


  1574


  651


Liguria


  7896


28,3


  1993


1359


Emilia Romagna


17161


24,6


  4579


2569


Toscana


16094


24,4


  3067


1754


Umbria


  4094


16,6


    419


  349


Marche


  6755


13,7


    944


  452


Lazio


25341


24,1


  7480


1642


Abruzzo


  5998


10,8


    379


  228


Molise


  1630


  7,9


      87


    37


Campania


35940


16,3


  3362


1438


Puglia


24840


  8,3


  2063


1112


Basilicata


  3337


  6,1


    130


    68


Calabria


11155


  7,7


    572


  369


Sicilia


28370


12,4


  2402


1337


Sardegna


  8252


22,1


  1041


  453


Totale


     292632


18,1


         48198


        23863


         Come è facile desumere attraverso la comparazione fra il 1993 ed il 2003, nella tabella successiva, quasi ovunque appaiono in crescita i matrimoni celebrati civilmente, le separazioni ed i divorzi ma, eccezion fatta per Piemonte, Valle d’Aosta, Umbria, Toscana, Marche, Molise, Basilicata e Sicilia, aumentano anche gli stessi matrimoni (probabilmente a seguito del leggero incremento demografico registratosi nel corso del decennio). Invece il calo dei matrimoni in otto regioni su venti trova forse una spiegazione demografica legata al decremento della popolazione, almeno in Piemonte, Valle d’Aosta, Molise e Basilicata ma non in altri quattro ambiti regionali, cioè Umbria, Toscana, Marche e Sicilia, in cui presumibilmente sono prevalse ragioni di ordine socio-culturale ed economico che hanno impedito la celebrazione delle nozze.


Quozienti di nuzialità, separazionalità e divorzialità su 1000 abitanti (1993 e 2003)



Regioni


Nuzialità 1993


Nuzialità 2003


Separazionalità 1993


Separazionalità 2003


Divorzialità 1993


Divorzialità 2003


Piemonte


4,9


3,9


1,1


1,9


0,6


1,2


Valle d’Aosta


4,8


3,5


1,8


2,1


0,8


1,4


Lombardia


4,7


4,0


1,0


1,6


0,5


0,9


Trentino/

Alto Adige


5,2


4,0


0,9


1,4


0,6


0,8


Veneto


5,0


4,3


0,6


1,3


0,3


0,8


Friuli/

Venezia Giulia


4,4


3,9


1,3


1,7


0,5


1,1


Liguria


4,7


3,8


1,2


1,7


0,8


1,1


Emilia Romagna


4,4


3,5


1,1


1,6


0,6


0,9


Toscana


4,6


4,1


0,8


1,7


0,5


0,9


Umbria


5,0


4,4


0,5


1,4


0,4


0,6


Marche


4,7


3,9


0,6


1,2


0,3


0,6


Lazio


4,9


5,4


1,4


2,1


0,3


0,9


Abruzzo


4,8


3,8


0,3


1,1


0,1


0,6


Molise


4,9


3,8


0,2


0,8


0,1


0,4


Campania


6,3


5,7


0,5


0,9


0,2


0,4


Puglia


6,1


5,1


0,5


0,9


0,2


0,3


Basilicata


5,5


4,5


0,2


0,3


0,1


0,3


Calabria


5,4


4,7


0,2


0,6


0,1


0,3


Sicilia


5,7


5,2


0,4


1,0


0,2


0,5


Sardegna


5,0


4,3


0,6


1,2


0,2


0,5


Totale


      5,1


4,5


0,8


1,4


0,4


0,7


         Se si eccettua il Lazio, il quoziente di nuzialità è in diminuzione quasi dappertutto, mentre sono in aumento sia i quozienti di separazionalità che quelli di divorzialità. Invero in alcune regioni gli incrementi sono contenuti, specialmente in quei contesti regionali in cui il quoziente registrato nel 1993 era piuttosto basso già in partenza. Nondimeno è evidente la crescita della propensione sia a non contrarre matrimonio che a scioglierlo. Il quoziente di separazionalità, in particolare, tocca di rado il 2%, invece è piuttosto ridotto quello di divorzialità, che solo in quattro regioni supera l’1%.


         Un’analisi dettagliata relativa agli anni che vanno dal 1994 al 2003 mette in evidenza la netta escalation sia delle separazioni che dei divorzi, in misura abbastanza omogenea poiché in genere le separazioni concesse sono quasi il doppio dei divorzi. Infatti nel 1994 le separazioni erano state 51445 ed i divorzi 27510 e nel 2003 le separazioni sono cresciute fino a 81744 ed i divorzi sino a 43856. La crescita di entrambi i fenomeni è documentata dalla tabella che segue.


Separazioni e divorzi dal 1994 al 2003



Anni


Separazioni


Divorzi


1994


51445


27510


1995


52323


27038


1996


57538


32717


1997


60281


33342


1998


62737


33510


1999


64915


34341


2000


71969


37573


2001


75890


40051


2002


79642


41835


2003


81744


43856


         Ci si potrebbe chiedere a questo punto se il caso italiano per quanto concerne nuzialità e divorzialità sia eccentrico o no rispetto al comportamento riscontrabile negli altri paesi europei. Il quoziente di nuzialità invero non diverge particolarmente dagli andamenti nella cosiddetta Europa dei quindici. Quel che emerge nettamente in chiave di divorzialità è che Irlanda ed Italia sembrano i paesi in cui minore è la propensione a divorziare.


Quozienti di nuzialità e divorzialità nell’Unione Europea nel 2003 (e nel 1993)



Paesi


Nuzialità su 1000 abitanti


Divorzialità su 1000 abitanti


Belgio


4,0 (5,4)


3,0 (2,1)


Danimarca


6,5 (5,9)


2,9 (2,4)


Germania


4,6 (5,4)


2,5 (1,7)


Grecia


5,1 (5,9)


1,0 (0,7)


Spagna


4,9 (5,2)


1,0 (0,7)


Francia


4,6 (4,4)


2,1 (0,9)


Irlanda


5,1 (4,5)


0,7 (0,0)


Italia


4,5 (5,1)


0,7 (0,4)


Lussemburgo


4,4 (6,0)


2,3 (1,8)


Olanda


5,0 (5,8)


2,0 (2,0)


Austria


4,6


2,3


Portogallo


5,1 (6,9)


2,1 (1,2)


Finlandia


5,0


2,6


Svezia


4,4


2,4


Gran Bretagna


(6,1)


2,7 (3,0)


Unione Europea


4,7 (5,3)


2,0 (1,6)


         La divorzialità è piuttosto alta in Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Finlandia, Germania e Svezia (seguite da Lussemburgo ed Austria). Alcuni dati della tabella europea di nuzialità e divorzialità, in realtà, sono provvisori, stimati o relativi all’anno precedente. Nondimeno offrono un quadro indicativo dei trends in atto e mostrano chiaramente un certo iato fra due paesi a prevalenza cattolica (come l’Irlanda e l’Italia) ed il resto dell’Europa a prevalenza protestante (fatta eccezione per il Belgio, il Lussemburgo e l’Austria).


         Tra il 1993 ed il 2003 in alcune nazioni la nuzialità è decresciuta, in poche altre è salita, ma in genere appare in calo. La divorzialità è invece andata aumentando quasi ovunque, fuorché in Gran Bretagna. Pertanto il caso italiano rispecchia in linea di massima quello che è l’orientamento vigente in Europa, sia pure con un minor favore verso il percorso divorzista.


Matrimoni religiosi e matrimoni civili


         I dati più recenti resi disponibili attraverso la rilevazione comunale mensile degli eventi di stato civile forniscono ulteriori conferme degli andamenti in atto.


Matrimoni (dati provvisori del 2004) suddivisi per rito civile/religioso e per regione



Regioni


Matrimoni


Rito civile


% rito civile


Rito religioso


% rito religioso


Piemonte


16385


  6709


40,9


  9676


59,1


Valle d’Aosta


    457


    210


46,0


    247


54,0


Lombardia


34957


13568


38,8


21389


61,2


Trentino/Alto Adige


  3715


  1841


49,6


  1874


50,4


Veneto


19009


  7218


38,0


11791


62,0


Friuli/Venezia Giulia


  4383


  2318


52,9


  2065


47,1


Liguria


  6191


  3062


49,5


  3129


50,5


Emilia Romagna


14204


  6349


44,7


  7855


55,3


Toscana


14657


  6517


44,5


  8140


55,5


Umbria


  3739


  1162


31,1


  2577


68,9


Marche


  5637


  1662


29,5


  3975


70,5


Lazio


27600


  8275


30,0


19325


70,0


Abruzzo


  4508


  1112


24,7


  3396


75,3


Molise


  1335


    266


19,9


  1069


80,1


Campania


31465


  6420


20,4


25045


79,6


Puglia


19066


  2841


14,9


16225


85,1


Basilicata


  2548


    288


11,3


  2260


88,7


Calabria


  9222


  1336


14,5


  7886


85,5


Sicilia


24744


  4889


19,8


19885


80,4


Sardegna


  6942


  2121


30,6


  4821


69,4


Totale


  250764


        78164


31,2


     172600


68,8


         I dati del 2004 rispetto a quelli del 2003 presentano un aumento di matrimoni in alcune regioni ed invece un calo in altre. In Friuli-Venezia Giulia prevalgono i matrimoni civili su quelli religiosi. Ma in Basilicata il rito civile è appena al livello dell’11,3%. Gli abitanti delle regioni Trentino/Alto Adige e Liguria sono orientati più o meno a metà tra rito civile e religioso. Valle d’Aosta, Emilia Romagna e Toscana appaiono più “secolarizzate” di altre regioni. Per il resto d’Italia le dinamiche in corso risultano frastagliate regione per regione con percentuali alte di rito religioso in Calabria, Puglia, Sicilia e Molise, più contenute in Campania, Abruzzo, Marche, Lazio, Sardegna ed Umbria, ma tendenti sempre più verso l’opzione per il civile in Lombardia e Veneto.


         Nel complesso va considerato che in un anno ci sono circa ottomila matrimoni in meno. Infatti i dati complessivi stimati per il 2003 davano un insieme di 258580 celebrazioni matrimoniali (però poi i dati provvisori dello stato civile hanno ridotto a 257662 il risultato finale), passato nel 2004 a 250764, di cui 172600 con rito religioso e 78164 con rito civile. Nell’anno precedente i matrimoni religiosi erano 183678, quelli civili 73984, dunque i primi tendono a diminuire passando dal 71,3% al 68,8%, i secondi ad aumentare, dal 28,7% al 31,2%. Il che significa di fatto che quasi un matrimonio su tre ha un rito non religioso. L’andamento è abbastanza evidente secondo la tabella che segue.


Matrimoni con rito religioso/civile negli anni 2000-2004



Anni


Matrimoni con rito religioso


Matrimoni con rito civile


Totale


2000


214255


70155


284410


2001


192558


71468


264026


2002


192006


78007


270013


2003


183678


73984


257662


2004


172600


78164


250764


         La differenza più marcata tra matrimoni con rito religioso e quelli con rito solo civile si è avuta tra l’anno 2000 ed il 2001, però va notato altresì che nel medesimo periodo è sceso il numero di matrimoni (quasi ventimila in meno). Tra il 2001 ed il 2002 vi è stata una sostanziale tenuta dei matrimoni religiosi ma nel frattempo sono aumentati sia i matrimoni in generale che quelli civili in particolare. La tendenza si è invertita nell’anno successivo e dunque entrambi i tipi di matrimonio sono andati in diminuzione. Nel 2004, pur a fronte di una riduzione del numero totale dei matrimoni, solo quelli con rito civile sono aumentati. In definitiva vi sono anno per anno variazioni non facilmente prevedibili. Comunque il rito civile conserva un suo andamento favorevole, cioè piuttosto in accrescimento numerico.


         Il cambiamento assume connotazioni ben più macroscopiche in chiave diacronica a partire dal 1961, allorquando solo l’1,6% dei matrimoni aveva avuto un rito civile, a fronte del 31,2% rilevato nel 2004. I dati anno per anno sono quanto mai eloquenti.


Matrimoni, matrimoni con rito civile e matrimoni con almeno un coniuge straniero


negli anni 1961-2003



Anni


Numero matrimoni


Numero matrimoni su 1000 abitanti


% matrimoni con rito civile


Con almeno un coniuge straniero


1961


397461


7,9


  1,6




1971


404464


7,5


  3,9




1981


316953


5,6


12,7




1991


312061


5,5


17,5




1995


290009


5,1


20,0


4,3


1997


277738


4,8


20,7


5,0


1999


280330


4,9


23,0


5,9


2001


264026


4,6


27,1


8,1


2003


257662


4,5


28,7



         Può avere un certo interesse verificare se il tipo di rito, religioso o civile, con cui è stato celebrato il matrimonio può avere una sua incidenza sulla divorzialità. Ebbene nel 2002 su 41835 divorzi erano 33812 quelli provenienti da matrimoni con rito religioso e 8023 quelli riferibili a matrimoni civili. In termini percentuali i primi sono l’80,8% del totale delle sentenze di divorzio, i secondi rappresentano il 19,2%. Orbene nel periodo dal 1995 al 2003 la percentuale dei matrimoni con rito civile è andata aumentando dal 20,0% al 28,7%. Se si considera che solo dopo una prima fase di separazione, che può durare qualche anno, è possibile arrivare a chiedere il divorzio si deve concludere che i matrimoni contratti nel 1995 possono aver dato luogo a sentenze di divorzio solo dopo alcuni anni (almeno tre, di norma). Pertanto poiché la percentuale di matrimoni con rito civile era nel 1995 al venti per cento il dato sui divorzi nel 2003 non sembra derivare essenzialmente dal tipo di rito con cui si era celebrato il matrimonio. Ovviamente questa pare la dinamica ricorrente, da cui risulterebbe che il tipo di rito nuziale è ininfluente sul verificarsi di crisi matrimoniali. Tuttavia non è detto che in effetti ciò sia sempre riscontrabile e che la differenza fra le due celebrazioni matrimoniali non possa favorire (o meno) l’esito divorziale.


La composizione del nucleo familiare


         Non è senza conseguenze anche il cambiamento in atto nella composizione stessa del nucleo familiare che ha visto incrementare le quote di famiglie con un solo componente o due, in generale, mentre la composizione a tre o quattro soggetti ha subito un leggero cedimento. In effetti mentre nel 1961 le famiglie con un solo componente erano il 10,6% sono invece passate nel 2001 al 24,9%, dunque ad un quarto dell’intera popolazione. Di poco superiore è il tasso delle famiglie con due componenti giunto al 27,1% nel 2001, dopo essersi attestate sul 19,6% nel 1961. Vi è stato dunque un parallelo ascendere delle quote percentuali di famiglie con uno o due persone ed un andamento inverso, in riduzione, delle famiglie con tre soggetti. Più altalenante è la situazione delle famiglie composte di quattro membri: dapprima in ascesa, percentualmente, fino al 1981 e poi in perdita fra il 1981 ed il 2001. Insomma in un quarantennio le famiglie si sono diversificate sensibilmente, a tutto vantaggio dei percentili riguardanti i singoli individui che costituiscono famiglia di per se stessi, nonché delle coppie che non hanno figli o che vivono senza figli. Emblematica è poi la drastica contrazione dell’insieme delle famiglie numerose: più che dimezzate quelle con cinque persone, sostanzialmente decimate quelle con sei o più membri. Se nel 1961 la famiglia aveva un numero medio di 3,6 componenti invece nel 2001 ne ha in media uno in meno, è composta cioè da 2,6 componenti.


Composizione percentuale delle famiglie per numero di componenti dal 1961 al 2001



Componenti


1961


1971


1981


1991


2001


Uno


10,6


12,9


17,9


20,6


24,9


Due


19,6


22,0


23,6


24,7


27,1


Tre


22,4


22,4


22,1


22,2


21,6


Quattro


20,4


21,2


21,5


21,2


19,0


Cinque


12,6


11,8


  9,5


  7,9


  5,8


Sei o più


14,4


  9,7


  5,4


  3,4


  1,7


Numero medio


  3,6


  3,3


  3,0


  2,8


  2,6


Totale famiglie*


13747000


15981000


18632000


19909000


21811000


* Cifre totali arrotondate.


         Si ha così una situazione che parrebbe contraddittoria se non fosse spiegata dalla tendenza ormai accentuata alla famiglia mononucleare (ovvero costituita da una sola persona). Infatti nel 1961 la popolazione italiana era di 50624000 persone e nel 2001 è aumentata sino a 56996000, con 6372000 individui in più; in pari tempo l’aumento delle famiglie è stato di 8064000. Insomma è cresciuto più il numero delle famiglie che non quello dei singoli soggetti!


         Nel 2003 la famiglia italiana per circa il 40% era rappresentata da coppie con figli, per il 26% da persone sole, per il 20% da coppie senza figli, per l’8% da un genitore rimasto solo con figli e per il 6% da altre situazioni di vario tipo.


         D’altra parte nel 1961 il numero medio di figli per donna era di 2,41, poi sceso a 1,60 nel 1981, a 1,35 nel 1991, a 1,25 nel 2001, a 1,29 nel 2002 e nel 2003 (dato provvisorio), poi risalito – ma di poco – a 1,33 (dato stimato) nel 2004. Va inoltre tenuto presente che sempre più viene rinviato il primo parto: nel 1961 la madre primipara aveva in media 25 anni e 7 mesi, nel 2001 aveva una media di 30 anni e 8 mesi.


         Anche le interruzioni volontarie della gravidanza contribuiscono al saldo negativo a livello demografico in Italia. La pratica dell’aborto sfugge anche alle statistiche più accurate, né è facile procedere per stime al fine di fornire informazioni attendibili. Tuttavia alcuni dati ufficiali, sebbene incompleti, aiutano a comprendere l’entità del fenomeno.


Interruzioni volontarie della gravidanza per intervento ed area territoriale nel 2003



Area


Raschiamento


Metodo Karman


Altra isterosuzione


Altro


Totale


n


%


n


%


n


%


n


%


n


Nord


  7026


11,68


37773


62,77


14335


23,82


1040


1,73


  60174


Centro


  1485


  5,26


22309


78,95


  3981


14,09


  481


1,70


  28256


Sud


  9349


26,20


20496


57,43


  5281


14,80


  562


1,57


  35688


Italia


17860


14,39


80578


64,92


 23597


19,01


2083


1,68


124118


         L’aspirazione uterina (isterosuzione) è la pratica più frequente (83,93%) nelle prime settimane di gravidanza, soprattutto con il metodo Karman, ma non manca neppure il ricorso al raschiamento. Il totale documentato statisticamente è però ben lungi dal numero effettivo delle interruzioni volute della gestazione. Un’estensione delle pratiche abortive non può non incidere, ovviamente, anche sulla numerosità dei membri delle famiglie.


         Le proiezioni all’anno 2050 fanno prevedere che la popolazione italiana conterà alcuni milioni di persone in meno rispetto ad oggi. Una cifra probabile è quella di circa 52000000 di residenti ma secondo altri calcoli più accurati si arriverebbe – con la tendenza attualmente in corso – a 55936140 individui.


         Intanto in Italia gli uomini diventano padri per la prima volta all’età di 33 anni, in media, per cui si allungano i loro tempi di permanenza nella famiglia di origine, dando luogo a quella che ormai si suole definire la famiglia “lunghissima”. Inoltre si allungano anche i tempi di ricerca di un primo lavoro. Pertanto la transizione all’età adulta in senso pieno è ritardata essa pure. Ma sembra che ciò comporti un esito orientativamente positivo in termini di tempo dedicato ai figli. Infatti i padri in Italia si dedicherebbero un po’ più che nel passato ai propri figli, facendo registrare circa ventuno minuti in più ogni giorno, rispetto a quanto avveniva un quarto di secolo fa. Nel contempo, tuttavia, quasi tre quarti di tutto il lavoro domestico continua a gravare sulle donne.


Consumi e valori della famiglia italiana


         Nel 2004 la spesa media mensile di una famiglia italiana è stata di 2381 euro, ma con differenze notevoli fra nord e sud. Nelle regioni settentrionali la spesa media è stata di 2689 euro, in quelle meridionali di 1915 euro. Il dettaglio delle spese mensili dice molto sugli orientamenti dei consumi (e dunque anche sui valori) degli italiani.


Spesa media mensile (euro) per composizione di famiglie e per tipo di spesa nel 2004



Composizione

ed età


Alimentari

%


Vestiti

%


Casa

%


Trasporti

%


Loisir

%


Altro

%


Spesa (euro)


1 persona con meno di 35 anni


15,8


6,5


33,1


16,3


6,6


21,7


1771


1 persona di 35-64 anni


15,9


6,1


35,2


15,5


5,4


21,9


1812


1 persona di 65 o più anni


21,8


3,7


45,3


  6,4


3,6


19,2


1246


Coppia senza figli con persona di riferimento di 34 anni


13,9


7,9


25,3


20,8


6,1


26,0


2795


Coppia senza figli con persona di riferimento di 35-64 anni


16,8


6,5


31,5


17,1


5,0


23,1


2642


Coppia senza figli con persona di riferimento di 65 o più anni


22,5


4,7


36,8


12,4


3,9


19,7


1954


Coppia e 1 figlio


18,1


7,0


27,6


18,2


6,3


22,8


2926


Coppia e 2 figli


19,1


7,8


25,2


18,2


7,4


22,3


3037


Coppia e 3 o più figli


22,2


8,3


23,6


17,4


8,0


20,5


3066


Monogenitore


18,9


6,6


29,7


16,8


6,5


21,5


2352


Altre tipologie


20,5


5,9


28,7


17,1


6,1


21,7


2575


Totale famiglie


19,0


6,6


30,1


16,3


6,0


22,0


2381


         Come prevedibile la famiglia più numerosa spende più delle altre, in media 3066 euro mensili. La quota più bassa appartiene alle persone sole e maggiori di 65 anni di età: spendono in media 1246 euro mensili. In generale è il costo dell’abitazione (fitto o mutuo) che pesa maggiormente sulla spesa media mensile di tutti i tipi di composizione familiare. Da rilevare è la quota parte per l’acquisto di generi alimentari nel caso di famiglia con 3 o più figli: il totale ascende al 22,2% di tutta la spesa media mensile e quasi eguaglia il costo per l’abitazione. Subito dopo gli alimentari, tra le spese maggiori rientrano quelle per i trasporti. Segue, nella media mensile di spesa per nucleo familiare, quanto necessario per l’acquisto dell’abbigliamento. Ma anche l’uso del tempo libero (loisir) occupa una certa parte del budget mensile medio, quasi alla pari con gli impegni economici per il vestiario. Ed infine non è trascurabile la voce “altro” che riguarda altri consumi, più o meno necessari. Per esempio, sempre nel 2004 si sono spesi annualmente in media 1251 euro per il condizionamento dell’aria, ma anche 880 euro per il personal computer. Né va trascurato il costo per l’acquisto della lavastoviglie e/o del televisore.




Spesa media mensile (in euro) per numero di componenti familiari e tipo di consumo Anno 2003



Categorie

 di consumo


Totale Italia


Numero dei componenti del nucleo familiare


1


2


3


4


5 e più


Pane e cereali


  75,61


  44,89


  67,45


  86,19


101,15


 113,64


Carne


101,72


  57,09


  93,12


118,57


133,48


 155,69


Pesce


  37,91


  20,22


  34,99


  44,53


  50,35


   57,98


Latte, formaggi, uova


  62,55


  38,57


  56,90


  70,95


  81,31


   92,57


Oli e grassi


  16,54


  11,90


  16,15


  17,93


  19,39


   22,65


Patate, frutta, ortaggi


  81,99


  54,55


  79,96


  91,03


  99,49


 112,65


Zucchero, drogheria, caffè


  31,52


  20,79


  29,14


  34,95


  40,19


   44,63


Bevande


  43,24


  26,31


  40,91


  50,48


  54,50


   59,80


Tabacchi


  19,53


  10,87


  15,63


  23,93


  26,57


   32,57


Calzature, abbigliamento


155,41


  76,75


123,54


196,26


226,05


 236,91


Abitazione (principale e secondaria)


575,45


479,25


595,31


634,29


608,77


 575,69


Combustibili, energia


108,43


  78,30


106,97


120,74


124,81


 140,04


Elettrodomestici, mobili e servizi per la casa


144,42


  89,12


138,27


180,08


173,66


 177,53


Sanità


  87,31


  55,26


  97,05


  98,85


  98,41


 100,43


Trasporti


323,65


142,02


286,13


422,30


454,58


 453,39


Comunicazioni


  49,02


  32,29


  43,64


  56,42


  62,79


   68,65


Istruzione


  27,98


    3,45


    7,20


  34,43


  63,27


   75,89


Tempo libero, cultura e giochi


111,27


  63,95


  95,86


136,68


151,20


 150,65


Altri beni e servizi


259,45


153,37


234,97


320,53


341,43


 317,77


Spesa media mensile


2.313,00


1.458,95


2.163,19


2.739,14


2.911,40


2.989,13

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Fonte:Elaborazione su dati ISTAT tratti dal volume I consumi delle famiglie. Anno 2003, Istituto Nazionale di Statistica, Roma, 2005, pp. 59-60


         In definitiva si può dire che la famiglia italiana, nonostante qualche difficoltà di adattamento alle nuove situazioni della modernità, alle dinamiche del vissuto matrimoniale, ai mutamenti dei rapporti intergenerazionali ed alle problematiche di gestione del bilancio familiare, mostra una sua sostanziale tenuta che la pone in grado di rifarsi alla tradizione ma anche di “navigare” nella contemporaneità.



[1] P. Donati (a cura), Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie (Nono Rapporto CISF sulla famiglia in Italia), Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2005.


[2] P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1998, pag. 13.


[3] P. Donati (a cura), Terzo rapporto sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1993.


[4] G. Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, Mlano, Vita e Pensiero, 2005.


[5] G. Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, cit., pag. 163.


[6] G. Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, cit., pag. 41.


[7] P. Donati (a cura), Quarto rapporto CISF sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, pag. 420.

ATEISMO


Roberto Cipriani

Ateismo, un modo di pensare che esclude l’esistenza di un dio.

L’ateismo è il contrario di teismo, cioè del credere che esiste un dio. L’ateismo nega che ci sia un essere che non è umano ma soprannaturale. Il fatto che dio è considerato al di sopra della natura umana significa anche che non è visibile, per cui la sua esistenza è messa in dubbio. Coloro che non credono che vi sia un dio sono detti atei.

Gli atei veri e propri sono ben più di duecento milioni di persone nel mondo. Ma vi sono anche altre forme di non credenza in dio. Per esempio gli agnostici sono quelle persone che non si pongono nemmeno il problema se dio esiste o non. Essi pensano che la divinità non può essere conosciuta dagli esseri umani: essa è assolutamente inconoscibile; pertanto non vale la pena di affannarsi nella ricerca di un dio, chiedendosi se esiste o meno, nel tentare di capire che cosa egli sia. Un’altra forma è quella della non credenza, che è diversa dall’ateismo perché è una scelta di vita che non parte da una riflessione specifica sull’esistenza di dio ma si basa sul vivere giorno per giorno senza porsi la domanda relativa all’esistenza di dio. L’ateismo invece ha maggiormente il carattere di una presa di posizione rispetto al problema dio, che viene risolto negandone qualunque forma, sia invisibile in assoluto che visibile attraverso le opere della sua attività, in particolare quella della creazione del mondo. C’è poi un’altra maniera di negare la presenza divina: è il secolarismo, che considera tutto come secolare, cioè non religioso e dunque non legato ad alcuna presenza od azione di un dio. Agnosticismo, non credenza e secolarismo sono le forme più diffuse di un modo di pensare che sostiene la non esistenza di un dio (e neppure di più dei). Oggi si può calcolare che agnostici, non credenti e secolaristi siano quasi un miliardo di persone. I più numerosi sono però i non credenti, che affrontano la vita senza una specifica idea in merito al fatto che un dio possa esistere o meno.

Da molti anni si parla di una secolarizzazione, cioè di una preferenza delle società contemporanee a favore di modi di vita non basati su una credenza religiosa e sempre più lontani dai riti religiosi e dagli insegnamenti delle chiese cristiane e delle religioni a carattere universale come l’islam, l’induismo, il buddismo, il confucianesimo, il taoismo, lo scintoismo ed altre ancora. Tutte queste forme religiose hanno da affrontare quello che per loro è un problema, proprio l’ateismo che contrasta la loro azione ed il loro pensiero. Va detto che il continente in cui è maggiormente diffuso l’ateismo è senza dubbio l’Asia, in particolare tra la popolazione cinese, che con oltre due miliardi di persone rappresenta il territorio dove è più presente il fenomeno del non credere nell’esistenza di un dio.

Gli individui che credono in dio sono portati a giudicare negativamente coloro che sono atei, ma in realtà l’ateismo può anche essere una maniera di condurre una ricerca personale sulla presenza e sul ruolo di una eventuale divinità creatrice dell’universo e punto di riferimento per spiegare quanto avviene nel mondo nel corso del tempo, dal passato al presente ed al futuro.

L’origine dell’ateismo di una persona può essere attribuita all’indifferenza religiosa dei propri genitori, che nella educazione da loro impartita non hanno ritenuto opportuno includere contenuti a carattere religioso, oppure al fatto che si voglia reagire da parte dei figli contro l’eccesso di comportamenti religiosi dei loro genitori. Molte altre possono essere le ragioni che portano a scegliere la non religiosità come condotta di vita. Fra le altre motivazioni ci può essere anche essere quella ricordata dallo scrittore napoletano Gerardo Marotta: “L’ateismo di mio padre, basandosi quasi esclusivamente sulle manchevolezze dei preti, era superficiale e candido”. In altre parole l’ateismo può anche essere una scelta che non deriva da uno specifico approfondimento della questione relativa all’esserci o meno di un dio.

SECULARIZATION OR “DIFFUSED RELIGION”?

Roberto Cipriani

Introduction
After the wave of secularization and the more recent development defined as “religious revival”, social scientists studying the religious phenomenon are becoming far more cautious about the use of certain data, which even today give importance to either the secularization or the revival hypothesis. It has already become apparent that in both cases this process is probably due to a tendency towards the “sociological construction of inconsistency” by means of purely theoretical reasoning, or of a marked use of figures and results which are put together in scientifically unacceptable ways.
If we then examine other hypotheses which on the international level, in the field of sociology of religion, are frequently under discussion, we can see that they are not totally applicable in many cases. In fact, any effort to verify these hypotheses has generally failed.
Thomas Luckmann’s theorization regarding the “invisible religion” (Luckmann 1967) has attracted much attention on the part of sociologists, even though it has not always brought scientific consensus. The idea of a functional substitution of church religion by a series of topics such as “individual autonomy, auto-expression, auto-fulfilment, mobility ethos, sex and familism” has developed parallel to the theory of secularization.
The debate was very lively at that period, as has been well demonstrated first by Karel Dobbelaere (1981) and, lastly, Olivier Tschannen (1992), and involved such authors as Sabino Samele Acquaviva (Italian edn. 1961; 1979), Charles Y. Glock and Rodney Stark (1965), Hermann Lübbe (1965), Bryan R. Wilson (1966), Peter L. Berger (1967; 1969), Thomas O’Dea (1967), Richard K. Fenn (1969; 1970 and 1978), David Martin (1969, with a later addition, 1978).
Today we must ask if we are faced with an absolute novelty or whether, rather, the Luckmann’s “modern religious themes” are nothing more than the sedimentation of pre-existing, more or less subterranean channels, long incorporated in traditional religious modes, and surfacing now not for simply contingent reasons. The lack of research in this regard and the great weight of social control found in some particular historical and geographical contexts may be among these reasons.
An example is provided by the sociological trajectory of the Polish Solidarnosc movement. Its link to the Polish Catholic church was useful for a while. Then, once liberation from the communist system was attained, its influence began to wane, to the point of reducing to a glimmer. Meanwhile, other individualistic and familistic demands had been able to prevail, damaging the previous solidarity between the politico-trade union movement and religious membership. Today, religious practice, though still high in comparison with other European nations, is marking time, indeed retreating, in the face of the new modern demands of the rising generations unaware of the previous experience and, in addition, not averse to welcoming the westernising (and secularising) breezes of consumerism and the use of free time. But this occurred not only because of the passage from one age cohort to the next but also because of prior sources already functioning within the formal, compact facade of solidarity of the past. Thus even in a Poland sacralized to the utmost there were the forerunners of a future secularization in nuce. In fact, “opinion surveys showed a lessening of confidence in the church from (82% in 1990 to 57% in 1992, and a falling acceptance of its involvement in Polish political life” (Jasinska 1995:451)
To complete the argument one must, however, point out that this has not involved the total supersession of Catholic religious experience, but has rather favoured the regeneration of previously existing impulsions not wholly evident and visible (Erenc, Wszeborowski 1993; Gorlach, Sarega 1993). In short, in the practicing, believing Pole too there was concealed the individualist, familistic subject, wholly inclined towards self-realization and -expression. Again, we see the ambiguous, ambivalent character of secularization. It seems to erode the religious institution, but really only assists the principal factors of a very complex acceptance, made up of consensus on values and dissent in fact, of facile decision and conflicting choices. The new mode of belief supplants the church-religion model but re-adapts it to new behavioural spheres which proclaim individual autonomy and independence. This seems not so much different from the Oevernann’s (1995) “structural model of religiosity”.
Luckmann further believes that the modern sacred cosmos has a relative instability depending on the various social strata in which it is active, as proof of its internal incoherence and disarticulation. In fact, Luckmann reminds us, traditional, customary religious themes are re-ordered in the orbit of the secular and the private, especially by the young and urban dwellers. Thus Durkheim’s prediction of a wholly individual religion would seem to come true.
Robert N. Bellah and collaborators (1985; 1995) define the intensification of individualism by the term “Sheilaism”, as a wholly personal religious form which can thus take the name of the person who embodies it (Sheila Larson). “I believe in God. I’m not a religious fanatic. I can’t remember the last time I went to church. My faith has carried me a long way. It’s Sheilaism. Just my own little voice” (Bellah 1985: 221). On the other hand, as Bellah makes clear, religious individualism may be present in “church religion” itself, but historic roots go back in time, in the exemplary case of Anne Hutchinson, to the eighteenth century. She “began to draw her own theological conclusions from her religious experiences and teach them to others, conclusions that differed from those of the established ministry (Bellah 1985:233). Still more typical is the religious individualism shown by Tim Eichelberger: “I feel religious in a way. I have no denomination or anything like this” (Bellah 1985: 233). For these subjects, as in invisible religion as hypothesized by Luckmann, one of the main objectives is ” self-realization” (Bellah 1985: 233), and perhaps in Freud’s terms the Ich-Leistung, the autonomy of the individual.
The “invisible religion” perceived by Thomas Luckmann, which is based on the assumption of a crisis of the institutional apparatus, seems to be applicable only in relation to certain aspects of modern societies, and does not completely destroy so called church religion.
Bellah’s “civil religion” (Bellah 1967) has not really been taken into consideration because of the ethnocentric perspective of the sociological reading of the “religious dimension” which is specifically applicable to United States society. It is a well-known fact that Bellah attaches major importance to a series of beliefs, symbols and rituals which have not removed the religious factor from politics. The contents of this kind of “civil religion” are furnished by the perception of a universal reality bearing religious characteristics which is reflected in a people’s initiatives, especially those referring to biblical concepts: exodus, chosen people, new Jerusalem, sacrifice, etc… The religious element often acts as a unifying factor among individuals or groups otherwise in contrast. Religious identity can thus partly make up for the lack of a national identity. Seen from this dimension, “civil religion” was held to be the unifying element which made possible the birth and development of the United States of America.

After Luckmann
The Berger and Luckmann (1966) lesson remains authoritative: the social construction of reality is the basis from which the value system branches out, a circuitry which directs social action and rests on an objectified and historicized world-view which is thus endowed with a religious character it is hard to lose. The ultimate meaning of life itself is clearly written therein and orientates attitudes and behaviours.
However, it may now be more convenient to aim at disarticulating religious phenomenology from within, following a reading with more stratified dynamics and multiple faceting. In practice it is not clear there are only church religion and invisible religion à la Luckmann (1967). Rather, we may propose another hypothetical solution which envisages intermediate categories more or less close to the two extremes defined in terms of visibility and invisibility.
An initial post-Luckmann interpretation was articulated in 1983 and applied to the Italian situation during the International Conference of Sociology of Religion (held at Bedford College, London): “beside the interests and pressures coming from ecclesiastical sources, are there any other premises or factors which can explain religious bearing on Italian politics? In particular, it is important to verify first of all how the institution fares under the pressure of an extended “religious field” containing varied and attractive options, including anti-institutional purposes. Secondly, we must ask ourselves whether in practice religious influence in political choices concerns only Catholicism (or Christianity) or any religious expression in general. Thirdly, we must see whether the country’s history or its national culture mark the existence of fixed elements, bearing common values leading (directly or indirectly, in specific or vague ways) to a widespread model of religious socialization (based prevalently on patters of Catholic reference)” (Cipriani 1984: 32).

“Diffused religion”
Before going further, however, we should clarify what is “diffused religion”. “The term “diffused” is to be understood in at least a double sense. First of all, it is diffused in that it comprises vast sections of the Italian population and goes beyond the simple limits of church religion; sometimes in fact it is in open contrast with church religion on religious motivation (cf. the internal dissension within Catholicism on occasion of the referendum on divorce and abortion). Besides, it has become widespread, since it has been shown to be a historical and cultural result of the almost bi-millennial presence of the Catholic institution in Italy and of its socializing and legitimizing action. The premises for the present “diffused religion” have been laid down in the course of centuries. In reality, it is both diffused in and diffused by. As a final outcome, it is also diffused for; given that – apart from the intents of so-called church religion – we can remark the spread of other creeds (the easy proselytism of other Christian churches, of the “Jehovah’s Witnesses”, of “sects” of oriental origin etc…), as well as the trend towards ethical and/or political choices (an eventual conflict – far form disproving this hypothesis – confirms, from the outset, the existence of a religious basis, be it weak or latent). In brief terms, it is licit to think of religion as being “diffused” through the acceptance of other individual or group religious experience, and also because it represents a parameter which can be referred to with regard to moral and/or political choices” (Cipriani 1984: 32).
“Diffused religion” concerns broad strata of the Italian population. More than one study has established this conviction over time. However, the most relevant aspect is still the strong historico-geographical – and thus cultural – rootedness of the religion most practiced in Italy. It is precisely the strength of tradition, the practice of habit, the family and community involvement which make membership of the prevalent religion compelling and almost insurmountable. Where socialization does not arrive within the family home, pastoral and evangelizing activity carried out in a capillary way by priests and their lay parish workers moves in. In fact, Catholicism is diffused in every part of the country by means of a church structure well-equipped over time and particularly able to draw on its quite effective know-how. The best proof of this effectiveness is provided by the easy proselytism effected by other religious groups and movements which have disembarked in Italy.
“What “diffused religion” consists of can be understood even by means of its peculiarities. In a broad sense, its presence is clearly visible in forms which are not as evident as church religion, but which are not totally invalidated. This visibility may appear somehow intermittent” (Cipriani 1984: 32). “It is easy to presume that the widespread model of “diffused religion” is different from that of its source of origin, that is, this widespread religious dimension ends up by differing from the system it derives from (the institution). In this way, however, it reaches degrees of freedom which the concentrated and centralized pattern of church religion would not favour” (Cipriani 1984: 32). We might even speak of “diffused religion” as a perverse effect of the dominant religious system which thus generates what is different from itself, even though in continuity with it.
“The fragmentation of the areas of diffusion and distribution cannot, however, cover all existing spheres; all aspects are not equally widespread and reach vague, undefined limits which empirically are difficult to define. This diffusiveness broadens foreseeably into complex and multiple options (especially political options: from extreme right to extreme left). Meanwhile, original religious contents diminish and lose their intensity, they disperse, they mingle, they are integrated in new syntheses. Consequently, this expansion also causes a certain lack of positive reactions with respect to the center of propulsion, either because of increased separateness or because of a weakening of the basic ideological nucleus. It is thus a “passive” religion which may become active again in specific circumstances. Rather than the dynamics of accelerated religious transformation, this provokes a certain stagnation. Even within the prevailing passivity, the underlying echo remains persistent and pervasive, it penetrates large groups of persons. At this stage “diffused religion” appears rather under false pretences: as a feeling, a sensation which “contaminates” both the religious and political fields. Thus re-emerges the link with processes of socialization. It remains, however, to be seen if the future generations will maintain such a religious form which becomes more and more socially diluted to the extent of losing all influence on politics” (Cipriani 1984: 32-3).
Usually, cluster analysis outlines three levels of “diffused religion”: the first seems closest to church religion, the second departs partially from it, and the third is situated on the margins of the continuum between church religion and “diffused religion”.
The problem of change within “diffused religion” itself had already been posed some years ago. In fact, in 1989 it was written that “even for someone who has always kept his sociological interest in current events alive, it is not easy to disentangle the guiding threads of the social, political, and religious dynamics which have characterized Italy in the last two decades. The fact is that one finds oneself in the present situation almost naturally, as though it had been expected, without even letting questions, doubts, or scientific curiosity about what has been happening to more than 50 million citizens, from the mid-1960s to the threshold of the 1990s, break the surface” (Cipriani 1989: 24).
“Diffused religion” also represents a kind of functional substitute for divergence from the ecclesiastical structure. This differentiation appears through other ways of believing and practicing, even though the real base remains Catholic thanks to primary socialization in the initial phases of life. It should thus be stressed that “”diffused religion” refers to the characteristic conduct of believers who have received at least a Catholic education and who relate to it in a general sense. In fact, it refers to citizens who appear to be less than completely obedient to the directives of the Catholic hierarchy but who, on the other hand, refuse to reject completely certain basic principles which form part of the set of values promoted by Catholicism” (Cipriani 1989: 28).
As Calvaruso and Abbruzzese (1985: 79) emphasize, “diffused religiosity then becomes the dominant religious dimension for all those who, immersed in the secular reality of contemporary society, though not managing to accept these dimensions of the sacred cosmos which are more remote and provocative compared with the rational vision of the world, do not thereby abandon their need for meaningfulness. In the immanent dimension of individual everyday existence, diffused religiosity, rather than bearing witness to the presence of a process of laicization in a religiously oriented society, seems to enhance the permanence of the sacred in the secularized society”. Thus “diffused religion” appears as an antidote to the process of secularization of which at the same time it is an expression which is meaningful as a taking of distance from church religion. In fact “diffused religiosity is located in an intermediate area between a secular society in crisis and a resumption of the ecclesiastical administration of the sacred. It remains too “lay” to accept the more specific elements of church doctrine and too much in need of meaning to survive in an epoch which is “without God and without prophets”” (Calvaruso e Abbruzzese 1985: 80).
“Diffused religion” is thus quite dynamic in itself as regards its development despite the constancy of the chief frame of reference. However, “diffused religion lacks the kind of clear-cut characteristics which would be visible in, for example, church attendance, but it works through long-range conditioning, which is due, above all, to mass religious socialization, and to which there is a corresponding kind of “mass loyalty” of a new type” (Cipriani 1989: 46).
Rather than seeing a parallelism between church and state, with the development of a politically organized church structure, we can perceive an indirect legitimation, which, instead of having an ecclesiastic institution as its starting point and converging on the state, is based on “diffused religion” with strong principles and widely shared views. These are not the ones identified by Hans Baron quoted by David Martin (1978b: 5) in the “Civic Humanism” of Republican Florence. They come in fact with a phenomenon of non participation and non observance which characterizes many sectors of modern society. “Diffused religion” does not only evolve around the nucleus of the church but also that of the family as well as other centres of socialization. There are different levels of stratification of “diffused religion” which reaches out to almost all social categories and classes, with no distinction as to context, and proposes various solutions.

“Diffused religion” and “common religion”
According to what we have discussed up to now, “diffused religion” can be confused with other similar meanings, such as, for example, that of “common religion” described by Robert Towler (1974) as “those beliefs and practices of an overtly religious nature which are not under the domination of a prevailing religious institution”. It is worth specifying immediately that this type of “common religion” hardly forms part of “diffused religion” and a very minor one at that. Whilst “common religion” almost corresponds to popular religion (but this term is too ambiguous) “diffused religion” is vaster and is not only based on the still existing folk religion or the vaguely nationalistic Volksreligion. Both of these avail themselves of deeds and teaching of the church according to changeable modalities, which are based on the existing relations between official religion (or church religion) and unofficial religion. The difference lies in the possibility (or the lack of it) of a continuum between the institution and real life experience. Thus “common religion” would tend to detach itself from all orthodoxy, whilst “diffused religion” would keep (in a more or less latent form) some sort of link with the church structure.
Towler himself specifies that his religion is not common to a people but it is that of the common man. At this point, the difference between popular and common religion seems to have disappeared completely, especially when we take into consideration the fact that the adjective “popular” gives more a sense of something particularly widespread, of public domain, than of something typical of popular classes, who are more dependent on the economic and cultural level. It is, however, again necessary to make distinctions, notwithstanding the numerous parallels. The very fact that both “common” and “diffused” religion are situated outside the bounds of official religion does not make them lose any importance. Moreover, both one and the other have no specific organizing structure, but they manage to maintain both plausibility and force of influence. However, though in “common religion” we can find some institutional trends (Towler gives convincing historical examples of this) in “diffused religion” this characteristic does not show out clearly but works by ways and means which are made available by processes of socialization and legitimation, long active. In this case, it is not easy to speak of a solid and effective support of church religion: in fact there are many recurring contrasts, with marked conflictual developments, indifference and rare consensus (except with regard to certain more liberal and humanitarian themes). A reciprocal functionality does not seem possible between church religion and “diffused religion”, at least in the same way as it is possible in the case of “common religion”. In other words, although formally “diffused religion” is not organized, it is nonetheless widespread. It does not constitute an easy field for proselytism for the official orthodoxy, but then neither is it open to only natural forms of religion, as according to the Luckmann theorization, which presupposes totally profane channels of transmission, whilst at its origin “diffused religion” draws solely (or almost) from ecclesiastical doctrine. “Common” and “diffused” religion co exist in the same frame, but the characteristics of the latter are only a partial expansion of certain elements of the former and in fact they have a far more articulate spectrum of solutions which do not only regard the idea of fate, fortune, beliefs and superstitions linked to “conception, birth, adolescence, courtship, menopause, failing health, sickness and death” but many other aspects besides.
Ultimately, it would seem almost legitimate to broaden the criterion of relevance to “diffused religion” so as to include all the more typical manifestations of church religion. But the theoretical and empirical effectiveness of this approach would here fade away into a vagueness which throws little light and obscures a quite significant and alternative dimension, with respect to the institutional one. Obviously the results that ensue take on particular aspects in specific contexts.
It is to be noted that “diffused religion” constitutes one of the most recurring forms of legitimation, inasmuch as it always remains a ready solution, which can resolve various situations, even of political choice. Let us not forget that religious institutions often contain their own means of socialization, they have schools, radio and television programmes in both private and state networks, specialized publishing houses, and so on. In fact religious based socialization legitimation is obviously prevalent. Even many of those who do not share opinions of such orthodoxy often recur to this element, for reasons of convenience. It is true that the condition of youth comes with profound crisis of reaction against teaching received. However, the dissent is, necessarily, even a complementary form of consensus, because to a certain extent it uses the same orientative general framework present in the contested religious modality.

