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RELIGIONE, POLITICA E LAICITA’

Roberto Cipriani


Premessa


         Allorquando si presenta un testo o si fa un discorso si pone sempre il problema del carattere ideologico presente nel messaggio emesso. In effetti sia il contenuto proposto dall’autore che la ricezione da parte del lettore o dell’ascoltatore possono risultare più o meno orientati da forme varie di pre-giudizi, da prese di posizione previe, da pregresse costruzioni sociali della realtà. Questo è dato constatare in modo evidente quasi in ogni caso. Il problema è semmai vedere fino a che punto l’autore o il ricettore siano consapevoli della loro prospettiva pre-definita. E di conseguenza occorre verificare se siano state messe in atto misure adeguate, mirate ad evitare che il peso della propria equazione personale influisca pesantemente sulla lettura fatta, sull’ascolto prestato, sull’analisi condotta, sull’interpretazione fornita, in definitiva sull’opzione preferita.


         Riuscire a liberarsi del tutto dall’ideologia cui si fa riferimento a livello personale è impresa ardua se non del tutto impraticabile. Il fatto è che la scienza, ovvero la conoscenza rigorosa, ha continuamente a che fare con tale dilemma: fin dove arriva lo sforzo di neutralità, di avalutatività e dove comincia invece l’uso di un’ottica strumentale, non dialogica, apodittica?


         All’interno di appartenenze fideistiche, confessionali e fondate su dogmi, la varietà delle posizioni, delle scelte teoriche ed operative, delle attitudini e dei comportamenti è abbastanza evidente, tanto che ogni generalizzazione appare indebita, infondata, non plausibile. Da qui nasce la necessità di un confronto dialettico, aperto, comunicativo, premessa necessaria di ogni progresso nel campo della conoscenza scientifica. Su tali basi si fonda altresì la possibilità di evitare le derive deontologiche che sovente accompagnano analisi ed interpretazioni pur pregevoli a livello metodologico.


         Il passaggio dalla fase conoscitiva a quella operativa è delicato e decisivo ai fini di una corretta utilizzazione dei risultati di una ricerca. Questo non significa voler interrompere il flusso dei dati empirici, quasi immaginando una cesura fra scienza e prassi, fra conoscenza e politica. Il problema è semmai un altro: le competenze, l’expertise di ogni specialista, meritano rispetto e proprio per questo vanno applicate nel loro ambito specifico. Insomma non sarà il sociologo a fare una legge, né il politico a condurre un’indagine sul campo e neppure un esponente di chiesa (non importa se un semplice fedele od un esponente dell’establishment). Ovviamente anche nel dire ciò si prende posizione, si fa ricorso ad un punto di vista, ma in questo caso almeno si lascia ogni decisione applicativa aperta a diverse soluzioni possibili, senza pre-determinarne alcuna. In pratica è favorita una cooperazione rispettosa fra attori sociali, sebbene diversificati nel loro know how.


         La progettualità politica è dunque ben altra attività rispetto a quella dell’accertamento di fatti e situazioni. La continuità fra i due ambiti è assicurata proprio da una distanza anche minima ma necessaria per garantire la non contiguità, la non strumentalizzazione, il non asservimento.


Abitualizzazione ed identità


         Ogni attore sociale si porta dietro il bagaglio dei suoi modelli consuetudinari di atteggiamento e comportamento. Dell’abituale quasi non ci si accorge: fa parte di noi stessi. Esso somiglia quasi ad un habitus che indossiamo quotidianamente senza che nemmeno ci poniamo il problema della sua correttezza e plausibilità. La socializzazione, soprattutto primaria ricevuta in famiglia, poi rafforzata da quella secondaria a scuola, tra i pari età, ecc., fa sì che funzioni una sorta di abitualizzazione a quanto si è già pensato e fatto in precedenza. Se poi si aggiungono le frequentazioni dominanti di alcuni specifici ambienti, invece di altri, il quadro risulta completo ed avvolgente. Ne scaturisce così un andamento di routine che aggira ogni genere di ostacoli e di problemi affidandosi alla legge dell’eterno ieri, cioè della tradizione. Dunque le decisioni del soggetto sociale seguono da presso quanto già sperimentato in precedenza e di solito non si avventurano sul terreno ignoto della innovazione. Per questo è raro il caso in cui ci si trova del tutto liberi di decidere senza il basto delle abitudini acquisite.


         Il soggetto sociale accostumato a seguire ciò che è consueto difficilmente si pone remore, dunque non tende a problematizzare tutto quello che affronta. Se qualche dubbio sorge egli trova facilmente chi glieli scioglie in nome di un’autorità riconosciuta, di un prestigio goduto, di una stima diffusa. In questo le istituzioni – e sommamente i loro vertici – hanno gioco agevole in quanto indicano strade che vengono poi percorse tranquillamente. Così una chiesa od un partito possono dare direttive ai loro fedeli e militanti (od anche semplicemente simpatizzanti) di votare in un certo modo o di non  votare affatto, secondo i loro interessi istituzionali del momento.


         L’azzeramento degli aspetti problematici è un obiettivo che un’organizzazione, un movimento, una corrente religiosa o politica perseguono per avocare a loro o meglio alle loro gerarchie quelle scelte che sarebbero invece dei singoli: il che avviene in campo etico come pure in materia di normativa elettorale. In effetti è sostanzialmente un gruppo ristretto di persone (o magari un solo leader) a decidere in vece della base, cui è lasciato solo il compito di eseguire quanto proposto/imposto dall’alto. Si crea così una modalità costante che istituzionalizza sempre più le consuetudini di accettazione dell’orientamento di vertice e non consente di assumere posizioni di volta in volta in stretta connessione con la questione in causa. Insomma si toglie all’attore sociale la possibilità di definire egli stesso la situazione, di farsi un’idea, di informarsi, di cercare in proprio le fonti di conoscenza, di soppesare i vantaggi e gli svantaggi derivanti da una determinata operazione. Sono dunque altri e sempre gli stessi a stabilire il da farsi, sostituendosi ai detentori potenziali del potere decisionale. Questi ultimi vengono dunque lasciati in una condizione di minorità che non ha scampo, se non a costi piuttosto alti (sofferenze personali, perdita di identità, emarginazione sociale, difficoltà di comunicazione interpersonale).


         Quando poi si ha a che fare con l’identità religiosa la gestione del disagio conseguente ad una presa di distanza dalle indicazioni di provenienza gerarchica diventa altresì un problema pure sul piano psico-sociologico: la credenza nella divinità può anche permanere ma vengono meno, fra l’altro, i supporti più significativi a livello rituale, in termini di condivisione di una medesima esperienza di fede. Sovente il bisogno di identità è soddisfatto quasi solo dall’appartenenza religiosa, per cui una sua precarietà comporta effetti negativi anche sul piano dell’autostima e del bisogno di riconoscimento da parte altrui.


         A fronte di situazioni nuove è arduo per il singolo riuscire a trovare soluzioni soddisfacenti in proprio, senza che vi sia il sostegno dell’istituzione. Non a caso conflitti e discussioni caratterizzano l’affacciarsi di nuove problematiche che investano anche parzialmente l’insieme di una religione. A questo punto la convergenza è richiesta solo in chiave di allineamento alle posizioni ufficiali di chiesa e senza un dibattito libero. Inoltre prima che vi sia un adeguamento dell’establishment ecclesiastico alle nuove istanze relative ad un tema controverso occorre un lungo processo di messa a punto, di definizione degli argomenti, di predisposizione della nuova normativa.


         L’identità è una componente fondamentale nell’attore sociale, tanto che essa viene di fatto sacralizzata – come ricorda Hans Mol (1976; 1978) – e dunque oggettificata (cioè ordinata nel tempo), grazie ad un coinvolgimento emotivo, ad un rafforzamento per via rituale ed a una sua tendenziale mitologizzazione. La sua forza principale è sovente nel reperimento di un giusto equilibrio fra conservazione e mutamento, alla ricerca di una sorta di dialettica della convivenza del soggetto nell’ambito di un’istituzione o di un’organizzazione.


         Ma specie nel caso della religione si assiste ad una fenomenologia che molto ha a che vedere con il comportamento di un’ostrica, che reagisce all’intrusione di un qualsiasi granello di sabbia ricoprendolo con una secrezione collosa e comprimente. Così, infatti, ha luogo in ambito religioso, quando qualcosa di diverso sopravviene: lo si  neutralizza avvolgendolo con una coltre di discredito, con interventi di scomunica, esclaustrazione, con accuse di eresia e deviazione dottrinaria.


         La dialettica identitaria comporta pure azioni di conversione da una religione ad un’altra oppure adesioni abbastanza incondizionate dovute alla forza di un capo carismatico. Ma segnatamente è la dinamica della ritualizzazione che consolida l’appartenenza identitaria, accompagnando i momenti della nascita (con il battesimo), dell’iniziazione cristiana (con l’eucarestia e la cresima), della creazione di una nuova famiglia (con il sacramento del matrimonio) e della morte (con il funerale religioso). Così facendo, ogni mutazione esistenziale viene incorporata nella medesima e comune linea di identificazione con la chiesa.


Desacralizzazione e sacralizzazione


         Invero non mancano occasioni ed eventi di desacralizzazione del passato, allorquando si sconfessano modelli obsoleti. In pari tempo si possono registrare modalità di sacralizzazione del nuovo, ma lentamente e gradualmente. In linea di massima i processi di sacralizzazione istituzionale giungono con molto ritardo rispetto all’emergere delle esigenze che li richiedono. Questo è dovuto alla necessità di mantenere stabile il sistema di significati già vigenti e sperimentati come più rassicuranti, evitando contraccolpi improvvisi e modificativi. Ecco perché viene dato maggior rilievo al bisogno primario di rafforzamento dello status quo prima ancora di poter accettare soluzioni alternative. L’identità istituzionale funge da continuum di garanzia, ma è custodita scrupolosamente pur a fronte di impellenti richieste di adattamento, di rivisitazione, di aggiornamento (non è un caso che ad un quarantennio dalla sua conclusione il Concilio Ecumenico Vaticano II ancora attende di essere pienamente implementato nella chiesa cattolica).


         Ora proprio la crescita della complessità sociale potrebbe indurre a considerare con maggiore attenzione le alterità presenti dentro e fuori la confessione cattolica. L’autonomia degli individui è un dato di fatto. La pluralità dei punti di vista cresce a dismisura. Le scelte sono sempre più difficili e condizionate da saperi differenziati. La convergenza etica non è di facile acquisizione, soggetta com’è a conoscenze diversificate, a saperi molto specialistici. Il che rende difficile alle religioni a carattere universale sono la ricerca di punti essenziali di convergenza.


         L’esito finale può essere simile a quello di una sorta di religione civile, del tipo di quella delineata da Jean-Jacques Rousseau nel suo Contrat Social, nel capitolo VIII, libro IV. Ma c’è da chiedersi in proposito se sia possibile una generalizzazione di tale modalità a livello globale, mondiale. Né va dimenticato che nella sua essenza la religione civile non è affatto anticristiana ed anzi può convivere con il cristianesimo, specie se quest’ultimo si manifesta anche (ma non solo) in quanto “religione dei valori” (Cipriani 1992), cioè fondata su principi condivisibili e di fatto condivisi anche da non credenti e da non praticanti: non a caso in Italia si è diffusa di recente la categoria concettuale degli “atei devoti”, cioè di soggetti orientati laicamente ma non del tutto insensibili al richiamo di norme religiosamente orientate.


         Secondo l’idea di Religious Evolution suggerita da Robert Bellah (1969), dopo la fase della religione storica cristiana e quella pre-moderna del protestantesimo ci sarebbe la fase dell’individualismo religioso (“la mia mente è la mia chiesa”), che costituirebbe un’opportunità senza precedenti per la diffusione delle idee religiose fra ogni tipo di soggetto umano, di attore sociale.


         Lo sviluppo ulteriore del pensiero di Bellah (1975) ha portato alla rottura del patto stipulato sulla base dei comuni ideali di fede (in particolare negli Stati Uniti) ed ha visto sorgere la fenomenologia dello sheilanismo (Bellah, Madsen, Sullivan, Swidler, Tipton 1996), che trae origine dal caso di Sheila Larson, alla ricerca di trovare in se stessa un centro, un punto di riferimento, dopo aver dovuto sopportare il peso di una famiglia conformista in modo oppressivo. Ne nasce un individualismo religioso considerato indefettibile come lo è l’individualismo secolare.


         Si riaffaccia così anche la posizione di Schleiermacher con il sentimento creaturale della dipendenza assoluta dell’essere finito rispetto a quello infinito, insieme con la convinzione di un’autonomia da altre attività ed istituzioni umane, in primo luogo dalle chiese. Il sentimento religioso ha perciò la meglio sull’istituzionalizzazione della religione.


         Da questo quadro d’insieme non si distaccano molto il naturalismo estatico di Tillich o la demitologizzazione di Bultmann, per non dire del “cristianesimo senza religione” di Dietrich Bonhoeffer. Ecco dunque come, alla fine, individualismo e fondamentalismo che sembrerebbero contrapporsi divengono invece convergenti.


         Simmel dal canto suo aveva molto insistito sulla sostanziale differenza fra religione storica, frutto dell’azione umana, e religiosità, frutto dell’azione divina che avrebbe dato agli animi umani un’impronta naturalmente religiosa. Invece il processo di istituzionalizzazione della religione ha tipificato e quasi imbalsamato le possibilità dell’esperienza religiosa, giungendo peraltro ad una monotipificazione senza alternative, tutta orientata entro l’alveo rigido di una struttura gerarchica strettamente verticistica, che una volta autocostituitasi riesce a condizionare le diverse esistenze umane.


         I dati storici dicono che c’è una sostanziale continuità fra le tre religioni del libro (ebraismo, cristianesimo ed islamismo), sul piano storico, topografico ed ideologico. Di fatto, comunque, ogni identità religiosa appare come un confine, che però è limitrofo, finitimo, rispetto ad altre identità, che a loro volta rappresentano un confine ravvicinato rispetto ad ulteriori esperienze religiose. Si verifica così in pratica che l’identità religiosa (o politica) è in fondo una manifestazione del sé rispetto ad altri sé, che perciò rappresentano il termine di riferimento per ogni genere di interlocuzione. Riesce perciò difficile considerare l’identità come una variabile indipendente.


         D’altro canto l’identità non ha una sua concretezza ed appare piuttosto come un luogo virtuale, potenziale, possibile ma non reale, secondo la prospettiva suggerita da Claude Lévi-Strauss (1980).


         Per di più l’identità non è mai univoca ma sempre piuttosto frammentata e frattalica nel suo manifestarsi. La frantumazione concerne gli ebrei come i mussulmani, i protestanti come i cattolici. Se poi si aggiunge anche la portata onnipervasiva della globalizzazione è evidente che ben poco spazio resterebbe per le espressioni identitarie.


La sfida del relativismo culturale


         A questo punto sorge però un problema cruciale: che ruolo attribuire al relativismo culturale? Esso è da considerare un dato di fatto od una sorta di avversario ideologico da combattere? E che dire del multiculturalismo delle società contemporanee? La realtà è invero così complessa che ogni semplificazione ed ogni dicotomizzazione appaiono tanto inutili quanto inefficaci sia sul piano descrittivo che sul piano dell’agire concreto.


         Se ci riferisce all’Europa è ben vero che la religione civile appare quanto mai improbabile come connotazione diffusa. Semmai si può parlare di una “religione della laicità”, assai perspicua in Francia. Resta tuttavia insoluto il problema di un “coordinamento aperto” fra le varie espressioni, tra le diverse esperienze.


         Neppure ai più alti livelli della chiesa cattolica vi è accordo, se due esponenti come Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, ed il cardinal Martini si muovono lungo direttrici dissimili.


         Il punto di divergenza è rappresentato dall’approccio al relativismo. Per l’uno è da combattere in quanto esisterebbe una “dittatura del relativismo”, per l’altro esso è operante all’interno stesso della chiesa.


         In realtà l’ex cardinale di Milano, ora ritiratosi in Terrasanta, non cita neppure il papa in modo esplicito e diretto, giacché l’8 maggio 2005 nel Duomo di Milano esordisce dicendo: “si dice giustamente che c’è troppo relativismo”. E poi aggiunge: “ma esiste anche un relativismo cristiano”. La conclusione è tuttavia la seguente: “quello di cui abbiamo bisogno è saper vivere insieme nella diversità: rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci. Senza la pretesa di convertire gli altri da un giorno all’altro, il che crea spesso muri ancora più invalicabili. Ma neanche soltanto tollerandoci: tollerarsi non basta”.