The indicators of “diffused religion”
It is not easy to establish what, in general, can the indicators of “diffused religion” be. We can however take into consideration a fact which greatly characterizes the education in the family and at school of millions of people. It can be supposed that in a constant or temporary way which may be satisfactory or insufficient, direct or indirect, the majority of the adult (and even youth) population have been stimulated by the religious model of the family, of kindergarten, of primary school and religious teaching in secondary and upper secondary schools, as well as the use of free time which in many cases is linked to religious or parareligious structures: scouts and artistic groups; amateur theatricals and sports; etc… Even though this kind of link disappears or lessens with the passing of time, the ethical memory keeps functioning even far from the church religion. Neither is there any lack of moments of strong recovery or recollection which occur at different periods of the life cycle: from baptisms to funerals, from marriages to other celebrations. Moreover, three periods which are particularly favourable to the renewal of religious communication with respect to guidelines and key values can be numbered. We are referring, for instance, to Christmas and Easter festivities, as well as those marking the local religious feasts. It thus occurs that in major urban centres, where there is a widespread lack of religious practice, the same people may attach great importance to the religious celebrations of their place of origin, and will go back at these times, and perhaps take leave for the occasion. We must not forget the macroscopic phenomenon of pilgrimage visits to the thousands of sanctuaries.
Two further considerations help complete this picture. The first deals with the spreading of the religious message through the mass media (radio and television dedicate ample space to religious events; there are also chains of dailies, weeklies, and monthly papers with a religious basis, as well as numerous local radio and television networks whose “raison d’être” is the religious message). The second consideration deals with the “participatory” and “eye catching” policy of a certain part of the religious world which has been stimulated, for instance, by the initiatives of the present Catholic pontiff. Today, the figure of the pope is far more conspicuous than in the past. This occurs not in a particularly Catholic manner, but rather within frameworks which do not contrast with that of “diffused religion”. In fact, in his encyclical letter Redemptor Hominis, pope John Paul II appeals to human rights, to the values of freedom and democracy, to the sentiments of fraternity and solidarity, to the peace. Such appeal finds vaster approval, beyond the context of church religion. The influence of religion in the political field is thus laid out differently, but without any fundamental break ups or oppositions. Thus the continuum exists: taking religious teaching as its starting point, it passes through the associations which are better linked with church religion, penetrates through the folds of more autonomous organizations and is finally connected to the vast net of “diffused religion” where there is, however, a more dynamic interrelation with other systems of value: on the ideological, political, trade union, party levels.

Italian surveys
Essentially we might speak of diffused religion in Italy and at the same time of diffused secularization, but the latter does not have the contents identified by Nicholas J. Demerath III in another context (2001: 225).
During the Seventies the search for material welfare remained a prominent item, at all events, as we find in other studies. Consumerism reached rural areas. Saving no longer attracted as it used, and there were few content with their property (Cipriani 1978: 42).
The 55% of residents in the provinces ready to have their wives work outside the home probably thought more of the family budget than the need for autonomy and self management of her own life by the woman herself (Cipriani 1978:45).
On the basis of these empirical finding it was not hard to conclude in the terms cited as still penetrating today, a distance of more than twenty years. In fact it seems as if sex and family were really the outstanding themes in the modern sacred cosmos Luckmann speaks of referring to the so-called “invisible religion” in which self-expression and sexuality as well as the family as source of “ultimate” significance for the individual barricaded in the “private sphere” occupy a key position, all the more so if the two elements are closely linked (Cipriani 1978: ibid).
However, these data are not in themselves sufficient to support the hypothesis of invisible religion, as the latter is still well demonstrated and documented by our own and other studies.
Another useful indication came from a relevant table on the relation between religion and society. Obviously in the less urbanized areas of Abruzzo and Molise the data seemed rather more in line with official religion or, in the words of James (1961:41) “we are struck by one great partition which divides the religious field. On the one side of it lies institutional, on the other personal religion. As A. P. Sabatier says, one branch of religion keeps the divinity, another keeps man mostly in view. Worship and sacrifice, procedures for working on the dispositions of the deity, theology and ceremony and ecclesiastical organization, are the essentials of religion in the institutional branch; were we to limit view of it, we should have to define religion as an externals art, the art of winning the favour of the gods. In the more personal branch of religion it is on the contrary the inner disposition of man himself, which forms the center of interest, his conscience, his desert, his helplessness, his incompleteness. And although the favour of the gods, as forfeited or gained, is still an essential feature of the story, and theology plays a vital part therein, yet the acts to which this sort of religion prompt are personal not ritual acts, the individual transacts the business by himself alone, and the ecclesiastical organization, with its priests and sacraments and other go-betweens, sinks to an altogether secondary place. The relation goes direct from heart to heart, from soul to soul, between man and his maker”.
Luckmann’s hypotheses are not easily verified. At most they seem to have a consistent analytical effectiveness only as general theoretical outlines of so-called “invisible religion”. There is no noteworthy territorial mobility, religion has not lost its “ultimate significance”, and has not been supplanted by other alternative forms of life orientation. I do not thereby wish to deny the privatization of the religious phenomenon, the isolationism, lack of sociality, obvious utilitarianism, consumerism and other characteristics typical of a secularized society. The church’s official models are undergoing an extensive erosion if we note – as in our research – how the hierarchy’s teachings receive minimal credence.
It is not for nothing that religion occupies one of the first places in the classification of values set out by the interviewees. Needless to add too that Italian familism (especially in the Southern regions) has historical roots sunk in the past of a centuries-old culture.
Individualism phenomenon is an effect typical of ecclesiastical religiosity, though at times its ultimate results involve taking a position regarding the religious institution (Cipriani 1978: 69-70).
In this picture largely marked by orthodoxy and orthodox practice, some closure towards the other was not absent, along with a certain territorial resistance: “they prefer to guarantee themselves a rigid set of privileges for the group. Where there is no work, the order of precedence is clear – Italians before foreigners, local people before outsiders, men before women” (Abruzzese 2000: 453).
Love for one’s children stands at 32.3% while does not exceed 9.2%; love for one’s children stands at 32.3% while good use of money arrives at 9.6%, and earning a lot is just 4.5%.
Among values received through socialization before 18 years of age, the importance of sexuality is less. In any case, opinions on sexuality have the dimension of affection and conjugality prevail.
Until the end of the 1980s, strangely enough there were no scientific results available providing adequate reliability as products of serious, thorough and really representative studies at that statistical level in relation to the whole of Italy. It was thus in the wake of the questions raised by theorizing about “diffused religion” that a fruitful season of field research began – from the Sicilian study on “the religion of values” (Cipriani 1992) to the major national research on “religiosity in Italy” (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995) and the most recent one, on an international level and with a comparison between some European countries on “religious and moral pluralism”.
An empirical research has been conducted in Sicily by means of questionnairing a group of people selected by statistical sampling. The results were compiled from the completed questionnaires of 719 subjects, and the objective was to illuminate the concept of “diffused religion” as observed in the presence of common social values which tend to unify behaviour and attitude deriving from both the religious and lay perspectives. Cluster analysis has been used to identify six different groupings: religious (church) acritical; religious (church) critical; religious (diverging from the church) critical; religious (diffused) as a condition; religious (critical and distancing self from the church); and not religious. The starting point for the research is the hypothesis that Catholicism (as the dominant religion) pervades many sectors of social life and maintains its influence over common values, despite the effect of increased distance between people and institutionalized religion. This appears to refute the theory of secularization (Cipriani 1993: 91).
Here are the general data from the study (Cipriani 1992):

Religious (church) acritical 101 (14.0%)
Religious (church) critical 261 (36.3%)
Religious (diverging from the church) critical 79 (11.0%)
Religious (diffused) as a condition 190 (26.4%)
Religious (distancing self from church) critical 47 ( 6.5%)
Non religious 41 ( 5.8%)
Total 719 (100%)

On the basis of these results, we have argued that religion of values embraces the central categories of the above table. In particular the area that can be ascribed to the religion of values runs from the category defined as religious (church) critical to that described as religious (distancing self from church) critical, and thus includes both a part of church religion (the less indulgent part) and the whole gamut of “diffused religion”, along with all forms of critical religion.
“The majority of the population is thus characterized by a slackened religious referent, persisting in the impulse of tradition or whatever responds to certain needs of contemporary man, but without producing a particular mobilization of conscience. Thus there are obvious signs of ambivalence present in the adherence of a large part of the population to the model of Church religion. Contrary to many predictions and many commonplaces, religious orientations persist in current society, demonstrate a certain persistence and signs of vitality… This seems strange in a supposedly advanced and secularized society. Religion persists insofar as it has adapted to current conditions of life, insofar as it takes part in the process of meltdown which in the present the great ideal referents and ideologies are encountering… Religion is thus fenced in on the backdrop of life, behind the scenery of existence, like an ultimate beacon of meaning whose sure presence now has a reassuring function. It is in this disjunction of ultimate reference and contingent choices, original identity and everyday orientations that the paradox of the persistence of religion in contemporary society is hidden” (Garelli 1992: 65-6)
In essence, we have gone from a dominant church religion to a majoritarian “diffused religion”, and then to a religion compounded of values. The conclusion is that religion can be defined as a mode of transmission and diffusion of values; indeed, that it performs especially this functional task and does so efficiently.
“In fact, religion, which never really stopped playing its part in society, has reappeared beneath the surface of secularization. Even if we admit that there has been a significant occlusion, this has only involved secondary, external and formal aspects, especially at the level of ritual. The decline in participation at official, preordained services has not thus meant the end of every resort to the sacred. The trajectory of religiosity is not set towards definitive extinction. Simultaneously, secular impulses seem also to have exhausted their impetus. Their efficacy now affects only the less fundamental aspects of belief, which tends to remain in essence more or less stable. Between religiosity and secularization there seems to reign almost a tacit compromise. They are reinforced and weaken virtually in unison. Aspects steeped in religion continue (or return) to manifest themselves in secular reality, whilst in the reality of the church and of religious culture we see a progressive surrender to demands that are less orthodox from the viewpoint of the official model” (Cipriani 1994: 277).
The case of Rome, described as the Holy City par excellence even though it is heavily secularized, is emblematic. The world capital of Catholicism, the meeting-place of universal import for millions of pilgrims in the jubilee year, 2000 (Cipolla, Cipriani 2002; Cipriani 2003), manifests rather low levels of religious practice. That which is described as regular, once a week, stands at 23.3% (Cipriani 1997), whilst 22.1% never go to mass. Yet the number who pray is significant – 71.5% of those interviewed who turn to prayer maybe only a few times a year (14.9%) or much more often, like the 32% who do so once or more times every day. This means that there is at once slight attachment to practice but equally a broad interest in prayer, and so religion lies not wholly in rituality. Rather, the most frequent link with divinity runs through prayer, a direct conversation, as at the interpersonal level. In this regard we might argue that whereas practice of the festal mass is more linked to church religion, that of recourse to prayer maybe has a more spontaneous character, free and removed from social control but nonetheless an index which reveals a belief, a tie, a sensitivity at the religious level. In practice, if Rome is not by any means a city of many practitioners, neither is it one with many atheists, agnostics or religious indifferent people (however, it should be noted that 21.3% of those interviewed – the highest number in the whole of the country – show no sign of religiosity at all). The capital of Italy manifests in a heightened manner some of the characteristics revealed in the 1994-5 study on “religiosity in Italy” through a national sample. For example, in a year a more 7.6% had taken part in pilgrimages and 13.6% had made or satisfied a vow. Essentially, the Romans’ religion is two-sided: on the one hand it appears imbued with a dramatic crisis, on the other it seems quite lively (though at a due distance from the habits of the official church). The religious future of the city seems destined to proceed along these two parts, divergent but tendentially parallel.
The same may be said in general for Italy, though with certain essential differences. “A double religion is the result: a majority and a minority religion, explicable also in terms of the historic presence of the Catholic church in Italy in the past century and especially since the Second World War. The Italian minority religion is for those who identify with the church quite closely and also involve themselves significantly in religious practices. The majority religion, on the contrary, lacks these characteristics” (Cipriani: 1994: 281). This majority religion is rooted in the individual conscience, guided by the law of God, according to 40.4% of those interviewed in a systematic sample of 4500 (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 180), in individual conscience alone in 36% of those sampled, and exclusively in the law of God for 22.1%. On the level of values lived with satisfaction, we find first the family that can be depended upon (73% of the sample), followed by working honestly and with commitment (68%), having friends (38%). A smaller response was obtained as regards devotion to others (25%) and commitment to changing society (22%).
The overall picture is a varied one, but it confirms the image of religiosity diffused but fractal, tattered, with heterogeneous outlines. According to the results of the cluster analysis, 32% of the sample could be classified as belonging to church religion, 59.1% to diffused or modal religion, and 8.9% to non-religion.
In detail, the proportions of Italian religiosity demonstrate the following typology:

1) Oriented church religion (hetero-directed) 9.4%
2) Reflexive church religion (self-directed) 22.6%
Church religion total (1+2) 32.0%

3) Modal primary (diffused) religion 16.5%
4) Modal intermediary (diffused) religion 21.6%
5) Modal perimetric (diffused) religion 21.0%
Diffused or modal religion total (3+4+5) 59.1%
Continuing religion total (1+2+3+4+5) 91.1%

6) Non religion 8.9%
Overall total (1+2+3+4+5+6) 100.0%

As can be seen from the percentage of the six attitudinal and behavioural classes, religion in the broad sense (church or diffuse/modal) is broadly preponderant and clearly almost all of Catholic imprint. Church religion is in a minority percentage-wise, and “diffused religion” (called modal as statistically it is in practice the mode, the characteristic with the greatest frequency) is the majority. But between minority and majority there is no break and indeed it is often hard to establish the distinction between one and the other, especially between reflexive church religion (more autonomous and individualized, less inclined to accept the directives of official ecclesiastical teaching), and primary diffused or modal religion (more diversified as regards church membership). In fact, church and diffused or modal religion are in a close relation with one another, the second arising from the first, whereby one can speak of a genuine religious continuum which involves 91.1% of those interviewed, without breaks or interruptions in the religious argument and its content, especially in the field of values.
Even more convincing, if that is possible, is what emerges from the more recent (March-April 1999) international comparative study on “religious and moral pluralism” in Europe, involving in Italy the universities of Turin, Padua, Trieste, Bologna and Rome. The Italian sampling was carried out by Doxa and involved 2149 interviews (1032 males and 1117 females from 18 and upwards), carried out in 742 cases in provincial capital cities and in 1407 in non-capital centers. 97.5% said they were Catholic; 31.2% said they were very close to the church and 45.5% close to it. 51.1% remembered at 12 years old they went to church at least once a week, but 21.7% spoke of more than once a week, and 6.7% of daily participation in religious functions.
Significant confirmation of the satisfaction with religion comes from the judgement of whether it was more or less important, 22.2% a little more, and 12.8% much more.
As for the relation between education and religion, a very close link is taken for granted especially if we bear in mind that 35.9% seemed much influenced by the education they received.
It should also be noted that 81.2% of those surveyed explicitly owned to belonging to a church, confession, group or religious community.
Finally, 86.4% said they used prayer, though with differences both quantitative (once or more) and temporal (daily or during the year).
The characteristics seem definitely established:
1) the essential content of religion is values, much more than rituals and beliefs;
2) the function of religion appears to be that of diffusing values.
There is little difference between past and present as regards the spread of religions in Italy. Even the conspicuous presence of Islam in Italy is not entirely new. Events in the past have left indelible traces of a Mediterranean culture which is not “italocentric”, so to speak, but linked to the Arab world, first and foremost in Sicily. The current situation undoubtedly features activities and behaviour of a different nature to that usually associated with Italy and Roman Catholicism. However, the greater visibility of these items, at least for the moment, does not carry with it great weight. In Rome, the capital of Roman Catholicism, Islam may be the second religion as regards the number of followers, but it cannot be claimed that “Islam has conquered Rome” as an Istanbul daily splashed across its front page (a sort of historical nemesis, after the Crusaders’ conquest of Jerusalem in 1099). Having said that about the Moslem religion, it is easy to imagine that other religions, whether institutions or movements, find it hard to gain ground in a terrain made fertile by Catholic and Christian evangelism, but unreceptive to other religions. The Jehovah’s Witnesses have been trying for many decades, but with unremarkable results compared to the efforts made in the course of repeated door-to-door, house-to-house campaigns. The Religious and Moral Pluralism (RAMP) survey shows that Jehovah’s Witnesses are numerically superior to other minority religions, but their presence in absolute terms is minimal if we consider that they constitute 0.6% of those interviewed. Moreover, as proof of the limited extent of pluralism, it should be noted that for several decades the proportion of members of Christian Churches other than the Roman Catholic Church all put together amounts to one per cent. There cannot be much pluralism if 97.5% declare themselves Catholic, while those declaring themselves Protestant, Jewish, Moslem, Buddhist, Jehovah’s Witness or other types of Christian or non-Christian account for 2.5%. Little changes if we consider those who replied on religious affiliation: 79.3% declare themselves Catholic, whereas 2% chose other responses.
In line with this is the feeling of attachment to the individual church community, as testified by responses to a question on the subject to which almost half said they felt close or very close (total 45.5%) to their own religious institution. This leaves little room for other solutions or other experiential pathways. It is a singular fact that the percentage of affiliated Catholics is identical to the percentage of those who have always belonged to the same church, religious confession, group or religious community. Shifts from one situation to another amount to just over 1%. There is also a tendency to make friends with people of one’s own religion, although it is difficult to establish to what extent it is deliberate. In many cases (42% of the whole sample), none of the male or female friends practices another religion. Only 3% claim to have friendships only with people of other religions.
As regards religious obligations imposed on women in certain circumstances, there is little sensitivity in Italy, since this experience is not part of common everyday life. However, it is interesting to note that 66% of those interviewed reacted negatively to the obligation imposed, for example, on girls of a certain religion to cover their heads at school. In this particular case, it is probably not so much a question of sensitivity to a gender issue as greater attention to one’s own customs and traditions which place neither obligations nor prohibitions on such matters. However, the basic attitude is a value-judgement stemming from one’s own religious orientation.
Still higher percentages emerge from issues of moral importance with religious motivation, such as taking drugs as part of a religious ritual (83.4% disagreed), refusing blood transfusions (91.5% disagreed entirely), resorting to suicide (94.8% do not accept this solution as a result of a religious choice). Attitude and behaviour are even more closely connected if we consider the social importance of the presence of a plurality of religions in Italy. Only a third of those interviewed acknowledge the cultural enrichment stemming from the variety of forms of religious expression to be found in Italy. One third is distinctly opposed to this contribution, while a further 16.5% are unfavourable. So, almost half the sample (48.7%) do not appreciate the cultural contribution of religions other than their own. Similar proportions are recorded when we consider conflicts which might result from the presence of other religions, albeit with a slightly lower percentage, showing greater readiness to accept differences. Inter-religious relations seem to be marked by conflict. A quarter of those interviewed are unwilling to recognize useful elements for educational purposes in other religions. Uncertainty is shown by 14.3% of the sample, but the majority (60%) declare themselves favourable.
There is no lack of awareness of religious pluralism, since 98.8% are in some way familiar with the activities of Jehovah’s Witnesses and 33.4% know something about Scientology. In fact, their knowledge is fragmentary, based on impressions, somewhat generic and superficial, but nonetheless there is a clear perception of religious differentiation. As regards freedom of religion, there is more deference toward Jehovah’s Witnesses than to Scientology.
To sum up, Italians can be divided into defenders of the Catholic religion (roughly a quarter), a majority of what we might call possibilists (who see elements of truth even in religions other than their own), and a minority of don’t knows and those who reject any religious experience.
As regards religious affiliation, the situation in the sample is reported in Table 1. There is a clear preponderance of Roman Catholics (79.3% of the sample) among those claiming affiliation to a Church, whereas those who declare themselves not to be affiliated to any Church, whom we shall henceforth refer to as the non-affiliated, amount to 18.8% of the sample (403 units).

Table 1 -Religious Affiliation
RELIGION UNITS %
ROMAN CATHOLIC 1,703 79.3
PROTESTANT 7 0.3
JEWISH 3 0.1
MOSLEM 3 0.1
BUDDHIST 4 0.2
JEHOVAH’S WITNESS 13 0.6
OTHER CHRISTIAN 10 0.5
OTHER NON-CHRISTIAN 3 0.1
NONE 403 18.8
TOTAL 2149 100.0

Given the very small number of non-Catholics in the sample, it was decided to focus on a comparison between the Catholic and non-affiliated sub-samples. It should be pointed out, however, that the 403 non-affiliated are not necessarily non-believers. Indeed, 25% of them say they believe in a superior being. What we intend to analyse first of all is the influence of religious affiliation on the morality of the individual. Religiosity will be considered in the final part.

Moral attitudes of Catholics: hypotheses for a prevalent typology
Let us now take a detailed look at the characteristics of the 6 groups which arose from analysis.

ANALYTICAL DESCRIPTION OF THE SIX GROUPS

GROUP 1: THE RIGORISTS
Size : 362 subjects (21.3% of the Catholic sample)
– Moral attitudes:
Members of this group are convinced of the positive effects of capital punishment in tackling crime. They also maintain that the influx of immigrants has had a negative effect on everyday life and generally do not like the presence of diversity near them. The educational value they most appreciate is obedience. They are proud to be Italian and hold that tax evasion may be justified in certain conditions. They tend to be somewhat egocentric. In the world of work, they are against favouritism towards family members and think it useful to change the way work is organized to solve the problem.
– Religious characteristics and background:
The level of education is often medium to low. Although they feel that the role of the Catholic Church in society is important, members of this group do not participate much and do not do voluntary work. They show remarkable tolerance towards abortion and think that science has an important role to play.

GROUP 2: THE TIMOROUS DON’T KNOWS
Size: 215 subjects (12.6% of the Catholic sample)
– Moral attitudes:
Members of this group have indecisive attitudes to the various moral issues put forward. Their scores vary between 4 and 5 (on a scale of 1 to 7). Nevertheless, there was a tendency, higher than the sample average, to agree with favouritism toward family members at work and suspicion of immigrants.
– Religious characteristics and background:
Here again the educational level is middle to low, probably due to the large proportion of old people. This fact, perhaps, also explains the low incomes and the greater number of jobless. Another feature is religious exclusiveness.

GROUP 3: THE TRADITIONAL CELEBRANTS
Size: 309 subjects (18.1% of the Catholic sample)
– Moral attitudes:
Unlike the previous two groups, where members were more or less conservative and in favour of capital punishment, this group combines a certain fear of immigrants with opposition to the death penalty. Moreover, rigorous opposition to favouritism for family members at work is counterbalanced by acceptance of tax evasion since the state wastes taxpayers’ money and levies high taxes. As regards education and upbringing, the importance of obedience was stressed. According to this group, jobs should be given first to men and then to women.
– Religious characteristics and background:
Certain background variables are similar to the previous group (a generally low educational level and a certain religious exclusiveness). However, members of this group attach more importance to religious practices, the role of the sacred object and participation. This group is totally against abortion.

GROUP 4: THE OPEN-MINDED RADICALS
Size: 305 subjects (17.9% of the Catholic sample)
– Moral attitudes:
The basic characteristic of this group, and the following one, is an open-minded attitude to the moral issues considered in the survey. Members show more tolerance toward homosexuality and euthanasia. Immigrants are considered as equals and not as a danger to Italians. They often believe that men should not enjoy more privileges than women.
– Religious characteristics and background:
The educational level of this group is medium to high and the presence of 35-44 year olds and single people is considerable. Members often say they do not feel close to the Church and show tolerance and interest in other religions. Their open-mindedness also extends to attitudes on abortion and they tend to favour a secular State.

GROUP 5: THE COMMITTED PRACTICING CATHOLICS
Size: 379 subjects (22.3% of the Catholic sample)
– Moral attitudes:
The distinctive traits of this group would appear to be the powerful influence of religion and social conscience on personal choices and an interest in politics. There is also open-mindedness toward immigrants and tolerance of homeless persons. Members of this group are strongly against capital punishment and predominantly against both favouritism for family members at work and tax evasion under whatever circumstances.
– Religious characteristics and background:
The educational level of this group is also medium to high, in some cases this is accompanied by a high income. Religious beliefs are firmly held and often influence everyday life. Many started taking part in religious activities during adolescence and church attendance is also important. Moreover, there is a certain tolerance of other religions. Their political commitment can be roughly placed as centre-left, with anti-Northern League tendencies. They show willingness to help the afflicted, whether nearby (the local tramp) or from other countries. In some cases, members engage in voluntary work.

GROUP 6: THE NEGATIVISTS
Size: 133 subjects (7,8% of the Catholic sample)
– Moral attitudes:
The answers supplied by this group to moral questions were all in the negative (“I totally disagree” or “absolutely wrong”). Most negativists feel there is no control over their own lives and claim not to be influenced by religion, still less by social conscience and upbringing. They do not see the presence of foreigners in Italy in a positive light, but neither do they regard Italians as hard workers. Issues concerning children’s education are not considered of interest or importance.
– Religious characteristics and background:
The religious and social variables of this group fully confirm their moral attitudes. What is striking is this group’s particular concentration in two Italian regions, Lazio and Piemonte, and its almost complete absence from the North East. There is scant tolerance of other religions and little interest in the message science has to offer.

A comparison with the moral attitudes of the unaffiliated
We will now analyse the distribution of the unaffiliated in the 6 groups described above. We should note that over 57% of the unaffiliated belong to groups 1 and 4. Comparing this result with the analogous one for Catholics, we find a substantial increase in the proportion of open-minded radicals with respect to committed practicing Catholics and traditional celebrants, as would be expected since the subjects of the non-Catholic sample we are assigning to the 6 groups are for the most part non-believers.
Within each group there emerge certain behavioural differences between Catholics and the unaffiliated. As regards the first group, Catholics show a greater degree of moral rigour and attention to matters of upbringing, tend to justify tax evasion less and are less nationalistic and male-chauvinist. They are also more intransigent in their disapproval of favouritism for family members. The differences between the two sub-samples in the other groups is more hazy. They involve: in the second group, more nationalism and male-chauvinism among the unaffiliated; in the third, greater intransigence toward family favouritism among Catholics (which also occurs in the fourth, fifth and sixth groups); in the fourth, moreover, Catholics are more tolerant of homosexuality and euthanasia and are less willing than the unaffiliated to accept those who refuse to work; in the fifth group, the unaffiliated see the situation today compared to that of ten years ago in a less negative light; in the sixth, Catholics are a little less negative in their assessment of education and refusal to work. No differences appear to emerge as regards attitudes to the death penalty.

Conclusions
In general, almost a quarter of those interviewed were somewhat reticent about their religious beliefs. Many more showed a weak sense of belonging to a religion, but not so weak as to be reduced to nothing. There was no lack of don’t knows and those with no religious belonging, but their presence was very limited. There is an almost unbroken continuum which extends from strong identification to total separation. The typology which emerged from our statistical analysis shows religious practice as the major element (22.3%) with just a one per cent advantage over the group marked by their rigour (21.3%). If to these we add the 18.1% of traditional celebrants, this completes the picture for alignment with the main reference contents of religious membership. Nevertheless, the proportion of radicals (17.9%) and don’t knows (12.6%) is by no means negligible. Finally, the proportion of negativists (7.8%) is not so different from that revealed in a previous national study (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), which showed 8.9% in Italy as a whole. If we add together the practicing Catholics, rigorists and traditional celebrants, we obtain an absolute majority of 61.7%, which remains within the overall Catholic framework, albeit with variations. The combination of rigorists (21.3%) and traditional celebrants (18.9%) constitutes a sound base of religious membership come what may, with 39.4% of those interviewed. This proportion of the sample is by no means dissimilar to the number of those who said they felt close to their Church. The presence of 21.3% of rigorists can be paired up with the attitude of total lack of acceptance of other religions expressed by a quarter of those interviewed. Further confirmation comes from the number of don’t knows expressed on this matter (14.3%), only slightly larger than the category of timorous don’t knows which emerged from our analysis. Along with the rigorists and traditional celebrants, there emerged a broad front of those “open” to other religious experiences: these are the committed practicing Catholics and open-minded radicals who together form 40.2% of the sample. However, the don’t knows for the most part are in favour of State finance only for the Catholic Church. Of particular interest is the category of open-minded radicals, which perhaps represents this work’s major novelty. Their attitudes are pervaded by a marked sense of modernization and secularization. Their commitment to society and in society is particularly clear, as is demonstrated by their opposition to the death penalty. There is evidence of religious conditioning, but it is weaker than that of the rest of the sample. This group has the highest degree of tolerance towards immigrants. There is a definite shift from typically religious values to more secular ones. They do not completely abandon the religious fold, but cast aside typically institutional references. This is also due to the higher educational level of the group. They are generally in favour of innovations, such as the introduction of women-priests. But perhaps the most distinctive feature is their open-mindedness towards other religions, a sort of unconditional, unreserved, unhesitating propensity to ecumenism. In the meantime, church attendance is reduced to a personal matter, which ties in with their divergence from the opinions of the Church.
The findings for the rigorist group, with its medium to low educational level, are largely predictable. They are in favour of the death penalty and against immigration, but strict on moral issues in general. They are not particularly involved in religion. Among traditional celebrants, the predominant feature is old age, but they also share some items with the rigorists (especially on immigration). However, there is a clear difference between the two groups as regards religion. Traditional celebrants attach importance to religious rites, belief in God is widespread, they feel close to the Church, they vigorously support the exclusiveness of the Catholic Church, they are not reticent about their religiosity and they are not in favour of religious innovations. The two groups may be similar in many aspects but not as far as religion is concerned; religion dominates the traditional celebrant group, but has a weaker role among the rigorists. The open-minded radicals are almost the direct opposite of the rigorists, especially on issues of immigration and capital punishment, whereas they are closer (but not completely the same as) the traditional celebrants on religious matters, but without involvement in church attendance and with no preconceived bias against innovation. The committed practicing; Catholics, the majority in our sample, show clear socially-oriented attitudes (in favour of immigrants as well as religion, ethical conduct as well as political commitment; against capital punishment, favouritism and tax evasion). But their distinctive feature is undoubtedly their full-circle religious profile: militant, practicing, orthodox, altruistic, broadly left-wing, Church-attenders. The timorous don’t knows are marked by their scant attention to a well-defined moral perspective, since they are inclined to keep the death penalty, are against the growing influx of immigrants and tend to tolerate tax evasion. In effect, some of the characteristics of the rigorist group are here inverted, but the common element is the tendency not to be open-minded. On religious matters, the don’t knows refer only to some general issues.
The last group we consider is the negativists, who form the significant minority in our sample. They combine non-altruistic tendencies toward immigrants with a refusal to accept fiscal disobedience. Among this group there is a total lack of religious sensitivity.
Among rigorists in particular, both moral and religious pluralism is absent. Moral pluralism is to be found among traditional celebrants, timorous don’t knows, negativists and open-minded radicals, but not among rigorists and committed practicing Catholics. Religious pluralism is only to be found among committed practicing Catholics and open-minded radicals. It is usually absent among rigorists, traditional celebrants, timorous don’t knows and negativists. The highpoint of both religious and moral pluralism is found among the open-minded radicals, as their name would imply.
In terms of a continuous flow from group to group, we go from a total absence of pluralism among the rigorists to full confirmation of pluralism by the open-minded radicals. In between, along the continuum, we find the four other categories, with differing degrees of, at times, the presence or absence of one of the two forms of pluralism. However, it is clear from our empirical data that the traditional celebrants are closer to the rigorist group, which precedes them, and the committed practicing Catholics which follow them. The timorous don’t knows form a link between the practicing Catholics and the negativists. The radicals are the greatest exponents of pluralism and bring the continuum to its conclusion, yet they seem in fact to be halfway between those who claim (and are inclined to be) pluralist and those who deny pluralism. Lastly, we should consider that the overall profile of the timorous don’t knows, traditional celebrants and negativists all have similar connotations of moral pluralism and religious exclusiveness; quite the contrary of the committed practicing Catholics who show moral exclusiveness and religious pluralism.
FLOW CHART OF MORAL (M) AND RELIGIOUS (R) PLURALISM BASED ON ABSENCE (-) OR PRESENCE (+) IN THE PROFILES OF THE SIX GROUPS
Rigorists: -M -R
Traditional celebrants : +M -R
Practicing Catholics -M +R
Don’t knows: +M -R
Negativists: +M -R
Radicals: +M +R
The following table gives more detail on the composition of the greater or lesser pluralism of each group:

RIGORISTS
Moral pluralism: absent Religious pluralism: absent
Yes to capital punishment No to religious movements
No to immigrants Yes to State support for religious
schools
No to favouritism Yes to only one true religion
TIMOROUS
DON’T KNOWS
Moral pluralism: present Religious pluralism: absent
Yes to favouritism Yes to only one true religion
Yes to capital punishment Yes to State funding only for
Catholicism
No to immigrants
TRADITIONAL CELEBRANTS
Moral pluralism: present Religious pluralism: absent
No to immigrants Yes to only one true religion
Yes to justified tax evasion No to religious movements
No to favouritism Yes to State funding only for
Catholicism
No to capital punishment
OPEN-MINDED RADICALS
Moral pluralism: present Religious pluralism: present
No to suicide Yes to Scientology
Yes to immigrants Yes to women-priests
No to capital punishment Yes to truth in many religions
Yes to the freedom to learn from
other religions
Yes to religious symbols banned in
state schools
Yes to Jehovah’s Witnesses
Yes to State :support for religious
Schools
Yes to State: funding only for
Catholicism.
COMMITTED PRACTICING
CATHOLICS
Moral pluralism: absent Religious pluralism: present
Yes to immigrants Yes to Jehovah’s Witnesses
Yes to the influence of religion
Yes to the influence of a social
conscience
No to favouritism
No to justified tax evasion
No to capital punishment
NEGATIVISTS
Moral pluralism: present Religious pluralism: absent
No to justified tax evasion No to the freedom to learn from
other religions
No to immigrants No to Jehovah’s Witnesses
Yes to favouritism No to Scientology
No to religious movements

If we turn our attention from the affiliated to the unaffiliated sub-sample, the characteristics outlined above do not undergo substantial changes. The proportion of open-minded radicals increases, but we also observe, especially among the rigorists, a subtle difference between Catholics and non-Catholics on moral and educational matters, with undoubtedly more interest shown by the religious, who are also more against favouritism and more broad-minded in their attitudes to women. Moreover, Catholics classified as open-minded radicals are a little more willing to tackle the issues of homosexuality and euthanasia than unaffiliated radicals.
The issue of capital punishment requires more careful consideration. Catholics are slightly more inclined to oppose the death penalty than the unaffiliated, and the higher the educational level, the greater their opposition. But it should be stressed that religious affiliation does not account for attitudes to capital punishment in a statistically significantly way.
In the last analysis, our findings confirm that there is a limited tendency toward religious pluralism, whereas moral themes would appear to be much more fragmentary. The cultural setting seems to have a more decisive role than religious affiliation, in view of the fact that attitudes do not change substantially in the two groups of those claiming to be religious and those who do not. Moreover, both samples show internal similarities and differences in directions which largely coincide and even appear to be mirror-like reflections of each other. Is this the result of Catholic conditioning on Italian culture in general or does it stem from a widespread ethos which also contains variables depending upon Catholicism? The question remains unanswered and points to the need for further study.
Reinforcing Pace’s viewpoint, Italo De Sandre (2001: 53) reverses the formula which dates to the thirteenth century, according to which ‘outside the church there is no salvation’ and transforms it into ‘outside the church there is salvation (extra ecclesiam, salus).
In essence, invisible religion, at least for now, does not seem to have a solid future at the start of the new century. Franco Garelli seems convincing, as is also attested by his many empirical studies in Italy, when he says “contrary to many predictions God is not dead in Europe, nor is the social trajectory of Christianity exhausted. Religion seems still strongly integrated with the culture, even if we witness the disempowering of faith, the melting of beliefs, the discontinuity of practice; even if religious values increasingly slide into the background of existence and are exposed to a distinctly subjective interpretation” (Garelli 1996:205).
This does not leave the religious hierarchy tranquil, however. Not by chance, pope Paul VI, as a sharp intellectual, had already grasped what was happening in the post-conciliar phase, as he expressed it to Jean Guitton: “What strikes me when I consider the Catholic world, is that within catholicism at times a non-Catholic thinking seems to prevail, and it may be that this non-Catholic thought within catholicism becomes tomorrow the stronger”. In this way catholicism itself would become invisible. But this would be another story, and maybe the object of study for future sociologists of religion.

References
Abbruzzese S., “Il posto del sacro”, in R. Gubert (a cura di) La via italiana alla post-modernità. Verso una nuova architettura dei valori, Franco Angeli, Milano, 2000.
Acquaviva S. S., L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Edizioni di Comunità, Milano, 1961; The Eclipse of the Holy in Industrial Society, Blackwell, London, 1979.
Baron H., The Crisis of the Early Italian Renaissance, Princeton University Press, Princeton, N. J., 1996 (second edition).
Bellah R. N., Madsen R., Sullivan W. M., Swidler A., Tipton S. M., Habits of the Heart: Individualism and Commitment in American Life, University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London, 1985, 1996.
Bellah R., “Civil Religion in America”, Daedalus, 96, 1967, pp. 1-21.
Berger P. L., A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural, Doubleday, Garden City, N. Y., 1969.
Berger P. L., Luckmann T., The Social Construction of Reality, Doubleday, Garden City, N. Y., 1966.
Berger P. L., The Sacred Canopy. Elements of a Sociological Theory of Religion, Doubleday, Garden City, N. Y., 1967.
Berger P. L., Luckmann, T., The Social Construction of Reality, Doubleday, Garden City, N. Y., 1966.
Blumer H., “What is Wrong with Social Theory?”, American Sociological Review, 19, 1, 1954, pp. 3-10.
Bohmstedt G.W., Knoke D., Statistica per le scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1998.
Bove G. (1994), “Some Methods for the Simultaneous Analysis of Data Matrices and the Factorial Invariance Problem”, Metron, 52, 1994 p. 73-87.
Calvaruso C., Abbruzzese S., Indagine sui valori in Italia. Dai postmaterialismi alla ricerca di senso, SEI, Torino, 1985.
Cesareo V., Cipriani R., Garelli F., Lanzetti C., Rovati G., La religiosità in Italia, Mondadori, Milano, 1995.
Cipolla C., Cipriani R. (a cura di), Pellegrini del Giubileo, Franco Angeli, Milano, 2002.
Cipriani R. (a cura di), Giubilanti del 2000. Percorsi di vita, Franco Angeli, Milano, 2003.
Cipriani R., “”Diffused Religion” and New Values in Italy”, in J. A. Beckford, T. Luckmann (eds.), The Changing Face of Religion, Sage, London, 1989, pp. 24-48.
Cipriani R., “Religion and Politics. The Italian Case: Diffused Religion”, Archives de Sciences Sociales des Religions, 58/1, 1984, pp. 29-51.
Cipriani R., “Religion as Diffusion of Values. “Diffused Religion” in the Context of a Dominant Religious Institution: the Italian Case”, in R. K. Fenn (ed.) The Blackwell Companion to Sociology of Religion, Blackwell, Oxford/Malden, Mass., 2001, pp. 292-305.
Cipriani R., Dalla teoria alla verifica: indagine sui valori in mutamento, La Goliardica, Roma, 1978.
Cipriani R., La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, Salvatore Sciascia Editore, Roma-Caltanissetta, 1992.
Cipriani R., La religione diffusa. Teoria e prassi, Borla, Roma, 1988.
Cipriani R. (a cura di), La religiosità a Roma, Bulzoni, Roma, 1997.
Cipriani R., “De la religion diffuse à la religion des valeurs”, Social Compass, 40 (1), 1993, pp. 91-100.
Cipriani, R., Manuale di sociologia della religione, Borla, Roma, 1997; Sociology of Religion. An Historical Introduction, Aldine de Gruyter, New York-Berlin, 2000.
Cipriani R., “Religion and politics. The Italian case: diffused religion”, Archives de sciences sociales des religions, 58/1, 1984, pp. 29-51.
Cipriani R., “Religiosity, Religious Secularism and Secular Religions”, International Social Science Journal, 140, June 1994, pp. 277-284.
De Sandre I., “Incertezze private e certezze pubbliche nelle credenze dei cattolici italiani. Private Doubts and Public Certainties in Italian Catholics’ Beliefs”, in S. Allievi, G. Bove, F. S. Cappello, R. Cipriani, I. De Sandre, F. Garelli, G. Gasperoni, G. Guizzardi, E. Pace, Religious and Moral Pluralism in Italy, CLEUP, Padova, 2001, pp. 49-61.
Cesareo V., Cipriani R., Garelli R., Lanzetti C., Rovati G., La religiosità in Italia, Mondadori, Milano, 1995.
Demerath N. J., “Secularization Extended: From Religious “Myth” to Cultural Commonplace”, in Richard K. Fenn (ed.) The Blackwell Companion to Sociology of Religion, Blackwell, Oxford/Malden, Mass., 2001, pp. 211-228.
Dobbelaere K., “Secularization: A Multi-Dimensional Concept”, Current Sociology, 29: 2, 1981.
Durkheim, E., The Elementary Forms of Religious Life, Free Press, New York, 1995.
Erenc J., Wszeborowski K., “The Pole’s Attitudes Towards Privatization”, in J. Coenen-Huther, B. Synak (eds.), Post-Communist Poland: From Totalitarianism to Democracy?, Nova, Commack, N. Y., 1993.
Fenn R. K., “The Process of Secularization: A Post-Parsonian View”, Journal for the Scientific Study of Religion, 2, 1970, pp. 117-36.
Fenn R. K., “The Secularization of Values. Analytical Framework for the Study of Secularization”, Journal for the Scientific Study of Religion, 1, 1969, pp. 112-24.
Fenn R. K., Toward a Theory of Secularization, Society for the Scientific Study of Religion, Storrs, CT, 1978.
Garelli F., “Religione e modernità: il “caso italiano””, in D. Hervieu-Léger, F. Garelli, S. Giner, S. Sarasa, J. A. Beckford, K.-F. Daiber, M. Tomka, La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernità in Francia, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1992, pp. 11-99.
Garelli F., Forza della religione e debolezza della fede, Il Mulino, Bologna, 1996.
Glock C. Y., Stark R., Religion and Society in Tension, Rand McNally, Chicago, 1965.
Gorlach K., Sarega Z., “From Repressive Tolerance to Oppressive Freedom: Polish Family Farms in Transition”, in J. Coenen-Huther, B. Synak (eds.), Post-Communist Poland: From Totalitarianism to Democracy?, Nova, Commack, N. Y., 1993.
James W., Varieties of Religious Experience: A Study in Human Understanding, Collier Macmillan, New York, 1902, 1961.
Jasinska-Kania A., “Religione, valori e politica in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia”, in G. Capraro (a cura di), I valori degli europei e degli italiani negli anni novanta, Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Università degli Studi di Trento, Trento, 1995, pp. 446-471.
Lebart L., Morineau A., Lambert T., Pleuvret P., SPAD Version 3. Manuel de néférence, CISIA, St. Mandé, 1996.
Lübbe H., Säkularisierung, Karl Albert-GmbH, Freiburg-München, 1965.
Luckmann, T., The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, Macmillan, New York, 1967.
Martin D., A General Theory of Secularization, Blackwell, Oxford, 1978a.
Martin D., The Dilemmas of Contemporary Religion, Blackwell, Oxford, 1978b.
Martin D., The Religious and the Secular: Studies in Secularization, Routledge and Kegan Paul, London, 1969.
Norušis M.J., SPSS Professional StatisticsTM 7.5, SPSS Inc., Chicago, 1997.
Oevermann U., “Ein Modell der Struktur von Religiosität. Zugleich ein Strukturmodell von Lebenspraxis und von sozialer Zeit”, in M. Wohlrab-Sahr (Hrsgb.), Biographie und Religion. Zwischen Ritual und Selbstsuche, Campus, Frankfurt am Main, 1995.
Towler R., Homo Religiosus. Sociological Problems in the Study of Religion, Constable, London, 1974.
Tschannen O., Les théories de la sécularisation, Librairie Droz, Genève/Paris, 1992.
Wilson B. R., Religion in Secular Society, Watts, London, 1966.

Roberto CIPRIANI is full professor of Sociology and chairman of the Department of Educational Sciences at the University of Rome 3. He has been visiting scholar at the University of Berkeley, and visiting professor of Qualitative Methodology at the University of Sao Paulo, of Political Science at the Laval University, and of Methodology and Visual Sociology at the University of Buenos Aires. He has been President of the International Sociological Association Research Committee for the Sociology of Religion. He is Past Editor in Chief of “International Sociology” (International Sociological Association official journal). He has been member of the Executive Committee of the AISLF (International Association of French Speaking Sociologists), and of the IIS (International Institute of Sociology). He is Vice President of the Italian Sociological Association. His publications include: Sociology of Religion. An Historical Introduction (Aldine de Gruyter, New York, 2000), Sociology of Legitimation (Sage, London, 1987), Aux sources des sociologies de langue française et italienne (L’Harmattan, Paris, 1997). He has researched in Mexico and Greece.
ADDRESS: Dipartimento di Scienze dell’Educazione, via del Castro Pretorio 20, 00185 Roma, Italia. Phone and fax: 0039 06 447 03 014 [email: rciprian@uniroma3.it].

IL PUNTO DI VISTA DELL’UNIVERSITA’ SULLO SVILUPPO PROFESSIONALE

Roberto Cipriani

Ogni azione di sviluppo professionale a livello di risorse umane non può prescindere dal prendere in considerazione la percezione che ne possono avere sia i destinatari diretti, cioè gli operatori bancari nella fattispecie, sia quelli indiretti (ma non per questo meno significativi per l’intero sistema-banca) cioè i clienti-utenti.

Il problema – si dice oggi – è quello di gestire la conoscenza e ben vengano dunque i knowledge managers. Ma quando si parla di conoscenza non ci si può limitare alle metodiche, più o meno innovative, di addestramento, motivazione, ricompense, acquisizione delle competenze, scambi organizzativi, apprendimento delle best practices.