         In effetti la tolleranza è una forma di sopportazione, non di accettazione dell’altro. Ed il relativismo cristiano consisterebbe nel “leggere tutte le cose che ci circondano “in relazione” al momento in cui tutta la storia sarà palesemente giudicata”. Perciò “sarà allora, quando verrà il Signore, che finalmente tutti sapremo. Allora si compirà il giudizio sulla storia, e sapremo chi aveva ragione. Allora le opere degli uomini appariranno nel loro vero valore, e tutte le cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno”. Del resto “ciò che Gesù ci ha comandato non è altro che il Discorso della Montagna: un discorso in cui parla di gioia, di lealtà, di moderazione nel desiderio di guadagno, di amore, di sincerità. Ecco: il nostro tentativo deve essere quello di fermentarci a vicenda, perché ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità”. In definitiva “di fronte a parole che parlano di sincerità, di pace, di lealtà, nessuno può dire “questo non è per me””.


         Se il contrasto è palese ma attutito in un contesto religioso, tendenzialmente portato alla prudenza, è invece più esplicito e vivace sul terreno laico della politica, dove si confrontano ad esempio il pensiero del presidente della repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, progressista, e quello del presidente del Senato, Marcello Pera, conservatore.


         Dire che “tra le ragioni dell’aperta valorizzazione delle radici cristiane dell’Europa, a pari titolo di quelle laiche, liberali, socialiste, umaniste vi era anche l’esigenza di disinnescare la secolare tentazione di utilizzare la religione come strumento di divisione ideologica e politica, piuttosto che come fondamento della concordia e della pace” (Rovati) non risolve il problema, anche perché le resistenze e le vivaci reazioni sono sorte ancor prima che si proponesse di legittimare il primato di alcune radici a discapito di altre. E dunque se le radici cristiane dell’Europa fossero state sancite sarebbe stato forse prevedibile comunque un periodo di concordia e pace?


         Orbene non sembra neppure il caso di invocare retoricamente che, “nel contesto della globalizzazione e del potenziale conflitto distruttivo tra le civiltà, occorre dunque elaborare nuove forme di interculturalità, che in riferimento alla convivenza civile sappiano sottomettere il potere ai diritti umani, ma sappiano anche sottrarre i diritti umani all’arbitrio delle maggioranze” (Rovati), riecheggiando così i discorsi di Pera e Ratzinger (2004).


         La distanza fra politica e religione è utile garanzia per il mantenimento di una laicità non conflittuale, che riconosca ad ognuno il dovuto e paghi il tributo a Cesare ma non debba combattere le posizioni alternative di scelta o non scelta religiosa.


Riferimenti bibliografici


Robert N. Bellah, Evoluzione religiosa in Sociologia della religione. Testi e documenti, a cura di Dario Zadra, Hoepli, Milano 1969.


Robert N. Bellah, The Broken Covenant. American Civil Religion in Time of Trial, Seabury, New York 1975.


Robert N. Bellah, Richard Madsen, William M. Sullivan, Ann Swidler, Steven M. Tipton, Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Armando, Roma 1996.


Roberto Cipriani, La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1992.


Claude Lévi-Strauss, L’identità, Sellerio editore, Palermo 1980.


Hans Mol, Identity and Sacred. A Sketch for a New Social-Scientific Theory of Religion, Blackwell, Oxford 1976.


Hans Mol (ed.), Identity and Religion. International, Cross-Cultural Approaches, Sage, London 1978.


Marcello Pera, Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano 2004.

LA FORMAZIONE DELLE RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE

Roberto Cipriani


Premessa


                Le rappresentazioni collettive sono un elemento fondamentale della vita sociale in quanto attraverso esse transitano diverse forme e molti contenuti che sono alla base degli atteggiamenti, cioè delle propensioni, e dei comportamenti, cioè delle azioni degli individui nelle società. C’è dunque uno stretto legame fra le rappresentazioni cui il soggetto fa riferimento ed il suo agire sociale. L’espressione “rappresentazioni collettive” è di origine durkheimiana e deriva in particolare dal suo concetto di “coscienza collettiva” distinto da quello di “coscienza individuale”, cui si contrappone. Oggi però si preferisce parlare di “rappresentazioni sociali”, anche per prendere le distanze dall’impostazione fornita da Durkheim e dalla vaghezza della sua idea di “coscienza collettiva”. Comunque se anche si continua a parlare di rappresentazioni collettive occorre intendere queste ultime essenzialmente come rappresentazioni sociali, dizione più diffusa e largamente accolta dalla letteratura sociologica contemporanea.


                Nel suo volume De la divison du travail social del 1893 Durkheim così definiva la coscienza collettiva: “l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri d’una medesima società forma un sistema determinato che ha una sua propria vita. Lo si può chiamare la coscienza collettiva o comune”[1]. Sono dunque le credenze ed i sentimenti la base costitutiva della coscienza collettiva, condivisa in larga misura da coloro che fanno parte di una società. Tali credenze e sentimenti danno di fatto luogo a dei valori comuni cui i soggetti sociali, cioè gli individui, aderiscono in modo sia razionale che emozionale.


                Successivamente nel saggio durkheimiano “Représentations individuelles et représentations collectives”, pubblicato postumo nel 1924 in Sociologie et Philosophie, emerge chiaramente un superamento della concezione legata alla coscienza collettiva, per lasciare spazio a quella di rappresentazioni collettive che si fondano sull’associazione degli individui, sul loro stare insieme. Esse però vanno bel al di là delle condizioni naturali dell’esistenza umana e producono nuove forme conoscitive e simboliche, credenze e riti[2], che esercitano un potere maggiore ed un’influenza più profonda, ad un livello comunque superiore rispetto a quello della coscienza collettiva.


                Infatti in termini più aggiornati si può essere d’accordo con lo psicologo sociale Gustave-Nicholas Fischer[3]: “la rappresentazione sociale è un processo d’elaborazione percettiva e mentale della realtà che trasforma gli oggetti sociali (persone, contesti, situazioni) in categorie simboliche (valori, credenze, ideologie) e conferisce loro uno statuto cognitivo che permette d’integrare gli aspetti della vita ordinaria con una ricollocazione delle nostre proprie condotte all’interno delle interazioni sociali”. Com’è facile desumere, si tratta di un recupero, al medesimo tempo, e della dimensione psichica (mediante la percezione) e della dimensione sociale (mediante la costruzione di un’interpretazione).


Il  concetto di rappresentazione


                Per cogliere appieno il senso sociologico di ciò che le rappresentazioni collettive (o, meglio, sociali) esprimono, conviene anche fare, sia pure in breve, un excursus sul termine “rappresentazione”. La sua matrice latina (da repraesentatio)segnala che si ha a che fare con l’idea di immagine, ritratto, descrizione, cioè con qualcosa che si mette dinanzi agli occhi, si fa comparire davanti, si esibisce, si evoca (ed anche rievoca), si riproduce, si disegna, si ripete, si rinnova, si imita, si pone in opera, si mette in essere. Da tali significati emerge chiaramente che la rappresentazione è anche una ricostruzione (come un dipinto, una scultura, una raffigurazione che ripropone le fattezze di una persona, il profilo di un paesaggio, il contorno di un oggetto, più o meno lontani nello spazio e nel tempo), ma altresì una riproposizione, una reinterpretazione, frutto di un’elaborazione cui partecipa direttamente lo stesso soggetto, l’attore sociale.


                La rappresentazione ha un carattere tipicamente simbolico, come quello di una carta geografica che sta ad indicare un intero territorio nazionale, mediante segni grafici convenzionali e proiezioni spaziali adeguate. Pure la rappresentazione teatrale rimanda a qualcosa d’altro di cui ripropone una sequenza di eventi agiti da attori-maschere che stanno al posto dei soggetti originari.


                In campo filosofico la rappresentazione è data da un insieme di percezioni che si presentano alla coscienza soggettiva (detta psiche); in particolare fu Leibniz (1646-1716) che fece della “monade” la sede dell’attività rappresentativa perché rifletteva in sé l’universo. Nell’ambito giuridico infine la rappresentazione può riguardare la sostituzione di un altro soggetto attraverso apposita delega ad altra persona oppure significare la successione ereditaria acquisibile da chi succede nei diritti in sostituzione di un altro che non voglia o non possa esercitare i medesimi diritti di successione.


                In definitiva la rappresentazione ha un carattere di corrispondenza fra due entità differenziate, di cui si ri-presentano i dati essenziali, per fornire un’immagine che è comunque frutto di elaborazione, di costruzione. Il che comporta un’azione del pensiero, che comincia dalla percezione e prosegue nella sua riflessione: rispecchia ciò che ha ricevuto ma, almeno in parte, rivisita e rielabora quanto in forma prospettica gli è giunto.


Linguaggio e senso comune come vettori delle rappresentazioni


                Ogni rappresentazione si serve di un apposito linguaggio per potere essere comunicabile. Il linguaggio può essere verbale o gestuale e comunque è deciso, scelto, da chi lo usa come azione – frutto di atteggiamento -, al fine di far sapere ad altri qualcosa, in modo veritiero o simulato, mirando ad illudere, a soddisfare, ad ingannare, a convincere, a commuovere, a stupire. Però in genere si ricorre ad espressioni tipiche del senso comune, che non impegnano molto o affatto e che sbrigano qualsiasi problema con frasi fatte e gesti consuetudinari, abituali e di scarso significato sul piano operativo, cioè dell’agire concreto. Il senso comune non ha, di solito, alcun fondamento scientifico e risponde sovente ad interessi personali mascherati da attenzione verso gli altri. Come scriveva Tommaseo (3-I-103) si tratta di “comiche rappresentazioni …, nel promuovere i propri interessi mostrando aver mira agli altrui”. Inoltre le rappresentazioni del senso comune si basano sul sentito dire, sull’opinione diffusa, prevalente, in modo tuttavia indipendente dalla realtà di fatto. Questo genere di rappresentazioni confina con il pettegolezzo, con la diceria, con la nomea, con la voce pubblica. Eppure contribuiscono a costruire una certa idea su una persona, su un evento e su altro ancora.


                Ma il senso comune ha anche altre valenze collettive e sociali. Così come lo definisce Gallino[4], esso è un “complesso variamente sistematico e coerente di rappresentazioni della realtà dell’uomo, della società, della natura e della sovra-struttura, di giudizi morali ed affettivi sulle loro azioni e condizioni, di credenze sulla concatenazione di cause ed effetti tra eventi umani, naturali e sovrannaturali, di schemi interpretativi utili ad orientare ed a conferire ordine e significato alla vita quotidiana che ciascun essere umano si forma naturalmente ed inconsapevolmente nel corso della socializzazione primaria e secondaria e che costituisce il presupposto basilare delle sue azioni sociali, cioè di tutte le azioni intenzionalmente dirette verso altri soggetti; concezione elementare del mondo e dell’esistenza comune alla maggior parte dei membri d’una società, e utilizzata da quasi tutti loro con un grado minimo o nullo di consapevolezza, tale da permettere di predicare come “ovvi” e “dati” i più diversi stati e variazioni di oggetti, fenomeni, accadimenti naturali, sociali e culturali. Il senso comune è sempre un costrutto, o insieme di costrutti cognitivi e valutativi, fortemente selettivo e astraente, in quanto presceglie e coordina tra loro una serie limitata di “fatti” dalla congerie sterminata che costituiscono il mondo della vita”. Una simile definizione del senso comune chiarisce abbastanza bene quali siano le sue complesse valenze: esso abbraccia quasi ogni settore del vissuto e lo fa in modo sistematico e non necessariamente coerente ma continuo e coordinato in apparenza; in realtà tuttavia manca di fondamento, non procede per conoscenze accertabili ed accertate, dà per scontato ciò che non lo è, costruisce percezioni distorte e distorcenti della realtà, è portato ad esprimere giudizi senza cognizione di causa, si lascia condurre da moti momentanei di tipo emozionale, solitamente manca di consapevolezza, si basa su strutture logiche e raziocinative piuttosto deboli, sceglie alcuni elementi di riferimento e li enfatizza come spiegazione assoluta ed incontrovertibile. Nondimeno resta esso stesso, nella misura in cui opera, un dato sociale di cui tenere conto perché influente e diffuso.


Gli universi di significato, gli universi simbolici e gli universali culturali


                Di livello più elaborato sono gli universi di significato, cioè gli insiemi di valori, visioni, prospettive, considerazioni, che orientano l’agire individuale e sociale. In forma più specifica si parla di universi simbolici che secondo Berger e Luckmann[5] “sono corpi di tradizione teoretica che integrano diverse sfere di significato e abbracciano l’ordine istituzionale in una totalità simbolica”. Detto in altri termini gli universi simbolici sono il risultato di una trasmissione di contenuti conoscitivi che mettono insieme diversi ambiti, appunto sfere di significato (morale, economico, politico, religioso e di altro tipo), cioè vari insiemi di elementi (valori, atteggiamenti, predisposizioni, modi di sentire, teorizzazioni rudimentali, principi comportamentali, regole di condotta, stili di vita, che danno senso all’azione) riguardanti l’intera società, le sue strutture e le modalità d’interazione fra gli individui. Il tutto va a costituire un’unità simbolica, cioè significante, che coinvolge i soggetti sociali e li orienta all’agire. Ogni universo simbolico (politico o religioso od altro) fornisce motivazione e spiegazione all’esistenza. In tal modo favorisce un certo tipo di rappresentazione collettiva invece di un’altra, una particolare concezione della realtà (Weltanschauung, letteralmente: visione del mondo) preferita rispetto ad altre prospettive diversamente orientate. I soggetti sociali appaiono come incorporati negli universi simbolici, che tutto spiegano e motivano. Ma ogni universo simbolico è il risultato di un’oggettivazione sociale, cioè di una costruzione sociale che porta a considerare una certa idea o rappresentazione come unica, la sola credibile, non contestabile. Così dopo l’oggettivazione, gli universi simbolici si sedimentano, si accumulano e si cristallizzano. Ma sono anch’essi un prodotto storico, che proviene da un ordine creato nella storia, per cui tutti gli avvenimenti risultano coerentemente uniti e comprensibili a livello diacronico (attraversando dunque il tempo passato, il presente ed il futuro). La conservazione di tali universi passa attraverso la permanenza di rappresentazioni collettive poco mutevoli e tendenzialmente statiche.


                Anche gli universali culturali si possono far rientrare nel novero delle rappresentazioni collettive. Infatti essi si giovano della lunga durata, che consente una straordinaria stabilizzazione nel tempo e nello spazio, in quanto si ritrovano in ogni epoca storica ed in ogni luogo. Si pensi al tabú dell’incesto: la sua universalità è provata, il suo carattere quasi sacrale è agevolmente verificabile. La stessa idea di tabú ha a che fare con una rappresentazione collettiva, in particolare con la nozione diffusa della proibizione relativa ad un oggetto o ad una persona, che non si può toccare, usare e neppure nominare. Secondo i funzionalisti, in particolare Malinowski[6], è la cultura – in senso socio-antropologico (costumi comportamentali, modi di agire, maniere di esprimersi) -, che nel rispondere ai bisogni (essenzialmente di natura biologica) stabilisce alcuni universali, cioè imperativi di tipo funzionale che servono al mantenimento della società: ancora una volta si tratta di universali culturali che sono anche rappresentazioni collettive, le quali costituiscono, com’è evidente, una base fondante della realtà sociale.


Residui e derivazioni, attribuzione di senso, emico ed etico


                Un’altra fondamentale distinzione è quella di Vilfredo Pareto fra residui e derivazioni. I primi sono ciò che di fisso, costante, quasi immutabile, si ritrova nelle azioni dei soggetti, influenzati come sono da aspetti innati (per esempio gli istinti). Le seconde hanno un carattere più mutevole, più adattabile alle circostanze ed alle convenienze allorquando il soggetto ha la necessità di dare un carattere razionale, logico, anche ad azioni “non-logiche”. Questa operazione di mascheramento, di mistificazione, che in qualche modo è affine all’ideologia, serve a nascondere i residui (ad esempio le motivazioni istintuali) grazie appunto alle derivazioni che coprono con parvenza di logicità ciò che tale non è. Le derivazioni sono fatte di ragionamenti, considerazioni, riflessioni, motivazioni, giustificazioni, che danno luogo ad una sorta di messa in scena, volta a celare le ragioni profonde e reali. Nascono così le coperture a carattere ideologico (dette appunto derivazioni) che razionalizzano le “azioni non-logiche”, pervenendo ad una formulazione giustificatoria che però parte da elementi residuali, cioè proprio dai residui costituiti dagli elementi innati.