C’è un’operazione ancora più a fondo da condurre: l’approccio al fattore umano, non inteso in senso tradizionale in un’ottica di marketing, quanto piuttosto a livello di comprensione, condivisione delle esperienze, analisi compartecipata a livello interpersonale, sinergia orientata verso obiettivi comuni, consistenti per esempio in correttezza a livello di comunicazione e competenza nella prassi intersoggettiva.

Nella misura in cui si impara a conoscere le persone e le loro istanze diventa anche più agevole coglierne le istanze, le emozioni, le attese. Indubbiamente però “rumori” di varia natura interferiscono rispetto ad un corretto scambio interindividuale. Proprio tale interferenza è ormai un dato di fatto costante, con cui occorre abituarsi a convivere, si tratti di una notizia diffusa ad arte, di un semplice pettegolezzo, di una inside information o inside trading od anche di una informazione fondata e/o plausibile.

Sempre più la complessità appare essere una caratteristica dei nostri tempi e dunque una sorta di filo rosso senza soluzione di continuità. Con tale stato di cose si ha a che fare quotidianamente, ragion per cui conviene attrezzarsi adeguatamente, con un approccio per nulla superficiale ma attento, approfondito e continuo, scientificamente orientato e sensibile alle dimensioni umane e dunque etiche.

Un segnale importante giunge dal mondo dei mezzi di comunicazione di massa attraverso i quali passano gli orientamenti più diffusi tra la popolazione. Proprio da questi strumenti di interazione sociale arrivano indicazioni inequivocabili in merito alle preferenze del pubblico, non più orientato a lasciarsi attrarre da un messaggio qualunque ma più propenso a seguire ciò che in qualche misura rappresenta un valore. Ciò si verifica sia in riferimento a temi di grande richiamo quali l’anelito alla pace, la propensione ad un uso attento ed equilibrato delle proprie risorse anche economiche (come spiegare altrimenti il successo delle cosiddette banche etiche?), l’attenzione a problemi di carattere umanitario (come dimostra il notevole sviluppo delle forme di volontariato), la predilezione per riflessioni legate all’esperienza esistenziale (come mostrano, per esempio, i successi di pubblico e di critica di opere cinematografiche che vertono su problematiche di particolare pregnanza sociale).

Ecco dunque che una prima constatazione emerge da tutto questo: la conoscenza non può consistere in una semplice azione tecnica, meramente strumentale, tutta profit oriented. Sorge prepontemente la necessità di farsi carico del lato relazionale delle proprie condotte nei riguardi di soggetti altri, soprattutto di quelli che restano in ogni caso i nostri referenti in quanto ragion d’essere del nostro lavoro e della nostra stessa vita.

Per fare questo, ed altro ancora, diventa impellente imbastire progetti di largo respiro non legati al risultato effimero dell’oggi ma protesi verso risultati di lungo termine, quella fidelizzazione da molti propugnata in chiave strettamente redditizia mentre invece andrebbe considerata come esito prevedibile di una correttezza di rapporti in grado di far superare da una parte e dall’altra le difficoltà contingenti di mercato e di dinamica economica.

Più che a togliere clienti agli altri conviene pensare a trattare bene quelli che già si hanno, i quali non solo possono offrire garanzie di stabilità ma divengono a loro volta altrettanti volani di buona immagine dell’azienda bancaria cui fanno riferimento e di cui si possono dichiarare soddisfatti per il trattamento ricevuto. Ognuno merita le medesime cure, indipendentemente dai capitali a disposizione, anche perché un rapporto stabilmente corretto rassicura il cliente-utente ed evita ripensamenti e decisioni drastiche di rottura. Insomma una predisposizione amichevole difficilmente favorisce soluzioni tendenti all’allontanamento ed alla mancanza di fiducia. Appunto la fiducia reciproca diventa allora la chiave di volta di un successo che si mantiene grazie alle continue conferme di garanzia e di protezione, come se l’altro rappresentasse nient’altro che un prolungamento della propria persona e dunque dei propri stessi interessi.

Oggi si parla, sempre più spesso, di “libertà della conoscenza, criteri di merito, sviluppo professionale”. Nella knowledge society contemporanea in cui sempre più si sta diffondendo, anche nell’imprenditorialità privata, la cultura del knowledge management, diventa sempre più strategica una formazione alla conoscenza adeguata agli obiettivi dello sviluppo nella democrazia e nella libertà, in un quadro di riferimento ben più ampio di quello nazionale, dunque in un contesto internazionale orientato a consolidare la spinta utopica (ma mobilitante e nobilitante) verso la realizzazione di una concreta società internazionale della conoscenza.

Forse anche per questo si sta assistendo in Europa ed altrove ad una lotta serrata per esercitare un forte controllo sociale e politico sulla conoscenza.

Ma in fondo quale partita si sta giocando? Secondo il sociologo tedesco Nico Stehr, autore nel 2003 di Wissenspolitik. Die Űberwachung des Wissens, edito a Francoforte sul Meno da Suhrkamp, vanno analizzate le ragioni per cui le istituzioni stanno mirando al controllo della nuova conoscenza scientifica. Non si tratta più di accertare solo il ruolo sociale della conoscenza, cioè del potere fondato sulla conoscenza, attraverso la trasformazione anche delle carriere di esperti, intellettuali ed élites cognitive. Neppure si tratta di porre attenzione esclusivamente alla produzione della conoscenza. Occorre invece guardare specificamente al consumo di conoscenza, cioè all’uso diffuso della conoscenza ed in particolare ad un uso specifico della conoscenza.

Insomma sarebbe ormai giunto il momento di considerare come primario il compito di interessarsi alla knowledge politics, come nuovo campo della conoscenza e della scienza e come nuovo settore di attività formativa.

Si potrebbero a questo punto invocare nuove capacità di azione conoscitiva e mobilitante (che per esempio in Francia come in Germania ed ora anche in Italia cominciano a riemergere dopo anni di quasi letargo), al fine di comprendere quali siano gli effetti delle nuove forme di conoscenza sulle relazioni sociali e soprattutto per cogliere la portata dei tentativi in atto per il controllo del loro impatto.

Poste tali promesse, la knowledge politics è destinata indubbiamente a guadagnare terreno nel prossimo futuro, specie in riferimento ai rapporti fra scienza e società, fra ricerca e società, fra università e società, fra sistema bancario e società. Si può anche distinguere fra scienza e conoscenza, ma il risultato del loro impatto congiunto ha un pregnante valore sul piano della formazione. Ecco perché ancor prima di accorgersi platealmente degli effetti prodotti conviene esercitare in anticipo un’azione formativa adeguata.

Orbene, in linea anche con le direttive a livello europeo, è necessario accrescere la collaborazione anche fra università e sistemi bancari per un orientamento verso la conoscenza, l’innovazione e la creazione, cioè più in generale verso il trasferimento e la divulgazione della conoscenza. Anche dal punto di vista della concorrenzialità è opportuno che il sapere dell’università si avvicini a quello delle aziende, anche bancarie, e della società. Le modalità principali di trasmissione diretta della conoscenza dall’università al mondo esterno sono infatti legate alla qualificazione delle competenze scientifiche ed alla formulazione di nuove proposte formative utili al sistema sociale. Ma in realtà le università mettono poco a disposizione le proprie ricerche e le proprie risorse scientifiche e dunque non utilizzano adeguatamente i frutti della loro attività cercando di stabilire forme di collaborazione con il mondo del lavoro e dell’impresa (inclusa quella bancaria).

Dalle “Statistiche sull’Innovazione in Europa” dell’Eurostat risulta che le principali fonti di innovazione per l’impresa non sono le strutture universitarie e della ricerca scientifica applicata alla formazione. In effetti le aziende innovative usano gli inputs provenienti dal mondo universitario (od anche da quello privato senza fini di lucro) in misura fortemente ridotta, ben al di sotto del 5% dei casi.

Occorre dunque evitare che vi sia un così grande spreco di risorse, favorendo invece il diffondersi del sapere scientifico e formativo, mediante opportune azioni promozionali dei rapporti università-aziende, per sfruttare quanto più possibile i risultati della conoscenza nel campo della formazione.

Ancora sussistono barriere, eppure occorre individuare i fattori che costituiscono ostacolo, per eliminarli, creando occasioni virtuose di collaborazione, moltiplicando i luoghi di confronto e di produzione della conoscenza, come nel caso di questa conferenza dell’European Bank Training Network.

C’è da attendersi risultanti probanti dall’affidamento di attività di ricerca e di formazione ad enti universitari che hanno il grado adeguato di know how teorico, metodologico e tecnico nel campo formativo. Si pensi soprattutto alle facoltà ed ai dipartimenti universitari di scienze della formazione e di scienze dell’educazione, che sono i luoghi deputati all’approfondimento di tali specifiche tematiche e dove dunque gli sviluppi conoscitivi sono presumibilmente up to date.

Vi è tuttavia un problema da risolvere. Si prenda proprio il caso della formazione aziendale in campo bancario. In ambito universitario non è facile reperire competenze specializzate e mirate al settore delle aziende bancarie. Neppure nei corsi di laurea in scienze bancarie si trovano opportuni insegnamenti che facciano della formazione un elemento qualificante in termini di metodi e contenuti. Ebbene è evidente che solo una frequentazione ed una dimestichezza accresciute fra università e banche possono dar luogo a circoli virtuosi di collaborazione, di scambio delle informazioni, di verifica delle procedure e di valutazione degli esiti.

Nell’attuale società globalizzata non è neanche da considerare vincente la prossimità fisico-geografica. Se è vero che molte ed importanti università sono allocate nel medesimo territorio in cui operano i principali istituti bancari è però altrettanto vero che oggi è possibile stabilire accordi e fattive collaborazioni anche fra soggetti piuttosto distanti fra loro in termini spaziali. Al di là delle potenzialità offerte dalla telematica e dunque dalla formazione a distanza, in molti ambiti di attività è possibile implementare sinergie indipendentemente dalla contiguità diretta fra università e banche. Anzi tale dato di fatto permette di godere dei vantaggi di una concorrenza sul piano della qualità dell’offerta formativa, non necessariamente legata alla vicinanza fra una sede universitaria e le agenzie bancarie orientate a svolgere attività formativa.

Certamente i centri universitari migliori hanno maggiori chances perché consentono di passare direttamente ed immediatamente dalla conoscenza avanzata raggiunta alla sua applicazione ai casi concreti di azione formativa.

C’è peraltro una questione non secondaria, nello scenario sinora descritto: la presenza di una sorta di reciproca diffidenza tra i due mondi: quello universitario e quello bancario. Ma qui conviene delineare un quadro fondamentale in funzione prospettica. Occorre cioè approfondire e capire il valore della conoscenza e dunque anche della conoscenza reciproca fra realtà universitaria e realtà bancaria.

La conoscenza è indubbiamente, in chiave sociologica, la base fondamentale del nostro modo di pensare, delle nostre modalità di agire ed in fondo delle nostre scelte decisive. Se non si conoscono i meccanismi della costruzione sociale della conoscenza si rischia di operare a caso, di produrre effetti indesiderati, di sprecare risorse umane ed economiche. Un’utile lettura potrebbe essere quella dell’opera di Peter Berger e Thomas Luckmann su La costruzione sociale della realtà (Doubleday, Garden City; il Mulino, Bologna; Méridiens-Klincksieck, Paris).

D’altra parte è bene considerare che la conoscenza si va sempre più diversificando e specializzando. Pertanto risulta evidente che la stessa formazione nel settore bancario ha necessità di un’azione ad hoc. Dal che emerge, inoltre, che l’università ha bisogno di far ricorso ad un approccio interdisciplinare a carattere socio-economico, orientato allo sviluppo professionale ma anche allo sviluppo sostenibile, alla gestione del rischio ma anche della fiducia. Ecco dunque le nuove sfide che il mondo universitario e quello bancario hanno di fronte: riorganizzare la conoscenza ben oltre il quadro abituale di riferimento, piuttosto inner oriented.

In tale prospettiva vanno superate le barriere fra ricerca fondamentale e ricerca applicata, coniugando per quanto possibile l’attività scientifica di base e quella applicativa, in modo da avanzare proposte finalizzate a trasformare le conoscenze in altrettanti contenuti e modalità da implementare in campo formativo.

Nella misura in cui l’università acquista credibilità ed attira l’interesse del sistema formativo bancario, quest’ultimo può orientarsi a far ricorso più di frequente all’offerta universitaria. L’obiettivo da perseguire resta comunque quello di un corretto equilibrio fra necessità profit oriented, esigenze di deontologia scientifica, autonomia della ricerca, orientamento e contenuti dell’attività formativa.

Lo stesso apprendimento lungo tutto il percorso esistenziale dei soggetti umani, ormai qualificato come un must in più sedi ed a più riprese, consente di sperimentare percorsi permeabili tra contesti universitari e bancari, tra scienza e conoscenza, tra ricerca e formazione. Insomma l’università si può aprire non solo a svolgere corsi formativi in contesti bancari ma anche accogliendo presenze di soggetti bancari nel contesto delle strutture universitarie, per iniziative di formazione condivise con altri interlocutori sociali. In tal modo l’auspicata apertura delle università al mondo esterno (e viceversa) può aver luogo in modo virtuoso, con un miglioramento dei servizi resi reciprocamente, con una differenziazione delle proposte formative, con un’interazione efficace tra le varie categorie di utenti-destinatari dell’offerta formativa, con un incremento del dibattito socio-culturale tra università e banche.

Uno dei punti cardine di tale dibattito è dato proprio dalla natura, dalla committenza, dall’utenza, dalla finalità e dall’efficacia dei corsi di formazione e di ogni altra azione avente un carattere formativo o para-formativo.

Ovviamente una prima distinzione si ha allorquando l’attività formativa è proposta dall’azienda bancaria. Essa si rivolge di solito a gruppi ristretti e selezionati dalla dirigenza, con obiettivi principalmente orientati verso un migliore rendimento operativo ed anche economico delle strutture operanti sul territorio. Ben diverso è il caso di iniziative formative previste da normative contrattuali e/o sollecitate da organizzazioni sindacali, in linea di massima più dirette a sensibilizzare i destinatari verso problematiche di interesse sociale e professionale insieme. In entrambi i casi si parte dal presupposto che lo sviluppo professionale non è un elemento che si dà di per sé o che si autoalimenta anche indipendentemente dalla volontà e dall’agire del singolo. Lo status di bancario o bancaria non garantisce nulla in proposito. Ogni progresso, ogni innovazione è il precipitato concreto di una esplicita volontà di aggiornamento, perfezionamento, adeguamento.

Per di più è ben raro che il compito di un operatore o di un’operatrice di banca si riduca a procedure solo ripetitive. Anche quando sembra che tutto sia nella norma si possono scorgere spunti di novità: si tratti della firma su un assegno o su un mandato o su una reversale, oppure dell’intestazione di un conto, od ancora della valuta estera da prendere in considerazione per il suo cambio giorno per giorno. Anzi, com’è noto, proprio l’assuefazione a pratiche abituali è occasione frequente di errore e dunque comporta un’attivazione massima dell’attenzione ad ogni dettaglio. Lo specialismo di uno sportello o di una serie di operazioni (dal settore titoli a quello delle cambiali) fa sì che vi sia un’approfondita conoscenza di un ambito abbastanza particolare, ma anche in questo caso nulla si può dare per scontato perché le novità sono continue ed imprevedibili.

La non soluzione di continuità dei mutamenti in atto comporta una costante disponibilità ai corsi di formazione ma tale accondiscendenza va verificata di volta in volta, in quanto se l’istanza formativa parte dai diretti interessati la partecipazione è naturalmente più sentita ed anche cospicua sul piano numerico, se viceversa è l’azienda a richiedere una prestazione a carattere formativo non mancano resistenze, a meno che non si tratti di collegare tale iniziativa a prospettive di miglioramento economico e gerarchico nella banca. Non solo varia la percentuale delle adesioni all’una o all’altra forma di attività ma muta anche il tasso di assiduità, in termini di frequenza ai corsi offerti. Va poi segnalato il fenomeno peculiare della ridotta presenza femminile, rispetto a quella maschile, indipendentemente dalle quote effettive di donne presenti negli organici bancari, ripartiti tra personale maschile e femminile. In pratica già le donne sono di per sé meno numerose in banca ma lo sono ancor meno quando si tratti di prendere parte ad occasioni formative.

I dati empirici provano che l’intensità della frequenza dei corsi di formazione è direttamente proporzionale al livello professionale raggiunto, alla posizione nella scala gerarchica della gestione bancaria, alla progressione di carriera ottenuta sulla base di criteri di merito, alla maggiore età anagrafica (ed anche di presenza nell’azienda).

Però risulta che il giudizio è complessivamente meno positivo per la formazione promossa a livello sindacale ed è tendenzialmente più favorevole per quella voluta dai vertici bancari. Appare dunque più qualificata e qualificante la formazione di marca prettamente aziendalistica, forse pure per una più attenta preparazione ed accurata scelta di formatori e metodi.

Non vi è dubbio, in pari tempo, che le offerte formative da parte della dirigenza bancaria, professionalmente più orientati verso obiettivi di sviluppo economico, mirino a privilegiare la selezione di soggetti consensuali nei riguardi della linea politico-economica della banca, dunque più corrivi, meglio identificati con la propria azienda, i cosiddetti “tipi adatti”. Nei corsi di impostazione sindacale l’affluenza è motivata invece da un’esigenza di maggiore conoscenza dei propri diritti e dal bisogno di unirsi in situazione di controparte rispetto al sistema bancario.

Vi è da ultimo un forte desiderio di sviluppo della professionalità che non trova sbocco nella formazione di matrice sindacale (per la propensione ad escludere alcuni contenuti) e neppure nella proposta formativa di provenienza strettamente bancaria (per la propensione ad escludere alcuni soggetti): proprio questo è un bacino di utenza che vale la pena di prendere in massima considerazione.

Infine, a titolo di conclusione, si può forse proporre una provocazione un po’ utopica ma indubbiamente non infondata e non fuor di luogo: a quando un’attività formativa (ed informativa) rivolta non solo agli operatori bancari ma anche alla stessa clientela delle banche? Ne guadagnerebbero le stesse banche, soprattutto in termini di affidabilità, un bene talmente prezioso che nessuna costosissima campagna pubblicitaria riuscirebbe mai a garantire.

IL PUNTO DI VISTA DELL’UNIVERSITA’ SULLO SVILUPPO PROFESSIONALE

Roberto Cipriani

Ogni azione di sviluppo professionale a livello di risorse umane non può prescindere dal prendere in considerazione la percezione che ne possono avere sia i destinatari diretti, cioè gli operatori bancari nella fattispecie, sia quelli indiretti (ma non per questo meno significativi per l’intero sistema-banca) cioè i clienti-utenti.

Il problema – si dice oggi – è quello di gestire la conoscenza e ben vengano dunque i knowledge managers. Ma quando si parla di conoscenza non ci si può limitare alle metodiche, più o meno innovative, di addestramento, motivazione, ricompense, acquisizione delle competenze, scambi organizzativi, apprendimento delle best practices.

C’è un’operazione ancora più a fondo da condurre: l’approccio al fattore umano, non inteso in senso tradizionale in un’ottica di marketing, quanto piuttosto a livello di comprensione, condivisione delle esperienze, analisi compartecipata a livello interpersonale, sinergia orientata verso obiettivi comuni, consistenti per esempio in correttezza a livello di comunicazione e competenza nella prassi intersoggettiva.

Nella misura in cui si impara a conoscere le persone e le loro istanze diventa anche più agevole coglierne le istanze, le emozioni, le attese. Indubbiamente però “rumori” di varia natura interferiscono rispetto ad un corretto scambio interindividuale. Proprio tale interferenza è ormai un dato di fatto costante, con cui occorre abituarsi a convivere, si tratti di una notizia diffusa ad arte, di un semplice pettegolezzo, di una inside information o inside trading od anche di una informazione fondata e/o plausibile.

Sempre più la complessità appare essere una caratteristica dei nostri tempi e dunque una sorta di filo rosso senza soluzione di continuità. Con tale stato di cose si ha a che fare quotidianamente, ragion per cui conviene attrezzarsi adeguatamente, con un approccio per nulla superficiale ma attento, approfondito e continuo, scientificamente orientato e sensibile alle dimensioni umane e dunque etiche.

Un segnale importante giunge dal mondo dei mezzi di comunicazione di massa attraverso i quali passano gli orientamenti più diffusi tra la popolazione. Proprio da questi strumenti di interazione sociale arrivano indicazioni inequivocabili in merito alle preferenze del pubblico, non più orientato a lasciarsi attrarre da un messaggio qualunque ma più propenso a seguire ciò che in qualche misura rappresenta un valore. Ciò si verifica sia in riferimento a temi di grande richiamo quali l’anelito alla pace, la propensione ad un uso attento ed equilibrato delle proprie risorse anche economiche (come spiegare altrimenti il successo delle cosiddette banche etiche?), l’attenzione a problemi di carattere umanitario (come dimostra il notevole sviluppo delle forme di volontariato), la predilezione per riflessioni legate all’esperienza esistenziale (come mostrano, per esempio, i successi di pubblico e di critica di opere cinematografiche che vertono su problematiche di particolare pregnanza sociale).

Ecco dunque che una prima constatazione emerge da tutto questo: la conoscenza non può consistere in una semplice azione tecnica, meramente strumentale, tutta profit oriented. Sorge prepontemente la necessità di farsi carico del lato relazionale delle proprie condotte nei riguardi di soggetti altri, soprattutto di quelli che restano in ogni caso i nostri referenti in quanto ragion d’essere del nostro lavoro e della nostra stessa vita.

Per fare questo, ed altro ancora, diventa impellente imbastire progetti di largo respiro non legati al risultato effimero dell’oggi ma protesi verso risultati di lungo termine, quella fidelizzazione da molti propugnata in chiave strettamente redditizia mentre invece andrebbe considerata come esito prevedibile di una correttezza di rapporti in grado di far superare da una parte e dall’altra le difficoltà contingenti di mercato e di dinamica economica.

Più che a togliere clienti agli altri conviene pensare a trattare bene quelli che già si hanno, i quali non solo possono offrire garanzie di stabilità ma divengono a loro volta altrettanti volani di buona immagine dell’azienda bancaria cui fanno riferimento e di cui si possono dichiarare soddisfatti per il trattamento ricevuto. Ognuno merita le medesime cure, indipendentemente dai capitali a disposizione, anche perché un rapporto stabilmente corretto rassicura il cliente-utente ed evita ripensamenti e decisioni drastiche di rottura. Insomma una predisposizione amichevole difficilmente favorisce soluzioni tendenti all’allontanamento ed alla mancanza di fiducia. Appunto la fiducia reciproca diventa allora la chiave di volta di un successo che si mantiene grazie alle continue conferme di garanzia e di protezione, come se l’altro rappresentasse nient’altro che un prolungamento della propria persona e dunque dei propri stessi interessi.

Oggi si parla, sempre più spesso, di “libertà della conoscenza, criteri di merito, sviluppo professionale”. Nella knowledge society contemporanea in cui sempre più si sta diffondendo, anche nell’imprenditorialità privata, la cultura del knowledge management, diventa sempre più strategica una formazione alla conoscenza adeguata agli obiettivi dello sviluppo nella democrazia e nella libertà, in un quadro di riferimento ben più ampio di quello nazionale, dunque in un contesto internazionale orientato a consolidare la spinta utopica (ma mobilitante e nobilitante) verso la realizzazione di una concreta società internazionale della conoscenza.

Forse anche per questo si sta assistendo in Europa ed altrove ad una lotta serrata per esercitare un forte controllo sociale e politico sulla conoscenza.

Ma in fondo quale partita si sta giocando? Secondo il sociologo tedesco Nico Stehr, autore nel 2003 di Wissenspolitik. Die Űberwachung des Wissens, edito a Francoforte sul Meno da Suhrkamp, vanno analizzate le ragioni per cui le istituzioni stanno mirando al controllo della nuova conoscenza scientifica. Non si tratta più di accertare solo il ruolo sociale della conoscenza, cioè del potere fondato sulla conoscenza, attraverso la trasformazione anche delle carriere di esperti, intellettuali ed élites cognitive. Neppure si tratta di porre attenzione esclusivamente alla produzione della conoscenza. Occorre invece guardare specificamente al consumo di conoscenza, cioè all’uso diffuso della conoscenza ed in particolare ad un uso specifico della conoscenza.

Insomma sarebbe ormai giunto il momento di considerare come primario il compito di interessarsi alla knowledge politics, come nuovo campo della conoscenza e della scienza e come nuovo settore di attività formativa.

Si potrebbero a questo punto invocare nuove capacità di azione conoscitiva e mobilitante (che per esempio in Francia come in Germania ed ora anche in Italia cominciano a riemergere dopo anni di quasi letargo), al fine di comprendere quali siano gli effetti delle nuove forme di conoscenza sulle relazioni sociali e soprattutto per cogliere la portata dei tentativi in atto per il controllo del loro impatto.

Poste tali promesse, la knowledge politics è destinata indubbiamente a guadagnare terreno nel prossimo futuro, specie in riferimento ai rapporti fra scienza e società, fra ricerca e società, fra università e società, fra sistema bancario e società. Si può anche distinguere fra scienza e conoscenza, ma il risultato del loro impatto congiunto ha un pregnante valore sul piano della formazione. Ecco perché ancor prima di accorgersi platealmente degli effetti prodotti conviene esercitare in anticipo un’azione formativa adeguata.

Orbene, in linea anche con le direttive a livello europeo, è necessario accrescere la collaborazione anche fra università e sistemi bancari per un orientamento verso la conoscenza, l’innovazione e la creazione, cioè più in generale verso il trasferimento e la divulgazione della conoscenza. Anche dal punto di vista della concorrenzialità è opportuno che il sapere dell’università si avvicini a quello delle aziende, anche bancarie, e della società. Le modalità principali di trasmissione diretta della conoscenza dall’università al mondo esterno sono infatti legate alla qualificazione delle competenze scientifiche ed alla formulazione di nuove proposte formative utili al sistema sociale. Ma in realtà le università mettono poco a disposizione le proprie ricerche e le proprie risorse scientifiche e dunque non utilizzano adeguatamente i frutti della loro attività cercando di stabilire forme di collaborazione con il mondo del lavoro e dell’impresa (inclusa quella bancaria).

Dalle “Statistiche sull’Innovazione in Europa” dell’Eurostat risulta che le principali fonti di innovazione per l’impresa non sono le strutture universitarie e della ricerca scientifica applicata alla formazione. In effetti le aziende innovative usano gli inputs provenienti dal mondo universitario (od anche da quello privato senza fini di lucro) in misura fortemente ridotta, ben al di sotto del 5% dei casi.

Occorre dunque evitare che vi sia un così grande spreco di risorse, favorendo invece il diffondersi del sapere scientifico e formativo, mediante opportune azioni promozionali dei rapporti università-aziende, per sfruttare quanto più possibile i risultati della conoscenza nel campo della formazione.

Ancora sussistono barriere, eppure occorre individuare i fattori che costituiscono ostacolo, per eliminarli, creando occasioni virtuose di collaborazione, moltiplicando i luoghi di confronto e di produzione della conoscenza, come nel caso di questa conferenza dell’European Bank Training Network.

C’è da attendersi risultanti probanti dall’affidamento di attività di ricerca e di formazione ad enti universitari che hanno il grado adeguato di know how teorico, metodologico e tecnico nel campo formativo. Si pensi soprattutto alle facoltà ed ai dipartimenti universitari di scienze della formazione e di scienze dell’educazione, che sono i luoghi deputati all’approfondimento di tali specifiche tematiche e dove dunque gli sviluppi conoscitivi sono presumibilmente up to date.

Vi è tuttavia un problema da risolvere. Si prenda proprio il caso della formazione aziendale in campo bancario. In ambito universitario non è facile reperire competenze specializzate e mirate al settore delle aziende bancarie. Neppure nei corsi di laurea in scienze bancarie si trovano opportuni insegnamenti che facciano della formazione un elemento qualificante in termini di metodi e contenuti. Ebbene è evidente che solo una frequentazione ed una dimestichezza accresciute fra università e banche possono dar luogo a circoli virtuosi di collaborazione, di scambio delle informazioni, di verifica delle procedure e di valutazione degli esiti.

Nell’attuale società globalizzata non è neanche da considerare vincente la prossimità fisico-geografica. Se è vero che molte ed importanti università sono allocate nel medesimo territorio in cui operano i principali istituti bancari è però altrettanto vero che oggi è possibile stabilire accordi e fattive collaborazioni anche fra soggetti piuttosto distanti fra loro in termini spaziali. Al di là delle potenzialità offerte dalla telematica e dunque dalla formazione a distanza, in molti ambiti di attività è possibile implementare sinergie indipendentemente dalla contiguità diretta fra università e banche. Anzi tale dato di fatto permette di godere dei vantaggi di una concorrenza sul piano della qualità dell’offerta formativa, non necessariamente legata alla vicinanza fra una sede universitaria e le agenzie bancarie orientate a svolgere attività formativa.

Certamente i centri universitari migliori hanno maggiori chances perché consentono di passare direttamente ed immediatamente dalla conoscenza avanzata raggiunta alla sua applicazione ai casi concreti di azione formativa.

C’è peraltro una questione non secondaria, nello scenario sinora descritto: la presenza di una sorta di reciproca diffidenza tra i due mondi: quello universitario e quello bancario. Ma qui conviene delineare un quadro fondamentale in funzione prospettica. Occorre cioè approfondire e capire il valore della conoscenza e dunque anche della conoscenza reciproca fra realtà universitaria e realtà bancaria.

La conoscenza è indubbiamente, in chiave sociologica, la base fondamentale del nostro modo di pensare, delle nostre modalità di agire ed in fondo delle nostre scelte decisive. Se non si conoscono i meccanismi della costruzione sociale della conoscenza si rischia di operare a caso, di produrre effetti indesiderati, di sprecare risorse umane ed economiche. Un’utile lettura potrebbe essere quella dell’opera di Peter Berger e Thomas Luckmann su La costruzione sociale della realtà (Doubleday, Garden City; il Mulino, Bologna; Méridiens-Klincksieck, Paris).

D’altra parte è bene considerare che la conoscenza si va sempre più diversificando e specializzando. Pertanto risulta evidente che la stessa formazione nel settore bancario ha necessità di un’azione ad hoc. Dal che emerge, inoltre, che l’università ha bisogno di far ricorso ad un approccio interdisciplinare a carattere socio-economico, orientato allo sviluppo professionale ma anche allo sviluppo sostenibile, alla gestione del rischio ma anche della fiducia. Ecco dunque le nuove sfide che il mondo universitario e quello bancario hanno di fronte: riorganizzare la conoscenza ben oltre il quadro abituale di riferimento, piuttosto inner oriented.

In tale prospettiva vanno superate le barriere fra ricerca fondamentale e ricerca applicata, coniugando per quanto possibile l’attività scientifica di base e quella applicativa, in modo da avanzare proposte finalizzate a trasformare le conoscenze in altrettanti contenuti e modalità da implementare in campo formativo.

Nella misura in cui l’università acquista credibilità ed attira l’interesse del sistema formativo bancario, quest’ultimo può orientarsi a far ricorso più di frequente all’offerta universitaria. L’obiettivo da perseguire resta comunque quello di un corretto equilibrio fra necessità profit oriented, esigenze di deontologia scientifica, autonomia della ricerca, orientamento e contenuti dell’attività formativa.

Lo stesso apprendimento lungo tutto il percorso esistenziale dei soggetti umani, ormai qualificato come un must in più sedi ed a più riprese, consente di sperimentare percorsi permeabili tra contesti universitari e bancari, tra scienza e conoscenza, tra ricerca e formazione. Insomma l’università si può aprire non solo a svolgere corsi formativi in contesti bancari ma anche accogliendo presenze di soggetti bancari nel contesto delle strutture universitarie, per iniziative di formazione condivise con altri interlocutori sociali. In tal modo l’auspicata apertura delle università al mondo esterno (e viceversa) può aver luogo in modo virtuoso, con un miglioramento dei servizi resi reciprocamente, con una differenziazione delle proposte formative, con un’interazione efficace tra le varie categorie di utenti-destinatari dell’offerta formativa, con un incremento del dibattito socio-culturale tra università e banche.

Uno dei punti cardine di tale dibattito è dato proprio dalla natura, dalla committenza, dall’utenza, dalla finalità e dall’efficacia dei corsi di formazione e di ogni altra azione avente un carattere formativo o para-formativo.

Ovviamente una prima distinzione si ha allorquando l’attività formativa è proposta dall’azienda bancaria. Essa si rivolge di solito a gruppi ristretti e selezionati dalla dirigenza, con obiettivi principalmente orientati verso un migliore rendimento operativo ed anche economico delle strutture operanti sul territorio. Ben diverso è il caso di iniziative formative previste da normative contrattuali e/o sollecitate da organizzazioni sindacali, in linea di massima più dirette a sensibilizzare i destinatari verso problematiche di interesse sociale e professionale insieme. In entrambi i casi si parte dal presupposto che lo sviluppo professionale non è un elemento che si dà di per sé o che si autoalimenta anche indipendentemente dalla volontà e dall’agire del singolo. Lo status di bancario o bancaria non garantisce nulla in proposito. Ogni progresso, ogni innovazione è il precipitato concreto di una esplicita volontà di aggiornamento, perfezionamento, adeguamento.

Per di più è ben raro che il compito di un operatore o di un’operatrice di banca si riduca a procedure solo ripetitive. Anche quando sembra che tutto sia nella norma si possono scorgere spunti di novità: si tratti della firma su un assegno o su un mandato o su una reversale, oppure dell’intestazione di un conto, od ancora della valuta estera da prendere in considerazione per il suo cambio giorno per giorno. Anzi, com’è noto, proprio l’assuefazione a pratiche abituali è occasione frequente di errore e dunque comporta un’attivazione massima dell’attenzione ad ogni dettaglio. Lo specialismo di uno sportello o di una serie di operazioni (dal settore titoli a quello delle cambiali) fa sì che vi sia un’approfondita conoscenza di un ambito abbastanza particolare, ma anche in questo caso nulla si può dare per scontato perché le novità sono continue ed imprevedibili.

La non soluzione di continuità dei mutamenti in atto comporta una costante disponibilità ai corsi di formazione ma tale accondiscendenza va verificata di volta in volta, in quanto se l’istanza formativa parte dai diretti interessati la partecipazione è naturalmente più sentita ed anche cospicua sul piano numerico, se viceversa è l’azienda a richiedere una prestazione a carattere formativo non mancano resistenze, a meno che non si tratti di collegare tale iniziativa a prospettive di miglioramento economico e gerarchico nella banca. Non solo varia la percentuale delle adesioni all’una o all’altra forma di attività ma muta anche il tasso di assiduità, in termini di frequenza ai corsi offerti. Va poi segnalato il fenomeno peculiare della ridotta presenza femminile, rispetto a quella maschile, indipendentemente dalle quote effettive di donne presenti negli organici bancari, ripartiti tra personale maschile e femminile. In pratica già le donne sono di per sé meno numerose in banca ma lo sono ancor meno quando si tratti di prendere parte ad occasioni formative.

I dati empirici provano che l’intensità della frequenza dei corsi di formazione è direttamente proporzionale al livello professionale raggiunto, alla posizione nella scala gerarchica della gestione bancaria, alla progressione di carriera ottenuta sulla base di criteri di merito, alla maggiore età anagrafica (ed anche di presenza nell’azienda).

Però risulta che il giudizio è complessivamente meno positivo per la formazione promossa a livello sindacale ed è tendenzialmente più favorevole per quella voluta dai vertici bancari. Appare dunque più qualificata e qualificante la formazione di marca prettamente aziendalistica, forse pure per una più attenta preparazione ed accurata scelta di formatori e metodi.

Non vi è dubbio, in pari tempo, che le offerte formative da parte della dirigenza bancaria, professionalmente più orientati verso obiettivi di sviluppo economico, mirino a privilegiare la selezione di soggetti consensuali nei riguardi della linea politico-economica della banca, dunque più corrivi, meglio identificati con la propria azienda, i cosiddetti “tipi adatti”. Nei corsi di impostazione sindacale l’affluenza è motivata invece da un’esigenza di maggiore conoscenza dei propri diritti e dal bisogno di unirsi in situazione di controparte rispetto al sistema bancario.

Vi è da ultimo un forte desiderio di sviluppo della professionalità che non trova sbocco nella formazione di matrice sindacale (per la propensione ad escludere alcuni contenuti) e neppure nella proposta formativa di provenienza strettamente bancaria (per la propensione ad escludere alcuni soggetti): proprio questo è un bacino di utenza che vale la pena di prendere in massima considerazione.

Infine, a titolo di conclusione, si può forse proporre una provocazione un po’ utopica ma indubbiamente non infondata e non fuor di luogo: a quando un’attività formativa (ed informativa) rivolta non solo agli operatori bancari ma anche alla stessa clientela delle banche? Ne guadagnerebbero le stesse banche, soprattutto in termini di affidabilità, un bene talmente prezioso che nessuna costosissima campagna pubblicitaria riuscirebbe mai a garantire.

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA

Roberto Cipriani

I‑ PREMESSA

Il primato cronologico detenuto dalla storia come disciplina scientifica nata ancor prima delle altre scienze sociali, ed in particolare della sociologia, non può essere messo in dubbio. È invece discutibile che tale primazia «storica» si trasformi in presunta superiorità, in maggiore affidabilità metodologica, in criterio unico e discriminante per la valutazione degli apporti provenienti da studiosi di altri settori disciplinari.

Certo agli inizi, specialmente nel secolo scorso, qualche timore poteva essere giustificato dal rischio ‑ intravisto dagli storici ‑ che i sociologi potessero invadere il terreno dell’indagine storica senza far uso di metodi e tecniche plausibili. In qualche misura, di fronte ad una sociologia ancora balbettante e troppo legata alle categorie filosofiche, era abbastanza prevedibile che l’accademia degli storici si chiudesse a riccio o scagliasse i suoi aculei critici nei riguardi dei nuovi arrivati.

Ma è poi giunta la lezione weberiana de Il metodo delle scienze storico‑sociali 1, che ha chiarito molti equivoci e soprattutto ha mostrato come sia possibile il riferimento ad un tipo di approccio che è comune alla storia ed alla sociologia, senza contrapposizioni fittizie. Lo stesso Max Weber, da par suo, ha dato esempí pregevoli di una simile procedura, di cui L’etica protestante e lo spirito del capitalismo z rappresenta l’esito più rilevante e sicuramente un classico sia per gli storici che per i sociologi.

La situazione attuale registra tuttavia ulteriori chiusure, ma con obiettivi di «colonizzazione esaustiva» alla maniera della «storia completa» auspicata da Paul Veyne 3, che sembra abolire con un solo colpo di spugna tutta l’esperienza ultrasecolare della sociologia, giacché la scienza storica sarebbe in grado di sbrigarsela da sola anche con il presente. E così la storia sociale soppianterebbe la

1 Cfr. M. WEBER, Il metodo delle scienze storico‑sociali, Einaudi, Torino 1958.

z Cfr. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965.

1 Cfr. P. VEYNE, Come si scrive la storia, Laterza, Bari 1973.

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA 229

sociologia. Una disciplina intitolata «Storia e sociologia delle migrazioni», ad esempio, si potrebbe chiamare più giustamente solo «Storia delle migrazioni». Ed allora anche una «Storia del presente» potrebbe divenire un pretesto legittimo per ribaltare quanto temuto nel secolo scorso, sicché questa volta l’invasione di campo avverrebbe non a vantaggio ma a danno della sociologia.

È però anche vero che molte traiettorie personali degli scienziati sociali hanno condizionato pesantemente l’evoluzione di metodi e tecniche e soprattutto la loro diffusione: a tal proposito la fortuna de Il contadino polacco 4 di Thomas e Znaniecki costituisce un esempio sintomatico delle difficoltà di affermazione di soluzioni intermediatrici fra storia e sociologia ed in particolare della metodologia biografica fondata sulle storie di vita 5.

II ‑ LA SOCIOLOGIA INCOMPIUTA

Non sono molti i tentativi dei sociologi, in Europa come altrove, di egemonizzare l’analisi delle società contemporanee. Pertanto non sembra emergere alcuna pretesa di «sociologia completa» capace di sussumere l’approccio storico come sua componente costante, evitando ogni possibile collaborazione interdisciplinare che preveda l’ausilio di altri studiosi, degli storici in particolare. Anzi è piuttosto dato di verificare il contrario, cioè una tendenziale carenza di sensibilità storica, come se l’esistente non fosse il precipitato appunto storico di un passato che è a monte dei trends attuali. Anche in questo la diffusa indifferenza all’elemento storico che caratterizza la sociologia nordamericana ha fatto scuola, facendo dimenticare ai sociologi europei il ruolo strategico dei condizionamenti a lungo operanti in una situazione, quella contemporanea, che è sempre il frutto di fattori preesistenti.

Laddove in campo storico gli sconfinamenti appaiono evidenti, anche in termini di categorie definitorie prese a prestito dalla sociologia, quest’ultima stenta invece ad accogliere suggestioni e dati di matrice diacronica, più attenta com’è a cifre, percentuali e tabelle e non a dati qualitativi la cui rilevanza è tale ‑ come ricorda Herbert A. Simon 6 ‑ da scombussolare ogni elemento quantitativo.

Oltre ad essere incompiuta sul piano storico la sociologia lo è sul piano dell’analisi qualitativa dei fenomeni. Ed in questo ben poco sembra aver appreso dai filoni più avvertiti ed originali della storiografia contemporanea. Il che èdovuto anche ad uno scarso confronto interdisciplinare, in primo luogo sul versante teorico‑metodologico dove i problemi della conoscenza scientifica sembrerebbero favorire maggiori punti di contatto. Del resto la sociologia quantitativa è

4 Cfr. W.I. THOMAS‑F. ZNANIECKI, Il contadino polacco in Europa e in America, Comunità, Milano 1968.

5 Cfr. C. CORRADI, Metodo biografico come metodo ermeneutico. Una rilettura de «Il contadino polacco», Angeli, Milano 1988.

6 Cfr. H.A. SIMON, La ragione nelle vicende umane, Il Mulino, Bologna 1984.

230 ROBERTO CIPRIANI

sin troppo impegnata ad appiattire le differenze, a dar loro parvenza di somiglianza, a ridurre la complessità del sociale a poche classificazioni sommarie, più fruibili sul piano della comunicazione diffusa ma fuorvianti rispetto alla reale dinamica degli eventi considerati.

Non è casuale che pure la storia, in concomitanza con lo sviluppo della sociologia quantitativa, abbia assunto caratteri omologhi. Ne è pienamente consapevole Fran~ois Furet quando scrive che «oggi la storia quantitativa èdi moda, sia in Europa, sia negli Stati Uniti: si assiste, infatti, circa da mezzo secolo, al rapido sviluppo dell’utilU’zazione delle fonti quantitative e dei procedimenti di calcolo e di quantificazione nella ricerca storica» 7. Però il metodo quantitativo non esclude tutta una serie di problemi procedurali, di rapporti con il dato che di per sé mantiene un carattere qualitativo almeno in partenza. Questo non impedisce tuttavia a Furet di affermare che la scelta quantitativa «presenta inoltre l’immenso vantaggio di fornire a quella vecchissima disciplina che è la storia un rigore e un’efficacia superiori a quelli offerti dalla metodologia qualitativa» $. Neppure questo è del tutto fondato, se poi si è costretti a riconoscere l’impossibilità di analizzare «importanti settori della realtà storica» anche a ragione della «natura qualitativa irriducibile del fenomeno studiato» 9. Per non dire poi della necessità di considerare fonti non strettamente numeriche, cioè « le fonti strettamente qualitative, quindi non seriali, o quanto meno particolarmente difficili da organizzare in serie e da standardizzare» I°. Nondimeno, in definitiva, la spinta di questo autore resta protesa verso una storia seriale capace di attribuire scientificità al procedimento di indagine.

Accanto ad una sociologia incompiuta per difetto di approccio qualitativo, si ritrova dunque una storia incompiuta per carenza di prospettiva seriale‑numerica. Eppure l’una e l’altra scienza sembrerebbero differenziarsi più che altro per l’unicità e l’irripetibilità dell’evento quale oggetto della storia e per la ricorsività e la generalizzabilità dei fenomeni studiati dalla sociologia. Ma in realtà i percorsi di diversificazione e di incontro sono ben altri.

Assumendo di voler intendere come motivo storico e come ragione storiografica la variabile indipendente che produce un particolare evento, non si può non condividere la posizione di Ernest Nagel, secondo cui le spiegazioni storiografiche di azioni individuali sono abbastanza probabilistiche, in quanto esse rendono conto solo delle generalizzazioni ricavabili dalle conoscenze statistiche disponibili in tema di comportamento umano”. Quindi sul piano scientifico l’accertamento della «verità» in questo quadro contingente è di fatto impedito, perché non si può far riferimento ad una serie di eventi che confermino, in mo

F. FURET, Il quantitativo in storia, in J. LE GoFF‑P. NORA (a cura di), Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, Einaudi, Torino 1981, p. 3.

$ Ibid., p. 6.

9 Ibid., p. 7.

io Ibid., p. 14.

Il Cfr. E. NAGEL, La struttura della scienza. Problemi di logica nella spiegazione scientifica, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 574‑575.

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA 231

do sufficiente e cogente, essere la spiegazione fornita quella giusta. Da ciò scaturisce la necessità di collegare l’analisi del singolare con il suo contesto specifico, appunto contestualizzando al massimo l’elemento individuale.

Pertanto si comprende che la convergenza fra storia e sociologia è resa praticabile grazie all’elemento accidentale dell’interesse rivolto al caso specifico, al dato personale, al documento biografico, all’approccio autobiografico. Insomma la metodologia delle storie di vita 1z incontra sulla sua strada la problematica storica I3; e le questioni irrisolte e più discutibili nell’una sono le medesime di cui deve tener conto anche l’altra.

Senonché questa non è certo una novità assoluta. Ancora una volta lo spunto in proposito è di origine weberiana. Appunto in onore e ricordo di Max Weber era stato scritto da Hans W. Gruhle un importante saggio 74 che guarda all’autobiografia come fonte di conoscenza storica. A dire il vero si tratta di un tentativo piuttosto basato su un’ottica che si potrebbe oggi definire psico‑storica. Ma questo pure è un indicatore significativo dell’inconsistenza di talune barriere interdisciplinari, che abbastanza spesso impediscono utili effluvi da un campo all’altro delle scienze sociali e salutari bagni in altre piscine «probatiche» in cui possa avvenire il «portento» di una scienza non più incapace di muoversi e non più incapace di vedere.

In questo senso, privandosi cioè di una provvidenziale escursione verso lidi non frequentati, la storia e la sociologia restano scienze incompiute, legate alle pastoie di un metodo solitamente obsoleto e ripetitivo che non offre molto di nuovo, rispetto al déjà vu.

Con ampio anticipo Gruhle aveva posto in termini corretti molte questioni epistemologiche e metodologiche, insistendo sulla necessità del dubbio continuo rispetto all’utilizzo di materiali autobiografici con finalità scientifiche. Egli si domandava infatti se fosse possibile comprendere (come versteben) la personalità di un individuo, le motivazioni profonde del suo agire, i punti oscuri del suo carattere, le peculiarità delle sue opinioni. Nel caso di un personaggio storico la distanza temporale garantisce un giudizio più oggettivo, ma al tempo stesso risulta necessaria una buona carica di immedesimazione per «entrare» nel personaggio. In altri termini occorre fare i conti con la teoria secondo cui in vista di una simile immedesimazione ad esempio «si debba avere un minimo di somiglianza con Napoleone» per poterlo capire. In pari tempo, comunque, vanno fatte altre valutazioni concernenti 1’autoconsiderazione di un autobiografo, i suoi errori di prospettiva, il condizionamento della sua percezione della realtà. Ecco perché, osserva giustamente Gruhle, le autobiografie di persone anziane sono spesso de

12 Cfr. R. CIPRIANI (a cura di), La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla ulife history», Euroma‑La Goliardica, Roma 1987.

13 Cfr. F. FERRAROTTI, Storia e storie di vita, Laterza, Bari 1981.

14 Cfr. H.W. GRUHLE, Die Selbstbiographie als Quelle historischer Erkenntnis, in AUTORI VARI, Hauptprobleme der Soziologie. Erinnerungsgabe fúr Max Weber, Munchen‑Leipzig 1923, vol. 1, pp. 157‑177.

232 ROBERTO CIPRIANI

formanti e poco obiettive. Naturalmente da un punto di vista psico‑sociologico ci si potrebbe pure interrogare sul significato di tali «deviazioni» e dunque articolare ancor più il quadro dell’indagine. Questo segna un punto di differenza fra il carattere storico e quello sociologico della ricerca: nel primo caso la manipolazione ‑ per quanto inconsapevole ‑ pare creare un problema serio ai fini dell’accertamento del «vero», nel secondo caso proprio l’eventuale mistificazione diventa oggetto di analisi attenta per capirne le matrici, individuarne i condizionamenti a monte, descriverne gli effetti. Indipendentemente da questo particolare obiettivo, storici a sociologi sono chiamati a leggere fra le righe, a scoprire i motivi originari di un atteggiamento e di un comportamento, a tenere in grande rilievo le omissioni e le reticenze, le sottolineature e le enfatizzazioni.

Il fatto è che nessuno è in grado di descriversi fedelmente, senza infingimenti ed in tutta sincerità. Prevale sempre una visione di riporto, cioè riflessa, che è il precipitato storico di un’autopercezione che più spesso disorienta anziché indirizzare le linee ermeneutiche dello scienziato sociale. Ed allora l’esperienza acquisita in un tal genere di operazioni scientifiche aiuta abbastanza ad andare al di là delle apparenze, oltre le barriere frapposte dall’io narrante che tende ad attribuirsi caratteri mai posseduti ma solo desiderati in chiave utopica.

Emerge così il problema della genuinità, che invero riguarda forse più lo storico che non il sociologo. Mentre riguarda più lo psicologo il metodo delle cosiddette «patografie», cioè degli studi sull’influenza delle malattie in relazione al comportamento umano. Tuttavia non è da escludere che anche gli altri scienziati sociali abbiano conoscenze in merito, pur senza esagerare nell’intravedere relazioni molto strette fra patologie ed agire, in un senso tipicamente deterministico. Lo stesso dicasi per certe applicazioni ingenue della psicanalisi di orientamento freudiano inserite forzosamente nello studio biografico, come nel caso dell’interpretazione della biografia di Napoleone, citata ancora una volta esemplarmente da Gruhle: Napoleone combatte per la Corsica, poiché questa per lui simbolizza la madre, ma più tardi egli abbandona il patriota corso Pasquale Paoli perché questi simboleggia il padre; ci si deve sempre ribellare contro il padre, perché concorrente riguardo al simbolo­madre. Napoleone vede un nuovo padre nel conte di Marboeuf, a proposito del quale si diceva che la madre fosse per lui ben più che un’amica. Successivamente il simbolo del padre è dato da Luigi XVI, contro cui Napoleone combatte. Solo dopo la sua morte, Bonaparte si lega alla nuova madre, non più la Corsica mala Francia, mère­patrie. Più tardi Napoleone combatte per l’Italia, che gli ricorda da vicino la prima madre, la Corsica. Egli la difende come una nuova madre. E lotta e vince contro altri «padri»: Francesco d’Austria, Federico Guglielmo III, i Re di Spagna, Portogallo, Napoli, il padre per eccellenza ‑ il papa Pio VII ‑. Vuole da ultimo sottomettere tutta l’Europa, come manifestazione completa del possesso della madre. In definitiva tutta la biografia napoleonica èvista attraverso la filigrana psicanalitica del conflitto con il padre per la conquista della madre. Ciò, evidentemente, non riesce a dar ragione delle varie vicissitudini di una personalità tanto complessa;

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA 233

e soprattutto non spiega affatto le dinamiche che hanno accompagnato il suo vissuto, nelle diverse realtà in cui esso ha interagito con altre esistenze ed esperienze individuali e di gruppo, locali e nazionali, politiche e religiose.

III ‑ TRA STORIA E SOCIOLOGIA

Se la sociologia storica non trova facile accoglienza tra i sociologi, altrettanto avviene per la storia sociologica (o sociale) fra gli storici. E magari qualche sociologo può sentirsi addosso il peso di un rimprovero di eccessiva attenzione alla storia, o viceversa uno storico può venir penalizzato, accademicamente e scientificamente, per i suoi sconfinamenti sociologicí. Insomma per ipotesi un sociologo della religione che frequenta l’Archivio Segreto Vaticano anziché il terreno della ricerca empirica paga lo scotto di una marginalità di situazione che è tale perché non corriva rispetto alle linee dominanti nel proprio ghetto disciplinare. Ma come sarebbe possibile capire altrimenti un presente che è appena un attimo fuggente rispetto alla mole esorbitante di fatti del passato che condizionano tuttora il presente stesso? E come instaurare una «qualistica» nelle scienze sociali tale che sia in grado di reggere il passo della prospettiva « quantistica» ? Come affrontare il nodo fondamentale della narratività nella sua natura di problema epistemologico delle scienze storico‑sociali? Che fare perché anche altrove si dia inizio a raccolte fondamentali di oral history quali quella monumentale della Columbia University di New York, vero patrimonio nazionale?

Di fatto ancor oggi chi lavora su questi temi vive sulla propria pelle la subalternità di un tipo di storiografia e di sociologia che sono in condizioni di minorità e di minoranza. Nel frattempo occasioni preziose si perdono, anche nel pullulare di ricerche localistiche poco orientate teoricamente e sprovvedute metodologicamente. Le stesse esperienze editoriali di «microstorie», a metà strada fra storia e sociologia, dopo un promettente avvio non sembrano essere decollate se non per voli a bassa quota (di vendite) e con difficile rientri (degli investimenti scientifici ed economici).

Fino a quando la relazione fra storia e sociologia non avrà la considerazione di un problema strategico, cruciale nell’ambito delle scienze sociali, ogni tentativo propositivo troverà scarso spazio applicativo. Eppure anche dai «detrattori» della storia giunge un riconoscimento del suo ruolo chiave: lo strutturalismo lévi‑straussiano ammette in fondo che «tutto è storia»; ma non ne trae le debite conseguenze 15. Insomma è facile dimenticare che il presente è appena una linea sottilissima fra un enorme passato ed un futuro prorompente.

L’insegnamento paretiano, sulla ineluttabilità del ricorso alla storia per la spiegazione dei fenomeni attuali, non pare trovare molta eco se ancor oggi si è

15 Cfr. R. CIPRIANI, Claude Lévi‑Strauss. Una introduzione, Armando, Roma 1988.

234 ROBERTO CIPRIANI

costretti a riproporlo in termini esortativi e per di più con scarse esperienze metodologiche.

In ogni avvenimento sociale c’è un’innegabile dimensione storica, per cui in chiave durkheimiana effettivamente ogni sociologia è anche storia. Ma questo significa che non solo la storia sociale bensì ogni altro settore storiografico a ragione va considerato come strettamente legato alla prospettiva sociologica. Anzi lo spartiacque fra i due versanti è più un confine simbolico‑disciplinare che non fattuale‑operativo.

Di tutto ciò parla con cognizioni di natura teorico‑empirica, Gottfried Eisermann, secondo il quale l’attore sociale ha sempre lungo il suo orizzonte gli esiti dell’agire precedente di altri attori sociali 16. Pertanto dovrebbe essere chiaro che ogni indagine limitata al presente ha dinanzi a sé un quadro troppo sfuggente, impalpabile, circoscritto, che non dà certo sicurezza per fondarvi un’ermeneutica scientifica appena accettabile.

D’altra parte però ‑ ed in questo Eisermann è d’accordo con Gruhle ‑ il presente (come il passato «narrato») arriva alla percezione cognitiva del ricercatore con distorsioni e condizionamenti tali da dover poi necessariamente utilizzare altri parametri di confronto e di verifica, tipici della storia come della sociologia. In pratica, secondo quanto dichiarava Pareto (citato da Eisermann) varrebbe piuttosto la pena di spiegare il passato attraverso il presente e non procedere in senso contrario. Intanto però neppure questa avvertenza paretiana è stata accolta debitamente, giacché la tendenza dominante è quella di cercare di capire il conosciuto attraverso lo sconosciuto, la realtà di oggi mediante ciò che è accaduto nel passato. Sembrerebbe questa una contraddizione macroscopica ma non lo è ‑ rispetto al problema dei rapporti storia/sociologia ‑ se si pone mente al fatto che per un verso non si nega la loro reciprocità e per un altro verso si definisce appena il punto di partenza, cioè quanto è noto per poi giungere a quel che non è di immediata reperibilità e percezione. Detto questo, è evidente che l’intento in una storia di vita è in effetti di partire dal presente per giungere a cogliere i trends trascorsi; però una volta raggiunta la dimestichezza scientifica con il passato il cerchio esplicativo (saremmo tentati di dire il «circolo ermeneutico») si richiude, ritornando a considerare il presente entro una concezione più consolidata ed empiricamente fondata.

Detto altrimenti, storia e sociologia si fecondano a vicenda, sicché è lecito concludere che la storia sta alla base dei fatti sociali e su di essa è possibile costruire le spiegazioni sociologiche di quei medesimi fatti. Allo stesso tempo la metodologia delle storie di vita permette di mettere a fuoco attori sociali e dettagli comportamentali in un arco di tempo che offre occasioni plurime di verifica e di accertamento. E tale procedimento consente di travalicare il limite frapposto dalla singolarità dell’esperienza individuale, di entrare invece nel più am

16 Cfr. G. EISERMANN, Soziologie und Gescbichte, in R. KONIG (Hrsg.), Handbuch der empirischen Sozialforschung, Enke Verlag, Stuttgart 1969, vol. I.

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA 235

pio spettro dei vissuti sociali, individuando disparità e mutamenti, continuità e costanti dell’azíone sociale. È un unico mondo quello che accomuna storia e sociologia. È questa anche la posizione di Edward Carr: «più la storia diventerà sociologica e la sociologia storica, tanto meglio sarà per entrambe» 1′.

L’elemento comune a storia e sociologia è quello della conoscenza dell’uomo 1g in quanto attore sociale, che dà senso al suo agire ed a quello degli altri con i quali interagisce sulla base di un linguaggio che non è solo verbale. Appunto per questo una storia di vita è e deve essere anche caratterizzata da annotazioni puntuali sul non detto, sulla comunicazione silenziosa del linguaggio corporale, gestuale.

È questo un salto ben in avanti rispetto alle dispute d’inizio secolo sulla metodologia storicistica. Non è più da temere un livellamento della singolarità in omaggio ad un sociologismo fine a se stesso. È invece un recupero della capacità individuale di influire sul processo storico, di imprimergli un orientamento, di dargli senso, di condizionare in concreto una politica nazionale o locale. Non è questione di contrapposizioni fra condizionamenti sociali generali e influenze personali contingenti; è invece un’interrelazione fra i due momenti che chiarisce l’interscambio fra individuo e società.

L’ipotesi di una ricerca socio‑storica non è quindi fuori della portata attuale delle scienze sociali. Quando Otto Hintze propose l’idea di tipizzare momenti e strutture della storia sociale, a partire da una storiografia individualizzante, si muoveva nell’orbita delle suggestioni weberiane, pur con qualche presa di distanza non accessoria 19 nell’ambito di una storia comparata per tipi ideali.

È sintomatico che sinora una simile corrispondenza fra l’orizzonte epistemologico weberiano e quello hintziano sia sfuggita quasi del tutto alla disamina storico‑sociologica corrente. Eppure proprio in Hintze e Weber era già delineato un quadro simbiotico fra storiografia individualizzante e sociologia strutturante in termini di processi sociali. A tali indicazioni di percorso ben pochi hanno dato retta, sicché l’estraneità reciproca è perdurata a lungo nel corso di questo secolo, in Germania come in Francia ed in Italia. Al massimo si sono sviluppati alcuni itinerari specialistici di storia sociale o di sociologia storica (in verità assai più la prima che non la seconda).

Il luogo privilegiato della storia resta la società, così come il luogo privilegiato della società rimane l’individuo sociale, cioè l’attore sociale interrelato con i suoi simili, in specifici contesti, in situazioni contingenti, che tuttavia attingono le loro connotazioni dal passato.

Anche il rapporto con l’idea braudeliana di una storia événementielle non risulta alieno rispetto ad una concezione tendenzialmente unificante di storia e sociologia che metta insieme l’idiografico ed il nomotetico. Appunto la metodo

17 E.H. CARR, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, p. 73

18 Cfr. C. PONTECORVO (a cura di), Storia e processi di conoscenza, Loescher, Torino 1983.

19 Cfr. O. HINTZE, Staat und Verfassung: gesammelte Abhandlungen xur allgemeinen Verfassungsgeschichte, Góttingen 1962; nonché Zur Theorie der Geschichte. Gesammelte Abhandlungen, Leipzig 1942.

236 ROBERTO CIPRIANI

logia delle storie di vita diviene allora un momento fondamentale di verifica della congiunzione fra l’ipotesi di individualizzazione e quella di generalizzazione.

In modo emblematico Luigi Bulferetti ha raccolto la sfida problematica che mette a confronto storia e sociologia, insistendo sulla connessione fra dati noti e dati ignoti: «l’analisi di qualsiasi oggetto nuovo, cioè diverso, che ci si presenta, è da noi compiuta riconducendolo a vari paradigmi e predicati vecchi; ma dal loro insieme deriva la nozione di nuovo. Non possiamo, contemporaneamente, assumere il nuovo e procedere con esso ad altri oggetti, se prima non lo paragoniamo col vecchio. Se il vecchio è apparentemente già determinato, il nuovo non lo è, ma alla luce del nuovo, una volta che è stato determinato grazie al vecchio, al già noto, il vecchio assume una nuova determinazione e ciò significa che anche prima aveva un valore in qualche modo indeterminato» 2°. I riferimenti noti sono in genere quelli riguardanti il presente attraverso il quale è possibile risalire al passato per comprenderlo.

Così si fa chiarezza maggiore, magari ricorrendo anche a categorie sociologiche, a predicati già definiti in modo non equivocabile. Non vi è però la presunzione di obliterare l’elemento storico che riacquista anzi la sua centralità, non tanto e non solo perché la dimensione quantitativa della storiografia rappresenta un fondamento che assicura rigore scientifico, quanto piuttosto per il fatto che essa non può essere «storia del momentaneo o del particolare» 21. Ammonisce ancora Bulferetti: «avvezziamoci, dunque, a non considerare l’uso dei numeri nell’esposizione storica come qualificatore del tipo di esposizione» 22. «Certo l’uso dell’apparato matematico può portare a risultati più evidenti o precisi, cioè a più penetranti ed efficaci rappresentazioni in certi casi; ma che altro sono se non applicazioni della logica? E non si deve dimenticare il limite di validità della logica, come di ogni forma di esperienza, che risiede nella sua storicità, cioè nella limitatezza dell’esperienza sottesa ai termini usati e alle regole del giuoco. Il valore, il significato loro può essere noto ricostruendo quell’esperienza, ossia precisandola; tale precisazione è sempre in correlazione ad altre esperienze, che a loro volta vanno precisate, e al buon senso, all’uso corrente, che sono poi le costituenti, sul fronte conoscitivo, della situazione storica contemporanea allo storico» 23. Il che rimanda evidentemente alla sociologia come scienza del presente.

IV ‑ DUE CONTRIBUTI FONDAMENTALI

Per quanto abbastanza «datati», due interventi significativi sul nostro tema meritano di essere qui ripresi in considerazione, anche perché al di fuori del momento contingente di tipo convegnistico e pubblicistico ben poco si è discusso in

20 L. BULFERETTI, Introduzione alla storiografia, in AUTORI VARI, Introduzione allo studio della storia, Marzorati, Milano 1974, vol. I, p. 61. 21 Ibid., p. 63. zz Ibid. 23 Ibid.

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA 237

merito negli anni successivi (ed ancora una volta risulta confermata la propensione alla reticenza sull’argomento).

Da una parte è lo storico Giuseppe Galasso a parlare di Sociologia e storiografia 24, dall’altra è il sociologo Filippo Barbano a proporre un tema Scienza sociale e storia, sociologia e storiografia: percorsi e situazioni 25.

Galasso, in qualità di relatore al II Congresso Nazionale di Scienze Storiche, tenutosi a Salerno dal 23 al 27 aprile 1972, ribadisce senza perplessità di sorta che «uno dei più importanti effetti che siano conseguiti dal maggior influsso della sociologia sulla storia è consistito proprio in un’accentuata disideologizzazione del lavoro storico» z6. In altre parole la sociologia avrebbe contribuito all’allontanamento della storia da prese di posizione a carattere filosofico‑ideologico. D’altra parte ‑ si deve aggiungere per completezza ‑ anche la sociologia è maturata in ambito filosofico e ne ha risentito gli influssi, specie agli inizi della sua legittimazione scientifica.

Riconosciuto il debito nei confronti di Weber e Pareto (ma anche il peso del determinismo economicistico di derivazione marxista), Galasso ‑cita altri illustri esempi di incrocio felice tra storia e sociologia: Fustel de Coulanges e Durkheim, Dilthey e Meinecke, Huizinga e Toynbee. Malo stesso non può dirsi di Gentile e Croce per l’Italia. La rassegna continua poi con qualche imprecisione e tuttavia con uno sforzo notevole di penetrare in diverse correnti sociologiche, attive soprattutto in questo ultimo dopoguerra in Italia. Dopo aver sopravvalutato il peso dello strutturalismo che avrebbe «conferito le caratteristiche di un mutamento metodologico e dottrinario di fondo» 27, lo storico napoletano ribadisce a più riprese che «sociologia e storia come qualsiasi altra scienza che abbia affinità o addirittura identità di oggetto, possono reciprocamente servire l’una all’altra» 21.

Molto più approfondito e dettagliato (e per ciò preciso) è il saggio di Filippo Barbano che ha 1’allure di una vera e propria monografia corredata da una bibliografia composita e pertinente. In effetti l’autore domina con sicurezza la storia del pensiero sociologico; e questo potrebbe darsi per scontato. Ma per di più emerge un’ottima padronanza del terreno storico e filosofico, tale da permettere di intervenire su molti aspetti del problema a ragion veduta e non per semplici allusioni. Del resto anche il suo continuo ribaltamento dei punti di approccio consente di porsi di volta in volta su ciascuno dei due versanti problematico‑disciplinare: filosofia della storia e sociologia, sociologia e filosofia della storia; storicismo e sociologia , sociologia e storicismo; positività storica e «storicità» positiva e così via.

24 Cfr. G. GALASSO, Sociologia e storiografia, in AUTORI VARI, Nuovi metodi della ricerca storica, Marzorati, Milano 1975, pp. 253‑282.

25 Cfr. F. BARBANO, Scienza sociale e storia, sociologia e storiografia: percorsi e situazioni, in AUTORI VARI, Introduzione allo studio della storia, Marzorati, Milano 1975, vol. II, pp. 233‑350.

26 G. GALASSO, Sociologia e storiografia, cit., p. 258.

27 Ibid., pp. 270‑271.

28 Ibid., p. 289.

238 ROBERTO CIPRIANI

Partendo dalla «storicità» degli antichi e dei moderni, passando per quella contemporanea e concludendo con il movimento della scienza sociale, il sociologo torinese enfatizza giustamente il ruolo di Mannheim e della sua sociologia della conoscenza quale punto di arrivo (e di nuova partenza anche) in merito ai rapporti fra storia e sociologia: «con Mannheim il contesto sociale del sapere diventa la materia stessa dell’analisi strutturale ove sono compresenti aspetti e componenti della storicità positiva, strutturale ed intenzionale. Mannheim in questo senso rappresenta a parer nostro un significativo punto di arrivo non solo nello svolgersi del discorso circa i rapporti della sociologia con la storia ma nella ricostruzione delle dimensioni della storicità: ambito e terreno comune sia della storia che della sociologia non solo come disciplina. Mannheim rappresenta altresì il punto finale del contatto della sociología con lo storicismo diciamo così classico. Non che per questo il contatto della sociologia con lo storicismo verrà a mancare, solamente esso prenderà altre vie, determinate sempre più profondamente dagli svolgimenti disciplinari della storiografia e della sociologia; ma nello svolgimento di quest’ultima la tendenza più pericolosa sarà quella di una crescente perdita della storicítà, del suo senso e delle sue dimensioni» 29.

Altri aspetti toccati e discussi da Barbano riguardano la scuola durkheimiana, la sociologia nordamericana e il neopositivismo, la tradizione weberiana e la dialettica sociale. Non manca perciò, fra i numerosi altri, il riferimento al fondamentale contributo di Halbwachs alla storia intesa come memoria collettiva; così come non manca una discussione problematica della prospettiva di Paul Veyne per le sue «argomentazioni che a volte possono apparire paradossali, specie a proposito del rapporto della storia con la sociologia» 30.

Superando le tentazioni di un assorbimento della storia nella sociologia o al massimo di unificazione incondizionata del metodo di entrambe, Barbano insiste invece sui nessi fra storicità e positività «come momenti della dialettica di soggetti ed oggetti sociali» 31.

CONCLUSIONE

In definitiva il rispetto del proprium di ciascuna delle due discipline non esclude 1’interdisciplinarità. Del resto le condizioni stesse dell’indagine storica comportano questa opzione. Come sarebbe possibile altrimenti fare una storia delle società senza scrittura?

Una volta di più metodologia storica e metodologia sociologica (ed antropologica) si incontrano su un terreno comune: quello del ricorso alle fonti orali. Così l’approccio biografico non è molto diverso dall’uso delle testimonianze verbali in campo storíografico. E la memoria dei protagonisti di un evento stori

29 F. BARBANO, Scienza sociale ecc., cit., p. 279.

3° Ibid., p. 295.

31 Ibid, p. 327.

STORIA, SOCIOLOGIA E STORIE DI VITA 239

co dell’Occidente industrializzato ha il suo corrispondente africano nella tradizione tribale dei griots, di quegli individui che sono delegati in ciascuna famiglia a conservare il patrimonio orale della loro identità.

Il griot, questo uomo‑archivio, è un individuo sociale per eccellenza perché egli non solo rappresenta la sua persona ma l’intero gruppo cui appartiene: «sono griot … maestro dell’arte di parlare … siamo i sacchi a parole, siamo i sacchi che racchiudono segreti varie volte secolari. L’arte del dire non ha segreti per noi; senza di noi i nomi dei re cadrebbero nell’oblio, siamo la memoria degli uomini; con la parola diamo vita ai fatti ed alle gesta dei re davanti alle giovani generazioni … Ho insegnato aí re la Storia dei loro avi affinché la vita degli avi serva loro d’esempio poiché il mondo è antico ma l’avvenire nasce dal passato … Ascoltate la mia parola voi che volete sapere; dalla mia bocca saprete la storia»”. Che aggiungere ancora ad una così chiara inequivocabile definizione del ruolo della memoria storica di un popolo, espressa per bocca di un solo suo rappresentante? È piuttosto questo l’anello mancante per realizzare una «storia completa», allo stesso modo in cui la storia di vita è forse l’elemento‑chiave per superare l’incompiutezza della sociologia.

ROBERTO CIPRIANI Dipartimento di Sociologia Università degli Studi «La Sapienza» di Roma

12 D. TANsiR MANE, Soundiata ou l’épopée mandingue, Paris 1960, p. II (citato da R. RAINERO, Fonti orali e storiografia: il problema della storia dei popoli africani, in AUTORI VARI, Introduzione allo studio della storia, cit., vol. II, p. 559). In proposito si vedano anche i contributi di J. VANSINA, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Officina, Roma 1976, e Oral tradition and history, Madison University of Wisconsin, Madison 1985. Per una messa a punto dei rapporti fra storia e sociologia cfr. AUTORI VARI, Histoires et sociologues auiourd’hui. tournée d’études annuelles de la Société Fran~aise de Sociologie (Université de Lille I, 14‑15 giugno 1984), CNRS, Paris 1986.

MEMORIA, ORALITA, VISSUTO: FRA STORIA E SOCIOLOGIA

I ‑ PREMESSA

Fiumi di inchiostro sono stati versati, nel corso degli ultimi anni a proposito dei rapporti fra storia e sociologia, fra storia e scienze sociali.

Legate entrambe al mondo empirico, storia e sociologia sono passate attra­verso fasi di riflessione e reimpostazione epistemologica, di crisi; hanno visti chiamati in causa i propri presupposti teorici, gli schemi orientativi, i concetti, le metodologie. Non senza ragioni, del resto, poiché profondi mutamenti ha vis­suto il concetto di cultura, sempre meno legato ad un sapere specialistico ed éli­tario. È infatti il concetto antropologico di cultura che si è fatto strada, è di un «concetto di cultura come modello descrittivo» che ha bisogno la sociologia, concetto «inteso come l’insieme dei valori condivisi e convissuti da un dato gruppo umano, corredato di particolari utensili e tecniche produttive in un de­terminato stadio del suo sviluppo», per riprendere quanto detto, anni addietro, da Franco Ferrarotti 1. Con quella di cultura, è venuta mutando anche la conce­zione della storia: non più necessariamente eurocentrica, essa vede un allarga­mento della propria base, un’apertura all’irrompere di nuovi popoli, nuovi usi, nuovi costumi. Ci si interroga così intorno agli avvenimenti occorsi, ma anche intorno ai tratti sociali di certe epoche, di determinate popolazioni, alla loro «mentalità», alla base strutturale z.

Si è verificato, nella prassi, un certo avvicinamento fra scienze storiche e scienze sociali: la critica ai vecchi schemi e strumenti deve andare infatti avanti insieme con la ricerca, con la creazione del nuovo.

‘ Cfr. in particolare F. FERRAROTTI, Storia e storie di vita, Laterza, Bari 1988; cfr. anche il suo La storia e il quotidiano, Laterza, Bari 1986.

2 F. FERRAROTri, Trattato di sociologia, UTET, Torino 1968.

Premessa

Le storie di vita sembrano aver avuto più fortuna editoriale in campo letterario che non come dati scientificamente probanti di una realtà sociale storicamente e sociologicamente definita. Esemplare a tal proposito è il caso di Oscar Lewis, la cui opera è stata diffusa ed apprezzata forse più per « il fascino del romanzo » che non per « il rigore della scienza ». In una situazione in qualche modo ribaltata è la produzione di un autore come Pier Paolo Pasolini, la cui capacità letteraria è indiscussa ma non quanto la sua perspicacia nell’analisi sociale. Anzi il suo realismo è persino definito « crasso » per il semplice fatto di essere troppo obiettivo. Di questo l’autore friulano era ben consapevole ed anzi ironizzava pure sulla sua polle. dricità intellettuale tanto da scrivere che le sue pagine erano « a1 solito così stravagantemente interdisciplinari ».

Dunque Pasolini stesso si rendeva conto che nel campo della cultura contemporanea il taglio interdisciplinare suonava come una stravaganza, un frutto estroso, originale sl ma non degno di attenzione seria. Coti le sue storie di vita socio‑letterarie, da Ragazzi di vita a Una vita violenta, colpiscono più per la narrazione romanzesca che non per lo spaccato sociologico che ne emerge.

Le stesse riserve psicologiche e scientifiche si registrano allorquando vengano compiuti dei tentativi di indagine su fenomeni sociali a partire da approcci diversificati fra loro. Vi è in primo luogo da superare rovoterate ghettizzazioni monodisciplinari che resistono a qualunque evidenza di correttezza epistemologica e metodologíca. Vi sono poi difficoltà obiettive che rallentano le procedure in un terreno ancora inesplorato e per di più minato da una serie piuttosto nutrita di obiezioni ed imprevisti tecnici.

Ancor prima di proseguire nel discorso vanno chiariti almeno alcuni equivoci che si affacciano già in partenza. Per un verso risulta impratica

86 Roberto Cipriani

bile il tentativo tardiano, tipicamente nronorso, di legare esclusivamente la sociologia alla psicologia: « la sociologia apparentemente più chiara, anche quella di un aspetto superficiale, affonda con le sue radici in seno alla psicologia ». Il risultato che ne scaturirebbe potrebbe essere quello di una fisiologizzazione della sociología, di fatto proposta da Gabriel Tarde, pur attraverso la sua interpsychologie. Di rimando si potrebbe pensare ad una intersociologia che egemonizzasse ogni possibilità di ricerca, ma questo esula dall’intento qui perseguito anche se il rigetto nei riguardi di alcune proposte specifiche potrebbe legittimare una reazione di questo genere, intenzionalmente provocatoria. Si pensi ad esempio allo scarso sviluppo degli studi su cultura e personalità, almeno in Italia. Ebbene, pur con tutte le riserve e le necessarie aggiunte e modifiche, proprio questo poteva essere un terreno di sperimentazione interdiscíplinare che i nostri scienziati sociali hanno semplicisticamente ignorato. Certo il rischio era evidente, di una psicologizzazione del dato culturale a scapito degli aspetti strutturali, normativi e conoscitivi. Ma ancor più forte è stato il pregiudizìo monodisciplinare che ha soffocato sul nascere una diversa dialettica scientifica.

Per un altro verso la sociologia pare accodarsi al recente fiorire di studi storici che favoriscono un interesse per le storie di vita ben maggiore che nel passato. Si dimentica così che ancor prima dei nipotini odierni delle « Annales » la scienza sociologica aveva offerto spunti non trascurabili, anche se imperfetti e risultati poi senza molto seguito e approfondimenti. E’ appena il caso di ricordare che Il contadino polacco di Thomas e Znaniecki risale a più di sessant’anni fa. E non è forse casuale che pure allo stesso periodo risalgano gli inizi ‑ sempre negli Stati Uniti ‑ della psieostoria, quasi una risposta degli storici dinanzi all’avanzare della nuova psicologia. Eppure ‑ come sottolinea Linda La Penna in un recentissimo e documentato saggio ‑ i primi ad occuparsi di psicostoria non furono degli storici, sia perchè arroccatí nella loro gabbia disciplinare sia perchè insoddisfatti dei risultati delle prime ricerche compiute da psicoanalísti che si erano cimentati nell’interpretare elementi storici come « sindromi psicoanalitiche». Le motivazioni di Thomas e Znaniecki furono in verità piuttosto diverse e legate ad un discorso interno alla stessa loro scienza, dunque con un’autottotfia che poteva semmai avere agganci di tipo filosofico generale ma non prettamente storici.

In definitiva lo statuto stesso della sociologia e la sua storia dimostrano come essa abbia sufficienti garanzie per una conduzione delle ricerche senza la necessità di surroghe e supplenze.

Per un’analisi polidisciplinare delle storie di vita 87

L’ipotesi polidisciplioare

Esistono comunque problematiche specifiche ed universi peculiari che accompagnano fenomeni determinati i quali necessitano di un approccio assolutamente diverso. In altri termini non sempre il sociologo pub risolvere i suoi dubbi e verificare le sue ipotesi facendo ricorso a soluzioni precodificate. Ecco allora che di volta in volta, caso per caso, vanno operate scelte procedurali, oltre che epistemologiche, con la definizione di precisi itinerari di indagine.

Pertanto operativamente si propone di considerare l’ipotesi di una triplice possibile scelta così configurata:

a) indagine sociologica monodiscíplinare, laddove la disamina delle problematiche appare sufficientemente risolvibile all’interno del patrimonio scientifico della stessa disciplina;

b) indagine sociologica polidisciplinare, quando le caratteristiche dei temi da affrontare comportano ottiche plurime (psicologiche, storiche, economiche, antropologico‑culturali, etnologiche, giuridiche, mediche, ecc.), ma con una selezione di queste ultime in riferimento alla disciplina‑guida ed alle ipotesi sottoposte a verifica;

c) indagine sociologica interdisciplinare, se 1’argorpento della ricerca richiede prospettive complesse ma articolate fra loro in modo da fornire

letture globali » del caso in esame.

Le storie di vita sembrano rientrare di solito nella scelta di tipo b), cioè polidisciplinare, che presuppone sì la presenza di almeno due forme analitiche scientificamente consolidate ma che rimanda sempre ad un taglio prevalente che non pregiudichi il senso e la portata dell’indagine.

A voler sottilizzare e precisare ulteriormente ‑ ma sempre a livello ipotetico e con la massima apertura a soluzioni diverse secondo le necessità di studio ‑ si può pensare per le storie di vita ad una struttura di base minimale che abbia (nell’ipotesi polidisciplinare) la psicologia (preferibilmente sociale) e la storia come cardini imprescindibili insieme con la sociologia, considerata disciplina‑guida per il semplice fatto che la storia di vita fa parte del suo proprio bagaglio di accertamento.

Non si può non rilevare che almeno finora ‑ e non solo in Italia siano state messe in opera azioni di assoluto favore per i rapporti fra sociologia e storia, e non altrettanto fra sociologia e psicologia, e ancor meno secondo la proposta di cui sopra che vede appaiate queste tre scienze

RR Roberto Cipriani

sociali. Anche una superficiale analisi di contenuto degli indici di volumi e riviste, nonché dei programmi di insegnamento, dei convegni e dei seminari potrebbe testimoniare appieno una simile realtà.

C’è da chiedersi a questo punto come mai giusto le storie di vita richiedano un simile impegno convergente, di tipo polidisciplinare. La risposta è nella loro caratteristica di approfondimento della conoscenza relativa agli individui sociali. Non solo. E’ anche nel rapporto ben più coinvolgente che si instaura fra intervistatore ed intervistato con un superamento dei ruoli tradizionali tale da sconvolgere 5’chemi prestabiliti e cadenze programmate. La raccolta di una storia di vita rappresenta sempre un’avventura umana e scientifica insieme. Forse ‑ ma non sempre ‑ se ne potrà stabilire lo inizio, mai però se ne potrà prevedere, la fune o se ne potranno presumere i risultati scientifici. In verità si comincia a « vivere con l’altro », a « vivere dell’altro », in pratica a a vivere noi stessi con gli altri ». Non è mai un momento brutalmente sperimentale, come accade probabilmente nella somministrazione di un questionario. Il ricercatore stesso è in questione e si pone problemi circa la legittimità della sua invadenza e del suo scavo nei problemi dell’interlocutore. E’ un difficile gioco di ruoli e di equilibrio interpersonale, sicchè è altamente improduttivo scientificamente intrattenere rapporti di ricerca con molte persone contemporaneamente o peggio solo per un brevissimo periodo. Data quindi tutta questa pesantezza problematica è verosimile che l’intervento di un solo ricercatore sia impari all’impresa. Si rende perciò utile un supplemento, un potenziamento energetico che tenga sotto controllo le diverse variabili in gioco a cominciare da quelle stesse di chi indaga.

Va poi considerato che anche un solo individuo, protagonista designato di una storia di vita, ha in sè potenzialità e realtà pluridimensionali tali da . non poter essere esaurientemente interpretate neppure da tutto il complesso scientifico oggi disponibile. A maggior ragione una sola direzione investigativa denota evidenti carenze legate più alle peculiarità di chi fa ricerca che non del soggetto intervistato.

Per dirla in termini popperiani ogni uomo (ed anche la sua storia di vita) ha prodotto nel corso della sua esistenza oggetti materiali, artefatti, esperienze, modelli, ‑ norme, persino altri esseri a lui simili; a tutto ciò pone riguardo la conoscenza scientifica, una grande provincia logica del cosiddetto « mondo 3 », fatto di miti, teorie, ideologie, opere, il tutto sempre in cambiamento; per quanto grande, tale provincia logica non riesce mai a cogliere la complessità del reale individuale e sociale, perchè sempre resteranno ombre e lacune pur dopo uno studio pluriennale. Da ciò 1’ur‑’

Per un’analisi polOsciplinare delle storie di vita 89

gema di risolvere almeno in parte l’improbabilità scientifica di un rapporto appena individuale e monodisciplinare. Vale qui la pena di citare Popper stesso: « La credenza che ci siano cose come la fisica, la biologia o l’archeologia e che questi campi di studio siano distinguibili dall’oggetto delle loro indagini, mi sembra un residuo del tempo in cui si credeva che una teoria dovesse procedere da una definizione del suo peculiare oggetto. Ma tale oggetto, o specie di cose, non costituisce a mio avviso, una base per distinguere le discipline. Le discipline sono distinte, in parte, per ragioni storiche, per motivi di convenienza nell’amministrazione (si pensi alla organizzazione dell’insegnamento e degli impegni) e, in parte, perché le teorie che si costruiscono per risolvere i nostri problemi tendono ad accrescersi all’interno di sistemi unificati. Tuttavia, tutta questa classificazione, e le relative distinzioni, costituiscono una questione relativamente priva di importanza e superficiale. Noi non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi. E i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia o disciplina u.

Se pertanto il nostro intento è di conoscere le variabili che influenzano alcuni criteri di comportamento, per esempio di un ampio gruppo di famiglie all’interno di una borgata romana, la questione non è relativa al fatto che siano dei sociologi o degli antropologi o degli economisti o degli psicologi a studiarli, anche se poi di fatto gli uni sono più interessati degli altri ed hanno strumenti più o meno adatti. Il punto di osservazione (e di partenza) è un altro; è cioè il problema da prendere in considerazione. Sulla base di questa prima chiarificazione è poi possibile procedere a progetti di indagine con contributi specialistici. Ma intanto non si è preclusa alcuna soluzione di tipo disciplinare/metodologico.

L’uso polidisciplinare delle storie di vita non esautora la primazia sociologica al riguardo, perché restano tuttavia delle pertinenze e delle competenze tradizionalmente acquisite ed empiricamente consolidate. La polidisciplinarietà è semplicemente un correttivo tonificante che garantisce ‑ si pensa ‑ migliori risultati. Ma risolto questo punto un altro nodo resta irrisolto: quello del rapporto interpersonale fra i ricercatori di diversa formazione. Chi ha esperienza di ricerca sul campo ne conosce bene il travaglio e l’estrema problematicità. Questo però non può assurgere a remora per evitare la soluzione indicata.

La pohdisciplinarità delle storie di vita è più che altro una apertura mentale, di disponibilità agli apporti non meramente sociologici. Tuttavia l’uso delle file histories resta un problema tipicamente sociologico e come tale

90 Roberto Cipriani

va affrontato. Ciò non impedirà l’accoglienza di sensi e prospettive di tipo differenziato.

Un’ultima questione terminologica va chiarita. Perchè qui si parla di polidisciplinarità e non di interdisciplinarità % di multidisciplinarità, per limitarci ai termini più correnti? La scelta è chiaramente intenzionale: il termine «interdisciplinarità » è troppo sfruttato sino all’abuso e non renderebbe in pieno il senso di questa proposta (inoltre esso è stato usato per un’opzíone di genere diverso, sotto il punto c) indicato sopra); la multidisciplinarità sembra essere il requisito essenziale della pratica interdisciplinare e quindi avrebbe lasciato in piedi lo stesso problema dell’equivoco con la interdisciplinarità. Il parlare invece di polidisciiplinarità si giustifica con il significato greco di 7so1úS, molto, che sta ad indicare il riferimento al numero come all’estensione, alla quantità, alla forza, all’intensità, persino alla durata, fattori tutti che giocano una funzione di rilievo secondo i singoli apporti delle specifiche discipline. In particolare il polidisciplinare presuppone 1’unidisciplinare ma in quanto punto di avvio, riferimento‑guida. In merito poi agli altri significati ognuno di essi è congruente, perchè di fatto ‑ al di là della sociologia ‑ nella raccolta ed interpretazione delle storie di vita ogni scienza sociale pub tornare utile ed offrire il suo contributo in misura diversa e con gradi differenziati: durante tutta la ricerca o solo in parte; in tutte le interviste o solo in un gruppo particolare; appaiandosi alla sociologia o collegandovisi su certi aspetti analitici; suggerendo alternative o amplificazioni.

Tutto ciò non significa creare ad ogni costo t1 mito di una polidisciplinarità come passepartout per far superare alle storie di vita ogni sorta di impasse. Valga in proposito l’esempio di Niemsche, che pur acuto e suggestivo nelle sue riflessioni di ordine psicologico è stato però notoriamente incapace di conoscere compiutamente i suoi stessi interlocutori ,gli amici a lui vicini, gli uomini suoi contemporanei. Non sempre il fine suggeritore di teorie e interpretazioni è altrettanto geniale e perspicace a livello analitico. Anche questo è un aspetto da non sottovalutare. Così Schutz, Berger e Luckmann hanno segnalato criteri e contenuti strategici di ordine generale sulle tematiche del quotidiano pur tanto legate a quelle presenti nelle storie di vita ma‑ quasi nulla offrono sul piano della sperimentazione nel campo della ricerca.

La polidisciplinarità prevede in definitiva una osmosi scientifica che sia fondata su teorie e tecniche afferenti a due ó più discipline.ma che deve risolvere anche nodi problematici concreti connessi alla competenza dei singoli ricercatori ed alla loro esperienza e fantasia.

Per un’analisi polidiscipliaare delle storie di vita 91

E’ ben raro trovare in uno stesso scienziato sociale una confluenza di tipo polidisciplinare ad un livello sufficientemente apprezzabile. Il Max Weber storico e sociologo insieme o l’Erik Erikson psicoaanlista non digiuno di problematiche storiche rappresentano più delle eccezioni che non la regola. Nè si può richiedere a tutti di avere una qualificazione polimorfa. Ma almeno una sensibilità ed una disponibilità ad apporti affini e collaterali sono requisiti imprescindibili per un lavoro polidisciplinare. Il lavoro di gruppo può rappresentare una soluzione ottimale ma dovrebbe costituire più un obiettivo da raggiungere che non uno strumento risolutore.

Caratteri di un’esperienza di ricerca: le storie di vita familiare

E’ singolare che fra le varie obiezioni a Oscar Uwis non sia stata avanzata sinora quella di un suo ottimismo scientifico che lo porta a sostenere come assolutamente disinibente l’uso del magnetofono per raccogliere storie di vita di emarginati e analfabeti che « possono parlare di sè e raccontare le proprie osservazioni e le proprie esperienze in modo spontaneo, naturale ». Ed è altrettanto singolare che ci si rifaccia ancora a questo autore per scoprire indicazioni metodologiche e tecniche in realtà inutilizzabili vuoi per il ricorso collaterale al questionario vuoi per alcune operazioni manipolatorie in sede di raccolta delle storie di vita (per esempio nel suo ufficio o a casa sua, ma di rado presso le abitazioni degli intervistati stessi). Un’altra pretesa tipicamente lewisiana è che una sola famiglia possa « illustrare buona parte dei problemi sociali e psicologici degli ambienti poveri » di un’intera nazione. E’ altresì priva di fondamento la sua opinione che siano piuttosto gli antropologi ad interessarsi delle grandi masse contadine e urbane. In realtà nella produzione di Lewis non mancano contraddizioni palesi; così altrove si legge a proposito della raccolta di storie di vita: .c E’ difficile fare generalizzazioni sull’effetto del registratore nel luogo della intervista .Alcuni informatori vengono inibiti moltissimo dall’apparecchio anche dopo che si è stabilito un rapporto eccellente. In altri casi gli informatori reagiscono positivamente ed il fatto che li si sta registrando sembra stimolarli e sbloccarli. In altri casi ancora la presenza dell’apparecchio non ha effetti manifesti sull’intervista ». Questa serie di affermazioni coglie meglio nel segno che non la precedente, piuttosto prona a dare un’immagine di spontaneismo ingenuo. Un cambiamento di rotta si registra anche a proposito della significatività delle storie di vita di un’intera famiglia in rap

92 Roberto Cipriaxi

porto ad un più vasto contesto: « i dati non dovrebbero essere generalizzati ed estesi all’intera società ».

Perchè si è fatta questa rassegna alquanto impietosa della disomogeneità scientifica della produzione di Oscar Lewis? Semplicemente per chiarire la differenza d’ímpostazione qui suggerita e per sgombrare il campo da possibili rischi ed equivoci in cui è già incorso lo studioso americano. In effetti l’operazione analitica, già messa in atto nel quadro della zona di Valle Aurelia a Roma, ha avuto come punto di orientamento una serrata critica agli assunti ed alle soluzioni empiriche dell’antropologo testè citato e forse più noto come studioso della cosiddetta cultura della povertà.

Nel nostro caso è la sperimentazione sul campo a fornire suggestioni di ricerca, ma è anche una preliminare e lunga fase di problematizzazione teorica a guidare gli stessi tentativi a livello operativo. In verità la metodologia e la tecnica di raccolta di una storia di vita, specie di un gruppo familiare (a anche più), non sono da inventarsi nel breve volgere di uno studio seminariale ma richiedono approfondimenti e sondaggi continui, alla ricerca della formula e dei contenuti più soddisfacenti da un punto di vista scientifico.