                In ogni caso è l’attribuzione di senso al vissuto individuale e sociale che risulta essere il requisito essenziale di ogni rappresentazione collettiva (e sociale). Ma le modalità di costruzione di tali rappresentazioni possono variare in base allo strumento di trasmissione che le rende operative. Secondo uno dei principali autori degli studi cognitivisti, Jerome S. Bruner[7], esse possono avere un carattere esecutivo, iconico e simbolico. Nel primo caso si apprendono attraverso la pratica, il concreto operare, l’esercizio dell’agire. Nel secondo caso la conoscenza e l’apprendimento seguono il percorso tracciato dalle immagini, mediante la segnalazione di affinità, di similarità, di analogie con quanto già sperimentato nell’ambito del fare. Il terzo modo ha una presa maggiore perché comporta un consolidamento sia delle azioni (momento esecutivo) che delle immagini (momento iconico) in una sintesi più efficace a livello simbolico, dove si stabilisce un vero e proprio codice linguistico, ricco di significati. Esecutivo, iconico e simbolico sono compresenti, sovrapponibili, intersecabili fra loro. Anzi si può dire che appunto questa loro flessibilità in termini di convergenza e di traducibilità dall’uno all’altro consente un rafforzamento delle rappresentazioni che ne derivano.


                Sorge a questo proposito un ulteriore problema, legato alla contrapposizione fra emico ed etico. La questione concerne il rapporto fra particolare ed universale. Si potrebbe anche dire fra rappresentazione particolare e rappresentazione universale. In effetti la prospettiva emica tiene conto quasi unicamente del punto di vista specifico dei soggetti che sono protagonisti di una cultura e lo considera il riferimento essenziale per la validità di un’analisi scientifica. L’approccio etico presuppone invece l’esistenza di elementi universali condivisi da tutte le culture e sulla base di questi presupposti prende in esame una cultura specifica, senza dare rilevanza all’orientamento espresso dai soggetti stessi operanti in quel medesimo contesto culturale. Detto altrimenti la soluzione emica pone in evidenza la peculiarità di una situazione, definita e limitata, e la considera autoconsistente, autonoma, non dipendente da fattori condivisi, cioè universali, operanti al di fuori del suo ambito. Al contrario la versione etica tenta di applicare al caso specifico alcuni criteri che si danno per scontati e dunque validi in ogni società, grande o piccola che sia. Entrambe le modalità conoscitive presentano carenze: quella emica non sempre è in grado di riportare fedelmente lo spirito di una comunità, di un gruppo, di un’etnia, di un’intera società, mentre quella etica può essere soggetta a visioni autoreferenziali, etnocentriche, cioè largamente ispirate dalla propria matrice culturale di provenienza, la quale, consapevolmente o meno, condizionerebbe l’operazione conoscitiva. Ebbene in entrambe le situazioni si ha a che fare con rappresentazioni collettive: nell’emico con quelle proprie di una popolazione (e con il convergente adattamento dello studioso alle concezioni individuali e sociali della realtà secondo la sola prospettiva dei soggetti studiati), nell’etico invece con le idee che gli scienziati sociali hanno già accumulate nel loro bagaglio conoscitivo. A proposito di tutto questo, sullo sfondo rimane pur sempre la necessità di stabilire il livello di consapevolezza sia da parte degli attori sociali investigati sia da parte degli stessi sociologi in merito alle rappresentazioni collettive e sociali.


Simboli e legittimazione


                La rappresentazione simbolica è indubbiamente la modalità che esercita il maggiore influsso a livello comunicativo. Essa si giova del suo carattere sintetico, immediatamente allusivo ed evocativo. Una bandiera, un’immagine sacra ed un inno sono altrettanti richiami forti che ottengono risultati maggiori di qualunque discorso ben congegnato e motivato. Attorno ad essi si è coagulato nel corso del tempo un insieme vario e coordinato di contenuti valoriali che ispirano milioni di soggetti sociali, i quali costruiscono le loro concezioni della realtà senza prescindere dai riferimenti di fondo che li orientano. Il rafforzamento proveniente dai simboli si avvale di esperienze pregresse, di socializzazioni previe, di convincimenti radicati.


                Il simbolo è un segno di riconoscimento, che contraddistingue gli appartenenti ad un medesimo insieme. Tale appartenenza tende a produrre prospettive simili, condotte comuni, modelli condivisi di azione. In fondo il simbolo connota le rappresentazioni sociali di coloro i quali vi si rifanno, considerandolo loro espressione fondante. L’identificazione con il simbolo è anch’essa una forma di rappresentazione sociale, nella misura in cui a partire da esso si costruisce una certa visione del mondo che sia in linea con i contenuti valoriali del simbolo, con la sua storia, con le strutture sociali, le associazioni, i movimenti, i gruppi che ne dipendono in maniera più o meno formalizzata, più o meno diretta.


                Il simbolo non è mai casualmente rappresentativo di qualcosa ma è frutto di una scelta oculata e ben motivata. Alla base della costruzione simbolica, attraverso la quale si perviene a stabilire che un certo oggetto, ad esempio, divenga un simbolo, vi è una teorizzazione più o meno raffinata che considera opportuna una certa scelta simbolica invece di altre. Si stabilisce così uno stretto, solido legame fra simbolo e realtà, fra ordine simbolico ed ordine sociale. In tal modo il simbolo rappresenta, cioè sta al posto di qualcosa d’altro, sta per. In pratica il simbolo è anche una interpretazione della realtà, dunque una sua rappresentazione. Ciò è tanto vero che la stessa interpretazione dei sogni (e dei simboli che li attraversano) conduce, secondo Freud, a cogliere nessi significativi con i diversi elementi del vissuto di un individuo: in definitiva i simboli corrispondono quasi perfettamente alla realtà, almeno a livello intenzionale.


                Il simbolo come rappresentazione socialmente accettata si pone a mezza strada fra l’immaginario, quasi senza fondamento concreto, ed il reale, che comunque è assai più fondato di tutto quanto è solo immaginato. Inoltre la comunicazione mediante simboli presuppone che i soggetti posti in relazione (cioè chi trasmette e chi riceve) conoscano i significati dei simboli, altrimenti non sarebbero in condizione di interagire l’uno nei riguardi dell’altro e viceversa.


                A livello simbolico passano molte giustificazioni e spiegazioni. Il che avviene non solo in termini linguistici e retorici, ma mettendo in campo radici culturali, personaggi carismatici, valori di largo richiamo. Per esempio la stessa richiesta di riconoscere e legittimare (in forma giuridico-costituzionale) il carattere cristiano della cultura europea si fonda sulla larga presenza di documenti e testimonianze che fanno memoria di una lunga tradizione, mediante chiese e croci, statue ed oggetti di culto, che arrivano a caratterizzare un ambiente talora in modo iper-rappresentativo, come nel caso della regione tirolese dove la numerosità dei crocifissi lungo le strade aveva attirato l’attenzione critica di Sigmund Freud: “la frequenza dei crocefissi campestri qui in Tirolo, dove sono più numerosi di quanto lo fossero fino a poco tempo fa i turisti, mi ha indotto a studi sulla psicologia delle religioni”[8].


                Com’è noto, Freud ha visto la religione come un’illusione. Infatti “le rappresentazioni religiose sono scaturite dallo stesso bisogno che ha generato tutte le altre acquisizioni della civiltà, ossia dalla necessità di difendersi contro lo schiacciante strapotere della natura”[9]. Tali rappresentazioni vengono dunque costruite quasi per necessità autoprotettive da parte di individui assediati dalle forze della natura. Sarebbe questo, in qualche modo, il motivo della larga presenza di crocefissi in Tirolo: l’espressione del desiderio di difendersi dall’imponderabile della natura ricorrendo a soluzioni apotropaiche, cioè di allontanamento del male, servendosi di simboli difensivi ma anche esplicativi dell’appartenenza culturale di una popolazione e della sua rappresentazione collettiva (o sociale) del mondo. Del resto, proprio parlando di tali forme di rappresentazione, ancora Freud precisa che “si tratta di assiomi, asserzioni riguardanti fatti e rapporti della realtà esterna (o interna) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato in noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede. Poiché ci informano su ciò che più di ogni altra cosa è importante e interessante nella vita, attribuiamo a questi assiomi e asserzioni un valore particolarmente elevato”[10]. Quest’ultimo in effetti è così elevato che diviene il senso stesso da attribuire all’esistenza, una sorta di rappresentazione totale del mondo, il significato globale della realtà. Ed in fondo anche la credenza religiosa ha gli stessi connotati, i medesimi contenuti.