Di ciò si è maturata una salda coscienza soprattutto in Germania, nonostante il silenzio che a livello internazionale talora punisce forse ingiustamente la produzione sociologica tedesca (e non solo per questioni di barriere linguistiche). Così è poco noto un bel saggio di Hans W. Gruhle ‑ scritto nel 1923 in ricordo di Max Weber ‑sull’autobiografia come fonte di conoscenza, in cui si discutono molti interrogativi relativi all’indagine empirica, con una marcata consapevolezza della necessità di superare gli schemi tradizionali per cercare invece più a fondo nei rapporti sociali intessuti dall’individuo con l’economia, le leggi, le istituzioni, le procedure tecniche. Secondo Gruhle tale ricerca sui rapporti diventa pure . una ricerca dei motivi, cioè degli stati di fatto psichici ». Si tratta di capire nello stesso tempo a livello storico, psicologico e sociale quello che ha condotto il singolo ad una determinata azione. Ma anche dopo una considerazione attenta e costante il quadro che ne risulta se può essere convincente per un qualunque utente della ricerca non lo è affatto per il ricercatore. stesso; giacchè a esistono alcuni punti oscuri che non si lasciano ordinare giustamente in un grande quadro ». E c’è poi sempre in agguato il. fascino discreto che un‑ personaggio sempre ( o quasi) esercita su chi lo studia: sia egli un condottiero o un capo di stato oppure il più umile e bistrattato cittadino. D’altro canto ‑ sottolinea Gruhle ‑ non ci deve turbare il momento dell’accertamento « con la valutazione di cíò • `

Per un’analisi polidisciplinare delle storie di vita 93

che è importante e di ciò che è genuino ». Ed in pari tempo vanno individuate quelle tendenze « essenziali, che ritornano in tutti i gradi dello sviluppo della personalità, che si devono rintracciare in tutti i tempi come i motivi più numerosi delle sue azioni », facendo attenzione fra l’altro se si trovano « delle azioni i cui motivi sono opposti in modo contraddittorio a quelli già trovati ».

Rispetto ad Oscar Lewis ‑ e con molti anni di anticipo ‑ Hans Gruhle appare ben più avvertito se dice che quando il ricercatore « ha l’intenzione di usare il singolo come rappresentante del suo gruppo la cosa gli riesce più difficile. Egli vuole imparare dal singolare e descrivere ciò che lo concilia con i compagni di gruppo. E qui risulta il vecchio contrasto di tipo ideale e tipo medio, che emerge dappertutto, dove la psicologia entra nelle altre scienze. Lo storico o il sociologo descrive in una immedesimazione geniale un ceto sociale, un tipo dei tempi passati e prende degli ottimi passi d’autore o delle citazioni di un’autobiografia fornita di opinioni come documento dimostrativo ». Pertanto « tutto appare chiaro e conduce il lettore alla persuasione che questo ricercatore è diventato uno con quel tempo ». Vi è però un altro modo: « Egli confronta accuratamente tutte le tradizioni una con l’altra; egli legge attentamente tutte le autotestimonianze di quel tempo ed è incline più al contare che al soppesare; . . . questo considerare può facilmente sviare, ingannare . . . Ogni autobiografia è un brano di cultura vista attraverso un temperamento e cancella . . . qualche brano . . . non tipico . . . Molte brillanti autodescrizioni si lasciano usare solo idiograficamente, non nomoteticamente ».

Anche se le annotazioni di Hans Gruhle non sono condivisibili sino in fondo tuttavia esse « servono da punto di riferimento, sia per ribadire la opportunità di una scelta polidisciplinare che in lui ha visto felicemente coniugarsi insieme storia, psicologia e sociologia, sia per evidenziare come questioni che oggi sembrano essere originali non lo sono del tutto se già quasi sessant’anni fa erano al centro del dibattito scientifico .

Chi poi si avventuri concretamente sul terreno empirico si scontra di continuo con scelte precise da operare, persino in breve lasso di tempo, senza far ricorso all’ausilio di una lunga e meditata riflessione. Il fare ricerca significa anche compiere continuamente degli errori di approccio, di interpretazione, di selezione, di orientamento. L’unica correzione possibile deriva allora dagli strumenti stessi e dalle procedure d’indagine mai definitivi ed immutabili. In realtà la ricerca prosegue proprio perchè le approssimazioni raggiunte non soddisfano completamente e si esigono dati più probanti.

94 Roberto Cipriaai

A

Specialmente per le storie di vita ogni incontro è un’esperienza completamente diversa dalle precedenti, anche se si tratta delle medesime persone. Quando poi il dialogo fra intervistatori ed intervistati si protrae abbastanza nel tempo sopravvengono modifiche anche sostanziali che impediscono ogni tentativo di cristallizzazione di un caso o di un fenomeno sia individuale che di gruppo. Allora non è più una singola storia di vita che si conosce e si analizza, ma è anche quella del ricercatore nel periodo della sua ricerca, nonché quella di entrambi gli interlocutorî in modo del tutto contemporaneo, sincronico, dunque con un continuo intreccio fra diacronico e dato nnmediato, fra passato e momento presente, fra ieri e oggi.

Un’indagine svolta in una borgata atipica di Roma ha messo in rilievo numerosi fattori interagenti fra loro, con un’articolata rete di variabili dipendenti ed indipendenti, così fitta da sconvolgere continuamente alcuni assunti di volta in volta definiti. Pur rimanendo in piedi l’impianto generale d’ìn~, numerose sono state le variazioni apportate in seguito a fatti sempre nuovi, che hanno condotto a cambiamenti di rotta continui, a dimostrazione dell’imprevedibilità completa di un itinerario di lavoro sul campo.

Nel nostro caso si trattava di esaminare la dinamica dei valori a livello familiare utilizzando come parametro di riferimento, cioè come gruppo di controllo, un insieme socio‑abitativo con caratteri diversi rispetto alla borgata oggetto del nostro studio. L’ipotesi era che i quadri conoscitivi di tipo piccolo borghese influenzassero anche le famiglie a carattere proletario.

La verifica è stata condotta attraverso l’opera di coppie di ricercatori, di solito e preferibilmente insieme un uomo ed una donna, che seguissero una sola famiglia nel corso di tutta l’inchiesta.

Tali coppie hanno lavorato d’intesa con tutto il gruppo di ricerca, cui hanno reso conto dei risultati acquisiti e delle difficoltà sopravvenute. L’intento era di mettere insieme le storie individuali e quelle familiari mediante una lunga frequentazione dei singoli nuclei.

Le vicende della ricerca sono state alterne e coronate da successi ed insuccessi, sempre parziali, ma comunque con la convinzione di una praticabilità della proposta.

In verità . il’ ‑tèntativo di un approfondimento polidisciplinare è stato portato avanti più dai docenti‑ricercatori guida che non da tutti gli altri, anche in considerazione del fatto che alcuni usi tecnici delle storie di vita non sono ancora ben chiari e omogenei.

Ogni intervista ha avuto la durata media di circa mezz’ora é vedeva i due membri dell’équipe impegnati in ruoli separati ma convergenti: l’uno

Per aa’aualisi polidisciplinare delle storie di vita 95

svolgrva le mansioni di interrogante mentre l’altro registrava tutta la parte non captabile o riproducibile col magnetofono. Alla fine di ogni incontro si 2 poi steso un verbale, con una sorta di sceneggiatura di tutto quanto avvenuto.

Il protocollo dell’intervista con le parziali tranches de vie veniva poi tricotomizzato secondo il sistema SVC, cioè sentito, visto, commentato. Pertanto una prima colonna del protocollo comprendeva la trascrizione molto fedele di tutte le espressioni orali intercorse, accompagnate ‑ laddove possibile ‑ da annotazioni sommane circa il tono del parlare, le eventuali esitazioni, l’imbarazzo o la verve nell’esposizione, le riprese improvvise, le sottolineature non richieste, le interpretazioni ricorrenti. Molte questioni relative alla trascrizione sono state risolte in modo semplice ma non semplicistico, senza giungere all’eccesso del conteggio cronometrato delle pause, dei silenzi, degli imbarazzi.

Una seconda colonna rappresentava una specie di sceneggiatura piuttosto particolareggiata, con dettagli anche insignificanti su tutto l’accaduto nel corso dell’intervista, o fuori registrazione, o fuori del luogo deputato per l’incontro. Specialmente quando tutti i componenti il nucleo familiare erano presenti all’intervista, questa seconda colonna è stata riempita in modo esorbitante rispetto alla norma, proprio in seguito all’aumento del flusso di interazioni intercorrenti in ambito familiare.

La terza parte riguardava il commento dei ricercatori rispetto alle prime due colonne del sentito e del visto. Quest’ultima colonna è la più significativa nell’ottica della ricerca polidisciplinare. In essa infatti si cimentano le conoscenze di studiosi con diversa estrazione e formazione al fine di fornire una chiave di lettura plausibile rispetto ai contenuti presenti. Qui naturalmente possono essere numerose le interferenze dei ricercatori, ma appunto la situazione trans‑individuale dovrebbe consentire un reciproco controllo e la messa in comune di esperienze e competenze non univoche.

Soprattutto nella prima fase del rapporto di indagine con le famiglie, le terza colonna è stata utilizzata per una lettura in chiave socio‑psicologica al fine di individuare i fondamentali rapporti di tipo interpersonale e le dinamiche relazioni fra i membri del nucleo. Ciò si è reso necessario precisamente agli inizi, onde capire i sistemi di dipendenza‑indipendenza esistenti ed eventualmente condizionanti lo stesso momento della raccolta dell’intervista di storia di vita.

I singoli sono stati ascoltati sia da soli sia in compagnia degli altri familiari, in modo da tarare il peso dell’influenza personale. Ma indubbiamente i momenti sociologicamente più rilevanti sono apparsi quelli in cui

% Roberto Cipriani

w

tutto l’insieme familiare si è mosso attorno al registratore impossessandosi della situazione e assumendo in essa vari ruoli.

Qui è emerso chiaramente il carattere straordinario della condizione di intervista, con un flusso continuo di identità e coercizione dei ruoli, secondo quanto ha suggerito acutamente Bernd Neumann in un suo saggio del 1970, in cui dimostra come ogni racconto di tipo autobiografico sia in gran parte

figlio del tempo » nella totalità della situazione storica e sociale.

In tale passaggio la dimensione personale, ampiamente considerata nel primo approccio, si diluiste per dar luogo a più consistenti analisi sul piano sociologico, senza dimenticare altresì il dato contingente della storia. In effetti ogni storia di vita ‑ come ci ricorda ancora Neumann ‑ * descrive la maniera specifica in cui il suo autore partecipò e partecipa all’insieme sociale ». Tale insieme è tendenzialmente repressivo ed impositivo sicché « la personalità autonoma nel senso di eccezionalità creativa fu sempre il privilegio dei pochi ». Né è da ritenere che qualcuno di questi privilegiati si possa trovare facilmente fra i residenti di una borgata proletaria.

Naturalmente permane il problema della « verità » di una storia di vita, ma paradossalmente essa è tanto più vera in senso sociologico quanto più è « costruita », falsa sul piano reale. Infatti « come la fantasia ‘è estranea alla realtà così anche ogni autobiografia conserva una certa distanza dalla realtà vissuta. Essa documenta non i fatti, ma ricorda il « vissuto » ed il a sentito ». Alla documentazione dei dati può provvedere la storia, ma alla veridicità o falsità di una serie di episodi e fenomeni può provvedere lo stesso esame delle interviste, giacché proprio nella summenzionata terza colonna è possibile avanzare ipotesi di volta in volta verificabili o confutabili, ma anche porre il problema relativo alle motivazioni che presumibilmente stanno alla base di una particolare narrazione non rispondente alla realtà degli avvenimenti.

L’obiettivo che si persegue con l’esame delle storie di vita familiare è di scoprire quali siano le strutture portanti delle relazioni sociali e della diffusione di particolari modelli conoscitivi e normativi. Pure un’indagine sulle relazioni simboliche rintracciabili nelle storie di vita ‑ seguendo la esperienza di Catani ‑ rappresenta un aspetto di particolare importanza non eludibile in modo superficiale e da collegare strettamente con uno studio speci&co delle strutture linguistiche, da « inseguire » eventualmente sin nelle pieghe di un idioma dialettale magari urbanizzato.

Infine la scelta di considerare l’insieme familiare èbme significativo si raccorda senza difficoltà alla proposta di Bertaux di usare storie di vit* nello

Per un’analisi polidisciplinare delle storie di vita 97

stesso settore di relazioni socio‑strutturali ma soprattutto risponde alle esi­genze messe in luce da Ferrarotti quando propone di raccogliere storie di vita di gruppo.

Dopo averlo discusso, si può tentare un recupero di Oscar Lewis qui in chiusura, richiamando e condividendo con lui l’idea che solo le biografie di intere famiglie possono dare l’unità finale ed il punto iniziale per poter comprendere esattamente un contesto sociale da descrivere ed interpretare.

IL SOGGETTO AUTOBIOGRAFICO. STORIA, SOCIOLOGIA E POLIDISCIPLINARITÀ NELLE STORIE DI VITA

Roberto Cipriani

Premessa
Il primato cronologico detenuto dalla storia come disciplina scientifica nata ancor prima delle altre scienze sociali, ed in particolare della sociologia, non può essere messo in dubbio. È invece discutibile che tale primazia «storica» si trasformi in presunta superiorità, in maggiore affidabilità metodologica, in criterio unico e discriminante per la valutazione degli apporti provenienti da studiosi di altri settori disciplinari.

Certo agli inizi, specialmente nel secolo XIX, qualche timore poteva essere giustificato dal rischio ‑ intravisto dagli storici ‑ che i sociologi potessero invadere il terreno dell’indagine storica senza far uso di metodi e tecniche plausibili. In qualche misura, di fronte ad una sociologia ancora balbettante e troppo legata alle categorie filosofiche, era abbastanza prevedibile che l’accademia degli storici si chiudesse a riccio o scagliasse i suoi aculei critici nei riguardi dei nuovi arrivati.

Ma è poi giunta la lezione weberiana de Il metodo delle scienze storico‑sociali (1), che ha chiarito molti equivoci e soprattutto ha mostrato come sia possibile il riferimento ad un tipo di approccio che è comune alla storia ed alla sociologia, senza contrapposizioni fittizie. Lo stesso Max Weber, da par suo, ha dato esempi pregevoli di una simile procedura, di cui L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (2) rappresenta l’esito più rilevante e sicuramente un classico sia per gli storici che per i sociologi.

La situazione successiva ha registrato tuttavia ulteriori chiusure, ma con obiettivi di «colonizzazione esaustiva» alla maniera della «storia completa» auspicata da Paul Veyne (3), che ha dato l’impressione di voler abolire con un solo colpo di spugna tutta l’esperienza ultrasecolare della sociologia, reputando la scienza storica in grado di sbrigarsela da sola anche con il presente. E così la storia sociale soppianterebbe la sociologia. Una disciplina intitolata «Storia e sociologia delle migrazioni», ad esempio, si potrebbe chiamare più giustamente solo «Storia delle migrazioni». Ed allora anche una «Storia del presente» potrebbe divenire un pretesto legittimo per ribaltare quanto temuto nel passato, sicché questa volta l’invasione di campo avverrebbe non a vantaggio ma a danno della sociologia.

È però anche vero che molte traiettorie personali degli scienziati sociali hanno condizionato pesantemente l’evoluzione di metodi e tecniche e soprattutto la loro diffusione: a tal proposito la fortuna de Il contadino polacco (4) di Thomas e Znaniecki costituisce un esempio sintomatico delle difficoltà di affermazione di soluzioni intermediatrici fra storia e sociologia ed in particolare della metodologia biografica fondata sulle storie di vita (5).

L’incompiuta scienza ed il soggetto autobiografico
Non sono molti i tentativi dei sociologi, in Europa come altrove, di egemonizzare l’analisi delle società contemporanee. Pertanto non sembra emergere alcuna pretesa di «sociologia completa» capace di sussumere l’approccio storico come sua componente costante, evitando ogni possibile collaborazione interdisciplinare che preveda l’ausilio di altri studiosi, degli storici in particolare. Anzi è piuttosto dato di verificare il contrario, cioè una tendenziale carenza di sensibilità storica, come se l’esistente non fosse il precipitato appunto storico di un passato che è a monte dei trends attuali. Anche in questo la diffusa indifferenza all’elemento storico che caratterizza la sociologia nordamericana ha fatto scuola, facendo dimenticare ai sociologi europei il ruolo strategico dei condizionamenti a lungo operanti in una situazione, quella contemporanea, che è sempre il frutto di fattori preesistenti.

Laddove in campo storico gli sconfinamenti appaiono evidenti, anche in termini di categorie definitorie prese a prestito dalla sociologia, quest’ultima stenta invece ad accogliere suggestioni e dati di matrice diacronica, più attenta com’è a cifre, percentuali e tabelle e non a dati qualitativi la cui rilevanza è tale ‑ come ricorda Herbert A. Simon (6) ‑ da scombussolare ogni elemento quantitativo.

Oltre ad essere incompiuta sul piano storico la sociologia lo è sul piano dell’analisi qualitativa dei fenomeni. Ed in questo ben poco sembra aver appreso dai filoni più avvertiti ed originali della storiografia contemporanea. Il che è dovuto anche ad uno scarso confronto interdisciplinare, in primo luogo sul versante teorico‑metodologico dove i problemi della conoscenza scientifica sembrerebbero favorire maggiori punti di contatto. Del resto la sociologia quantitativa è sin troppo impegnata ad appiattire le differenze, a dar loro parvenza di somiglianza, a ridurre la complessità del sociale a poche classificazioni sommarie, più fruibili sul piano della comunicazione diffusa ma fuorvianti rispetto alla reale dinamica degli eventi considerati.

Non è casuale che pure la storia, in concomitanza con lo sviluppo della sociologia quantitativa, abbia assunto caratteri omologhi. Ne è pienamente consapevole François Furet quando scrive che «oggi la storia quantitativa è di moda, sia in Europa, sia negli Stati Uniti: si assiste, infatti, circa da mezzo secolo, al rapido sviluppo dell’utilizzazione delle fonti quantitative e dei procedimenti di calcolo e di quantificazione nella ricerca storica» (7). Però il metodo quantitativo non esclude tutta una serie di problemi procedurali, di rapporti con il dato che di per sé mantiene un carattere qualitativo almeno in partenza. Questo non impedisce tuttavia a Furet di affermare che la scelta quantitativa «presenta inoltre l’immenso vantaggio di fornire a quella vecchissima disciplina che è la storia un rigore e un’efficacia superiori a quelli offerti dalla metodologia qualitativa» (8). Neppure questo è del tutto fondato, se poi si è costretti a riconoscere l’impossibilità di analizzare «importanti settori della realtà storica» anche a ragione della «natura qualitativa irriducibile del fenomeno studiato» (9). Per non dire poi della necessità di considerare fonti non strettamente numeriche, cioè «le fonti strettamente qualitative, quindi non seriali, o quanto meno particolarmente difficili da organizzare in serie e da standardizzare» (10). Nondimeno, in definitiva, la spinta di questo autore resta protesa verso una storia seriale capace di attribuire scientificità al procedimento di indagine.

Accanto ad una sociologia incompiuta per difetto di approccio qualitativo, si ritrova dunque una storia incompiuta per carenza di prospettiva seriale‑numerica. Eppure l’una e l’altra scienza sembrerebbero differenziarsi più che altro per l’unicità e l’irripetibilità dell’evento quale oggetto della storia e per la ricorsività e la generalizzabilità dei fenomeni studiati dalla sociologia. Ma in realtà i percorsi di diversificazione e di incontro sono ben altri.

Assumendo di voler intendere come motivo storico e come ragione storiografica la variabile indipendente che produce un particolare evento, non si può non condividere la posizione di Ernest Nagel, secondo cui le spiegazioni storiografiche di azioni individuali sono abbastanza probabilistiche, in quanto esse rendono conto solo delle generalizzazioni ricavabili dalle conoscenze statistiche disponibili in tema di comportamento umano (11). Quindi sul piano scientifico l’accertamento della «verità» in questo quadro contingente è di fatto impedito, perché non si può far riferimento ad una serie di eventi che confermino, in modo sufficiente e cogente, essere la spiegazione fornita quella giusta. Da ciò scaturisce la necessità di collegare l’analisi del singolare con il suo contesto specifico, appunto contestualizzando al massimo l’elemento individuale.

Pertanto si comprende che la convergenza fra storia e sociologia è resa praticabile grazie all’elemento accidentale dell’interesse rivolto al caso specifico, al dato personale, al documento biografico, all’approccio autobiografico. Insomma la metodologia delle storie di vita (12) incontra sulla sua strada la problematica storica (13); e le questioni irrisolte e più discutibili nell’una sono le medesime di cui deve tener conto anche l’altra.

Senonché questa non è certo una novità assoluta. Ancora una volta lo spunto in proposito è di origine weberiana. Appunto in onore e ricordo di Max Weber era stato scritto da Hans W. Gruhle un importante saggio (14) che guarda all’autobiografia come fonte di conoscenza storica. A dire il vero si tratta di un tentativo piuttosto basato su un’ottica che si potrebbe oggi definire psico‑storica. Ma questo pure è un indicatore significativo dell’inconsistenza di talune barriere interdisciplinari, che abbastanza spesso impediscono utili effluvi da un campo all’altro delle scienze sociali e salutari bagni in altre piscine «probatiche» in cui possa avvenire il «portento» di una scienza non più incapace di muoversi e non più incapace di vedere.

In questo senso, privandosi cioè di una provvidenziale escursione verso lidi non frequentati, la storia e la sociologia restano scienze incompiute, legate alle pastoie di un metodo solitamente obsoleto e ripetitivo che non offre molto di nuovo, rispetto al déjà vu.

Con ampio anticipo Gruhle aveva posto in termini corretti molte questioni epistemologiche e metodologiche, insistendo sulla necessità del dubbio continuo rispetto all’utilizzo di materiali autobiografici con finalità scientifiche. Egli si domandava infatti se fosse possibile comprendere (come verstehen) la personalità di un individuo, le motivazioni profonde del suo agire, i punti oscuri del suo carattere, le peculiarità delle sue opinioni. Nel caso di un personaggio storico la distanza temporale garantisce un giudizio più oggettivo, ma al tempo stesso risulta necessaria una buona carica di immedesimazione per «entrare» nel personaggio. In altri termini occorre fare i conti con la teoria secondo cui in vista di una simile immedesimazione ad esempio «si debba avere un minimo di somiglianza con Napoleone» per poterlo capire. In pari tempo, comunque, vanno fatte altre valutazioni concernenti 1’autoconsiderazione di un autobiografo, i suoi errori di prospettiva, il condizionamento della sua percezione della realtà. Ecco perché, osserva giustamente Gruhle, le autobiografie di persone anziane sono spesso deformanti e poco obiettive. Naturalmente da un punto di vista psico‑sociologico ci si potrebbe pure interrogare sul significato di tali «deviazioni» e dunque articolare ancor più il quadro dell’indagine. Questo segna un punto di differenza fra il carattere storico e quello sociologico della ricerca: nel primo caso la manipolazione ‑ per quanto inconsapevole ‑ pare creare un problema serio ai fini dell’accertamento del «vero», nel secondo caso proprio l’eventuale mistificazione diventa oggetto di analisi attenta per capirne le matrici, individuarne i condizionamenti a monte, descriverne gli effetti. Indipendentemente da questo particolare obiettivo, storici a sociologi sono chiamati a leggere fra le righe, a scoprire i motivi originari di un atteggiamento e di un comportamento, a tenere in grande rilievo le omissioni e le reticenze, le sottolineature e le enfatizzazioni.

Il fatto è che nessuno è in grado di descriversi fedelmente, senza infingimenti ed in tutta sincerità. Prevale sempre una visione di riporto, cioè riflessa, che è il precipitato storico di un’autopercezione che più spesso disorienta anziché indirizzare le linee ermeneutiche dello scienziato sociale. Ed allora l’esperienza acquisita in un tal genere di operazioni scientifiche aiuta abbastanza ad andare al di là delle apparenze, oltre le barriere frapposte dall’io narrante che tende ad attribuirsi caratteri mai posseduti ma solo desiderati in chiave utopica.

Emerge così il problema della genuinità, che invero riguarda forse più lo storico che non il sociologo. Mentre riguarda più lo psicologo il metodo delle cosiddette «patografie», cioè degli studi sull’influenza delle malattie in relazione al comportamento umano. Tuttavia non è da escludere che anche gli altri scienziati sociali abbiano conoscenze in merito, pur senza esagerare nell’intravedere relazioni molto strette fra patologie ed agire, in chiave tipicamente deterministica. Lo stesso dicasi per certe applicazioni ingenue della psicanalisi di orientamento freudiano inserite forzosamente nello studio biografico, come nel caso dell’interpretazione della biografia di Napoleone, citata ancora una volta esemplarmente da Gruhle: Napoleone combatte per la Corsica, poiché questa per lui simbolizza la madre, ma più tardi egli abbandona il patriota corso Pasquale Paoli perché questi simboleggia il padre; ci si deve sempre ribellare contro il padre, perché concorrente riguardo al simbolo ­madre. Napoleone vede un nuovo padre nel conte di Marboeuf, a proposito del quale si diceva che la madre fosse per lui ben più che un’amica. Successivamente il simbolo del padre è dato da Luigi XVI, contro cui Napoleone combatte. Solo dopo la sua morte, Bonaparte si lega alla nuova madre, non più la Corsica ma la Francia, mère ­patrie. Più tardi Napoleone combatte per l’Italia, che gli ricorda da vicino la prima madre, la Corsica. Egli la difende come una nuova madre. E lotta e vince contro altri «padri»: Francesco d’Austria, Federico Guglielmo III, i Re di Spagna, Portogallo, Napoli, il padre per eccellenza ‑ il papa Pio VII ‑. Vuole da ultimo sottomettere tutta l’Europa, come manifestazione completa del possesso della madre. In definitiva tutta la biografia napoleonica è vista attraverso la filigrana psicanalitica del conflitto con il padre per la conquista della madre. Ciò, evidentemente, non riesce a dar ragione delle varie vicissitudini di una personalità tanto complessa; e soprattutto non spiega affatto le dinamiche che hanno accompagnato il suo vissuto, nelle diverse realtà in cui ha interagito con altre esistenze ed esperienze individuali e di gruppo, locali e nazionali, politiche e religiose.

Tra storia e sociologia
Se la sociologia storica non trova facile accoglienza tra i sociologi, altrettanto avviene per la storia sociologica (o sociale) fra gli storici. E magari qualche sociologo può sentirsi addosso il peso di un rimprovero di eccessiva attenzione alla storia, o viceversa uno storico può venir penalizzato, accademicamente e scientificamente, per i suoi sconfinamenti sociologici. Insomma per ipotesi un sociologo della religione che frequenta l’Archivio Segreto Vaticano anziché il terreno della ricerca empirica paga lo scotto di una marginalità di situazione che è tale perché non corriva rispetto alle linee dominanti nel proprio ghetto disciplinare. Ma come sarebbe possibile capire altrimenti un presente che è appena un attimo fuggente rispetto alla mole esorbitante di fatti del passato che condizionano tuttora il presente stesso? E come instaurare una «qualistica» nelle scienze sociali tale che sia in grado di reggere il passo della prospettiva «quantistica» ? Come affrontare il nodo fondamentale della narratività nella sua natura di problema epistemologico delle scienze storico‑sociali? Che fare perché anche altrove si dia inizio a raccolte fondamentali di oral history quali quella monumentale della Columbia University di New York, vero patrimonio nazionale?

Di fatto ancor oggi chi lavora su questi temi vive sulla propria pelle la subalternità di un tipo di storiografia e di sociologia che sono in condizioni di minorità e di minoranza. Nel frattempo occasioni preziose si perdono, anche nel pullulare di ricerche localistiche poco orientate teoricamente e sprovvedute metodologicamente. Le stesse esperienze editoriali di «microstorie», a metà strada fra storia e sociologia, dopo un promettente avvio non sembrano essere decollate se non per voli a bassa quota (di vendite) e con difficile rientri (degli investimenti scientifici ed economici).

Fino a quando la relazione fra storia e sociologia non avrà la considerazione di un problema strategico e cruciale nell’ambito delle scienze sociali, ogni tentativo propositivo troverà scarso spazio applicativo. Eppure anche dai «detrattori» della storia giunge un riconoscimento del suo ruolo chiave: lo strutturalismo lévi‑straussiano ammette in fondo che «tutto è storia»; ma non ne trae le debite conseguenze (15). Insomma è facile dimenticare che il presente è appena una linea sottilissima fra un enorme passato ed un futuro prorompente.

L’insegnamento paretiano, sulla ineluttabilità del ricorso alla storia per la spiegazione dei fenomeni attuali, non pare trovare molta eco se ancor oggi si è costretti a riproporlo in termini esortativi e per di più con scarse esperienze metodologiche.

In ogni avvenimento sociale c’è un’innegabile dimensione storica, per cui in chiave durkheimiana effettivamente ogni sociologia è anche storia. Ma questo significa che non solo la storia sociale bensì ogni altro settore storiografico a ragione va considerato come strettamente legato alla prospettiva sociologica. Anzi lo spartiacque fra i due versanti è più un confine simbolico‑disciplinare che non fattuale‑operativo.

Di tutto ciò parla con cognizioni di natura teorico‑empirica, Gottfried Eisermann, secondo il quale l’attore sociale ha sempre lungo il suo orizzonte gli esiti dell’agire precedente di altri attori sociali (16). Pertanto dovrebbe essere chiaro che ogni indagine limitata al presente ha dinanzi a sé un quadro troppo sfuggente, impalpabile, circoscritto, che non dà certo sicurezza per fondarvi un’ermeneutica scientifica appena accettabile.

D’altra parte però ‑ ed in questo Eisermann è d’accordo con Gruhle ‑ il presente (come il passato «narrato») arriva alla percezione cognitiva del ricercatore con distorsioni e condizionamenti tali da dover poi necessariamente utilizzare altri parametri di confronto e di verifica, tipici della storia come della sociologia. In pratica, secondo quanto dichiarava Pareto (citato da Eisermann) varrebbe piuttosto la pena di spiegare il passato attraverso il presente e non procedere in senso contrario. Intanto però neppure questa avvertenza paretiana è stata accolta debitamente, giacché la tendenza dominante è quella di cercare di capire il conosciuto attraverso lo sconosciuto, la realtà di oggi mediante ciò che è accaduto nel passato. Sembrerebbe questa una contraddizione macroscopica ma non lo è ‑ rispetto al problema dei rapporti storia/sociologia ‑ se si pone mente al fatto che per un verso non si nega la loro reciprocità e per un altro verso si definisce appena il punto di partenza, cioè quanto è noto per poi giungere a quel che non è di immediata reperibilità e percezione. Detto questo, è evidente che l’intento in una storia di vita è in effetti di partire dal presente per giungere a cogliere i trends trascorsi; però una volta raggiunta la dimestichezza scientifica con il passato il cerchio esplicativo (saremmo tentati di dire il «circolo ermeneutico») si richiude, ritornando a considerare il presente entro una concezione più consolidata ed empiricamente fondata.

Detto altrimenti, storia e sociologia si fecondano a vicenda, sicché è lecito sostenere che la storia sta alla base dei fatti sociali e su di essa è possibile costruire le spiegazioni sociologiche di quei medesimi fatti. Allo stesso tempo la metodologia delle storie di vita permette di mettere a fuoco attori sociali e dettagli comportamentali in un arco di tempo che offre occasioni plurime di verifica e di accertamento. E tale procedimento consente di travalicare il limite frapposto dalla singolarità dell’esperienza individuale, di entrare invece nel più ampio spettro dei vissuti sociali, individuando disparità e mutamenti, continuità e costanti dell’azione sociale. È un unico mondo quello che accomuna storia e sociologia. È questa anche la posizione di Edward Carr: «più la storia diventerà sociologica e la sociologia storica, tanto meglio sarà per entrambe» (17).

L’elemento comune a storia e sociologia è quello della conoscenza dell’uomo (18) in quanto attore sociale, che dà senso al suo agire ed a quello degli altri con i quali interagisce sulla base di un linguaggio che non è solo verbale. Appunto per questo una storia di vita è e deve essere anche caratterizzata da annotazioni puntuali sul non detto, sulla comunicazione silenziosa del linguaggio corporale, gestuale.

È questo un salto ben in avanti rispetto alle dispute dei primi decenni del novecento sulla metodologia storicistica. Non è più da temere un livellamento della singolarità in omaggio ad un sociologismo fine a se stesso. È invece un recupero della capacità individuale di influire sul processo storico, di imprimergli un orientamento, di dargli senso, di condizionare in concreto una politica nazionale o locale. Non è questione di contrapposizioni fra condizionamenti sociali generali e influenze personali contingenti; è invece un’interrelazione fra i due momenti che chiarisce l’interscambio fra individuo e società.

L’ipotesi di una ricerca socio‑storica non è quindi fuori della portata attuale delle scienze sociali. Quando Otto Hintze propose l’idea di tipizzare momenti e strutture della storia sociale, a partire da una storiografia individualizzante, si muoveva nell’orbita delle suggestioni weberiane, pur con qualche presa di distanza non accessoria (19) nell’ambito di una storia comparata per tipi ideali.

È sintomatico che sinora una simile corrispondenza fra l’orizzonte epistemologico weberiano e quello hintziano sia sfuggita quasi del tutto alla disamina storico‑sociologica corrente. Eppure proprio in Hintze e Weber era già delineato un quadro simbiotico fra storiografia individualizzante e sociologia strutturante in termini di processi sociali. A tali indicazioni di percorso ben pochi hanno dato retta, sicché l’estraneità reciproca è perdurata a lungo nel secolo appena scorso, in Germania come in Francia ed in Italia. Al massimo si sono sviluppati alcuni itinerari specialistici di storia sociale o di sociologia storica (in verità assai più la prima che non la seconda).

Il luogo privilegiato della storia resta la società, così come il luogo privilegiato della società rimane l’individuo sociale, cioè l’attore sociale interrelato con i suoi simili, in specifici contesti, in situazioni contingenti, che tuttavia attingono le loro connotazioni dal passato.

Anche il rapporto con l’idea braudeliana di una storia événementielle non risulta alieno rispetto ad una concezione tendenzialmente unificante di storia e sociologia che metta insieme l’idiografico ed il nomotetico. Appunto la metodologia delle storie di vita diviene allora un momento fondamentale di verifica della congiunzione fra l’ipotesi di individualizzazione e quella di generalizzazione.

In modo emblematico Luigi Bulferetti ha raccolto la sfida problematica che mette a confronto storia e sociologia, insistendo sulla connessione fra dati noti e dati ignoti: «l’analisi di qualsiasi oggetto nuovo, cioè diverso, che ci si presenta, è da noi compiuta riconducendolo a vari paradigmi e predicati vecchi; ma dal loro insieme deriva la nozione di nuovo. Non possiamo, contemporaneamente, assumere il nuovo e procedere con esso ad altri oggetti, se prima non lo paragoniamo col vecchio. Se il vecchio è apparentemente già determinato, il nuovo non lo è, ma alla luce del nuovo, una volta che è stato determinato grazie al vecchio, al già noto, il vecchio assume una nuova determinazione e ciò significa che anche prima aveva un valore in qualche modo indeterminato» (20). I riferimenti noti sono in genere quelli riguardanti il presente attraverso il quale è possibile risalire al passato per comprenderlo.

Così si fa chiarezza maggiore, magari ricorrendo anche a categorie sociologiche, a predicati già definiti in modo non equivocabile. Non vi è però la presunzione di obliterare l’elemento storico che riacquista anzi la sua centralità, non tanto e non solo perché la dimensione quantitativa della storiografia rappresenta un fondamento che assicura rigore scientifico, quanto piuttosto per il fatto che essa non può essere «storia del momentaneo o del particolare» (21). Ammonisce ancora Bulferetti: «avvezziamoci, dunque, a non considerare l’uso dei numeri nell’esposizione storica come qualificatore del tipo di esposizione» (22). «Certo l’uso dell’apparato matematico può portare a risultati più evidenti o precisi, cioè a più penetranti ed efficaci rappresentazioni in certi casi; ma che altro sono se non applicazioni della logica? E non si deve dimenticare il limite di validità della logica, come di ogni forma di esperienza, che risiede nella sua storicità, cioè nella limitatezza dell’esperienza sottesa ai termini usati e alle regole del giuoco. Il valore, il significato loro può essere noto ricostruendo quell’esperienza, ossia precisandola; tale precisazione è sempre in correlazione ad altre esperienze, che a loro volta vanno precisate, e al buon senso, all’uso corrente, che sono poi le costituenti, sul fronte conoscitivo, della situazione storica contemporanea allo storico» (23). Il che rimanda evidentemente alla sociologia come scienza del presente.

Due contributi fondamentali
Per quanto abbastanza «datati», due interventi significativi sul nostro tema meritano di essere qui ripresi in considerazione, anche perché al di fuori del momento contingente di tipo convegnistico e pubblicistico ben poco si è discusso in merito negli anni successivi (ed ancora una volta risulta confermata la propensione alla reticenza sull’argomento).

Da una parte è lo storico Giuseppe Galasso a parlare di Sociologia e storiografia (24), dall’altra è il sociologo Filippo Barbano a proporre un tema Scienza sociale e storia, sociologia e storiografia: percorsi e situazioni (25).

Galasso, in qualità di relatore al II Congresso Nazionale di Scienze Storiche, tenutosi a Salerno dal 23 al 27 aprile 1972, ribadiva senza perplessità di sorta che «uno dei più importanti effetti che siano conseguiti dal maggior influsso della sociologia sulla storia è consistito proprio in un’accentuata disideologizzazione del lavoro storico» (26). In altre parole la sociologia avrebbe contribuito all’allontanamento della storia da prese di posizione a carattere filosofico‑ideologico. D’altra parte ‑ si deve aggiungere per completezza ‑ anche la sociologia è maturata in ambito filosofico e ne ha risentito gli influssi, specie agli inizi della sua legittimazione scientifica.

Riconosciuto il debito nei confronti di Weber e Pareto (ma anche il peso del determinismo economicistico di derivazione marxista), Galasso citava altri illustri esempi di incrocio felice tra storia e sociologia: Fustel de Coulanges e Durkheim, Dilthey e Meinecke, Huizinga e Toynbee. (Ma lo stesso non può dirsi di Gentile e Croce per l’Italia). La rassegna continuava poi con qualche imprecisione e tuttavia con uno sforzo notevole di penetrare in diverse correnti sociologiche, attive soprattutto nell’ultimo dopoguerra in Italia. Dopo aver sopravvalutato il peso dello strutturalismo che avrebbe «conferito le caratteristiche di un mutamento metodologico e dottrinario di fondo» (27), lo storico napoletano ricordava a più riprese che «sociologia e storia come qualsiasi altra scienza che abbia affinità o addirittura identità di oggetto, possono reciprocamente servire l’una all’altra» (28).

Molto più approfondito e dettagliato (e per ciò preciso) era l’apporto di Filippo Barbano che aveva l’allure di una vera e propria monografia corredata da una bibliografia composita e pertinente. In effetti il sociologo torinese dominava con maggiore sicurezza la storia del pensiero sociologico; e questo potrebbe darsi per scontato. Ma per di più emergeva in lui un’ottima padronanza del terreno storico e filosofico, tale da permettergli di intervenire su molti aspetti del problema a ragion veduta e non per semplici allusioni. Del resto anche il suo continuo ribaltamento dei punti di approccio consentiva di porsi di volta in volta su ciascuno dei due versanti problematico‑disciplinare: filosofia della storia e sociologia, sociologia e filosofia della storia; storicismo e sociologia, sociologia e storicismo; positività storica e «storicità» positiva e così via.

Partendo dalla «storicità» degli antichi e dei moderni, passando per quella contemporanea e concludendo con il movimento della scienza sociale, Barbano enfatizzava giustamente il ruolo di Mannheim e della sua sociologia della conoscenza quale punto di arrivo (e di nuova partenza anche) in merito ai rapporti fra storia e sociologia: «con Mannheim il contesto sociale del sapere diventa la materia stessa dell’analisi strutturale ove sono compresenti aspetti e componenti della storicità positiva, strutturale ed intenzionale. Mannheim in questo senso rappresenta a parer nostro un significativo punto di arrivo non solo nello svolgersi del discorso circa i rapporti della sociologia con la storia ma nella ricostruzione delle dimensioni della storicità: ambito e terreno comune sia della storia che della sociologia non solo come disciplina. Mannheim rappresenta altresì il punto finale del contatto della sociologia con lo storicismo diciamo così classico. Non che per questo il contatto della sociologia con lo storicismo verrà a mancare, solamente esso prenderà altre vie, determinate sempre più profondamente dagli svolgimenti disciplinari della storiografia e della sociologia; ma nello svolgimento di quest’ultima la tendenza più pericolosa sarà quella di una crescente perdita della storicità, del suo senso e delle sue dimensioni» (29).

Altri aspetti toccati e discussi da Barbano riguardavano la scuola durkheimiana, la sociologia nordamericana e il neopositivismo, la tradizione weberiana e la dialettica sociale. Non mancava perciò, fra i numerosi altri, il riferimento al fondamentale contributo di Halbwachs alla storia intesa come memoria collettiva; così come non mancava una discussione problematica della prospettiva di Paul Veyne per le sue «argomentazioni che a volte possono apparire paradossali, specie a proposito del rapporto della storia con la sociologia» (30).

Superando le tentazioni di un assorbimento della storia nella sociologia o al massimo di unificazione incondizionata del metodo di entrambe, Barbano insisteva invece sui nessi fra storicità e positività «come momenti della dialettica di soggetti ed oggetti sociali» (31).

In definitiva il rispetto del proprium di ciascuna delle due discipline non può escludere l’interdisciplinarità o meglio – come vedremo più avanti – la polidisciplinartà. Del resto le condizioni stesse dell’indagine storica comportano questa opzione. Come sarebbe possibile altrimenti fare una storia delle società senza scrittura?

Una volta di più metodologia storica e metodologia sociologica (ed antropologica) si incontrano su un terreno comune: quello del ricorso alle fonti orali. Così l’approccio biografico non è molto diverso dall’uso delle testimonianze verbali in campo storiografico. E la memoria dei protagonisti di un evento storico dell’Occidente industrializzato ha il suo corrispondente africano nella tradizione tribale dei griots, di quegli individui che sono delegati in ciascuna famiglia a conservare il patrimonio orale della loro identità.

Il griot, questo uomo‑archivio, è un individuo sociale per eccellenza perché egli non solo rappresenta la sua persona ma l’intero gruppo cui appartiene: «sono griot … maestro dell’arte di parlare … siamo i sacchi a parole, siamo i sacchi che racchiudono segreti varie volte secolari. L’arte del dire non ha segreti per noi; senza di noi i nomi dei re cadrebbero nell’oblio, siamo la memoria degli uomini; con la parola diamo vita ai fatti ed alle gesta dei re davanti alle giovani generazioni … Ho insegnato ai re la Storia dei loro avi affinché la vita degli avi serva loro d’esempio poiché il mondo è antico ma l’avvenire nasce dal passato … Ascoltate la mia parola voi che volete sapere; dalla mia bocca saprete la storia» (32).

Che aggiungere ancora ad una così chiara inequivocabile definizione del ruolo della memoria storica di un popolo, espressa per bocca di un solo suo rappresentante? È piuttosto questo l’anello mancante per realizzare una «storia completa», allo stesso modo in cui la storia di vita è forse l’elemento‑chiave per superare l’incompiutezza della sociologia.

La fortuna dell’approccio biografico
Le storie di vita sembrano, nei fatti, aver avuto peraltro più fortuna editoriale in campo letterario che non come dati scientificamente probanti di una realtà sociale storicamente e sociologicamente definita. Esemplare a tal proposito è il caso di Oscar Lewis (33), la cui opera è stata diffusa ed apprezzata forse più per «il fascino del romanzo» che non per «il rigore della scienza». In una situazione in qualche modo ribaltata è la produzione di un autore come Pier Paolo Pasolini, la cui capacità letteraria è indiscussa ma non quanto la sua perspicacia nell’analisi sociale. Anzi il suo realismo è persino definito «crasso» per il semplice fatto di essere troppo obiettivo. Di questo l’autore friulano era ben consapevole ed anzi ironizzava pure sulla sua poliedricità intellettuale tanto da scrivere che le sue pagine erano «a1 solito così stravagantemente interdisciplinari».

Dunque Pasolini stesso si rendeva conto che nel campo della cultura contemporanea il taglio interdisciplinare suonava come una stravaganza, un frutto estroso, originale sì ma non degno di attenzione seria. Così le sue storie di vita socio‑letterarie, da Ragazzi di vita a Una vita violenta, colpiscono più per la narrazione romanzesca che non per lo spaccato sociologico che ne emerge.

Le stesse riserve psicologiche e scientifiche si registrano allorquando vengano compiuti dei tentativi di indagine su fenomeni sociali a partire da approcci diversificati fra loro. Vi è in primo luogo da superare inveterate ghettizzazioni monodisciplinari che resistono a qualunque evidenza di correttezza epistemologica e metodologica. Vi sono poi difficoltà obiettive che rallentano le procedure in un terreno ancora inesplorato e per di più minato da una serie piuttosto nutrita di obiezioni ed imprevisti tecnici.

Ancor prima di proseguire nel discorso vanno chiariti almeno alcuni equivoci che si affacciano già in partenza. Per un verso risulta impraticabile il tentativo di Tarde (34), tipicamente monorso, di legare esclusivamente la sociologia alla psicologia: «la sociologia apparentemente più chiara, anche quella di un aspetto superficiale, affonda con le sue radici in seno alla psicologia ». Il risultato che ne scaturirebbe potrebbe essere quello di una fisiologizzazione della sociologia, di fatto proposta da Gabriel Tarde, pur attraverso la sua interpsychologie. Di rimando si potrebbe pensare ad una intersociologia che egemonizzasse ogni possibilità di ricerca, ma questo esula dall’intento qui perseguito anche se il rigetto nei riguardi di alcune proposte specifiche potrebbe legittimare una reazione di questo genere, intenzionalmente provocatoria. Si pensi ad esempio all’inadeguato sviluppo degli studi su cultura e personalità, almeno in Italia. Ebbene, pur con tutte le riserve e le necessarie aggiunte e modifiche, proprio questo poteva essere un terreno di sperimentazione interdisciplinare che i nostri scienziati sociali hanno semplicisticamente ignorato. Certo il rischio era evidente, di una psicologizzazione del dato culturale a scapito degli aspetti strutturali, normativi e conoscitivi. Ma ancor più forte è stato il pregiudizio monodisciplinare che ha soffocato sul nascere una diversa dialettica scientifica.

Per un altro verso la sociologia è sembrata accodarsi al fiorire di studi storici interessati alle storie di vita ben più che nel passato. Si è dimenticato così che ancor prima dei seguaci delle Annales la scienza sociologica aveva offerto spunti non trascurabili, anche se imperfetti e risultati poi senza molto seguito e approfondimenti. È appena il caso di ricordare che Il contadino polacco di Thomas e Znaniecki risale a più di ottant’anni fa. E non è forse casuale che pure allo stesso periodo risalgano gli inizi ‑ sempre negli Stati Uniti ‑ della psicostoria, quasi una risposta degli storici dinanzi all’avanzare della nuova psicologia. Eppure ‑ come sottolinea Linda La Penna in un documentato saggio ‑ i primi ad occuparsi di psicostoria non furono degli storici, sia perché arroccati nella loro gabbia disciplinare sia perché insoddisfatti dei risultati delle prime ricerche compiute da psicoanalisti che si erano cimentati nell’interpretare elementi storici come «sindromi psicoanalitiche». Le motivazioni di Thomas e Znaniecki furono in verità piuttosto diverse e legate ad un discorso interno alla stessa loro scienza, dunque con un’autonomia che poteva semmai avere agganci di tipo filosofico generale ma non prettamente storici.