                Da qui al riferimento agli universi simbolici il passo è breve, anzi c’è una sostanziale consonanza se non proprio identificazione, grazie al carattere tendenzialmente totalizzante della rappresentazione. Invero, come affermano Berger e Luckmann, “l’universo simbolico fornisce la legittimazione definitiva dell’ordine istituzionale conferendo a questo il primato nella gerarchia dell’esperienza umana”[11]. Peraltro è “ampiamente provato che la legittimazione simbolica ha come suoi tramiti costanti la dimensione religiosa e quella politica, passa poi attraverso le trame ripetitive del vissuto quotidiano, trova espressioni significative nei prodotti più tipicamente legati alle manifestazioni estetiche”[12]. In definitiva il processo di simbolizzazione e di legittimazione-riconoscimento-accettazione seguono strade talora diverse ma di fatto convergenti nell’esito finale. Un ruolo decisivo è giocato dalla consuetudine e dall’assuefazione che derivano dalla quotidianità di gesti, stili di vita, comportamenti, che divengono un habitus mentale e sociale, difficile da dimettere perché quasi “concresciuto” in connivente connubio con lo sviluppo psico-fisico corrispondente alla socializzazione primaria (familiare) e secondaria (scolastica e gruppale) degli attori sociali. Completano il lungo itinerario di simbolizzazione-legittimazione i prodotti artistici (dalla musica alla pittura, dalla letteratura all’architettura) che corroborano le rappresentazioni collettive e sociali dominanti, le confermano e le dilatano ulteriormente, favorendo una sorta di colonizzazione onnipervasiva.


Ideologia, opinione pubblica, mentalità, coscienza e conoscenza


                Si deve a Karl Mannheim il contributo più significativo sul tema dell’ideologia, da lui contrapposto a quello di utopia[13]. Innanzitutto va chiarito che il sociologo di origine ungherese usa il termine ideologia in senso del tutto neutro, cioè senza attribuirgli l’abituale significato negativo. L’ideologia è un insieme, un sistema di significati, di valori, che esprimono le rappresentazioni tipiche di una collettività, di una società o di un gruppo, di un movimento. Significati, valori e rappresentazioni sono un tutt’uno che concerne atteggiamenti (orientamenti, propensioni) e comportamenti (prassi, azioni). Per Mannheim c’è una distinzione fondamentale da operare fra ideologia totale ed ideologia parziale. Quest’ultima è data dal mascheramento posto in essere da chi intende offrire una visione distorta della realtà per difendere i suoi interessi. L’altra, quella totale, è oggetto di studio della sociologia della conoscenza e rappresenta un quadro più ampio della realtà sociale, ne offre una descrizione-interpretazione complessiva, una concezione intellettuale di grande respiro. L’obiettivo specifico della sociologia della conoscenza è


di analizzare i rapporti fra queste rappresentazioni generali della realtà e le loro condizioni storico-sociali di sfondo, di scenario. La contrapposizione, infine, fra ideologia ed utopia nasce dal fatto che l’una tende a legittimare lo status quo mentre l’altra è più innovativa, critica, tesa al cambiamento ed al superamento dell’esistente.


                Lo studio della costruzione delle ideologie come rappresentazioni porta a considerare il peso delle strutture sociali. Così una società capitalista risulta strettamente legata ad un’ideologia liberale, cioè di libertà di mercato, in cui domina il cosiddetto individualismo possessivo. Indipendentemente dalla fondatezza di una particolare prospettiva di lettura della società, l’ideologia dominante arriva ad informare di sé le dimensioni simboliche, le attitudini comportamentali e le norme che i soggetti hanno introiettate nel corso della loro esistenza. Tutto ciò è dovuto alla loro continua esposizione ai modelli della socializzazione familiare ed extra-familiare, alle propensioni prevalenti nei gruppi di loro riferimento principale, alla forza della tradizione, all’influenza della memoria storica, al peso di leaders più o meno carismatici, all’azione dei mass media tesi alla conservazione delle identità esistenti o a crearne delle nuove attraverso un riferimento comune. Questo non solo si interiorizza ma si trasmette, di generazione in generazione, di società in società. Né si può dimenticare il cosiddetto effetto Pigmalione (derivato dall’omonima opera di George Bernard Shaw e dal mitico re greco che la ispirò), che consiste nel comportarsi secondo le attese degli altri, dunque quasi specchiandosi negli altri ed immedesimandosi in loro e nelle loro concezioni.


                Spesso si invoca l’opinione pubblica come base certa per sostenere una certa linea di pensiero, cioè una rappresentazione diffusa in merito ad una questione cruciale di particolare attualità. Si tratta di volontà individuali convergenti verso un medesimo orientamento. Ma anche in questo caso c’è da chiedersi come nasca una specifica opinione pubblica. All’origine ci può essere l’influenza dei cosiddetti opinion leaders, ma anche uno stretto interesse personale, familiare, lavorativo, politico, religioso od altro. L’opinione pubblica ha un carattere sommario, ma dipende dal collegamento con i singoli che la esprimono. Ciò significa che la sua durata è tendenzialmente limitata e contingente: lo dimostrano bene i diversi risultati di un referendum sulla medesima questione, che a volte raccoglie dissensi a volte ottiene consensi, o comunque registra quantità e qualità di volta in volta differenziate all’interno stesso dell’espressione di favore o di contrarietà.


                La differenza fra opinione e mentalità è costituita dal fatto che mentre l’opinione si basa su valutazioni e rappresentazioni consapevoli ed articolate ma mutevoli, estemporanee, invece la mentalità pur altrettanto ambigua è fortemente salda nelle sue rappresentazioni, nelle sue credenze, nelle sue convinzioni. In altre parole la mentalità appare più statica e duratura dell’opinione pubblica. Ovviamente la sua longevità permane a prescindere dall’orientamento prevalente, sia esso conservatore o innovatore. In qualche momento si può registrare qualche incertezza o doppiezza. Ma si tratta di capire quali siano le motivazioni di fondo che presiedono a tale ambiguità. A ben guardare si scoprirà che la mentalità mantiene una sua coerenza a lunga gittata, per l’abitudine acquisita a navigare lungo il corso della storia ed a scegliere gli obiettivi più opportuni momento per momento, caso per caso. C’è poi sempre da fare i conti con l’equilibrio fra reale ed immaginario, onde mantenere in piedi e far sopravvivere nel tempo la mentalità propria del gruppo, della classe sociale, dell’etnia, della comunità o della confessione religiosa cui si appartiene.


                Tra le appartenenze che favoriscono il sorgere di rappresentazioni sociali largamente condivise è da annoverare quella di classe sociale. La coscienza di classe, poi, rappresenta il punto di partenza per la costruzione dell’idea di conflitto di classe, che si sviluppa dalle considerazioni relative alle proprie condizioni materiali di vita. Nella prospettiva marxista l’opzione è quella per la classe operaia, ma evidentemente anche la borghesia ha una sua consapevolezza di classe dominante. Nella coscienza di classe prevale un contenuto ben diverso dalla coscienza collettiva di Durkheim, impostata invece su valenze valoriali, credenze ed immagini rese comuni dalla tradizione o dal consenso.


                Quanto detto sinora sulla formazione delle rappresentazioni collettive, o sociali che si voglia dire, rientra nel campo peculiare di quel ramo specialistico della sociologia che va sotto il nome di sociologia della conoscenza e che ha una lunga e gloriosa storia di contributi e ricerche. Val dunque la pena di chiarire segnatamente che cosa si debba intendere per conoscenza in chiave sociologica, anche per capire meglio come si costruiscano le rappresentazioni, le quali altro non sono che forme di conoscenza del sociale.


                Le nostre rappresentazioni della realtà si formano a poco a poco sin dal nostro ingresso nella società umana. Quindi l’educazione familiare e quella scolastica danno un contributo fondamentale al nostro sapere, alla nostra conoscenza. Ma è soprattutto il vissuto quotidiano che scava un po’ per volta, ponendo le basi del nostro approccio al vivere ed all’agire sociale. La conoscenza ha una matrice essenzialmente genitoriale ed intergenerazionale. I contenuti trasmessi riguardano le visioni di ordine politico ed economico, etico e religioso, professionale e valoriale. La stessa concezione dello spazio e del tempo deriva dalla duplice socializzazione di base (in famiglia e fuori).