In definitiva lo statuto stesso della sociologia e la sua storia dimostrano come essa abbia sufficienti garanzie per una conduzione delle ricerche senza la necessità di surroghe e supplenze.

L’ipotesi polidisciplinare

Esistono comunque problematiche specifiche ed universi peculiari che accompagnano fenomeni determinati i quali necessitano di un approccio assolutamente diverso. In altri termini non sempre il sociologo può risolvere i suoi dubbi e verificare le sue ipotesi facendo ricorso a soluzioni precodificate. Ecco allora che di volta in volta, caso per caso, vanno operate scelte procedurali, oltre che epistemologiche, con la definizione di precisi itinerari di indagine.

Pertanto, operativamente, si può suggerire di considerare l’ipotesi di una triplice scelta così configurata:

a) indagine sociologica monodisciplinare, laddove la disamina delle problematiche appare sufficientemente risolvibile all’interno del patrimonio scientifico della stessa disciplina;

b) indagine sociologica polidisciplinare, quando le caratteristiche dei temi da affrontare comportano ottiche plurime (psicologiche, storiche, pedagogiche, economiche, antropologico‑culturali, etnologiche, giuridiche, mediche, ecc.), ma con una selezione di queste ultime in riferimento alla disciplina‑guida ed alle ipotesi sottoposte a verifica;

c) indagine sociologica interdisciplinare, se 1’argorpento della ricerca richiede prospettive complesse ma articolate fra loro in modo da fornire «letture globali» del caso in esame.

Le storie di vita sembrano rientrare di solito nella scelta di tipo b), cioè polidisciplinare, che presuppone sì la presenza di almeno due forme analitiche scientificamente consolidate ma che rimanda sempre ad un taglio prevalente che non pregiudichi il senso e la portata dell’indagine.

A voler sottilizzare e precisare ulteriormente ‑ ma sempre a livello ipotetico e con la massima apertura a soluzioni diverse secondo le necessità di studio ‑ si può pensare per le storie di vita ad una struttura di base minimale che abbia (nell’ipotesi polidisciplinare) la psicologia (preferibilmente sociale) e la storia come cardini imprescindibili insieme con la sociologia, considerata disciplina‑guida per il semplice fatto che la storia di vita fa parte del suo proprio bagaglio di accertamento.

Non si può non rilevare che almeno finora ‑ e non solo in Italia – siano state messe in opera azioni di assoluto favore per i rapporti fra sociologia e storia, e non altrettanto fra sociologia e psicologia, e ancor meno secondo la proposta di cui sopra che vede appaiate queste tre scienze sociali. Anche una superficiale analisi di contenuto degli indici di volumi e riviste, nonché dei programmi di insegnamento, dei convegni e dei seminari potrebbe testimoniare appieno una simile realtà.

Qualche interessante novità sta invero manifestandosi nel campo delle scienze dell’educazione. In tale ambito scientifico, in effetti, gli studiosi dediti all’approccio biografico stanno aumentando in modo significativo (35).

C’è da chiedersi a questo punto come mai giusto le storie di vita richiedano un simile impegno convergente, di tipo polidisciplinare. La risposta è nella loro caratteristica di approfondimento della conoscenza relativa agli individui sociali. Non solo. È anche nel rapporto ben più coinvolgente che si instaura fra intervistatore ed intervistato, con un superamento dei ruoli tradizionali tale da sconvolgere schemi prestabiliti e cadenze programmate.

La raccolta di una storia di vita rappresenta sempre un’avventura umana e scientifica insieme. Forse ‑ ma non sempre ‑ se ne potrà stabilire l’inizio, mai però se ne potrà prevedere la fine o se ne potranno presumere i risultati scientifici. In verità si comincia a «vivere con l’altro», a «vivere dell’altro», in pratica a «vivere noi stessi con gli altri». Non è mai un momento brutalmente sperimentale, come accade probabilmente nella somministrazione di un questionario. Il ricercatore stesso è in questione e si pone problemi circa la legittimità della sua invadenza e del suo scavo nei problemi dell’interlocutore. È un difficile gioco di ruoli e di equilibrio interpersonale, sicché è altamente improduttivo scientificamente intrattenere rapporti di ricerca con molte persone contemporaneamente o solo per un brevissimo periodo. Data quindi tutta questa pesantezza problematica è verosimile che l’intervento di un solo ricercatore sia impari all’impresa. Si rende perciò utile un supplemento, un potenziamento di risorse che tenga sotto controllo le diverse variabili in gioco a cominciare da quelle stesse di chi indaga.

Va poi considerato che anche un solo individuo, protagonista designato di una storia di vita, ha in sé potenzialità e realtà pluridimensionali tali da non poter essere esaurientemente interpretate neppure da un nutrito gruppo di studiosi, per quanto valenti e pluricompetenti. A maggior ragione una sola direzione investigativa denota evidenti carenze legate più alle peculiarità di chi fa ricerca che non del soggetto intervistato.

Per dirla in termini popperiani ogni uomo (ed anche la sua storia di vita) ha prodotto nel corso della sua esistenza oggetti materiali, artefatti, esperienze, modelli, norme, persino altri esseri a lui simili; a tutto ciò pone riguardo la conoscenza scientifica, una grande provincia logica del cosiddetto «mondo 3», fatto di miti, teorie, ideologie, opere, il tutto sempre in cambiamento; per quanto grande, tale provincia logica non riesce mai a cogliere la complessità del reale individuale e sociale, perché sempre resteranno ombre e lacune pur dopo uno studio pluriennale. Da ciò 1’urgenza di risolvere almeno in parte l’improbabilità scientifica di un rapporto appena individuale e monodisciplinare. Vale qui la pena di citare Popper stesso: «La credenza che ci siano cose come la fisica, la biologia o l’archeologia e che questi campi di studio siano distinguibili dall’oggetto delle loro indagini, mi sembra un residuo del tempo in cui si credeva che una teoria dovesse procedere da una definizione del suo peculiare oggetto. Ma tale oggetto, o specie di cose, non costituisce a mio avviso, una base per distinguere le discipline. Le discipline sono distinte, in parte, per ragioni storiche, per motivi di convenienza nell’amministrazione (si pensi alla organizzazione dell’insegnamento e degli impegni) e, in parte, perché le teorie che si costruiscono per risolvere i nostri problemi tendono ad accrescersi all’interno di sistemi unificati. Tuttavia, tutta questa classificazione, e le relative distinzioni, costituiscono una questione relativamente priva di importanza e superficiale. Noi non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi. E i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia o disciplina».

Se pertanto il nostro intento è di conoscere le variabili che influenzano alcuni criteri di comportamento, per esempio di un ampio gruppo di famiglie all’interno di una borgata romana, la questione non è relativa al fatto che siano dei sociologi o degli antropologi o dei pedagogisti o degli economisti o degli psicologi a studiarli, anche se poi di fatto gli uni sono più interessati degli altri ed hanno strumenti più o meno adatti. Il punto di osservazione (e di partenza) è un altro; è cioè il problema da prendere in considerazione. Sulla base di questa prima chiarificazione è poi possibile procedere a progetti di indagine con contributi specialistici. Ma intanto non si è preclusa alcuna soluzione di tipo disciplinare/metodologico.

L’uso polidisciplinare delle storie di vita non esautora la primazia sociologica al riguardo, perché restano tuttavia delle pertinenze e delle competenze tradizionalmente acquisite ed empiricamente consolidate. La polidisciplinarietà è semplicemente un correttivo tonificante che garantisce ‑ si pensa ‑ migliori risultati. Ma risolto questo punto un altro nodo resta irrisolto: quello del rapporto interpersonale fra i ricercatori di diversa formazione. Chi ha esperienza di ricerca sul campo ne conosce bene il travaglio e l’estrema problematicità. Questo però non può assurgere a remora per evitare la soluzione indicata.

La polidisciplinarità delle storie di vita è più che altro una apertura mentale, di disponibilità agli apporti non meramente sociologici. Tuttavia l’uso delle life histories resta un problema tipicamente sociologico e come tale va affrontato. Ciò non impedirà l’accettazione di prospettive di tipo differenziato.

Un’ultima questione terminologica va chiarita. Perché qui si parla di polidisciplinarità e non di interdisciplinarità e/o di multidisciplinarità, per limitarci ai termini più correnti? La scelta è chiaramente intenzionale: il termine «interdisciplinarità» è troppo sfruttato sino all’abuso e non renderebbe in pieno il senso di questa proposta (inoltre esso è stato usato per un’opzione di genere diverso, sotto il punto c) indicato sopra); la multidisciplinarità sembra essere il requisito essenziale della pratica interdisciplinare e quindi avrebbe lasciato in piedi lo stesso problema dell’equivoco con la interdisciplinarità. Il parlare invece di polidisciplinarità si giustifica con il significato greco di polu¢s, molto, che sta ad indicare il riferimento al numero come all’estensione, alla quantità, alla forza, all’intensità, persino alla durata, fattori tutti che giocano una funzione di rilievo secondo i singoli apporti delle specifiche discipline. In particolare il polidisciplinare presuppone l’unidisciplinare ma in quanto punto di avvio, riferimento‑guida. In merito poi agli altri significati ognuno di essi è congruente, perché di fatto ‑ al di là della sociologia ‑ nella raccolta ed interpretazione delle storie di vita ogni scienza sociale può tornare utile ed offrire il suo contributo in misura diversa e con gradi differenziati: durante tutta la ricerca o solo in parte; in tutte le interviste o solo in un gruppo particolare; appaiandosi alla sociologia o collegandovisi su certi aspetti analitici; suggerendo alternative o amplificazioni.

Tutto ciò non significa creare ad ogni costo il mito di una polidisciplinarità come passepartout per far superare alle storie di vita ogni sorta di impasse. Valga in proposito l’esempio di Nietzsche, che pur acuto e suggestivo nelle sue riflessioni di ordine psicologico, è stato però notoriamente incapace di conoscere compiutamente i suoi stessi interlocutori, gli amici a lui vicini, gli uomini suoi contemporanei.

Non sempre il fine suggeritore di teorie e interpretazioni è altrettanto geniale e perspicace a livello analitico. Anche questo è un aspetto da non sottovalutare. Così Schutz (36), Berger e Luckmann (37) hanno segnalato criteri e contenuti strategici di ordine generale sulle tematiche del quotidiano pur tanto legate a quelle presenti nelle storie di vita ma quasi nulla offrono sul piano della sperimentazione nel campo della ricerca.

La polidisciplinarità prevede in definitiva una osmosi scientifica che sia fondata su teorie e tecniche afferenti a due o più discipline ma che deve risolvere anche nodi problematici concreti connessi alla competenza dei singoli ricercatori ed alla loro esperienza e fantasia.

È ben raro trovare in uno stesso scienziato sociale una confluenza di tipo polidisciplinare ad un livello sufficientemente apprezzabile. Il Max Weber storico e sociologo insieme o l’Erik Erikson (38) psicanalista non digiuno di problematiche storiche rappresentano più delle eccezioni che non la regola. Né si può richiedere a tutti di avere una qualificazione polimorfa. Ma almeno una sensibilità ed una disponibilità ad apporti affini e collaterali sono requisiti imprescindibili per un lavoro polidisciplinare. Il lavoro di gruppo può rappresentare una soluzione ottimale ma dovrebbe costituire più un obiettivo da raggiungere che non uno strumento risolutore.

Un’esperienza di ricerca sul soggetto autobiografico
È singolare che fra le varie obiezioni a Oscar Lewis non sia stata avanzata sinora quella di un suo ottimismo scientifico che lo porta a sostenere come assolutamente disinibente l’uso del magnetofono per raccogliere storie di vita di emarginati e analfabeti che «possono parlare di sé e raccontare le proprie osservazioni e le proprie esperienze in modo spontaneo, naturale». Ed è altrettanto singolare che ci si rifaccia ancora a questo autore per scoprire indicazioni metodologiche e tecniche in realtà inutilizzabili vuoi per il ricorso collaterale al questionario vuoi per alcune operazioni manipolatorie in sede di raccolta delle storie di vita (per esempio nel suo ufficio o a casa sua, ma di rado presso le abitazioni degli intervistati stessi). Un’altra pretesa tipicamente lewisiana è che una sola famiglia possa «illustrare buona parte dei problemi sociali e psicologici degli ambienti poveri». È altresì priva di fondamento la sua opinione che siano piuttosto gli antropologi ad interessarsi delle grandi masse contadine e urbane.

In realtà nella produzione di Lewis non mancano contraddizioni palesi; così altrove si legge a proposito della raccolta di storie di vita: «È difficile fare generalizzazioni sull’effetto del registratore nel luogo della intervista. Alcuni informatori vengono inibiti moltissimo dall’apparecchio anche dopo che si è stabilito un rapporto eccellente. In altri casi gli informatori reagiscono positivamente ed il fatto che li si sta registrando sembra stimolarli e sbloccarli. In altri casi ancora la presenza dell’apparecchio non ha effetti manifesti sull’intervista». Questa serie di affermazioni coglie meglio nel segno che non la precedente, piuttosto prona a dare un’immagine di spontaneismo ingenuo. Un cambiamento di rotta si registra anche a proposito della significatività delle storie di vita di un’intera famiglia in rapporto ad un più vasto contesto: «i dati non dovrebbero essere generalizzati ed estesi all’intera società».

Perché si sono fatte queste citazioni alquanto impietose per offrire una testimonianza della disomogeneità scientifica della produzione di Oscar Lewis? Semplicemente per chiarire la differenza d’ímpostazione qui suggerita e per sgombrare il campo da possibili rischi ed equivoci in cui è già incorso lo studioso americano. In effetti l’operazione analitica, già messa in atto nel quadro della zona di Valle Aurelia a Roma, ha avuto come punto di orientamento una serrata critica agli assunti ed alle soluzioni empiriche dell’antropologo testé citato e forse più noto come studioso della cosiddetta cultura della povertà.

Nel nostro caso è la sperimentazione sul campo a fornire suggestioni di ricerca, ma è anche una preliminare e lunga fase di problematizzazione teorica a guidare gli stessi tentativi a livello operativo. In verità la metodologia e la tecnica di raccolta di una storia di vita, specie di un gruppo familiare (od anche più), non sono da inventarsi nel breve volgere di uno studio seminariale ma richiedono approfondimenti e sondaggi continui, alla ricerca della formula e dei contenuti più soddisfacenti da un punto di vista scientifico.

Di ciò si è maturata una salda coscienza soprattutto in Germania, nonostante il silenzio che a livello internazionale talora punisce forse ingiustamente la produzione sociologica tedesca (e non solo per questioni di barriere linguistiche). Così rimane ancora poco noto il bel saggio, già citato, di Hans W. Gruhle ‑ scritto nel 1923 in ricordo di Max Weber ‑ sull’autobiografia come fonte di conoscenza, in cui si discutono molti interrogativi relativi all’indagine empirica, con una marcata consapevolezza della necessità di superare gli schemi tradizionali per cercare invece più a fondo nei rapporti sociali intessuti dall’individuo con l’economia, le leggi, le istituzioni, le procedure tecniche. Secondo Gruhle tale ricerca sui rapporti diventa pure «una ricerca dei motivi, cioè degli stati di fatto psichici». Si tratta di capire nello stesso tempo a livello storico, psicologico e sociale quello che ha condotto il singolo ad una determinata azione. Ma anche dopo una considerazione attenta e costante il quadro che ne risulta se può essere convincente per un qualunque utente della ricerca non lo è affatto per il ricercatore stesso, giacché «esistono alcuni punti oscuri che non si lasciano ordinare giustamente in un grande quadro». E c’è poi sempre in agguato il fascino discreto che un personaggio sempre (o quasi) esercita su chi lo studia: sia egli un condottiero o un capo di stato oppure il più umile e bistrattato cittadino. D’altro canto ‑ sottolinea Gruhle ‑ non ci deve turbare il momento dell’accertamento «con la valutazione di ciò che è importante e di ciò che è genuino». Ed in pari tempo vanno individuate quelle tendenze «essenziali, che ritornano in tutti i gradi dello sviluppo della personalità, che si devono rintracciare in tutti i tempi come i motivi più numerosi delle sue azioni», facendo attenzione fra l’altro se si trovano «delle azioni i cui motivi sono opposti in modo contraddittorio a quelli già trovati».

Rispetto ad Oscar Lewis ‑ e con molti anni di anticipo ‑ Hans Gruhle appare ben più avvertito se dice che quando il ricercatore «ha l’intenzione di usare il singolo come rappresentante del suo gruppo la cosa gli riesce più difficile. Egli vuole imparare dal singolare e descrivere ciò che lo concilia con i compagni di gruppo. E qui risulta il vecchio contrasto di tipo ideale e tipo medio, che emerge dappertutto, dove la psicologia entra nelle altre scienze. Lo storico o il sociologo descrive in una immedesimazione geniale un ceto sociale, un tipo dei tempi passati e prende degli ottimi passi d’autore o delle citazioni di un’autobiografia fornita di opinioni come documento dimostrativo». Pertanto «tutto appare chiaro e conduce il lettore alla persuasione che questo ricercatore è diventato uno con quel tempo». Vi è però un altro modo: «Egli confronta accuratamente tutte le tradizioni una con l’altra; egli legge attentamente tutte le autotestimonianze di quel tempo ed è incline più al contare che al soppesare; . . . questo considerare può facilmente sviare, ingannare . . . Ogni autobiografia è un brano di cultura vista attraverso un temperamento e cancella . . . qualche brano . . . non tipico . . . Molte brillanti autodescrizioni si lasciano usare solo idiograficamente, non nomoteticamente».

Anche se le annotazioni di Hans Gruhle non sono condivisibili sino in fondo tuttavia esse «servono da punto di riferimento, sia per ribadire la opportunità di una scelta polidisciplinare che in lui ha visto felicemente coniugarsi insieme storia, psicologia e sociologia, sia per evidenziare come questioni che oggi sembrano essere originali non lo sono del tutto se già più di ottant’anni fa erano al centro del dibattito scientifico.

Chi poi si avventuri concretamente sul terreno empirico si scontra di continuo con scelte precise da operare, persino in breve lasso di tempo, senza far ricorso all’ausilio di una lunga e meditata riflessione. Il fare ricerca significa anche compiere continuamente degli errori di approccio, di interpretazione, di selezione, di orientamento. L’unica correzione possibile deriva allora dagli strumenti stessi e dalle procedure d’indagine mai definitivi ed immutabili. In realtà la ricerca prosegue proprio perché le approssimazioni raggiunte non soddisfano completamente e si esigono dati più probanti.

Specialmente per le storie di vita ogni incontro è un’esperienza completamente diversa dalle precedenti, anche se si tratta delle medesime persone. Quando poi il dialogo fra intervistatori ed intervistati si protrae abbastanza nel tempo sopravvengono modifiche anche sostanziali che impediscono ogni tentativo di cristallizzazione di un caso o di un fenomeno sia individuale che di gruppo. Allora non è più una singola storia di vita che si conosce e si analizza, ma è anche quella del ricercatore nel periodo della sua ricerca, nonché quella di entrambi gli interlocutori in modo del tutto contemporaneo, sincronico, dunque con un continuo intreccio fra diacronico e dato immediato, fra passato e momento presente, fra ieri e oggi.

Un’indagine svolta in una borgata atipica di Roma ha messo in rilievo numerosi fattori interagenti fra loro, con un’articolata rete di variabili dipendenti ed indipendenti, così fitta da sconvolgere continuamente alcuni assunti di volta in volta definiti. Pur rimanendo in piedi l’impianto generale d’indagine, numerose sono state le variazioni apportate in seguito a fatti sempre nuovi, che hanno condotto a cambiamenti di rotta continui, a dimostrazione dell’imprevedibilità completa di un itinerario di lavoro sul campo.

Nel nostro caso si trattava di esaminare la dinamica dei valori a livello familiare utilizzando come parametro di riferimento, cioè come gruppo di controllo, un insieme socio‑abitativo con caratteri diversi rispetto alla borgata oggetto del nostro studio. L’ipotesi era che i quadri conoscitivi di tipo piccolo borghese influenzassero anche le famiglie a carattere proletario.

La verifica è stata condotta attraverso l’opera di coppie di ricercatori, di solito e preferibilmente insieme un uomo ed una donna, che seguissero una sola famiglia nel corso di tutta l’inchiesta.

Tali coppie hanno lavorato d’intesa con tutto il gruppo di ricerca, cui hanno reso conto dei risultati acquisiti e delle difficoltà sopravvenute. L’intento era di mettere insieme le storie individuali e quelle familiari mediante una lunga frequentazione dei singoli nuclei.

Le vicende della ricerca sono state alterne e coronate da successi ed insuccessi, sempre parziali, ma comunque con la convinzione di una praticabilità della proposta.

In verità il tentativo di un approfondimento polidisciplinare è stato portato avanti più dai docenti‑ricercatori guida che non da tutti gli altri, anche in considerazione del fatto che alcuni usi tecnici delle storie di vita non sono ancora ben definiti ed omogenei.

Ogni intervista ha avuto la durata media di circa mezz’ora e vedeva i due membri dell’équipe impegnati in ruoli separati ma convergenti: l’uno svolgeva le mansioni di interrogante mentre l’altro registrava tutta la parte non captabile o riproducibile col magnetofono. Alla fine di ogni incontro si è poi steso un verbale, con una sorta di sceneggiatura di tutto quanto avvenuto.

Il protocollo dell’intervista con le parziali tranches de vie veniva poi tricotomizzato secondo il sistema SVC, cioè sentito, visto, commentato. Pertanto una prima colonna del protocollo comprendeva la trascrizione molto fedele di tutte le espressioni orali intercorse, accompagnate ‑ laddove possibile ‑ da annotazioni sommarie circa il tono del parlare, le eventuali esitazioni, l’imbarazzo o la verve nell’esposizione, le riprese improvvise, le sottolineature non richieste, le interpretazioni ricorrenti. Molte questioni relative alla trascrizione sono state risolte in modo semplice ma non semplicistico, senza giungere all’eccesso del conteggio cronometrato delle pause, dei silenzi, degli imbarazzi.

Una seconda colonna rappresentava una specie di sceneggiatura piuttosto particolareggiata, con dettagli anche insignificanti su tutto l’accaduto nel corso dell’intervista, o fuori registrazione, o fuori del luogo di svolgimento dell’incontro. Specialmente quando tutti i componenti il nucleo familiare erano presenti all’intervista, questa seconda colonna è stata riempita in modo esorbitante rispetto alla norma, proprio in seguito all’aumento del flusso di interazioni intercorrenti in ambito familiare.

La terza parte riguardava il commento dei ricercatori rispetto alle prime due colonne del sentito e del visto. Quest’ultima colonna è la più significativa nell’ottica della ricerca polidisciplinare. In essa infatti si cimentano le conoscenze di studiosi con diversa estrazione e formazione al fine di fornire una chiave di lettura plausibile rispetto ai contenuti presenti. Qui naturalmente possono essere numerose le interferenze dei ricercatori, ma appunto la situazione trans‑individuale dovrebbe consentire un reciproco controllo e la messa in comune di esperienze e competenze non univoche.

Soprattutto nella prima fase di stesura del rapporto di indagine, la terza colonna è stata utilizzata per una lettura in chiave socio‑psicologica al fine di individuare i fondamentali rapporti di tipo interpersonale e le dinamiche relazioni fra i membri del nucleo. Ciò si è reso necessario precisamente agli inizi, onde capire i sistemi di dipendenza‑indipendenza esistenti ed eventualmente condizionanti lo stesso momento della raccolta dell’intervista di storia di vita (39).

I singoli sono stati ascoltati sia da soli sia in compagnia degli altri familiari, in modo da tarare il peso dell’influenza personale. Ma indubbiamente i momenti sociologicamente più rilevanti sono apparsi quelli in cui tutto l’insieme familiare si è mosso attorno al registratore impossessandosi della situazione e assumendo in essa vari ruoli.

Qui è emerso chiaramente il carattere straordinario della condizione di intervista, con un flusso continuo di identità e coercizione dei ruoli, secondo quanto ha suggerito acutamente Bernd Neumann in un suo saggio del 1970, in cui dimostra come ogni racconto di tipo autobiografico sia in gran parte «figlio del tempo» nella totalità della situazione storica e sociale.

In tale passaggio la dimensione personale, ampiamente considerata nel primo approccio, si diluisce per dar luogo a più consistenti analisi sul piano sociologico, senza dimenticare altresì il dato contingente della storia. In effetti ogni storia di vita ‑ come ci ricorda ancora Neumann ‑ «descrive la maniera specifica in cui il suo autore partecipò e partecipa all’insieme sociale». Tale insieme è tendenzialmente repressivo ed impositivo sicché «la personalità autonoma nel senso di eccezionalità creativa fu sempre il privilegio dei pochi». Né è da ritenere che qualcuno di questi privilegiati si possa trovare facilmente fra i residenti di una borgata proletaria.

Naturalmente permane il problema della «verità» di una storia di vita, ma paradossalmente essa è tanto più vera in senso sociologico quanto più è «costruita», falsa sul piano reale. Infatti come la fantasia è estranea alla realtà così anche ogni autobiografia conserva una certa distanza dalla realtà vissuta. Essa documenta non i fatti, ma ricorda il «vissuto» ed il «sentito». Alla documentazione dei dati può provvedere la storia, ma alla veridicità o falsità di una serie di episodi e fenomeni può provvedere lo stesso esame delle interviste, giacché proprio nella summenzionata terza colonna è possibile avanzare ipotesi di volta in volta verificabili o confutabili, ma anche porre il problema relativo alle motivazioni che presumibilmente stanno alla base di una particolare narrazione non rispondente alla realtà degli avvenimenti.

L’obiettivo che si persegue con l’esame delle storie di vita familiare è di scoprire quali siano le strutture portanti delle relazioni sociali e della diffusione di particolari modelli conoscitivi e normativi. Pure un’indagine sulle relazioni simboliche rintracciabili nelle storie di vita ‑ seguendo l’esperienza di Catani (40) ‑ rappresenta un aspetto di particolare importanza non eludibile in modo superficiale e da collegare strettamente con uno studio specifico delle strutture linguistiche, da «inseguire» eventualmente sin nelle pieghe di un idioma dialettale magari urbanizzato.

Infine la scelta di considerare l’insieme familiare come significativo si raccorda senza difficoltà alla proposta di Bertaux di usare storie di vita nello stesso settore di relazioni socio‑strutturali ma soprattutto risponde alle esi­genze messe in luce da Ferrarotti (41) quando propone di raccogliere storie di vita di gruppo.

Dopo averlo discusso, si può tentare un recupero di Oscar Lewis qui in chiusura, richiamando e condividendo con lui l’idea che solo le biografie di intere famiglie possono dare l’unità finale ed il punto iniziale per poter comprendere esattamente un contesto sociale da descrivere ed interpretare.

Conclusione
Una lunga diatriba sembra ormai avviata a conclusione, quella sulla plausibilità scientifica dell’analisi qualitativa, da sempre contrapposta alla quantitativa, ritenuta sovente più affidabile, fondata e convincente.

Ma intanto c’è voluto quasi un secolo, periodo nient’affatto trascurabile nella ancor breve esistenza della disciplina sociologica, per vedere riconosciuta la legittimità dell’approccio qualitativo alla pari di quello quantitativo.

Senza dover stare una volta di più a citare e commentare la Nota metodologica che introduce Il contadino polacco in Europa e in America di W. I. Thomas e F. Znaniecki, opera che risale al 1918, basterà invece sottolineare il fatto che a tanti anni di distanza perdura tuttora l’effetto Blumer, cioè il giudizio piuttosto negativo espresso dal padre dell’interazionismo simbolico in merito alla debolezza della metodologia thomas-znanieckiana (42).

Ad esempio Gianni Losito (43), peraltro meritoriamente impegnato da tempo nel campo della teoria e della pratica della content analysis, si sofferma a ripetere le già note riserve di Blumer del 1939 ma non tiene conto della rivisitazione proposta dallo stesso sociologo statunitense assai più tardi, quasi alla vigilia della sua scomparsa, in forma – si direbbe – di testamento sociologico sul valore dell’analisi biografica.

Losito scrive che Blumer “ebbe ad osservare che le testimonianze individuali raccolte ed analizzate da Thomas e Znaniecki, per quanto tipiche, non hanno alcuna rappresentatività statistica, che le modalità di selezione del materiale documentario non soddisfano il requisito della sistematicità, che il procedimento con cui l’analisi è stata effettuata non dà sufficienti garanzie di oggettività, basandosi esclusivamente sulle capacità intuitive ed interpretative del ricercatore”.

Di suo Losito (44) aggiunge che il “materiale è stato sottoposto ad un’analisi di tipo qualitativo secondo modalità e procedure che non vengono esplicitate dagli autori, salvo a precisare che si è seguito un metodo induttivo tale da limitare, per quanto possibile, conclusioni arbitrarie” (Losito, 1993: 14).

In tutta franchezza occorre riconoscere che il problema metodologico delle storie di vita è tuttora aperto ed in attesa di risposte convincenti. Intanto però il soggetto autobiografico è ormai, finalmente, un protagonista sulla ribalta dell’approccio scientifico.

NOTE

1 – Cfr. M. WEBER, Il metodo delle scienze storico‑sociali, Einaudi, Torino 1958.

2 – Cfr. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965.

3 – Cfr. P. VEYNE, Come si scrive la storia, Laterza, Bari 1973.

4 – Cfr. W.I. THOMAS‑F. ZNANIECKI, Il contadino polacco in Europa e in America, Comunità, Milano 1968.

5 – Cfr. C. CORRADI, Metodo biografico come metodo ermeneutico. Una rilettura de «Il contadino polacco», Angeli, Milano 1988.

6 – Cfr. H.A. SIMON, La ragione nelle vicende umane, Il Mulino, Bologna 1984.

7 – F. FURET, Il quantitativo in storia, in J. LE GOFF‑P. NORA (a cura di), Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, Einaudi, Torino 1981, p. 3.

8 – Ibid., p. 6.

9 – Ibid., p. 7.

10 – Ibid., p. 14.

11 – Cfr. E. NAGEL, La struttura della scienza. Problemi di logica nella spiegazione scientifica, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 574‑575.

12 – Cfr. R. CIPRIANI (a cura di), La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life history, Euroma‑La Goliardica, Roma, 1987.

13 – Cfr. F. FERRAROTTI, Storia e storie di vita, Laterza, Bari 1981.

14 – Cfr. H.W. GRUHLE, “Die Selbstbiographie als Quelle historischer Erkenntnis”, in AUTORI VARI, Hauptprobleme der Soziologie. Erinnerungsgabe für Max Weber, Munchen‑Leipzig 1923, vol. 1, pp. 157‑177.

15 – Cfr. R. CIPRIANI, Claude Lévi‑Strauss. Una introduzione, Armando, Roma 1988.

16 – Cfr. G. EISERMANN, “Soziologie und Geschichte”, in R. KONIG (Hrsg.), Handbuch der empirischen Sozialforschung, Enke Verlag, Stuttgart 1969, vol. I.

17 – E. H. CARR, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, p. 73

18 – Cfr. C. PONTECORVO (a cura di), Storia e processi di conoscenza, Loescher, Torino 1983.

19 – Cfr. O. HINTZE, Staat und Verfassung: gesammelte Abhandlungen zur allgemeinen Verfassungsgeschichte, Göttingen 1962; nonché Zur Theorie der Geschichte. Gesammelte Abhandlungen, Leipzig 1942.

20 – L. BULFERETTI, “Introduzione alla storiografia”, in AUTORI VARI, Introduzione allo studio della storia, Marzorati, Milano 1974, vol. I, p. 61.

21 – Ibid., p. 63.

22 – Ibid.

23 – Ibid.

24 – Cfr. G. GALASSO, Sociologia e storiografia, in AUTORI VARI, Nuovi metodi della ricerca storica, Marzorati, Milano 1975, pp. 253‑282.

25 – Cfr. F. BARBANO, Scienza sociale e storia, sociologia e storiografia: percorsi e situazioni, in AUTORI VARI, Introduzione allo studio della storia, Marzorati, Milano 1975, vol. II, pp. 233‑350.

26 – G. GALASSO, Sociologia e storiografia, cit., p. 258.

27 – Ibid., pp. 270‑271.

28 – Ibid., p. 289.

29 – F. BARBANO, Scienza sociale ecc., cit., p. 279.

30 – Ibid., p. 295.

31 – Ibid., p. 327.

32 – D. TANSIR NIANE, Soundjata ou l’épopée mandingue, Paris 1960, p. II (citato da R. RAINERO, “Fonti orali e storiografia: il problema della storia dei popoli africani”, in AUTORI VARI, Introduzione allo studio della storia, cit., vol. II, p. 559). In proposito si vedano anche i contributi di J. VANSINA, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Officina, Roma 1976, e Oral Tradition and History, Madison University of Wisconsin, Madison 1985. Per una messa a punto dei rapporti fra storia e sociologia cfr. AUTORI VARI, Histoires et sociologues auiourd’hui. Journée d’études annuelles de la Société Française de Sociologie (Université de Lille I, 14‑15 giugno 1984), CNRS, Paris 1986.

33 – Cfr. O. LEWIS, I figli di Sanchez, Mondadori, Milano, 1966.

34 – Cfr. G. TARDE, L’opinion et la foule, Paris, 1901.

35 – Cfr. I. F. GOODSON, P. SIKES, Life History Research in Educational Settings, Open University Press, Buckingham, 2001; A. ALBERICI (a cura di), Educazione in età adulta. Percorsi biografici nella ricerca e nella formazione, Armando, Roma, 2000; D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.

36 – Cfr. A. SCHUTZ, La fenomenologia del mondo sociale, il Mulino, Bologna, 1974.

37 – Cfr. P. L. BERGER, T. LUCKMANN, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969.

38 – Cfr. E. ERIKSON, Young Man Luther, Norton, New York, 1958.

39 – Cfr. R. CIPRIANI (a cura di), La metodologia delle storie di vita, Euroma-La Goliardica, Roma, 199., III ed., pp. – .

40 – Cfr. M. CATANI, S. MAZE, Tante Suzanne ou l’histoire de vie sociale et du devenir d’une femme, Librairie des Méridiens, Paris, 1982.

41 – Cfr. D. BERTAUX (ed.), Biography and Society. The Life History Approach in the Social Sciences, Sage Publications, Beverly Hills-London, 1981; F. FERRAROTTI, Storia e storie di vita, Laterza, Bari, 1981.

42 – H. BLUMER, An Appraisal of Thomas and Znaniecki’s “the Polish Peasant in Europe and America”, Social Science Research Council, Bulletin, 44, 1939.

43 – G. LOSITO, L’analisi del contenuto nella ricerca sociale, FrancoAngeli, Milano, 1993, p. 13.

44 – G. LOSITO, op. cit., p. 14.

IL SISTEMA CONOSCITIVO INTERPERSONALE A LIVELLO PERIFERICO E CENTRALE COME BASE DELL’IMPEGNO SOCIALE DI DON GUANELLA A ROMA

Roberto Cipriani


Premessa


            L’impegno sociale e religioso di don Luigi Guanella nella città di Roma è il frutto di una lunga gestazione portata avanti grazie a contatti, frequentazioni, letture e scritti, che hanno dato motivazione e contenuto all’agire solidaristico del Nostro.


            Ormai fiumi di inchiostro e di parole sono stati versati in campo storico, psicologico, psicologico-sociale, sociologico ed antropologico per sottolineare l’importanza della socializzazione ai fini degli sviluppi che può avere la vita di una persona. Ognuno di noi è condizionato dall’educazione ricevuta in famiglia (soprattutto dai propri genitori) particolarmente nel primo lustro di esistenza. Si aggiunge poi il reticolo delle esperienze formative scolastiche e di quelle vissute insieme con il gruppo dei pari in età.


            E però su un terreno già così predisposto intervengono ad un certo punto situazioni, circostante, contingenze ed  incontri che imprimono una svolta decisiva ad un ciclo di vita. Talvolta non è una sola persona a rappresentare il turning point, l’occasione maestra e l’arco di volta di un intero impianto biografico. Può capitare che siano più soggetti ad esercitare un’incidenza strategica, prevalente rispetto ad altre forme di influenza ideologica, etica e religiosa.


La “rete” di don Guanella


            Il futuro don Luigi Guanella è passato anche lui attraverso un processo che lo ha posto in relazione con altri, coetanei o di età maggiore della sua, grazie ai quali ha cercato la sua collocazione di ruolo, il suo spazio di inserimento nella comunità locale contingente (territoriale e/o associativa), il suo compito nella società in generale ed in quell’organismo assai peculiare che è la chiesa cattolica nel caso specifico.


            In assenza di una piena consapevolezza iniziale, avviene di solito che qualunque evento, ogni individuo e ciascuna istituzione possono intervenire ad aumentare stimoli, a favorire propensioni e ad esaltare propositi.


            Nel complesso gioco di azioni e reazioni, ed anche di retroazioni, si inseriscono elementi sia intenzionali che non intenzionali. Un fattore rilevante è dato dal livello di partecipazione alla società di appartenenza, alla classe sociale di riferimento, al sistema morale di ispirazione, ai valori di base che orientano il proprio atteggiamento ed il conseguente comportamento.


            Numerosi sono gli agenti di socializzazione che operano nel corso della vita di una persona. Alcuni vengono definiti primari perché fondano la personalità di base di un uomo o di una donna, altri hanno un carattere secondario, che si direbbe aggiuntivo ma che in realtà poi non risulta meno orientativo perché concorre all’attribuzione di una competenza di ruolo ed alla costruzione di una conoscenza della realtà pur sempre orientate allo scopo dell’agire.


            Ormai si tende ad evitare di soppesare il contributo effettivo dell’una o dell’altra agenzia di socializzazione. Ed anzi si preferisce parlare di un’azione di rete, quasi di una prospettiva “sinfonica”, “corale”, dovuta ai diversi processi di socializzazione messi in atto in contemporanea od in successione di tempo, ma sempre con effetti ben visibili, specialmente a lungo andare.


            Insomma, per dirla in breve ed in termini espliciti ed esemplificativi, la “costruzione sociale” di un protagonista della scena storica italiana tra fine Ottocento ed inizio Novecento quale è stato don Luigi Guanella non è il precipitato fortuito di una sola vicenda personale e/o interpersonale ma di un vero e proprio sistema di influssi ed accettazioni come pure di prese di distanza ed opposizioni, in definitiva con un equilibrio continuamente instabile fra conservazione ed innovazione.


            In tutto questo interagiscono differenti eppur convergenti dimensioni: umane, conoscitive, affettive, etiche, relazionali ed ideali.


            Appunto l’idealità è uno dei punti di attracco che si trasformano poi in base di partenza per ulteriori azioni dell’individuo nella società. La stessa propensione alla solidarietà è un esito il cui contenuto – non privo di una buona dose di utopia – deriva dalla concezione della società come un corpo unitario, in cui gli individui sono legati da rapporti solidali, reciproci ed utili sia al singolo che al consorzio sociale. Carità e solidarietà appaiono dunque in stretto rapporto fra loro.


            Tale discorso può valere anche per il concetto di beneficenza, attualmente deformato da pre-concezioni che ne svalutano il contenuto sussidiaristico, mettendo da parte come inefficaci o velleitari ogni agire altruistico e qualunque forma di aiuto concreto nei riguardi di chi si trovi in situazione di necessità.


            Invero la solidarietà può estrinsecarsi anche in forme più consolidate, organizzate, efficaci ed efficienti. Non a caso l’opera di don Guanella, come quella di don Bosco, di don Orione, di don Piamarta e di altri ancora, mirava a porre insieme vari soggetti che condividessero un medesimo ideale di aiuto, da porgere agli altri mediante iniziative opportunamente calibrate, magari anche scientificamente orientate, pastoralmente avvedute e comunitariamente condivise. L’obiettivo comune era la promozione umana e sociale di tutti gli esseri umani, al di là dei particolarismi ed in un’ottica universalistica, in chiave di giustizia, di pacificazione, di attenzione agli emarginati, di supporto agli svantaggiati, di ridistribuzione dei beni.


            In fondo, come ha sostenuto Pierpaolo Donati (1997), la stessa solidarietà sociale è un “mezzo simbolico generalizzato”, che ha connotazioni diverse, di tipo politico, economico, associativo ed intersoggettivo. Ma questo non è vero solo per la società post-moderna di oggi giacché trova conferma nell’azione medesima di un precursore come don Guanella che coniugava insieme i vari elementi, facendo della carità solidale un messaggio metapolitico di fatto – persino metaconfessionale si potrebbe sostenere -, nella misura in cui egli si caricava dei problemi della specifica porzione di umanità incontrata, indipendentemente dalle collocazioni personali e dalle preferenze ideologiche dei suoi interlocutori. Insomma il suo era un “fare il bene per il bene”.


            A seguito dei vari processi di socializzazione che un individuo sperimenta nel suo percorso biografico egli rende sempre più stabili le sue inclinazioni, le sue modalità tipiche di azione, i suoi sentimenti, le sue disposizioni d’animo ed i suoi pensieri. Le norme di comportamento vengono dunque interiorizzate e proposte anche agli altri, al fine di migliorare la solidarietà interpersonale.


            Non va però dimenticato che nel corso dei secoli, nel passaggio da una generazione all’altra, alcune caratteristiche culturali permangono abbastanza stabili e costellano l’agire di gruppi specifici, ivi compresi quelli di matrice religiosa. Non desta dunque meraviglia che anche don Luigi Guanella risponda – per certe sue prese di posizione e per certe opzioni di natura socio-politica – ai dettami tipici della sua formazione a livello conoscitivo, linguistico, etico, confessionale e socio-politico.


Solidarietà e carità


            Lo stesso valore della solidarietà se proviene in larga misura dall’esperienza familiare trova altresì conforto nel quadro della formazione religiosa cattolica e nel riferimento al mondo del lavoro, tanto caro al Nostro. In pratica pure don Guanella interiorizza i valori della sua classe sociale di appartenenza.


            In realtà però non va visto nulla di deterministico in tutto ciò, giacché rimane sovrana la volontà dell’individuo, con la sua capacità di adattamento, di flessibilità, di revisione e di riaggiustamento, che tiene conto delle istanze reali di volta in volta presenti. In questo anche don Guanella mostrava la sua autonomia operativa e decisionale, scegliendo in proprio, senza molte deleghe ad altri, specie nei momenti cruciali. Insomma prevaleva la soluzione del problema, rispetto a qualche resistenza dovuta ad abitudini contratte e giudizi previi. Non si spiega altrimenti la grande capacità del beato di immedesimarsi in situazioni anche tragiche, divenendo un esempio per altri, fra cui lo stesso don Luigi Orione (incontrato a Roma nel 1903 e beatificato nel 1980 da Giovanni Paolo II), in occasione del terremoto della Marsica, come documentato da Peloso (2003: 16): ““Il Signore mi ha dato grazia di molto patire su codesta terra: essa fu bagnata da tante lacrime, ma avevo allora avanti a me un vero santo, il servo di Dio Don Luigi Guanella, accorso anche lui benché settantenne, con l’attuale Vescovo Mg.r Bacciarini sui luoghi del disastro, che pure ebbero a patire, m’insegnarono nel patire con Cristo come si amino e si servano Gesù Cristo, la Chiesa””.


            Anche una prima, sommaria, perlustrazione storico-sociologica di documenti e pubblicazioni che parlano di don Guanella porta a rilevare significative presenze intellettuali che attraverso il filosofo-“sociologo” don Giacomo Sichirollo riconducono a Giuseppe Toniolo (Toniolo 1952-1953) ed attraverso don Giovanni Bonsignori riportano al professor Stanislao Solari ma anche a don Giovanni Piamarta. Per non dire delle influenze decisive esercitate da don Giovanni Bosco e da don Giovanni Battista Scalabrini. Una trattazione a parte meriterebbe poi la frequentazione di don Guanella con don Luigi Orione – vissuto dal 1872 al 1940 -, peraltro abbastanza nota e compulsata (Peloso 2003).


            Queste prime indicazioni fanno intuire già molto, ma ancor più fanno comprendere i dettagli di un sistema conoscitivo interpersonale di prim’ordine, sia a livello locale che centrale/romano. Tale impianto di natura reticolare si rafforza vieppiù con il passare del tempo e pone le premesse ideologiche e finanziarie per la costruzione di un’impresa caritativo-religiosa che ancora oggi, ad oltre cento anni dall’avvio dell’esperienza, produce frutti ben evidenti.


            Del resto la storia della carità in Italia non può prescindere dal cattolicesimo e dalla sua influenza decisiva a tal riguardo. Anzi appare singolare che sinora nessuno studio sistematico sia stato dedicato all’argomento, nonostante il fatto che già da lungo tempo vi siano state autorevoli sollecitazioni in proposito.


            Valga per tutti il contributo di Giuseppe Toniolo, che intervenendo al Troisième Congrès Scientifique International des Catholiques, tenutosi a Bruxelles dal 5 all’8 settembre 1894, diceva che “la carità presso di noi fu sempre… fortemente religiosa nelle sue fonti, nei suoi organi e nei suoi aiuti; e, per questo motivo, essa fu soprattutto ecclesiastica” (Toniolo 1895: 6). E poi aggiungeva: “ma questa beneficenza religiosa in Italia si esprime anche con un carattere eminentemente sociale” (Toniolo 1895: 8). In effetti “però, proprio per il suo carattere religioso e sociale, la carità ha avuto sempre, in Italia, una funzione educativa per eccellenza, cioè essa fu sempre per noi un fattore del progresso intellettuale della nazione” (Toniolo 1895: 12). Pertanto, in definitiva, “scrivere la storia della carità in Italia sarebbe un atto meritorio di religione” (Toniolo 1895: 16).


            L’obiettivo del proto-sociologo italiano era invero quello di riuscire a contrastare “la nuova invasione barbarica del socialismo” (Toniolo 1895: 17). Questo tuttavia era lo scotto che l’intellettuale pisano doveva pagare alla temperie contingente della sua epoca. Resta di fatto incontestabile la sua chiara visione della realtà, cioè del vissuto concreto di tanti italiani impegnati in azioni di carità, ispirate per lo più dalle loro specifiche credenze religiose.


Un intellettuale sui generis fra centro e periferia


            Dopo quanto premesso sinora dovrebbe risultare agevole comprendere da dove può nascere il forte impegno sociale profuso in particolare a Roma da don Luigi Guanella. Molto si deve al ruolo della socializzazione ricevuta, come esperienza continua ed incisiva, che lo conduce da ultimo ad essere una sorta di intellettuale della solidarietà e della carità, in pari tempo “periferico”, cioè attento ai bisogni del singolo contesto locale (da Pianello Lario nel Comense, sua prima fondazione, a Berbenno, sua ultima opera, nella provincia di Sondrio), ma anche “centrale” (ed organico, in senso gramsciano, alla chiesa cattolica), cioè preoccupato di altre situazioni non conosciute in precedenza (come nel caso specifico di Roma o della Marsica). In pratica il Nostro utilizza quasi uno strabismo intellettuale nella misura in cui guarda al suo particolare ma anche alle necessità di ordine generale. Il suo darsi da fare, non certo a caso, muove da presupposti ben soppesati, che gli consentono di mettere in piedi e di seguire qualcosa come novanta opere dal 1881 al 1915, in trentacinque anni, con una media dunque di tre iniziative per ogni anno. E nel frattempo i suoi Servi della Carità arrivano al numero di centodieci (di cui quarantacinque sono sacerdoti), mentre le Figlie di Santa Maria della Provvidenza toccano quota cinquecentoquindici. Questi risultati non si raggiungono facilmente se non vi è una progettualità orientata allo scopo e se non si operano le scelte opportune nei momenti e nei luoghi giusti. Il che è un chiaro indicatore di una capacità che si potrebbe definire, per le sue caratteristiche speciali, come quella di un intellettuale che si muove su due piani paralleli e di fatto convergenti: è un intellettuale “semi-periferico” in quanto non si limita a tenere d’occhio l’ambito localistico ma è pure un intellettuale “semi-centrale” in quanto guardando al centro della cattolicità non perde d’occhio la sua attività diffusa nei singoli contesti ed anzi si avvale della sua capacità di contatti a livello alto per potere poi farla fruttificare al meglio a tutto vantaggio delle sue iniziative sparse sul territorio.


            Questa duplice categoria della centralità e della perifericità è stata anche oggetto di un accurato schema teorico proposto qualche anno fa dal sociologo statunitense Edward Shils, conferenziere scientifico per Giovanni Paolo II a Castelgandolfo e vincitore di quello che è considerato il premio Nobel per le scienze sociali. Shils per esemplificare il suo approccio parlava degli strati della cipolla, come metafora del rapporto fra centro e periferia. Orbene la “cipollinità”, per così dire, sarebbe una caratteristica che lega i vari strati fra loro, per cui ciascuno di essi può essere al tempo stesso periferico rispetto al centro del bulbo ma a sua volta anche centro rispetto agli strati successivi.


            Le categorie shilsiane sono perfettamente applicabili al caso qui in esame. Il centro ha potere ed autorità mentre la periferia è, di solito, senza tali connotati ed anzi risulta destinataria del loro esercizio da parte del livello centrale. Ma in concreto anche la periferia può rivestirsi, almeno in parte, di panni non marginali ed usufruire dei benefici provenienti dalla centralità. Il che può avvenire anche per motivi che si legano al carisma personale ed alla forza della tradizione che si instaura e si mantiene anche attraverso forme strutturate. A loro volta le stesse strutture centrali rappresentano un elemento coesivo.


            Illuminante quanto mai è peraltro la definizione di Shils a proposito degli intellettuali: “vi sono delle persone dotate di una inconsueta sensibilità per il sacro e di una riflessività non comune intorno alla natura del loro universo e delle regole che governano la loro società. Esiste, in ogni società, una minoranza di persone che, più di quanto avviene nel giro ordinario dei loro simili, sono indagatrici e desiderose di sentirsi in frequente comunione con simboli che sono più generali delle immediate situazioni concrete della vita di ogni giorno e di riferimento più remoto quanto al tempo e allo spazio… Tale intima esigenza di penetrare al di là dello schermo dell’esperienza concreta ed immediata segna l’esistenza degli intellettuali in ogni società” (Shils 1984: 125-126).


            Inoltre “l’unità morale e intellettuale di una società, che per densità di popolazione ed ampiezza di territorio trascende ciò che ogni uomo singolo può conoscere per mezzo della sua esperienza media di prima mano e che lo porta in contatto con persone esterne al suo gruppo di parentela, deve fare assegnamento su certe istituzioni intellettuali come le scuole, le chiese, i giornali e altre strutture del genere. Per mezzo di esse, le persone comuni, nell’infanzia, nella giovinezza o nella loro maturità, si pongono in contatto, per quanto non stretto, con coloro che hanno maggior dimestichezza col corpo esistente dei valori culturali. Attraverso la predicazione, l’insegnamento e gli scritti, gli intellettuali infondono in quel settore della popolazione, che non sono intellettuali né per intima vocazione né per ruolo sociale, una percettività e un repertorio di immagini di cui sarebbero, altrimenti, del tutto prive” (Shils 1984: 128). Ma, per completezza di discorso, “non è soltanto attraverso la presentazione degli orientamenti verso i simboli generali che riaffermano, continuano, modificano o respingono l’eredità tradizionale di credenze e di standards della società che gli intellettali lasciano la propria impronta sulla società. Gli intellettuali non esauriscono la loro funzione con lo stabilire un contatto per il “laicato” con i valori sacri della loro società. Essi adempiono le loro funzioni autoritative e miranti all’esercizio del potere anche su azioni concrete” (Shils 1984: 131).


            Ed infine non è da trascurare il fatto che “l’attività intellettuale scaturì da preoccupazioni religiose” (Shils 1984: 142). Peraltro “un’efficiente collaborazione fra gli intellettuali e le autorità che governano la società rappresenta un’esigenza per l’ordine e le continuità nella vita pubblica e dell’integrazione nella società delle più ampie sfere del “laicato” (Shils 1984: 149).


Figlio della chiesa e di molti intellettuali


            La figura di don Luigi Guanella, intellettuale “a mezzo servizio” fra centro e periferia del cattolicesimo italiano, è ben definibile come quella di un degno figlio della sua chiesa ma anche dei numerosi intellettuali che costellano, con contaminazioni varie, il suo reticolo di legami, amicizie, letture, pubblicazioni periodiche e non, libri di edificazione (a partire da quella spirituale, in vista però e/o a sostegno di quella più concreta, cioè un’opera stabile, un ricovero, un asilo, una casa, un oratorio, un ospizio, una chiesa, un istituto, una colonia, insomma una varietà multiforme di proposte e di iniziative mirate).


            Attorno a lui si crea un’atmosfera, un’aura, che fa risuonare in ogni sua azione l’eco or dell’una or dell’altra influenza recepita. Tutto ciò si deve al knowledge network, al reticolo conoscitivo, o meglio al sistema di riferimento conoscitivo a rete praticato dal beato don Luigi, non immemore degli insegnamenti ricevuti e delle suggestioni offerte dai suoi numerosi interlocutori, diretti od indiretti, intraecclesiali od extraecclesiali, dal procuratore redentorista della provincia romana e postulatore della causa di canonizzazione di san Gerardo Maiella, padre Claudio Benedetti (1841-1926) – a Roma, nel 1906 -, al minore francescano neo-tomista e fondatore dell’Università Cattolica di Milano, padre Agostino Gemelli (1878- 1959) – nel 1907, su indicazione di Pio X -, a don Romolo Murri (1870-1944), poi sospeso divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909.


            Per rintracciare i vari riecheggiamenti sparsi nelle pubblicazioni di don Guanella occorrerebbe condurne una meticolosa analisi del contenuto, per risalire alle fonti ispiratrici di questo o quel passaggio, di qualche espressione peculiare, di una bella immagine metaforica o di un richiamo teologico. Probabilmente da una disamina del genere emergerebbero altri elementi significativi e qualificanti, che si andrebbero ad aggiungere alle sue frasi ben note (come “pane e Signore”), alla sua sincera propensione per l’universalità, al suo amore per i santi più attenti alle classi umili come san Francesco (1181-1226) (Guanella 1924), san Rocco (1295-1327) e san Girolamo Emiliani (1486-1537) (Guanella 1930), alla sua gioia quale uomo di Dio – sul carattere salvifico del sorriso ha scritto acutamente qualche tempo fa pure il sociologo statunitense di origine mitteleuropea Peter Berger (1997, 1999)-.


            Sullo sfondo di questa intensa trama e di questo fitto ordito si pone come motivo ricorrente la cosiddetta questione sociale che il Nostro affronta da par suo con un’intraprendenza coraggiosa e non priva di enfasi retorica ed utopica, tenuta eventualmente a bada secondo le circostanze date e gli obiettivi da raggiungere. Forse anche per questo è possibile ipotizzare un don Guanella “mutante” a Roma, cioè indotto a tenere conto di convenienze ed usi, di protocolli e procedure, dunque a dismettere almeno in parte la sua abituale condotta pur senza contravvenire alle sue convinzioni di base.


            Roma è un luogo paradossale per un sacerdote (lo hanno detto anche alcuni santi): dovrebbe essere un posto ideale dove esercitare qualunque attività religiosa eppure fattori di varia natura creano ostacoli a dismisura e mettono a dura prova anche il pastore d’anime più tenace e convinto. Ebbene la scelta di don Guanella di interessarsi di inabili al lavoro, derelitte, “buone figlie” e “deficienti” non sembra trovare molti consensi. Anche la sua Opera non viene approvata subito a livello ecclesiastico. La Curia Romana oppone qualche resistenza che si estrinseca in rinvii a lungo termine. Le stesse Figlie di Santa Maria della Provvidenza vedono la loro approvazione solo nel 1909, quando sono giunte ad essere quattrocentoquarantuno.


            Neanche i politici del tempo appaiono molto disponibili nei confronti del fondatore dell’Opera, il quale se ne lamenta apertamente. Alcuni decenni dopo farà lo stesso un altro don Luigi, animatore instancabile della Caritas diocesana romana: più volte, infatti, don Di Liegro negli anni ottanta e novanta del secolo scorso ha tuonato contro l’insensibilità delle pubbliche amministrazioni.


            Guanella ha avuto un amore tutto particolare per la città di Roma, sin dalla sua prima visita avvenuta nel 1888, ma già undici anni prima ne aveva espresso il desiderio all’amico e confidente don Giovanni Bosco. Per don Luigi Roma era sempre “la nostra Roma, la Roma del nostro cuore, la nostra Gerusalemme, a cui si pensa e si sospira come al Cielo!”. Ecco perché diceva: “noi siamo venuti a Roma e ci sentiamo benedetti. A Roma, sotto lo sguardo del Padre comune tutte le opere di Dio fioriscono e prosperano. Sì, sì, noi siamo lieti di essere a Roma…”. Ed ancora affermava nel 1903: “noi siamo in Roma chiamativi dalla Divina Provvidenza, et hic manebimus optime”.


Lo sviluppo della rete conoscitiva


            La tela dei rapporti che don Guanella intesse dapprima fra Lombardia e Piemonte e più tardi fra Centro e Nord Italia si costruisce e si disfa senza soluzione di continuità giacché il Nostro difficilmente si ferma a lungo in una medesima località. Il suo continuo girovagare in Italia ma anche all’estero (Palestina e Stati Uniti) gli facilita le possibilità di espansione della sua Opera ma gli consente pure di confrontarsi con altri punti di vista, con altri vissuti, con esperienze diverse, in un tourbillon vorticoso, senza sosta.


            Quando nel 1859 e nel 1860 Luigi Guanella si trova nel Collegio Gallio di Como ha come suo superiore Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), successivamente vescovo di Piacenza nel 1876, incline alla risoluzione della “questione romana” senza infrangere l’unità italiana, favorevole alla partecipazione politica dei cattolici e soprattutto fondatore di missioni cattoliche e di opere di sostegno concreto per gli italiani emigrati all’estero. A queste prospettive universalistiche farà riferimento don Guanella quando andrà nel 1912 negli Stati Uniti e nel 1913 invierà delle suore missionarie a Chicago.


            Il primo contatto importante è con don Giovanni Bosco (1815-1888) a Torino, per un periodo di oltre tre anni (dal 1875 al 1878), relativamente lungo rispetto ad altre permanenze più ridotte. Il giovane Guanella è poco più che trentenne ed ancora alla ricerca della sua strada.


            La città di Torino, solo da qualche anno non più capitale d’Italia, è fortemente connotata dalla presenza di due Opere esemplari (e finitime anche per la localizzazione, a Valdocco), promosse in ordine di tempo da don Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) e da don Bosco. Don Luigi fa ricorso già da tempo proprio alla “Piccola Casa della Divina Provvidenza” del Cottolengo per farvi accogliere alcune persone in grave disagio. Appare opportuno segnalare che il nome stesso di quest’Opera torinese rifluirà anche nella dizione di un’analoga iniziativa guanelliana a Roma, la “Casa della Divina Provvidenza”, nonché della “Piccola Opera della Divina Provvidenza” fondata nel 1903 da don Luigi Orione (un altro discepolo di don Bosco), il quale affiderà alla sua congregazione femminile i “Piccoli Cottolengo”, per l’accoglienza delle situazioni più gravi, anche all’estero.


            A Como avrà inizio nel 1886, per iniziativa di don Guanella, l’“Opera della Divina Provvidenza”. Inoltre la stessa istituzione femminile guanelliana avrà come nome “Figlie di Santa Maria della Divina Provvidenza”, le cui costituzioni verranno approvate definitivamente nel 1917, dopo il decretum laudis del 1908 (il ramo maschile guanelliano, detto dei “Servi della Carità”, lo otterrà nel 1912, con approvazione definitiva nel 1928).


            Il capoluogo piemontese è per don Guanella come un rifugio, ma questo periodo di socializzazione soprattutto al metodo salesiano assume pure un’importanza fondamentale per il seguito della sua attività.


            Don Giovanni Bosco si fida molto di don Luigi, gli dà la direzione di un oratorio e di un collegio e nel 1876 riesce a fargli avere una benedizione autografa di Pio IX. Due anni dopo don Guanella si trasferisce in Valtellina, a Traona, ma mantiene contatti con don Bosco, cui invia un resoconto mensile delle sue attività, manifestando così il suo desiderio di rimanere legato al mondo dei salesiani.


            Nel 1881 don Luigi va via anche da Traona e viene destinato ad Olmo di Chiavenna, in montagna, per poi passare in novembre a Pianello Lario, dove eredita un ospizio fondato dal defunto don Carlo Coppini.


            Si reca poi a Como, dove inizia una fervida attività che lo porta nel 1890 anche a Milano, Qui nel 1894 apre una “Pia casa dei poveri” presso il convento di Sant’Ambrogio ad Nemus. Ma Milano è appena una tappa del cammino tormentato che alla fine lo fa pervenire a Roma, “capitale del mondo dalla quale parte ogni benedizione”. L’attività nell’urbe inizia ufficialmente nel 1903 e di fatto si protrae sino all’anno della morte, il 1915. In tutto questo turbinio di iniziative e di trasferimenti da un posto all’altro, don Guanella scrive vari volumetti e conduce esperimenti per migliorare le culture agricole. Interviene nella palude di Pian di Spagna presso Sondrio (Robbiati 1988: 173-216), tentando di bonificarla e di impiantarvi una colonia agricola (Nuova Olonio), nei primi anni del Novecento. Si interessa anche dell’impostazione neofisiocratica sviluppata da don Giovanni Bonsignori a Remedello, non lontano da Cremona.


            Non sempre il Nostro trova accoglienza e disponibilità. A fronte degli avversari, ecclesiastici e laici, confratelli ed amministratori pubblici, massoni e socialisti, egli usa – specie nei primi anni – un linguaggio non cordiale ma poi è in grado di assumere pure un atteggiamento meno severo negli scritti popolari, agiografici, spirituali, educativi. Anche questo è un aspetto peculiare della personalità guanelliana.


            Osteggiato da qualche superiore e considerato un tempo un “sorvegliato speciale” sarà poi stimato da personalità di rilievo (vescovi e cardinali) egli diventa un protagonista del cattolicesimo italiano di fine Ottocento e guarda anche lontano, verso la Svizzera e verso gli Stati Uniti, in chiave di “universalità” della chiesa.


            Messa a freno la generosa tendenza ad una “globalità” dei suoi interventi è costretto a ridurre la sfera delle sue azioni, ma agli inizi del Novecento non manca di preoccuparsi dei terremotati di Messina e di quelli della Marsica. Invero il suo cuore continua a battere in particolare per Roma, in modo sempre più continuativo e fattivo, fino alla morte.


            A monte della sua generosa presenza in tante parti d’Italia vi è tutta una serie di frequentazioni di ogni genere che lo mettono in contatto con tanti esponenti di chiesa e non, i quali lo sorreggono con le loro idee, i loro consigli, le loro spinte all’agire.


            Non è facile stabilire un ordine cronologico di questo sciame di influssi che orientano il dinamico Fondatore. In alcuni casi l’occasione è sporadica se non unica, in altri casi invece il  contatto permane a lungo, fino al compimento del percorso esistenziale di uno dei due interlocutori.


            Non va sottovalutato neanche il peso di un’influenza lontana, indiretta, magari senza alcuna conoscenza reciproca fra i soggetti in collegamento. Questo è il caso di un primo elemento di continuità che si viene a creare a Pianello Lario nel 1881, quando don Guanella succede a don Carlo Coppini (1827-1881), già volontario nella guerra di indipendenza del 1848 e segretario-scrivano di Giuseppe Mazzini a Lugano. Don Coppini muore il primo luglio 1881. La successione è difficile. Don Luigi riesce a fare di Pianello Lario (presso il lago di Como) un centro fondamentale della sua azione caritativa, ancora oggi attivo. Vi resta e non dimenticherà mai questa prima esperienza positiva, dopo le delusioni, le incomprensioni e le ostilità patite a Prosto, Savogno, Traona ed Olmo di Chiavenna.


            Un’amicizia solidale lega don Guanella a don Davide Albertario (1846-1902), propugnatore di un’azione organizzata dei cattolici italiani e di una particolare attenzione alle massi popolari rurali, arrestato nel 1898 come sovversivo e campione dell’intransigentismo cattolico contro lo stato italiano. Questo sacerdote-giornalista è direttore del quotidiano L’Osservatore Cattolico di Milano fondato nel 1864 da monsignor Carlo Caccia Dominioni, molto impegnato a favore dei colpiti dal colera nel 1836, direttore dell’Oratorio dell’Istituto Patellari per le figlie pericolanti, antirosminiano ed antigiobertiano, fautore della soppressione del giornale Il Conciliatore (Robbiati 1978) evescovo ausiliare di Milano dal 1853, nonché dal 1859 vicario episcopale sede vacante,costretto – dopo una tentata aggressione subita in Duomo – a rifugiarsi a Monza dove viene piantonato per le sue idee “con il Papa e per il Papa” (Ambrosoli 1972: 782-784).


            Don Albertario è un acceso polemista che abbandona le “affezioni liberalesche contratte a Pavia” in seminario e segue il dettame “né eletti né elettori”(1864) di don Giacomo Margotti (1823-1877) – a sua volta fautore di opere di carità, avverso a Cavour e vittima di un’aggressione (perdonata) nel 1856, eletto deputato nel 1857 ma dichiarato in eleggibile per “abuso di armi spirituali”, fondatore e direttore a Torino, dal 1848 al 1863, del quotidiano L’Armonia della religione con la civiltà,cui collabora Rosmini, e ridenominato nel 1863, per volontà di Pio IX e con un’impostazione più moderata, L’Unità Cattolica (pubblicato poi a Firenze dal 1870 fino all’ottobre del 1929)-.


            Don Davide sceglie in seguito la formula propugnata da L’Osservatore Romano della “preparazione nell’astensione” ed infine si schiera contro Leone XIII. Don Albertario è attaccato da vescovi e laici transigenti e si contrappone a Rosmini ed a padre Giovanni Semeria (1867-1931), più tardi fondatore dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno.


            Giova tuttavia ricordare che lo storico Leo Valiani apprezza don Davide se non per altro almeno per il fatto che non è contrario all’esistenza di associazioni socialiste. Del resto Albertario finisce in carcere a Milano insieme con noti esponenti socialisti, tra cui Filippo Turati. Un altro storico, Ernesto Ragionieri (1976: 1847), completa il quadro osservando come “fu già significativo che la persecuzione contro il movimento cattolico si indirizzasse esclusivamente contro la sua ala intransigente, quasi una pressione per convincerla della necessità di far parte del blocco antisocialista”. Di fatto i giornali aboliti o sospesi dal governo Di Rudiní risultano essere 62 socialisti e 25 cattolici.


            Ma intanto anche don Giacomo Sichirollo (1839-1911), filosofo neo-tomista (Sichirollo 1897) e quasi sociologo, storico ed apologista, fondatore – nel 1900 – del giornale diocesano “la Settimana” (pubblicato tuttora), attacca il padre Semeria(Sichirollo 1904), si lascia dapprima convincere dalle idee di don Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e poi lo combatte. Don Giacomo è grande amico e sapiente mentore di don Luigi Guanella e legatissimo a Giuseppe Toniolo (1845-1918) che lo considera una sorta di maestro nazionale, in quanto particolarmente sensibile fra l’altro alla questione sociale ed al tema della carità.


            Con don Sichirollo il professor Toniolo, docente di Economia Sociale nell’ateneo pisano, intesse una corrispondenza epistolare (Toniolo 1943; 1952-1953: I, 122-124, 178-180; II, 185, 330-332; III, 50-51, 73-77, 159-160), che in alcuni casi è diretta congiuntamente a monsignor Enrico Bonincontro, anch’egli di Rovigo. Ed ecco una testimonianza abbastanza eloquente della stima di Toniolo per Sichirollo, al quale scrive in data 11 gennaio 1989: “(e lo dico a gloria di Dio) il dono più grande è per me quello di aver stretta la sua relazione, da cui tanto mi resta da imparare soprattutto per ciò che fa la vera sapienza. Ma poiché dunque la sua dottrina penetra i campi anco della sociologia e delle scienze coordinate, non manchi anco per l’avvenire di confortare me e la nascente associazione dei suoi consigli e scritti” (Toniolo 1952-1953: I, 122); il riferimento alla “nascente associazione” concerne l’Unione Cattolica per gli Studi Sociali in Italia. L’anno successivo e precisamente il 10 settembre del 1890, invitandolo ad un incontro, arriva a dirgli: “qui in Pisa, io le offro la mia modesta ospitalità” (Toniolo 1952-1953: I, 179). E così il sociologo pisano definisce un’opera di Sichirollo: “bellissimo libro della democrazia” (Toniolo 1952-1953: II, 185).


            Toniolo quando non scrive direttamente a Sichirollo ma a monsignor Bonincontro non manca di riferirsi pure a don Giacomo, come nella lettera del 7 agosto 1906, che comincia con queste parole: “Illustre professore, Ritorno a ringraziarla, insieme all’inseparabile amico Sichirollo (di cui vorrei notizie) e a tutti i buoni amici laici, in testa il Merlin, dei conforti che mi dettero, attuando ciò che era nei miei voti per la ripresa della propaganda in pro dell’Unione popolare, la quale deve oggi più che mai rialzare il vessillo di un programma ampiamente sociale, e fedelmente cattolico papale”. Aggiunge poi, invitando alla prudenza fra le opposte posizioni dei cattolici dell’epoca: “camminiamo tra due fuochi” (Toniolo 1952-1953: III, 78). La lettera prosegue con affermazioni, idee e proposte che non sono particolarmente lontane dagli ideali di don Guanella in chiave di impegno sociale e di obbedienza al pontefice.


            Ancora in uno scritto a monsignor Enrico Bonincontro, datato come giorno di Pentecoste del 1905, il professor Toniolo si riferisce a Sichirollo: “ha veduto il mio volume Problema sociologico odierno? Gradirei che ella e il Sichirollo me ne dicessero il parere” (Toniolo 1952-1953: III, 41). Lo stesso dicasi a proposito di un’altra lettera a Bonincontro, successiva di qualche mese, “riservatissima” e datata 19 novembre 1905. Lo spunto proviene dall’apprezzamento rivolto dal cardinale Merry del Val ai partecipanti al III Convegno Giovanile Diocesano di Rovigo (29 ottobre 1905, sotto la guida di Paolo Pericoli, presidente nazionale della Gioventù Cattolica), durante il quale non sono state accolte le posizioni del Murri: “avrà già letto nei giornali la lettera del card. Merry del Val. Sarebbe superfluo che io mi congratulassi con loro (intendo in modo speciale di lei e del prof. Sichirollo) del ben meritato onore e conforto” (Toniolo 1952-1953: III, 55). Il riferimento a don Giacomo ritorna anche nella conclusione: “i consigli di lei e del Sichirollo mi torneranno preziosi. E più ancora le preci!” (Toniolo 1952-1953: III, 56).


            Dello stesso epistolario fanno parte alcune missive a don Albertario per uno “sfogo dell’animo” (Toniolo 1952-1953: II, 317) e pure a don Romolo Murri, specialmente fra il 1897 ed il 1903, ma un numero maggiore di lettere concerne il conte Stanislao Medolago Albani.


            Sichirollo è come don Luigi sia un antesignano che un fondatore (Romanato 1991). Vive ed insegna nel seminario di Rovigo. Nel marzo 1883 istituisce a Padova la Società Cattolica Universitaria (nel medesimo anno a Roma vi provvede Paolo Pericoli). Svolge un’intensa attività di conferenziere (Sichirollo 1903; 1915) e polemista agguerrito, specie in difesa di istituti ed insegnanti privati nonché di preti (Sichirollo 1892a; 1892b). Pubblica Conferenze sulla Democrazia Cristiana (Sichirollo 1898). Cultore di lettere classiche e di studi umanistici detta l’epigrafe per l’Ospizio romano di San Pancrazio, dedicato da don Guanella a Pio X. Don Giacomo è assistito sul letto di morte dal Nostro, che non può intervenire ai funerali ma solo al trigesimo. Nell’elogio funebre per commemorare l’anniversario della morte di Sichirollo non vi è tuttavia alcun accenno a don Guanella (Rosa 1912). Dal testo del discorso si evincono comunque alcuni elementi significativi. Innanzitutto Sichirollo ha un approccio pedagogico simile a quello di Vittorino da Feltre, dunque in chiave di “Accademia giocosa” (Rosa 1912: 7). Appresso viene ricordata la polemica con il professor Tullio Tentori, autore di due articoli sul giornale Adriatico in data 27 e 28 settembre 1892 (Rosa 1912: 8), nonché quella con il padre Semeria (Rosa 1912: 9). Viene infine sottolineata la “devozione verso il Pontefice” (Rosa 1912: 14), tratto quest’ultimo che accomuna molto Sichirollo e don Guanella. Ma forse la citazione che merita maggiormente di essere qui ripresa è quella contenuta nelle Conferenze sulla Democrazia Cristiana (Sichirollo 1898: 166-167), che parla di un profondo sentimento verso i poveri: “non mi vergogno, o fratelli, così Mons. Sichirollo, di farvi qui in pubblico una confessione. Certo tutti noi c’incontriamo sempre in poveretti che ci fan compassione, e ci fan sentire al cuore un bisogno imperioso di dar quel che possiamo a loro sollievo. Ma non è da molto ch’io ho avvertito una cosa, che avrei dovuto avvertire molto prima. Lì, nella svolta della contrada che ci sta di fronte, ogni mattina si mette, come pietosa statua, sdrucito, gramo e quasi cieco, un povero vecchio. Ogni volta che gli faccio la carità, son portato irresistibilmente a stringergli la mano. Quella stretta mi fa sentire un dolce tremito, che mi discende fino all’intimo del cuore, onde mi sorge, subitaneo più che il lampo, un movimento di venerazione per quel vecchio; un bisogno, non di stringergli soltanto la mano, ma di baciargliela teneramente, d’inchinarmi dinanzi a lui in un’attitudine di divozione. E domando a me stesso, perché tal sentimento non avessi provato io mai nello stringere la mano di persone ricche, per quanto fossero degne e care, la voce mi rispondea: – perché sotto i cenci di quel poverello la ragione ti fa vedere le dignità umane non coperte di fittizie spoglie; la ragione insieme e la fede ti fan vedere e sentire il fratello, la fede poi sola, ma con una potenza sovrumana, ti fa vedere in quel poverello, come in persona, il Dio dell’universo -. E conchiude: Fratelli, se mi sentite commosso nel leggervi questa pagina, non vi meravigliate: ho pianto quando la scrissi” (Rosa 1912: 14). Qui la vis polemica del conferenziere si stempera in un atto dolcissimo, umile, di grande rispetto verso l’indigente, il sofferente, il senescente. Del resto “lo conoscevano i bisognosi ed i poveri cui egli segretamente dava quanto più potea, accompagnando la sua carità con le più tenere e delicate espressioni” (Rosa 1912: 13). Don Guanella, appartenente ad una famiglia molto numerosa (14 persone) e studente in collegio solo grazie ad una borsa di studio, non può non tenere conto di un modello così alto e convincente qual è il Sichirollo (Ciavarini 1936) che nella dedica delle Conferenze sulla Democrazia Cristiana (Sichirollo 1898) dice: “godo di sentirmi scorrere nelle vene il sangue d’un operaio” (Rosa 1912: 15). Anche oggi il Sichirollo viene ricordato con riconoscenza, in particolare a Rovigo dove l’Accademia dei Concordi gli ha dedicato un apposito convegno il 20 ed il 21 novembre 1989, a centocinquant’anni dalla nascita.


            Il tema della carità sociale è un motivo ricorrente nel pensiero e nell’azione di Giuseppe Toniolo che in una lettera da Pisa il 14 aprile 1890 così scrive a monsignor Giuseppe Callegari (Toniolo 1952-1953: I, 158): “ma non è conveniente, che i cattolici, modestamente ma francamente, anche a casa nostra, in nome della fede, e della salute sociale, e ad onor della patria, formino il loro programma, che non può essere che quello della carità?”. Cita poi le opere meritorie di don Bosco, del Cottolengo, di padre Leonardo da Casoria, cioè Arcangelo Palmenteri (1814-1855), fondatore dei Frati della Carità (detti Bigi) e di ospizi a Napoli, Roma ed altrove (Capecelatro 1887). Qualche giorno più tardi, alla vigilia della grande novità rappresentata dalla prima celebrazione pubblica della festa del lavoro il primo maggio 1890, scrive allo stesso Callegari per parlare di “carità nell’ordine sociale” (Toniolo 1952-1953, I, 160).


            Ancora il Toniolo (1952-1952: I, 161) sostiene: “sta bene si affermi che la carità ha la sua funzione nella vita sociale, rigorosamente dimostrata dalla scienza: guai chi la disconoscesse, o la mutila e sopprime! che le leggi non varranno senza l’ufficio coordinato e completivo della carità, che infine di fronte alla crisi sociale, che minaccia prorompere, spetta alla Chiesa la parte suprema nello scioglimento di essa, e ciò principalmente pel ministero della carità”. Il 21 maggio 1890 il sociologo pisano scrive al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, parlando ancora una volta di “carità nella vita sociale” (Toniolo 1952-1953: I, 168).


            Giuseppe Toniolo non evita le questioni più problematiche, che affronta direttamente: “non trattasi di negare o sminuire le sofferenze delle classi inferiori specialmente campagnole anche fra noi. I cattolici anzi devono essere i primi a riconoscerle e a reclamare provvedimenti non solo a titolo di carità ma anco di giustizia”. Ciò scrive a don Giuseppe De Bonis il 29 ottobre 1893, da Pisa (Toniolo 1952-1953: I, 313).


            Lo stesso don Guanella ha uno spirito da umile lavoratore, da contadino. Egli comprende la rilevanza dell’agricoltura sia in quanto fatto economico sia in quanto strumento di riscatto sociale od anche in quanto occupazione quotidiana che possa dare senso ad esistenze altrimenti prive di scopi e di interessi, come nel caso dei disoccupati e dei soggetti considerati “derelitti” per molteplici ragioni (economiche, fisiche, sanitarie, mentali, culturali).


            Non meraviglia affatto l’attenzione che il Nostro dedica ai neo-fisiocratici ed alle loro dottrine ed applicazioni pratiche. L’impostazione di questa corrente di pensiero, che rappresenta una ripresa di teorie economiche sviluppatesi nella seconda metà del Settecento, è fondata sulla convinzione che la natura ha un suo ordine che va seguito per ottenere i migliori risultati possibili. Segnatamente l’agricoltura garantisce la possibilità di creare ricchezza attraverso la produttività della terra. Per questo, ad esempio, sarebbe sufficiente aggiungere sali minerali nella coltivazione delle leguminose ed azoto per le altre piante al fine di raggiungere esiti ottimali.


            Di ciò è profondamente convinto un sacerdote orginario della provincia di Brescia, don Giovanni Bonsignori (1846-1914), contemporaneo di don Guanella ed autore di volumi teorici di polemica socio-politica (Bonsignori 1905) e di testi pratici di agricoltura (Bonsignori 1898). L’invito rivolto da don Giovanni è di non emigrare negli Stati Uniti ma di fermarsi in Italia a coltivare i propri terreni, migliorandone la redditività con le tecniche innovative proposte dai neo-fisiocratici.


            Bonsignori dal 1881 è anche parroco a Pompiano (Brescia), dove dà buona prova di imprenditorialità agricola, usando una macchina per lavorare tra i filari di granoturco, rendendo disponibili gli essiccatoi pubblici ed impiantando un caseificio. Nel 1898 passa a Remedello, ancora in provincia di Brescia, ed inizia l’esperienza più importante, quella di una colonia agricola, che diventerà un modello esemplare da seguire, sia da parte di don Guanella che di altri.


            Bonsignori non si muove da solo lungo questi nuovi sentieri di attività agricola e religioso-pastorale insieme. Suoi riferimenti essenziali sono don Giovanni Piamarta (1841-1913) e l’agronomo genovese Stanislao Solari (1829-1906), il quale è fautore di una coltivazione razionale e va a visitare Remedello.


            Bonsignori crede molto nelle “cattedre ambulanti di agricoltura”, si reca fino in Sicilia ed ottiene vari riconoscimenti per le sue realizzazioni: una medaglia d’argento dal Ministero dei Lavori Publici nel 1905, la nomina a Cavaliere del Lavoro nel 1906, mille lire nel 1915 ed una medaglia d’oro a Como nel 1915 per benemerenze filantropiche.


            Un neo-fisiocratico è un altro salesiano, don Carlo Maria Baratta (1861-1910), autore di un saggio su Solari (Baratta 1909), di una pubblicazione sul canto gregoriano (Baratta 1905a) e di un altra sul tema della solidarietà (1905b).


            Non molto dissimile è l’azione condotta dal Piamarta, grande organizzatore di attività giovanili e particolarmente sensibile alle esigenze della formazione professionale. La sua opera più nota è l’“Istituto Artigianelli” di Brescia che fornisce maestranze ben preparate all’industria. Ma si occupa pure di agricoltura e contribuisce, insieme con don Bonsignori, all’acquisto di un terreno a Remedello, poi sede dell’“Istituto Bonsignori”. I risultati non mancano, dopo il difficile inizio nel 1886 con quattro ragazzi presi dalla strada ed allocati in due casupole. A don Giovanni Piamarta sono dedicate due documentate biografie che ne illustrano ampiamente vita ed opere (Felici 1951; Fossati 1973).


            Ma c’è ancora un’altra figura bresciana da aggiungere alla schiera dei neo-fisiocratici. Si tratta di monsignor Pietro Capretti (1842-1890), polemista (Anonimo s. d.), amico di penna del vescovo di Cremona monsignor Geremia Bonomelli (1831-1914) (Fappani s. d.) e co-fondatore, insieme col Piamarta, di un’opera per i chierici poveri.


            Per molteplici motivi uno snodo principale del sistema di riferimento conoscitivo a rete praticato da don Guanella è senza dubbio monsignor Giacomo Maria de’ Radini Tedeschi (1857-1914), vescovo di Bergamo, il cui segretario Angelo Giuseppe Roncalli (in seguito papa Giovanni XXIII) ne ha tracciato un’appassionata biografia (Roncalli 1916). Radini Tedeschi si lascia coinvolgere nelle questioni sociali e politiche del suo tempo, diventa vice presidente dell’Opera dei Congessi (Casella 1970) e prende posizione in modo chiaro, esprimendo il suo punto di vista sull’azione pastorale della chiesa (Radini Tedeschi 1897). Nel 1902 promuove e presiede un pellegrinaggio in Palestina (Radini Tedeschi 1904a; 1904b), in occasione del quale incontra don Guanella, cui nella basilica di san Pietro, nel maggio del 1903, offre di prendere possesso della colonia agricola di “San Giuseppe degli stracciaroli”, già tenuta da don Luigi Orione e colpita da un incendio il 16 febbraio 1903.


            Radini Tedeschi non è digiuno di studi sociologici, è un noto “conciliatorista”, stima molto sia il Toniolo che Stanislao Medolago Albani (1852-1921). Quest’ultimo rappresenta l’Italia all’Unione Cattolica di Studi Sociali di Friburgo, che di fatto prepara la Rerum Novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, . Dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X il 30 luglio 1904, Medolago Albani condivide con Toniolo e con il bergamasco Nicolò Rezzara l’esperienza dell’Unione economico-sociale (che raccoglie 2432 cooperative e società di mutuo soccorso e diviene in effetti la continuazione della seconda sezione – chiamata dapprima “carità ed economia cattoliche” e poi “economia sociale cristiana” – dell’Opera dei Congressi, fondata nel 1875). Pure con Toniolo ed insieme con il presidente della Gioventù Cattolica Paolo Pericoli (1859-1943), romano, Medolago Albani cura l’organizzazione dell’Unione popolare, in vista dell’ingresso dei cattolici nella vita politica.


            Si discute, fra gli storici, sul contributo reale offerto dalla riflessione dei cattolici italiani alla preparazione dell’enciclica leonina (alcuni studiosi invero la considerano molto più attenta all’apporto franco-belga). Nondimeno è evidente che la Rerum Novarum dà una nuova rotta al cattolicesimo italiano, specialmente con il superamento di vecchie formule per l’azione caritativa e con l’invito rivolto ai lavoratori agricoli a contribuire al miglioramento dei terreni. Don Guanella non può non risentirne, attento com’è alla voce del papa. D’altra parte neanche la lezione del Toniolo, sensibile alle condizioni delle classi popolari, può sfuggirgli. Il sociologo trevigiano di origine e pisano di adozione resta un intransigente eppure spinge per un approccio più sociale. Lo fa proprio attraverso l’Unione Cattolica per gli Studi Sociali in Italia, fondata a Padova nel 1889 insieme con Medolago Albani, presidente della già citata seconda sezione (la più dinamica) dell’Opera dei Congressi ed “uno dei maggiori propugnatori, allora, dell’apertura internazionale e dell’impegno sociale dei cattolici italiani” (Ragionieri 1976: 1790).


            Medolago Albani è particolarmente intraprendente e crea  nel 1910 una Scuola sociale cattolica a Bergamo, per offrire una solida formazione dottrinale e professionale ai militanti, ivi compresi gli assistenti ecclesiastici dell’Azione Cattolica.


            Il clima dell’epoca favorisce entusiasmi e coinvolgimenti straordinari, le cui origini sono “innanzitutto le doti personali di dedizione e di abnegazione al servizio di ciò che loro appariva come la causa di Dio, perché il movimento cattolico, prima di essere un movimento d’ispirazione politica, fu un movimento religioso, il quale dimostrò che, nonostante il carattere superficiale della religione di molti italiani e l’indifferentismo scettico assai diffuso nel mondo intellettuale, c’erano ancora, in particolare nel Nord, delle solide riserve di vitalità cristiana… Ma bisogna anche ascrivere a merito degli animatori del movimento cattolico il loro senso dell’organizzazione sul piano locale, che ne fece in Italia dei precursori, la consapevolezza che avevano dell’importanza dei corpi intermedi tra l’individuo e lo Stato centralizzatore, il loro interesse per la stampa popolare e soprattutto la preoccupazione di una parte di loro di opporre alla “legge di ferro” dell’economia liberale una sociologia cattolica, che guardasse alle esigenze della morale e dei diritti della persona umana, come pure la preoccupazione correlativa di non compromettere, agli occhi delle classi lavoratrici, la Chiesa con la borghesia al potere” (Aubert 1977: 117). A questo punto Aubert, storico belga dell’Università di Lovanio, cita il caso esemplare di don Albertario, ma nulla impedisce di poter applicare i contenuti di questa citazione al caso don Guanella, tanto sono puntuali i riferimenti utilizzabili ai fini della disamina che qui stiamo conducendo.


            A dire il vero, però, l’azione di don Luigi ha più un carattere religioso e sociale che non politico, differenziandosi in questo dal suo amico don Albertario. In altri termini i suoi modi ed i suoi obiettivi non confliggono mai apertamente con le istituzioni. Le rimostranze sono tenute a freno, di solito. Non può essere altrimenti per uno che pensa al bene per il bene in sé. Qualche eccesso nella sua espressività riguarda più il male che intende attaccare e non invece la persona.


            I tempi in cui vive don Guanella non sono certo facili sia per le divaricazioni fra chiesa e stato, sia per le conflittualità interne alla chiesa stessa ed ai cattolici italiani. Gli capita dunque di prendere contatto con i soggetti più diversi, intransigenti come lui oppure conciliatoristi, cioè transigenti. E tratta con gli e con gli altri senza particolari difficoltà, si chiamino monsignor Radini Tedeschi o don Albertario.


            A livello locale, a Como o a Milano, a Pianello Lario come a Roma, i suoi tentativi mirano ad un unico traguardo: “pane e Signore”, in pratica benessere materiale e spirituale insieme. Ma non tutto procede come vorrebbe. Perciò deve muoversi tra ostacoli e differenze, fra ostilità e resistenze.


            Al momento della sua ordinazione sacerdotale, la diocesi di Como non ha un vescovo, dopo la morte di monsignor Giuseppe Marzorati nel 1865. Don Guanella viene ordinato da monsignor Bernardino Maria Frascolla (1811-1869), vescovo di Foggia, messo agli arresti nel castello di Como e posto successivamente sotto sorveglianza nel seminario teologico della stessa città, perché accusato di aver tramato contro l’unità d’Italia. Il vescovo pugliese in esilio stima molto don Guanella e lo ordina diacono nel febbraio del 1866 e sacerdote nel maggio dello stesso anno. Monsignor Frascolla è persona assai pia e trasmette a don Luigi un insegnamento esemplare di rettitudine e di rigore sacerdotale. Amnistiato prima della fine del 1866, torna dapprima nella natia Andria in provincia di Bari ed infine a Roma, dove muore appena tre anni dopo.


            Intanto la diocesi di Como è ancora senza il suo vescovo, che giunge solo nel 1872, nella persona di monsignor Pietro Carsana (1814-1887), bergamasco, intransigente, che ottiene l’exequatur del re solo quattro anni dopo, nel 1876. Nel frattempo è costretto a rimanere nel seminario teologico senza mai prendere possesso del suo episcopio. Due anni dopo la regolarizzazione della sua posizione, monsignor Carsana richiama don Guanella in diocesi.


            Sotto l’ordinariato di monsignor Carsana, il Nostro si reca in un primo momento a Traona, in provincia di Sondrio. A seguito di avversioni politiche locali, don Guanella deve trasferirsi, per ordinanza vescovile, ad Olmo di Chiavenna nel 1881. Ma proprio nel 1881, come già ricordato, muore a Pianello Lario don Coppini e don Guanella lo va a sostituire. Nel 1887 monsignor Carsana muore e gli succede, nel 1888, il milanese monsignor Luigi Nicora, che si spegne nel 1890 senza aver ricevuto il regio exequatur.


            Una svolta importante nella vita di don Guanella è la visita che rende, a Castiglione delle Stiviere, nel giugno del 1891 al nuovo vescovo eletto di Como, monsignor Andrea Ferrari (1850-1921). In tale occasione incontra pure il vescovo di Mantova, monsignor Giuseppe Sarto (1835-1914), successivamente patriarca di Venezia ed infine papa Pio X (1903-1914). Questa occasione ha un carattere davvero cruciale perché mette insieme tre figure eminenti dell’epoca. Nasce in questa data la profonda amicizia fra il futuro papa Sarto ed il Nostro. L’ingresso a Como come vescovo di monsignor Andrea Ferrari ha luogo alla fine del 1891. Si è nell’anno della Rerum Novarum. Tre anni dopo, nel 1894, il Ferrari è arcivescovo di Milano.


            Nel 1902 l’arcivescovo di Milano va in pellegrinaggio in Terrasanta. Vi partecipa anche don Guanella. Questa pure è un’occasione propizia per don Luigi non solo per riprendere i rapporti con il cardinal Ferrari ma altresì per incontrare monsignor Radini Tedeschi, che poi nel 1903 gli affiderà la colonia agricola di San Giuseppe a Roma.


            La consonanza fra don Guanella ed il Ferrari si deve, fra l’altro, alla particolarità che l’arcivescovo di Milano è egli pure un uomo la cui carità è a tutta prova. E lo dimostra con l’accoglienza offerta alle opere guanelliane nella diocesi milanese. Un altro aspetto che lo mette in relazione con don Guanella è la sua dedizione all’annuncio della parola di Dio, alla predicazione.


            Un capitolo a parte è quello delle relazioni di don Guanella con i pontefici, anche attraverso le lettere inviate e ricevute. Nel 1876 egli chiede a Pio IX (1792-1846-1878) di benedirlo “più di tutto in quello che il Signore vorrà da me”. La benedizione autografa gli giunge, grazie anche a don Bosco, come già ricordato. Con il successore, Leone XIII (1810-1878-1903), non vi è la possibilità di un approccio a faccia a faccia, ma don Guanella va a Roma per videre Petrum in cinque diverse occasioni, rispettivamente nel 1888, nel 1890, nel 1893, nel 1902 e nel 1903 (nel venticinquesimo di pontificato); di papa Pecci in particolare apprezza l’attenzione alle classi umili, il forte senso di giustizia e la generosità nel fare donazioni di carità; e naturalmente non passa inosservata l’enciclica Rerum Novarum.