Teorie delle rappresentazioni collettive


                Fra le teorie maggiormente attente alle rappresentazioni collettive e sociali c’è la fenomenologia, che si interessa in particolare al vissuto quotidiano e lo considera fortemente significativo. Essa cerca il senso, l’essenza delle azioni, la loro valenza comunicativa. E lo fa guardando agli aspetti solitamente trascurati dalle grandi teorie sociologiche, protese quasi esclusivamente all’analisi delle macro-strutture politiche ed economiche. L’approccio fenomenologico non si limita ad un’indagine superficiale ed impressionistica, ma va al fondo degli eventi e ne considera l’effervescenza un carattere sintomatico. Alla fenomenologia si rifanno l’interazionismo simbolico e l’etnografia, che mirano soprattutto ad interpretare caratteri e segni del comportamento umano, piuttosto che a spiegarli. In tale prospettiva non si cercano motivi originari, cause, matrici genetiche, quanto invece la coscienza del mondo, ovvero la coscienza che il soggetto ha di sé e del mondo che lo circonda, insomma la sua autorappresentazione in relazione al mondo e la rappresentazione che egli si fa del mondo. Si potrebbe dire che l’attore sociale acquista in tal modo la duplice visione di sé e del mondo.


                Il cognitivismo, dal canto suo, si rivolge ai processi della conoscenza per esaminarli nel loro concreto sviluppo, giovandosi altresì dell’ausilio di altre scienze come la psicologia, la neurologia, la linguistica, l’informatica ed altre ancora. La corrente cognitivista si interessa più agli atti conoscitivi che non alle credenze collettive, insomma guarda alle ragioni addotte, alle argomentazioni, alle giustificazioni, alle motivazioni, alle riflessioni. Si collega al cognitivismo anche la soluzione teorica della scelta razionale (rational choice) diffusa specialmente nel mondo statunitense. Secondo quest’ultima impostazione le rappresentazioni della realtà sarebbero condizionate dall’individualismo utilitaristico dei soggetti umani, i quali sceglierebbero il mezzo considerato più efficace per raggiungere i loro scopi, calcolando costi e benefici.


                Una forma affine di cognitivismo è praticata soprattutto in ambito socio-antropologico, coniugando insieme lingua, cultura e percezione come dimensioni fondamentali delle rappresentazioni ed enfatizzando al massimo l’approccio emico, cioè localistico. Le rappresentazioni che ne risultano sono un interplay, cioè una rete di relazioni fra modalità linguistiche, informazioni percettive, utilizzo di oggetti, caratteri ambientali, prospettive culturali. Anche in questo caso hanno un ruolo importante i simboli, come riferimenti sintetici e complessivi.


                Il costruttivismo infine parte dal presupposto che tutta la percezione della realtà sia frutto di operazioni costruttive, in atto senza soluzione di continuità nel tempo. L’analisi sociologica che ne consegue è aperta a soluzioni non dicotomiche ed abbastanza problematizzate e quindi flessibili a livello interpretativo. Così il quadro sociologico che ne emerge è variegato, articolato, frammentato, proprio come appare la stessa realtà sociale. Ovviamente la conoscenza è parte essenziale di ogni processo costruttivo. Berger et Luckmann[14] sono i maggiori fautori dell’idea che la società sia caratterizzata da molteplici fasi di continua creazione. Anche la posizione teoretica che va sotto il nome di individualismo metodologico ha un carattere costruttivista perché assegna al singolo individuo la possibilità di effettuare le sue scelte al di fuori di condizionamenti dualistici e contrapposti. In effetti le stesse fenomenologie collettive (ivi comprese le rappresentazioni sociali) deriverebbero dalle azioni individuali.


                Il decostruttivismo, da ultimo, mira a rompere la continuità con il passato e con la forme tradizionali di razionalità e di spiegazione, preferendo l’idiografico, cioè la dimensione individuale, unica ed irripetibile, al nomotetico, cioè alla dimensione universale generalizzabile. Esso contesta dunque le interpretazioni fondate sull’analisi delle strutture e delle funzioni, sulle tassonomie formali, sui requisiti universali. Mira perciò a riscoprire il valore del segno, o meglio ad evidenziare che le componenti essenziali del sociale sono date dai valori e dai significati. Pertanto è necessario mettersi dalla parte dell’attore sociale, delle sue definizioni, del suo punto di vista, senza cercare fuori di lui altre spiegazioni che tendono a prescindere dal suo orientamento, dalla sua rappresentazione del mondo. In definitiva la chiave di volta per analizzare la formazione di un pensiero, di una percezione, è da cercare nello stesso soggetto sociale, ricostruendo in primo luogo i significati non espliciti presenti nelle sue concezioni, cioè nel suo immaginare se stesso e la sua vita sociale.


Riferimenti bibliografici


Verena Aebischer, Jean-Pierre Deconchy, Marc E. Lipianski, Idéologies et représentations sociales, Delval, Fribourg, 1992.


Peter L. Berger, Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday, Garden City, N. Y., 1966; tr. it., La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969.


Vittorio Cotesta, Lo straniero. Pluralismo culturale e immagini dell’Altro nella società globale, Laterza, Bari, 2002.


Willem Doise, Augusto Palmonari, L’étude des représentations sociales, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel, 1986.


Emile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris, 1912; tr. it., Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Edizioni di Comunità, Milano, 1963; Newton Compton Italiana, Roma, 1973.


Rodolphe Ghiglione, Claude Bonnet, Jean-François Richard, Cognition, représentation, communication, Dunod, Paris, 1994.


Denise Jodelet, Les représentations sociales, PUF, Paris, 1980, 1994.



[1] Emile Durkheim, De la division du travail social, Alcan, Paris, 1893; PUF, Paris, 1996, p. 46; tr. it., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano, 1971.


[2] Emile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris, 1912; tr. it., Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Edizioni di Comunità, Milano, 1963; Newton Compton Italiana, Roma, 1973, p. 59.


[3] Gustave-Nicholas Fischer, Les concepts fondamentaux de la psychologie sociale, Dunod, Paris, 1994, p. 118.


[4] Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1978, p. 604.


[5] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday, Garden City, N. Y., 1966; tr. it., La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969, p. 136.


[6] Cfr. Bronislaw Malinowski, A Scientific Theory of Culture, University of North Carolina, Chapel Hill, 1944; tr. it., Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1962.


[7] Cfr. Jerome S. Bruner, On Knowing. Essays for the Left Hand, Harvard University Press, Cambridge, Ma., 1964; tr. it., Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Armando, Roma, 1968. Cfr. Jerome S. Bruner, Rose R. Olver, Patricia M. Greenfield, Studies in Cognitive Growth. A Collaboration at the Center for Cognitive Studies, John Wiley & Sons, New York, 1968; tr. it., Studi sullo sviluppo cognitivo, Armando, Roma, 1972. Cfr. Jerome S. Bruner, Actual Minds, Possibile Worlds, Harvard University Press, Cambridge, Ma., 1986; tr. it., La mente a più dimensioni, Laterza, Bari, 1988.


[8] Károly Kerényi, “Introduzione” in Sigmund Freud, Totem e tabú, Boringhieri, Torino, 1969, p. 10. Il testo riportato è tratto da una lettera scritta da Freud a Ludwig Binswanger il 10 settembre 1911.


[9] Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione, in Opere 1924-1929, a cura di Cesare Musatti, vol. X, Bollati Boringhieri,Torino, 1978, p. 451.


[10] Op. cit., p. 455.


[11] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, op. cit., p. 140.


[12] Roberto Cipriani, “La dimensione simbolica della legittimazione”, in Roberto Cipriani (a cura di), La legittimazione simbolica, Morcelliana, Brescia, 1986, pp. 99-100.


[13] Cfr. Karl Mannheim, Ideologie und Utopie; Cohen, Bonn, 1929; tr. it, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna, 1956.


[14] Cfr. Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, op. cit.

PRETI E SOCIETÀ IN ITALIA

Roberto Cipriani


Premessa


                Non è facile immaginare la società italiana del tutto priva della presenza di sacerdoti cattolici. Essi costituiscono da tempo un carattere peculiare della cultura del nostro territorio tanto da essere oggetti e soggetti di molteplici espressioni artistiche (specialmente nel cinema e, soprattutto di recente, anche nella televisione) nonché di utilizzazioni pubblicitarie a tutto spiano. Il che, al di là di altre possibili considerazioni di ordine valutativo, è pur sempre un dato di fatto significativo ed inequivocabile, come segno di un certo apprezzamento, di una simpatia, tutto sommato di un prestigio che i preti godono tra la popolazione italiana.