            Con Pio X, papa Sarto, il feeling è ampio ed incondizionato: gli parla di persona oltre una quarantina di volte; ha una grande dimestichezza con lui, anzi si potrebbe parlare di una vera e propria confidenza; accoglie Agostino Gemelli, inviatogli proprio dal papa; riceve incoraggiamenti vari ed a più riprese; ottiene una lettera commendatizia papale per recarsi negli Stati Uniti nel 1912; al suo arrivo a Roma nel 1903 don Guanella è aiutato molto dal pontefice in persona per poter avviare le sue opere; in particolare nell’udienza del 13 gennaio 1908 ottiene di poter costruire oltre Porta Trionfale la chiesa dedicata a san Giuseppe (un chiaro omaggio al nome del papa). Nell’archivio particolare di Pio X si trovano ventuno documenti riguardanti don Guanella (Dieguez 2003) ma se ne trovano pure altri, in collocazioni diverse


            La frequentazione con Benedetto XV (1854-1914-1922) è minore, ma non certo da trascurare per l’impatto che ha sul Nostro. Il successore di Pio X dice apertamente che intende incontrare don Guanella e poi gli abbuona il debito che aveva con il suo predecessore, Pio X. Sono tre le udienze pontificie che hanno luogo tra il 1914 ed il 1915. Vi è anche qualche documento, reperito da Alejandro Dieguez, nella corrispondenza relativa alla Segreteria di Stato, in particolare in data 23 febbraio 1915 (SdS, a. 1915, rub. 36, fasc. 9, prot. 4258, foglio 172 verso) ed in data 27 febbraio 1915 (SdS, a. 1915, rub. 36, fasc. 9, prot. 4258, foglio 174 recto verso): si parla dell’accoglienza per gli anziani terremotati della Marsica ed il pontefice elogia e benedice l’iniziativa di don Guanella. Avuta poi notizia della malattia che colpisce don Luigi il papa Benedetto XV vuole esserne informato almeno due volte ogni giorno. Alla morte di don Guanella, il 24 ottobre 1915, esclama: “è morto un santo”.


            Due giorni prima, il 22 ottobre, don Luigi Orione si è recato a Como al capezzale del suo amato confratello, suggellando con questo atto un’amicizia ed una condivisione di intenti che lungi dal creare forme di concorrenza o di gelosia diventano una testimonianza alta di reciproco apprezzamento, legittimato in seguito pure dalla chiesa stessa con la beatificazione di entrambi. Ma in verità quando don Guanella è in vita sono numerose le incomprensioni con la curia romana e con la sua rigida burocrazia.


            Prima di concludere sulla rete di conoscenze e di frequentazioni di don Guanella ci rimane un dubbio, relativo ad un personaggio romano meritevole di particolare menzione e del resto già citato: Paolo Pericoli. Costui è da ritenere senz’altro un protagonista nel panorama romano dell’epoca. Possibile che don Guanella non lo abbia incontrato? Che non abbiano mai discusso dei rapporti fra chiesa e strutture pubbliche? Che non abbiano mai avuto modo di conoscersi di persona? Eppure fra i due sono non pochi i punti di contatto.


            Innanzitutto Paolo Pericoli gode della fiducia dei papi, è un pioniere dell’Azione Cattolica ed in particolare della Gioventù Cattolica (di cui è presidente generale dal 1900 al 1922), entra a far parte dell’Amministrazione della Santa Sede, opera nel Circolo di San Pietro, fonda l’Opera della diffusione dei vangeli nonché l’Opera dell’assistenza religiosa e civile nell’agro romano, presiede il Tribunale della Città del Vaticano ed il Circolo di San Pietro. Già nel 1883 è segretario romano del Circolo Universitario Cattolico. Dopo i fatti di Milano del 1898 evita di contribuire alla crescita della conflittualità e propone una “doverosa sottomissione all’autorità”. Preoccupato delle tristi condizioni dei contadini, istituisce l’Opera dell’Assistenza Religiosa e Civile nell’Agro Romano. Nel 1901 propone la costruzione di un faro in onore di Alessandro Volta, che non è stato un anticlericale. Nel 1902 decide di partecipare da cattolico alla vita politica, viene eletto consigliere comunale di Roma, si dichiara contrario al divorzio ed esprime timori in merito al socialismo. Nel 1905, su nomina decisa da Pio X, entra a far parte del triumvirato per la messa a punto dello statuto dell’Azione Cattolica Italiana, insieme con Toniolo e Medolago Albani. Sposa la causa di un aperturismo moderato verso la Democrazia Cristiana. Come don Guanella, interviene a favore dei terremotati di Sicilia e Calabria nel 1908 e della Marsica nel 1915. Dopo il disastro della prima guerra mondiale fonda l’Unione Nazionale Reduci. Nel 1919 si dice d’accordo con Luigi Sturzo sull’aconfessionalità del Partito Popolare. Tiene inoltre a distinguere i ruoli della Società della Gioventù Cattolica Italiana e del Partito Popolare. Attraverso la Società della Gioventù Cattolica Italiana fonda nel 1906 la FASCI, Federazione delle Attività Sportive Cattoliche Italiane (il cui vero promotore è Fra’ Biagio delle Scuole Cristiane), nel 1910 la FATE, Federazione delle Associazioni Teatro Educativo (FATE) e nel 1916 l’ASCI, Associazione Scoutistica Cattolica Italiana; queste ultime due vengono poi sciolte dal fascismo rispettivamente nel 1926 e nel 1927. Istituisce Segretariati del popolo ed Unioni professionali. Decisa è la sua presa di posizione contro il fascismo, sin dal 1921. In particolare il 19 novembre 1921 come presidente della Gioventù Cattolica propone il “divieto assoluto ai soci di appartenere ai fasci e ai gruppi nazionalisti”. L’anno dopo è nominato presidente perpetuo della Gioventù Cattolica. Durante la seconda guerra mondiale si prodiga nell’assistenza a favore dei civili e dei militari.


Conclusione


            Il nostro excursus piuttosto sommario, sul sistema di riferimento conoscitivo a rete e sul sistema di rete a due livelli (locale/romano) praticati da don Luigi Guanella, non consente in questa sede di motivare e circostanziare in modo più approfondito la natura ed i contenuti di tanti legami del futuro beato con i suoi contemporanei e con i suoi confratelli religiosi di altri istituti (su quest’ultimo punto si veda il contributo di Alejandro Dieguez, che si ringrazia per l’attenta lettura del presente testo e per i preziosi suggerimenti forniti).


            Almeno un aspetto, però, preme sottolineare: quelle che sembrano contraddizioni, aporie, cioè incertezze fra posizioni opposte del Nostro, a ben guardare risulterebbero invece momenti diversi ma convergenti di una medesima linea comportamentale (Dieguez 2003). Detto altrimenti, quello che a noi oggi può apparire in netto contrasto pareva invece ragionevole a don Luigi, di volta in volta, caso per caso, fatti salvi alcuni suoi principi di base (fra cui l’obbedienza al pontefice e l’aura  sacrale di Roma).


            L’inesplicabile diventa allora esplicabile (e comprensibile) e soprattutto fa trasparire la dimensione umana e umanitaria del Fondatore dell’Opera don Guanella, che sulla questione sociale e sulla metodologia pedagogica ha non pochi dubbi e dunque si muove con cautela, cerca lumi, si aggiorna, si informa, si lascia ispirare, assume posizioni anche diversificate ma tutte orientate – almeno nelle intenzioni di base – a fare il bene degli altri, delle persone.


            Coglie dunque nel segno Michela Carrozzino (che ben conosce la vicenda biografica e spirituale di don Guanella) allorquando scrive, a ragion veduta, che “sullo sfondo del suo pensiero sta la “sollecitudine pastorale”, per la salus animarum, inculcatagli in seminario e appresa dalla prassi di tanti sacerdoti da lui conosciuti. Essa si esprime in tensione fra tradizione-iniziativa-adattamento e modernità” (Carrozzino 2003: 10). Pertanto da un lato c’è l’esperienza del pastore e dall’altra una serie di esempi (più o meno illustri) da seguire. L’una e l’altra conducono ad un mix sapiente e prudente che alterna tradizione e modernità, adattamento ed iniziativa, dunque statu quo ma altresì cambiamento.


            E se non bastassero queste valutazioni espresse da chi ha studiato adeguatamente il caso a posteriori, valgano comunque le stesse affermazioni di don Guanella a proposito dei problemi creati dai mutamenti in atto ai suoi tempi. “Ha poi quelli che si lagnano e dicono: che le macchine e le invenzioni arrecano disturbi e disagi. Certo che producono rivoluzione ma nella rivoluzione bisogna addarsi e questa rivoluzione avviene a poco a poco, convien tenerle dietro e regolarsene. Rivoluzione avviene in tutte le cose e appo tutti gli uomini. Non è una rivoluzione continua questa della terra materiale e della terra morale? Si dà rivoluzione sinché uopo è che nella chiesa il campo del combattimento sia aperto sempre. Ma intanto beato l’uomo che soffre e che combatte perché egli riceverà la corona di gloria, come il premio di virtù guadagnarsi maggiormente da chi ha maggior virtù di fede e fondamento più saldo di umiltà cristiana” (Guanella s.d.). Occorre dunque confarsi a ciò che cambia, seguire il corso del mutamento, convenire con la stessa rivoluzione in atto. Lungi dal rassegnarsi al vento del momento, l’azione migliore appare quella di seguirne il corso e di cogliere il destro al momento opportuno. Ritirarsi dall’agone non serve. Del resto la chiesa è sempre stata in campo contro avversari d’ogni genere. Ricordando il motto latino secondo cui la fortuna aiuta gli audaci don Guanella lo utilizza per spronare all’ardimento, non esente da sofferenze ma sorretto dalla fede e fondato sull’umiltà. Il linguaggio usato è un po’ paludato, talora pure ricercato, ma è tipico del tempo. Nondimeno proprio queste propensioni per una cultura del passato ma nel contempo questi slanci verso un futuro reso diverso dalle rivoluzioni del presente rendono don Guanella un personaggio da comprendere in tutte le sue sfaccettature, mettendo in guardia da luoghi comuni che ne hanno fatto un conservatore ad ogni costo, un guerriero del papa, un antistatalista, in definitiva un intransigente assoluto.


            In fondo la sua è una profezia applicabile anche a se stesso: “beato l’uomo che soffre e che combatte”. E, soprattutto, ancora una volta si dimostra, con il caso don Guanella, che gli opposti (o meglio quegli aspetti che vengono ritenuti tali) più che coincidere convivono. Appunto in questo è il limite ma anche la potenzialità del Nostro.


Riferimenti bibliografici


LUIGI AMBROSOLI, “Carlo Caccia Dominioni”, in AA. VV., Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1972, vol. 15, pp. 782-784.


ANONIMO (Pietro Capretti), La Nuova Italia e i vecchi zelanti, studi del sac. Carlo M. Curci. Brevi osservazioni e risposte di un prete bresciano, Brescia, G. Bersi e C., s. d.


ROGER AUBERT, “La chiesa cattolica dalla crisi del 1848 alla prima guerra mondiale”, in AA. VV., Nuova storia della Chiesa, Torino, Marietti, 1977, vol. 5/I, pp. 19-261.


CARLO MARIA BARATTA, Prime nozioni di canto gregoriano, Parma, Fiaccadori, 1905a (Scuola Tipografica Salesiana).


CARLO MARIA BARATTA, Solidarietà ed egoismo, Parma, Fiaccadori, 1905b.


CARLO MARIA BARATTA, “Il pensiero e la vita di Stanislao Solari, ricordi personali”, Rivista di Agricoltura, Parma, 1909.


PETER L. BERGER, Redeeming Laughter. The Comic Dimension of Human Experience,Hawtorne, N. Y., de Gruyter, 1997; ed. it., Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, Bologna il Mulino, , 1999.


GIOVANNI BONSIGNORI, L’America in Italia, Brescia, 1898.


GIOVANNI BONSIGNORI, Le insidie del positivismo e del socialismo svelate al popolo, Brescia, Tipografia e litografia Queriniana, 1905.


ALFONSO CAPECELATRO, La vita del P. Lodovico da Casoria, scritta dal card. Alfonso Capecelatro, Napoli, Tip. ed. degli accattoncelli, 1887; II edizione, Roma, 1893.


MICHELA CARROZZINO, “Don Luigi Guanella evangelizzatore nella Roma del primo Novecento”, L’Osservatore Romano, 27 novembre 2003, p. 10.


MARIO CASELLA, Mons. Giacomo Radini Tedeschi. L’Opera dei Congressi e il movimento cattolico romano (1890-1900), Roma, Herder, 1970.


Fortunato GIAVARINI, Mons. Giacomo Sichirollo. In appendice: Lettere inedite d’illustri scrittori, Rovigo, 1936.


ALEJANDRO DIEGUEZ, L’archivio particolare di Pio X. Cenni Storici e Inventario, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2003, pp. LIV+500.


ALEJANDRO DIEGUEZ, “Luigi Guanella”, in AA. VV., Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2003, vol. 60, pp. 240-242.


PIERPAOLO DONATI, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Roma, Anonima Veritas Editrice, 1997.


ANTONIO FAPPANI (a cura di), Monsignor Geremia Bonomelli e Monsignor Pietro Capretti; (epistolario), Brescia, Centro di Documentazione Cattolica, s. d.


ICILIO FELICI, Volo tra le fiamme: il servo di Dio padre Giovanni Piamarta, Brescia, Queriniana, 1951, seconda edizione.


LUIGI FOSSATI, P. Giovanni Piamarta; documentazioni e testimonianze. Il servo di Dio e le sue fondazioni, Brescia, Queriniana, 1973.


LUIGI GUANELLA, Eccolo il Signore! Nozioni agricolo-morali, manoscritto, documento trascritto da Gianmario Colciago dell’Archivio Guanelliano di Como, s. d. (prima del 1896), IV c 5, citato da ALEJANDRO DIEGUEZ, Don Luigi Guanella e le scuole professionali (1886-1915), Università Pontificia Salesiana-Facoltà di Scienze dell’Educazione, Roma, 1995-1996.


LUIGI GUANELLA, Un poverello di Cristo. S. Francesco d’Assisi: la vita, il terz’ordine ed il perdono, con regolamenti, indulgenze, rituale, pie pratiche, s. n., Como, 1924, pp. 337.


LUIGI GUANELLA, Luce di santi. S. Gottardo vescovo – S. Girolamo Emiliani – S. Rocco – S. Carlo Borromeo. Pii riflessi e preghiere di don Luigi Guanella, Como, Casa Divina Proovidenza, 1930, pp. 262.


FLAVIO PELOSO, “Don Luigi Guanella e don Luigi Orione: amici tra loro, padri per gli altri”, Messaggi di Don Orione, 112, 2003, pp. 5-34.


GIACOMO MARIA RADINI TEDESCHI, La mission du prêtre dans l’action catholique. Discours, Paris, 1897.


GIACOMO MARIA RADINI TEDESCHI, “Jerusalem”, itinerario in Palestina di Giacomo piacentino; ossia, Memorie del 2° Pellegrinaggio italiano in Terra Santa, Roma, Tipografia Artigianelli di San Giuseppe, 1904a.


GIACOMO MARIA RADINI TEDESCHI, Vade-mecum del Pellegrino in Terra Santa, Roma, Tipografia Artigianelli di San Giuseppe, 1904b.


ERNESTO RAGIONIERI, “La storia politica e sociale”, in AA. VV., Storia d’Italia. Volume IV. Dall’Unità a oggi, tomo terzo, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1976, pp. 1664-2734.


ANGELO ROBBIATI (a cura di), I periodici del movimento sociale cattolico lombardo (1860-1926), Milano, Vita e Pensiero, 1978, pp. 255.


ANGELO ROBBIATI, “Le colonie agricole: il caso di San Salvatore in Piano di Spagna (1900-1915)”, in AA. VV., L’opera di don Luigi Guanella. Le origini e gli sviluppi nell’area lombarda,. Atti del convegno di studio per il centenario della fondazione della Casa della Divina Provvidenza (Como, Villa Gallia, 25-27 settembre 1986), Como, 1988, pp. 173-216.


GIANPAOLO ROMANATO (a cura di), Chiesa e società in Polesine alla fine dell’800. Giacomo Sichirollo, Rovigo, Editrice Minelliana, 1991, pp. 452.


ANGELO GIUSEPPE RONCALLI, In memoria di mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi, Bergamo, 1916, pp. 485.


ITALO ROSA, In memoria di Mons. Giacomo Sichirollo. Discorso letto il 19 maggio 1912 nel primo anniversario della sua morte dall’avv. prof. Italo Rosa nella sala “Sichirollo” del Seminario Vescovile in Rovigo, Rovigo, Tipografia Sociale Editrice, 1912, pp. 1-16.


EDWARD SHILS, Centro e periferia. Elementi di macrosociologia, Brescia, Morcelliana, 1984.


GIACOMO SICHIROLLO, Lettera aperta del Prof. D. Giacomo Sichirollo al prof. Tullio Tentori, Rovigo, Tipografia G. Vianello condotta da Arnoldo Conzatti, 1892a (15 ottobre).


GIACOMO SICHIROLLO, Seconda lettera aperta del Prof. D. Giacomo Sichirollo al prof. Tullio Tentori, Rovigo, Tipografia G. Vianello condotta da Arnoldo Conzatti, 1892b (2 novembre).


GIACOMO SICHIROLLO, La mia conversione dal Rosmini a s. Tommaso, rimembranze di studi filosofici, Padova, Tipografia del Seminario, 1897.


GIACOMO SICHIROLLO, Conferenze sulla Democrazia Cristiana, Rovigo, Stabilimento Tipografico Vianello, 1898, I edizione; 1899, II edizione.


GIACOMO SICHIROLLO, Conferenza sull’enciclica Rerum Novarum tenuta per invito del circolo della Gioventù Cattolica di s. Francesco d’Assisi il 15 maggio 1903 nel teatro del Seminario di Rovigo, Como, Tipografia Casa della Divina Provvidenza, 1903.


GIACOMO SICHIROLLO, “Scienza e fede e il loro preteso conflitto” del P. Giovanni Semeria; lettere critiche del prof. Don Giacomo Sichirollo al prof. avv. Italo Rosa, Treviso, Buffetti, 1904.


GIACOMO SICHIROLLO, La democrazia socialista e la democrazia cristiana, conferenza tenuta dal prof. D. Giacomo Sichirollo alle società cattoliche di Rovigo il 27 marzo 1898, Rovigo, Tipografia Sociale Editrice, 1915.


GIUSEPPE TONIOLO, L’histoire de la charité en Italie, Bruxelles, Polleunis & Ceuterick Imprimeurs, 1895, pp. 18.


GIUSEPPE TONIOLO, Lettere inedite di Giuseppe Toniolo ai monsignori Giacomo Sichirollo ed Enrico Bonincontro raccolte ed illustrate da Fortunato Giavarini rettore del Seminario Vescovile di Rovigo, Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1943.


GIUSEPPE TONIOLO, Lettere, raccolte da Guido Anichini; ordinate e annotate da Nello Vian, Città del Vaticano, Edizione del Comitato Opera Omnia di G. Toniolo, 1952-1953, vol. I (1871-1895), vol. II (1896-1903), vol. III (1904-1918).

LA RELIGIOSITÀ DEI ROMANI

Roberto Cipriani

Premessa

Questa è un’occasione che colgo con grande piacere, anche perché della realtà romana ormai da più decenni conosco diverse dinamiche. Vorrei anche ricordare che da molti anni, quasi un trentennio, non si aveva una mappa precisa della religiosità romana, cioè sin dai tempi in cui il gesuita Emile Jean Pin, docente nella Pontificia Università Gregoriana, condusse una ricerca i cui risultati vennero poi pubblicati in un volume dal titolo La religiosità dei romani, edito dalle Dehoniane di Bologna nel 1975.

Ora finalmente si ha a disposizione quanto risulta dall’indagine nazionale sulla religiosità in Italia, finanziata anche dalla Conferenza Episcopale Italiana (fatto importante questo ed innovativo rispetto ad un passato di scarsa attenzione se non di sospetto nei riguardi delle scienze della società).

L’inchiesta, predisposta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e fortemente sostenuta dal suo rettore Adriano Bausola, ha interessato oltre settemila soggetti in tutte le regioni italiane. A Roma, in particolare, invece delle sole 250 interviste previste se ne sono effettuate più di 700, utilizzando un campione del tutto rappresentativo sul piano statistico, non solo perché triplicato rispetto a quanto già previsto in partenza ma anche perché ci ottengono riscontri puntuali fra i dati rilevati dall’indagine e la realtà di fatto (si pensi all’otto per mille, ad esempio).

I nominativi dei soggetti da intervistare sono stati estratti casualmente dalle liste elettorali maschili e femminili. Non si è quindi ripetuto l’errore di qualche studio precedente, condotto intervistando le persone all’uscita dalle chiese dopo la messa domenicale.

Nell’ambito, dunque, dell’indagine nazionale sulla religiosità in Italia (cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, Mondadori, Milano, 1995) l’approfondimento condotto a Roma su 730 soggetti (di cui 30 stranieri) ha messo in luce caratteristiche più accentuate che nel resto d’Italia con particolare riferimento alla ridotta partecipazione alla pratica festiva (quella regolare settimanale nella città di Roma è dichiarata al 23,3% mentre la media italiana è al 31,1%). Solitamente si calcola – come suggeriscono alcuni studi appositi in materia – che vi sia una differenza attorno al 5% fra la dichiarazione di pratica religiosa ed il comportamento reale al medesimo riguardo. Dunque i praticanti romani regolari si attesterebbero sul 18% circa. Il che rappresenta un dato più alto di qualche punto rispetto a quanto registrato in diocesi come Siena e Genova, che presentano dati al di sotto del 15%.

Il 22,1% dei romani non va mai a messa. Il 29,6% non si accosta mai alla comunione. Il 38,1% non si confessa. E quasi il 10% dei capitolini sembrerebbe accostarsi alla comunione senza confessarsi. Tuttavia Roma non è certo la città meno praticante d’Italia.

A ben considerare anche altri dati rilevati nell’indagine romana, emergono alcuni indizi significativi di religiosità che indurrebbero a verificare l’ipotesi sociologica di una più “diffusa” (almeno numericamente) attenzione al sacro vissuta all’esterno delle espressioni ufficiali di chiesa che non all’interno dell’esperienza ecclesiale tradizionale, che comunque rimane fonte ed ispirazione della “religione dello scenario” (cfr. Franco Garelli, La religione dello scenario. La persistenza della religione tra i lavoratori, il Mulino, Bologna, 1986), della “religione implicita” (cfr. Arnaldo Nesti, Il religioso implicito, Ianua, Roma, 1985), della “religione comune” (cfr. Robert Towler, Homo religiosus: sociological problems in the study of religion, Constable, London, 1974).

Selvadagi nel suo intervento ha sottolineato il ruolo-chiave della cosiddetta religione diffusa (cfr. Roberto Cipriani, La religione diffusa. Teoria e prassi, Borla, Roma, 1988). In fondo appare legittimo sostenere che proprio la religione diffusa è la modalità religiosa maggioritaria a Roma (e non solo). Di tale religiosità, quasi sempre al di fuori della cosiddetta religione di chiesa, è larga traccia attraverso la presenza della preghiera, rilevabile in quasi il 70% degli intervistati romani. Certamente vi sono differenze notevoli all’interno di questo dato, che comprende sia chi si dedica all’orazione anche più volte ogni giorno sia chi invece lo fa solo una volta in un intero anno. Ma la realtà inoppugnabile è appunto data da questo ricorso al dialogo con la divinità, in una situazione che si presume libera dai condizionamenti ambientali, dal controllo sociale e familiare, dalle possibili sanzioni psicologiche ed affettive di tipo relazionale.

In passato non si era colta debitamente la valenza di tale religione diffusa, che era stata catalogata genericamente come indifferenza religiosa, con una percentuale di circa il 55% sul totale (cfr. Silvano Burgalassi, Le cristianità nascoste, Dehoniane, Bologna, 1970)

Per meglio conoscere le dinamiche interne di una religiosità così composita torna utile soffermarsi su quattro indicatori strategici:

1 – la tipologia religiosa dei romani;

2 – la presenza della chiesa a Roma;

3 – il ruolo della parrocchia nel contesto romano;

4 – il personale religioso nella realtà romana.

1 – La tipologia religiosa dei romani

Sulla base di indicatori quali l’andare a messa, confessarsi ed altro ancora, il 35% dei romani intervistati presenta un indice religioso medio-basso; ma per il 21,4% è basso e per il 19,1% è nullo. La religiosità medio-alta ed alta assommano al 24,5%.

In termini di tipologia religiosa la composizione della popolazione romana si articola secondo sei categorie attitudinali e comportamentali:

a – 12% di religione di chiesa primaria (cioè di soggetti più vicini all’istituzione);

b – 11% di religione di chiesa secondaria (cioè di soggetti religiosi ma più critici);

c – 15% di religione diffusa primaria;

d – 23% di religione diffusa intermedia;

e – 18% di religione diffusa periferica;

f – 21% di non religione.

2 – La presenza della chiesa a Roma

La visibilità della chiesa a Roma costituisce in pari tempo un punto di forza e di debolezza. Se per un verso la città gode del doppio privilegio della presenza del papa e della sua centralità rispetto al mondo cattolico, per un altro verso la sua ridondanza a livello simbolico-religioso e rappresentativo-pubblico può rendere più ardua la sua credibilità socio-pastorale. L’evento giubilare del 2000 rende ancora più evidente questa “ipereccedenza della visibilità” della chiesa cattolica che è in Roma, sottoposta a rilievi, critiche, prese di distanza a carattere tendenzialmente o dichiaratamente laico.

L’appartenenza cattolica resa esplicita dagli intervistati romani giunge al 78,3% ma in Italia è in media all’88,6%. Del resto prevale una modalità dell’appartenere che appare convinta sul piano personale ma che non si traduce per i romani in un impegno attivo, come sostiene il 42,7% del campione. In effetti il 63,4% non partecipa ad associazioni e movimenti cattolici a carattere nazionale, mentre il 18,3% partecipa saltuariamente ed ancora il 18,3% regolarmente.

3 – Il ruolo della parrocchia nel contesto romano

Il 45,6% dei soggetti intervistati dice di non partecipare a gruppi parrocchiali. Il 30% invece appare più regolare nella partecipazione, che risulta saltuaria per il restante 24,4%.

La partecipazione ad incontri, conferenze, dibattiti, iniziative organizzate dalle parrocchie (o da altri gruppi o centri religiosi) interessa il 13,6% per motivi personali, il 5,4% a motivo dei figli (catechismo, prima comunione, gruppo giovanile, scuola), per entrambi i motivi il 2,6%, per altre ragioni l’1,8%, mentre il 76,6% non interviene mai.

Il 60,1% non offre denaro alla parrocchia ma il 27% lo fa spesso. Nondimeno un attaccamento ad essa è prevalente, se rispetto ad un’ipotesi di chiusura o soppressione della sede parrocchiale il 39,4% pensa che la vita sociale ne risentirebbe abbastanza negativamente, il 30,3% molto negativamente. Mostra una totale o parziale indifferenza in proposito solo il 17,7%.

In effetti, comunque, è sempre la solita fascia di circa un quarto della popolazione che interviene, partecipa, si aggrega, collabora più spesso.

4 – Il personale religioso nella realtà romana

Il 56,2% dei romani ritiene giusto l’8 per mille, dunque si orienta in senso favorevole al finanziamento delle attività svolte dal personale religioso.

D’altra parte il giudizio complessivo sulla chiesa cattolica è positivo o molto positivo per il 34,3%, è incerto per il 24,7%. Tuttavia è critico o negativo per il 41%. In ogni caso si tratta di un orientamento più favorevole che non nei confronti di altre istituzioni (partiti, sindacati, ecc.).

Tra le opere da svolgere da parte della chiesa viene messo al primo posto l’aiutare chi ha bisogno e chi soffre (lo sostiene il 31,3% del campione, ma se si aggiungono anche la seconda e la terza scelta previste dal questionario l’insieme raggiunge il 68,6%, punta massima delle opzioni indicate, il che verifica ampiamente l’ipotesi secondo la quale a Roma la chiesa cattolica sia apprezzata in primo luogo per l’azione della Caritas).

Compito del personale religioso dovrebbe essere, secondo le prime tre scelte del campione romano, “promuovere la pace tra le nazioni” (per il 38,3%), “educare i giovani” (per il 36%), “annunciare Gesù Cristo e il Suo Vangelo” (per il 30% nel complesso delle tre opzioni, ma già come prima opzione questa modalità dell’evangelizzazione cristiana assorbe il 23,7% ).

Che non ci sia bisogno dei preti e della chiesa giacché “ognuno può intendersela da solo con Dio” è detto dal 36,4%. Intanto però il 35% ritiene la chiesa cattolica “l’unica autorità spirituale e morale degna di rispetto”.

In definitiva, pur tra carenze e difficoltà, la religiosità cattolica ha ancora salde radici nella città sede del papato.

Testo di riferimento:

La religiosità a Roma, a cura di R. Cipriani, con saggi di S. Bolasco, C. C. Canta, C. Costa, L. Diotallevi, F. Garelli, M. I. Macioti, R. Mion, G. Piscitelli, E. Rosanna, D. Schiattone, C. Tognonato, pubblicato da Bulzoni Editore, Roma, 1997, pp. 296.

* Sintesi dalla registrazione audio.

RELIGION ET PENSEE BINAIRE EN SOCIOLOGIE

Roberto Cipriani

Introduction

Le système binaire est une règle et donne des règles. Et règle signifie rigidité, ligne de marche, guide, pour orienter sur un parcours précis, défini.

On pense surtout à une situation métaphorique: le chemin de fer, un chemin sûr mais de fer, bien dirigé mais déjà fixe, sans aucune déviation possible. On a deux lignes, deux parallèles convergentes vers la même destination mais sans se rencontrer.

En effet il y a une dichotomie, une séparation, mais les deux directions sont communes, partagées et en même temps similaires.

Du point de vue de la pensèe sociologique le système binaire a fonctionné très largement. La conceptualisation (et la méthode sociologique) s’en sert beaucoup: nature et culture, Naturwissenschaften et Kulturwissenschaften, formel et informel, règle et anomie, rationnel et irrationnel, sujet et objet, tradition et changement, fait et valeur, histoire de vie et questionnaire, individu et société, communauté et société, centre et périphérie, vérification et falsification, manifeste et latent, résidus et dérivations, bourgeoisie et prolétariat, sacré et profane.

Mais surtout on verra ici – dans la première partie – que le système binaire fonctionne dans le rapport entre analyse quantitative et analyse qualitative, en particulier entre questionnaire et historie de vie, et finalement – dans la partie finale – entre religion ou sacralisation et sécularisation (Rémond 1998).

C’est précisément sur les concepts de sacré et de séculier que tourne le tourbillon de théories sur la sécularisation. On a dédié presque toute notre vie pour analyser les données sur la fin ou le retour de la religion, avec des tours et des détours parfois fondés parfois idéologiques, ce qui a fait le succès de la multidimensionalité du concept de sécularisation, comme le dit bien Karel Dobbelaere (1981).

La fragmentation du religieux et la réponse de l’approche biographique

Depuis quelques années nous assistons à une fragmentation du religieux. Cette fragmentation reflète le choix d’une perspective nouvelle, qui paraît refuser le cadre rigide implicite dans les concepts et les méthodes de la sociologie de la religion telle que nous la connaissons. D’ailleurs cette mutation de perspective ne fait probablement que correspondre à des transformations de la réalité sociale et de l’expérience religieuse. Nous assistons d’un côté à des changements dans les formes religieuses établies: à l’intérieur des églises le rôle des groupes marginaux, qui prennent bien souvent le caractère de quasi-sectes et quasi-dénominations, semble s’accroître progressivement; d’un autre côté, nous constatons la prolifération de toutes sortes de groupes et groupuscules qui offrent soit des modalités religieuses alternatives, soit des substituts et des équivalents symboliques de l’expérience. L’elargissement progressif du “grand village” de MacLuhan a contribué par ailleurs à cette circulation, pénétration et acceptation transculturelle de formes et visions religieuses ou para-religieuses qui étaient inconnues dans nos pays de l’Europe jusqu’à il y a trente ans.

Cette fragmentation s’est ancrée dans une situation sociale qui lui était particulièrement favorable. Les mouvements de contestation avaient favorisé la mobilisation sociale intense de toute une génération de jeunes. Leurs déboires et leur déchéance rapide ont laissé un “désert des valeurs”, une anomie diffuse et le besoin dramatique d’une identité psychologique et sociale, donc de nouveaux systèmes de normes et d’orientation au réel. La gravité de la crise sociale a empêché une réponse unitaire à l’anomie. La demande de valeurs a ruisselé dans les directions les plus diverses et fragmentaires, où la marginalité, l’ésotérisme et l’importation culturelle ont touché parfois des groupes sociaux bien plus vastes. Le terrain était fertile: la rationalisation culturelle des sociétès post-industrielles avait déjà sapé à la base d’un côté la forme des valeurs religieuses traditionnelles, et de l’autre les modalités de leur reproduction (par exemple au niveau des familles).

Ce cadre fragmenté, confus et fluide a mis en relief l’insuffisance des concepts et des méthodes traditionnelles de la sociologie, surtout quand elle touche aux phénomènes religieux. L’étude des pratiques religieuses explicites n’est plus adéquate. Elle ne rend pas compte des modifications souterraines. Elle est impuissante devant les phénomènes religieux statu nascenti qui s’amorcent un peu partout dans nos sociétés. Elle ne cueille pas la portée réelle du facteur religieux et ses mécanismes d’action. Ceci confirme la prégnance du religieux, qui fait sa richesse et son ambiguité. Une richesse et une ambiguité que les recherches socio-religieuses, au delà de leurs intentions, paraissent parfois trahir.

Ces difficultés suggèrent l’exigence d’un renouveau méthodologique, qui a déjà été amorcé dans d’autres secteurs de la sociologie. Le questionnaire (et les formes d’interview qui en dérivent) conserve un caractère analytique, qui décompose en systèmes de variables le phénomène étudié. Mais c’est justement l’analyse qui est inadéquate à la specificiité du religieux actuel, à sa richesse ambiguë, à sa “prégnance” synthétique, à son caractère total, donc dangereusement fluide.

Nous assistons actuellement à un retour d’intérêt pour la méthode biographique (Cipriani 1995), qui fait suite à une longue période de relative mise entre parenthèses. Ce phénomène relève de la mode, mais comme toutes les modes il exprime des exigences mutliples. Les biographies paraissent impliquer une atténuation relative des frontières qui séparent les différentes sciences sociales. Elles expriment le besoin de combiner l’histoire avec la sociologie, l’anthropologie culturelle avec la psychologie, en dépassant ainsi la fragmentation disciplinaire des sciences de l’homme, qui rend souvent méconnaissable son objet. Par ailleurs, le recours aux matériaux biographiques répond à un besoin de recherche et de participation, il exprime l’exigence d’une connaissance directe du réel, où l’adjectif “directe” indique en même temps une connaissance “réelle”, “vraie”, et une connaissance n’ayant pas subi la médiation des experts, de techniques sophistiquées ou de financements massifs. Il faut ajouter aussi les séductions ambiguës de l’idèologie du “privé”, qui tend à concentrer l’attention et l’analyse sur les vécus individuels et paraît superposer avec insouciance le privé et le quotidien, le subjectif en tant qu’expérience absoluement individuelle et le social agissant à travers l’individu.

Ces considérations ne doivent pourtant pas faire oublier que le recours aux biographies plonge ses racines fort loin, au coeur même des débuts de la sociologie empirique.

Nous voici finalement à notre hypothèse centrale: c’est en tant que condensation individualisée d’une vision du réel agie dans une histoire personnelle que la biographie nous paraît un instrument privilégié pour l’accès aux niveaux manifestes et latents du religieux dans un contexte social défini, soit pour l’étude des comportements religieux traditionnels, soit pour une analyse adéquate des nouvelles formes religieuses ou quasi-religieuses qui, chatoyantes et fluides, apparaissent et disparaissent de jour an jour dans nos sociétés.

Ceci dit on peut bien comprendre notre choix de privilégier la solution qualitative par rapport à l’approche quantitative, qui n’est pas capable de rejoindre le même niveau de profondeur analytique.

La méthode biographique semble particulièrement apte à saisir le sacré – sans médiations religieuses, et parfois sans religion – que nous proposent les mouvements religieux d’aujourd’hui. Elle réalise une congruence heureuse entre la méthode et le problème, le sujet et son objet. La blessure anomique qui déchire nos sociétès consacre le social réifié en le faisant encore une fois hétéronome, “autre”. Cette altérité du social trouve son modèle élémentaire et son ancrage dans l’altérité des relations interpersonnelles, L’autre, fuyant, mystérieux et dangereux, devient un sténogramme de l’autre du sacré. Le ganz Andere, le totalement autre, se privatise, ou bien il révèle l’anomie qui l’insuffle en s’actualisant dans le social hétéronome et hyperchoésif des sectes récentes. Dans les deux cas, le chercheur qui s’approche de l’autre en tant que sujet-objet d’une biographie parcourt la logique du sacré appauvri qui semble caractériser la plupart des nouveaux mouvements religieux.

De la sécularisation au retour du sacré

Si l’utilité de la sociologie est de nous faire mieux connaître les phénomènes sociaux, c’est-à-dire de nous aider à mieux expliquer les circonstances de la vie collective, elle n’atteint pas ce but lorsque les chercheurs, éblouis par des débats sans aucune base scientifique, suivent la mode culturelle.

Or, depuis que les investigations des sociologues ont étendu nos connaissances sur le fait religieux, il nous semble que l’on n’ait trouvé aucune vérification adéquate soit des hypothèses sur la sécularisation, soit des prévisons sur le retour du sacré.

Il faut rappeler qu’en 1955 Pfautz a été probablement le premier qui ait parlé d’une sociologie de la sécularisation. Il écrivait d’une institutionalisation des formes religieuses et de leur sécularisation à l’intérieur d’un processus social général. Il analysait un cas particulier, le développement de la “Christian Science”, en suivant l’histoire de ce groupe à la fin du siècle passé. Il s’agissait donc d’un excursus historique et non pas d’une nouvelle théorie sociologique à appliquer à la situation présente.

On arriva plus tard à considérer comme fondamental le problème de la sécularisation dans la société occidentale contemporaine. La notion sociologique du phénomène se transformait sans cesse.

Les auteurs aussi changeaient leur approche. C’était le cas de Acquaviva (1961) et de Martin (1969, 1978). Le premier avait commencé par défendre la thèse de l’éclipse du sacré mais ensuite il a dû mettre en doute certains aspects de son interprétation. Le second voulait réfuser l’usage même du mot “sècularisation” mais plus tard il s’est lancé dans une recherche sur la sécularisation plus ancrée aux données sociologiques.

Le système binaire continua de toute façon: en effet dans son premier numéro de 1973 la revue internationale “Concilium” proposa l’indication d’une persistance de la religion, à travers les articles de Andrew Greeley et Gregory Baum. Dans la même ligne l’historien Martin Marty parla de la “présence d’une recherche mystique”, en reprenant la prévision sorokinienne de l’avènement d’une “phase religieuse”.

Le wishful thinking de certains analystes du fait religieux était satisfait: après la fin de la religion on pouvait écrire du retour au sacré.

En Italie aussi on publia des oeuvres, presque uniquement théoriques, sur la sécularisation comme “transfonctionalisation” de la religion (Rosanna 1973), ou l’on resta à des revues critico-théoriques sur les phénomènes en cours (Roggero 1973 et 1979).

Le point de suture entre sécularisation et réveil religieux fut constitué par le symposium international de Vienne en 1975. Cette rencontre ne fut plus – comme la précédente de Rome en 1969 – sur la non croyance mais sur la croyance: la sécularisation était dèsormais un mot démodé; il fallait parler d’un nouveau sens religieux, de nouveaux modèles confessionnels, des effervescences du sacré, des développements socio-religieux dans les différents pays.

A partir des réflexions viennoises (Caporale 1976) les études de sociologie de la religion ont connu une nouvelle phase de sélection des contenus à examiner, avec des préalables dans l’oeuvre “A Rumor of Angels” de Peter Berger (1969), qui se demandait si Dieu était vraiment mort et concluait avec la possibilité d’une nouvelle découverte du surnaturel. Le réveil du sacré commença donc par devenir un point important dans la perspective sociologique ou mieux des désirs de quelques sociologues.

Tout cela risqua fort de limiter les possibilités d’analyse et de concentrer les recherches sur des problèmes imposés par les mots d’ordre de la mode ou des grands maîtres à penser, au lieu d’essayer de porter à l’actif d’une théorie générale du phénomène religieux les données les plus différentes que l’on pouvait recueillir à travers des enquêtes fort “contextualisées”, c’est-à-dire avec des limites bien définies, sans les dépasser par des généralisations de ce qui n’est pas généralisable.

L’attention, sous ses différentes formes, était prêtée presque toujours à un fait particulier qui faisait l’objet et représentait le véritable moteur de rencontres internationales et de querelles fort débattues: c’était un seul système binaire de sujets (“sécularisation” et “resacralisation”) qui donnait vitalité et vivacité aux discussions.

En effet l’histoire des deux concepts dans les significations les plus complexes aurait dû en permetrre le dépassement. Il n’est pas hors de propos de souligner que cette dynamique binaire continua à travers la théorie même de la persistance de la religion, selon laquelle le réveil du religieux était l’étape la plus naturelle après le declin présumé. Le discours de la sécularisation alla parallèlement avec celui du futur de la religion. Il n’y avait pas de solution de continuité: Berger qui avait parlé de sécularisation parla aussi d’une rentrée de Dieu dans le monde.

En particulier les sociologues de la sécularisation et de la rennaissance religieuse semblaient des théoriciens inguérissables (qui ne faisaient aucune recherche empirique) ou bien des spécialistes qui utilisaient une approche théorique et empirique fondée sur des données fort différentes ou encore des chercherurs qui limitaient la vérification des hypothèses à des contextes très limités (Acquaviva et Guizzardi 1973), en ouvrant des pistes mais encore à parcourir jusqu’au fond.

On assista à une “mythologisation” de la sécularisation (et de la sacralisation), comme le disait Luckmann (1977).

Complètement à part est, enfin, le thème d’une sécularisation de l’Islam, dans un contexte dominé par des principes qui sont malléables et se rapportent aux conditions économiques et culturelles: la sécularisation dépend de la modernisation (Bellah 1970) et de l’évolution en cours dans chaque pays musulman. Et quoi dire de la conciliation du progrès avec la tradition? Et les nouvelles techniques ne bouleversent-elles pas les valeurs religieuses islamiques? Dans cette allure binaire peut-on supposer qu’il y a un équilibre instable entre progrès et orthodoxie religieuse?

Conclusion

Il n’y aura donc la fin de la religion dont les sociologues parlaient il y a quelques années? Ce débat concerne probablement le futur de l’irréligion: voici le résultat de trente ans de discussions sur la religion et sur la sécularisation de la société, après lesquelles on a parlé de fin de l’eclipse du sacré puisque l’émergence de nouveaux mouvements religieux a fait penser à un retour du sacré.

En Europe, par exemple, on a étudié beaucoup de groupes et mouvements qui à cause de leur dynamisme ont donné du crédit à l’idée d’une renaissance religieuse. Mais les études de Ferrarotti (et alii 1978), Pace (1979), Prandi (1979), Macioti (1980), Introvigne (1995) et Campiche (1995) ont défini la portée réelle des nouveaux rites et cultes. On a essayé de définir tout cela comme une “nouvelle religiosité”, qui donnerait un sens à la vie des hommes dans l’inquiétude de la vie quotidienne: il dèsirent la quiétude et cependant ils sentent que la paix vient de ce qui les inquiète, c’est-à-dire le mystère du sacré.

Dans le système binaire entre religion et irréligion la véritable condition humaine est peut-être de n’en point trouver et d’en chercher toujours. Cet ensemble de tendances se conjugue dans les nouvelles religions comme des démarches spirituelles variées à travers un équilibre de spontanéité et de discipline.

Si maintenant les religions traditionnelles ne semblent pas influencer d’une façon lourde les structures politiques et sociales les nouvelles religions paraissent, d’autre part, avoir un rôle comme source de valeurs: et pourtant Wilson (1979) pense que ce rôle est minoritaire, marginal et privé, sans aucune chance de transformer les structures sociales.

Est-ce que la renaissance de la religion est donc le commencement de sa fin? Ou bien l’hypothèse de la sécularisation était-elle nécessaire pour le retour du sacré?

Probablement le sacré n’est jamais mort.

Références

ACQUAVIVA Sabino S. (1961) L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Comunità, Milano

ACQUAVIVA Sabino S., GUIZZARDI Gustavo (1973) Essay on a Model Aimed at an Empirical Verification of New Religious Attitudes

In : Actes de la 12.ème C. I. S. R., C. I. S. R., Lille

BELLAH Robert N. (1970) Islamic Tradition and the Problem of Modernization

In : International Yearbook for the Sociology of Religion, pp 65-81

BERGER Peter L. (1969) A Rumor of Angels, Doubleday, Garden City, N. Y.

CAMPICHE Roland (1995) Quand les sectes affolent. Ordre du Temple Solaire, médias et fin de millénaire, Labor et Fides-Institut d’Éthique Sociale, Genève

CAPORALE Rocco et alii (1976) Vecchi e nuovi dei, Valentino, Torino

CIPRIANI Roberto (1995) La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life history, Euroma, Roma

DOBBELAERE Karel (1981) Secularization: A Multi-Dimensional Concept

In : Current Sociology, Tome 29, n° 2

FERRAROTTI Franco, DE LUTIIS Giuseppe, MACIOTI Maria I., CATUCCI Leda (1978) Forme del sacro in un’epoca di crisi, Liguori, Napoli

INTROVIGNE Massimo (1995) Idee che uccidono. Jonestown, Waco, il Tempio Solare, Mimep-Docete, Pessano

LUCKMANN Thomas (1977) Theories of Religion and Social Change

In : The Annual Review of the Social Science of Religion, n° 8, pp 1-28

MACIOTI Maria I. (1980) Teoria e tecnica della pace interiore: il caso della Meditazione Trascendentale, Liguori, Napoli

MARTIN David (1969) The Religious and the Secular, Routledge and Kegan, London

MARTIN David (1978) A General Theory of Secularization, Blackwell, Oxford

PACE Enzo (1979) Dynamique affective, choix politiques et rapports avec l’institution ecclésiastique dans les mouvements religieux de la société contemporaine

In : Communication à la 15.ème C. I. S. R., Venezia, 1979

PFAUTZ Harold W. (1955-1956) The Sociology of Secularization: Religious Group

In : American Journal of Sociology, Tome LXI

PRANDI Carlo (1979) Religione popolare e ripresa del sacro, Centro Studi Religiosi San Carlo, Modena

RÉMOND René (1998) Religion et société en Europe. Essai sur la sécularisation des sociétés européennes, Seuil, Paris

ROGGERO Elio (1973) Sociologia e secolarizzazione, Giappichelli, Torino

ROGGERO Elio (1979) La secolarizzazione controversa, Angeli, Milano

ROSANNA Enrica (1973) Secolarizzazione o transfunzionalizzazione della religione?, Pas Verlag, Zürich

WILSON Bryan (1979) The New Religions: Some Preliminary Considerations

In : Japanese Journal of Religious Studies, n° 1-2, pp 213-215