                Tale atteggiamento tendenzialmente favorevole si tramuta in comportamenti concreti che vanno dalla sottoscrizione dell’otto per mille alla ricerca di interlocutori affidabili proprio nei sacerdoti. Ma questo non esclude altre attitudini non del tutto favorevoli, piuttosto critiche, persino avverse.


                Del resto il ruolo strategico dei preti nella società italiana ne fa degli elementi che si prestano a giudizi diversificati, non sempre in riferimento alla loro reale capacità pastorale, alla loro moralità pubblica e privata, al loro impegno sociale e solidaristico, ma talora con ampie quote di pregiudizi che troppo generalizzano e poco tengono conto della singolarità dei casi presi in esame.


La realtà dei dati


                Secondo l’Ufficio Statistico della Chiesa Cattolica risultano presenti in Italia 54.606 sacerdoti, fra diocesani (35.388) e religiosi (19.218) con una media dunque di 9,3 sacerdoti ogni 10.000 abitanti ovvero quasi un prete per ogni migliaio di persone. Ed ecco il quadro completo, suddiviso per regione:



Regione


Numero dei sacerdoti


Percentuale dei sacerdoti


Piemonte


4.679


  8,6


Lombardia


7.726


14,1


Triveneto


8.327


15,2


Liguria


2.094


  3,8


Emilia Romagna


3.795


  6,9


Toscana


3.313


  6,1


Marche


1.911


  3,5


Umbria


1.095


  2,0


Lazio


7.346


13,5


Abruzzo Molise


1.412


  2,6


Campania


3.690


  6,8


Puglia


2.708


  5,0


Basilicata


  427


  0,8


Calabria


1.359


  2,5


Sicilia


3.483


  6,4


Sardegna


1.241


  2,3


TOTALE ITALIA


                     54.606


                      100,0


Fonte: Ufficio Statistico della Chiesa Cattolica, 1995.


                    Ovviamente la condizione demografica di ciascuna regione influisce direttamente sul numero dei preti, fatta eccezione per il Lazio dove risulta preponderante il peso di Roma. Ecco perché Triveneto e Lombardia hanno un alto numero di ministri di culto cattolico, ma va precisato che il tasso di sacerdoti rispetto alla popolazione regionale risulta consistente (12,5 su 10.000 abitanti) solo nel caso del Triveneto ma è ben più contenuto in Lombardia (8,8) mentre è ancor più alto in Marche, Umbria e Lazio (13,2). I livelli più bassi si riscontrano in Campania (6,2), Calabria (6,4), Puglia (6,6), Basilicata e Sicilia (6,7). Contrariamente a quanto si è indotti a pensare di solito la maggiore presenza dei sacerdoti è dunque nel centro-nord piuttosto che nel sud.


                Come sottolinea Luca Diotallevi in una recente pubblicazione (Religione, chiesa e modernizzazione: il caso italiano, Borla, Roma, pagina 121), “alla sperequazione nella distribuzione – a vantaggio delle regioni settentrionali – va aggiunto un altro elemento. I molti sacerdoti del Nord sono attivi in poche diocesi mentre i pochi del Sud e del Centro in molte”. Insomma chi si trova nel settentrione partecipa ad una comunità diocesana di presbiteri in media tre volte più numerosa di quelle delle diocesi meridionali. Di conseguenza anche la “cura d’anime” è meno efficace al sud giacché i pastori devono preoccuparsi di quote molto più ampie di popolazione.


                Ecco dunque che “oggi, e non un secolo fa, vi è maggiore disponibilità di personale religioso nelle aree più modernizzate, più sviluppate e più ricche del paese”, per cui “il rapporto di forze tra Nord e Sud che regge ancora, ‘più personale religioso nelle aree più socialmente avanzate’, non è qualcosa che abbia semplicemente resistito all’ondata di modernizzazione che ha interessato il Paese seppur disomogeneamente. Al contrario, è una sperequazione a vantaggio delle aree più avanzate che proprio contemporaneamente al processo di modernizzazione si è andata affermando”.


                Un altro aspetto di particolare interesse è quello delle ordinazioni sacerdotali, che ripercorrono lo stesso trend registrato sinora: tra il 1991 ed il 1995 si sono avuti 2.414 nuovi sacerdoti ordinati in Italia; di questi 1.126 nella parte settentrionale, 812 in quella meridionale, 476 nella parte centrale (compresa Roma con 165 ordinati).


Infine si può ricordare che, secondo il dato più recente in nostro possesso, al 30 giugno 1999 risultano iscritti nelle liste della CEI per il sostentamento del clero 32.953 sacerdoti secolari.         


L’immagine dei preti


                Se si parte dalla constatazione che la maggioranza degli italiani (il 64,8%) – secondo l’indagine nazionale su La religiosità in Italia (curata da Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, e pubblicata da Mondadori nel 1995) – crede molto o abbastanza che “la chiesa cattolica è un’organizzazione voluta e assistita da Dio”, è prevedibile che anche nei confronti del personale ecclesiastico si possa registrare un orientamento positivo.


                In particolare se in media solo il 10% degli italiani ritiene essere compito di un credente il “consigliarsi con dei sacerdoti” ed il 9,8% il “contribuire alle necessità economiche della chiesa o del proprio gruppo religioso” (ma va tenuto presente che si trattava di scegliere solo cinque azioni ritenute più importanti su un totale di quattordici), tuttavia il 27,7% partecipa a incontri, conferenze, dibattiti, iniziative organizzate dal parroco o da altri esponenti di gruppi o centri religiosi.


                L’impatto con i sacerdoti passa essenzialmente attraverso il momento dell’omelia domenicale, che crea qualche problema soprattutto per la sua lunghezza (come lamenta il 46,7% degli intervistati), per la sua impostazione polemica (fatta rilevare nel 23,6% dei casi), per l’essere per nulla o poco stimolante (giudicata così dal 49,6% dell’universo campionato), per la sua scarsa comprensibilità (sottolineata dal 14,8% del campione).


Il nodo principale che fa problema è però quello della confessione, cui non si accosta mai più di un quarto (25,7%) dell’intera popolazione italiana. Intanto però va registrato un 22,9% che vorrebbe “cambiare il modo di confessarsi previsto dalla chiesa”.


Ciò che non piace nella confessione è “il modo di confessare di alcuni preti” (lo dice il 18,6%), il doversi confidare con un sacerdote quando basterebbe invece pentirsi davanti a Dio (lo sostiene il 28,2%), il bisogno di raccontare ad un altro uomo le proprie colpe (lo pensa il 10,6%), il fatto che la chiesa consideri peccato ciò che a giudizio personale non appare come tale (lo ritiene il 5,3%). All’8,4% degli intervistati la questione non interessa o va inquadrata secondo prospettive diverse. Per il restante 28,9% non vi sono riserve di sorta.


                Un riflesso del disagio relativo alla confessione si rileva anche quando si parla in termini più generali. In effetti nel 28,8% dei casi si è propensi a ritenere che “non c’è bisogno dei preti e della chiesa; ognuno può intendersela da solo con Dio”.


A parte le offerte nel corso delle messe festive, il 50,5% dice di non aver mai dato del denaro alla parrocchia, ma ancora più cospicuo è il numero di soggetti (78,1%) che dichiara di non aver parlato direttamente con un sacerdote su problemi personali o familiari.


Nondimeno il 46,7% degli intervistati pensa che “in Italia la chiesa cattolica è l’unica autorità spirituale e morale degna di rispetto”. Semmai si rimprovera che “la chiesa cattolica predica bene, ma non mette in pratica quello che afferma” (come si esprime il 43,4%).


Un altro rilievo concerne lo scarso spazio lasciato ai laici, secondo quanto notato dal 64,4%.


Tra i compiti peculiari della chiesa vengono individuati l’aiuto a chi soffre (66,2%), l’educazione dei giovani (47,3%), l’annuncio cristiano ed evangelico (38,9%), la promozione della pace (33,5%). Seguono a distanza l’amministrazione dei sacramenti (19,2%), la lotta alla mafia ed alla criminalità (17,3%), l’azione missionaria (17,1%).


Qualora la parrocchia venisse chiusa o soppressa, per mancanza di sacerdoti, in molti (43,2%) pensano che ne risentirebbe anche la vita di quartiere.


Il 58% “ritiene giusto il finanziamento delle chiese attraverso l’8 per mille delle tasse versate allo stato (IRPEF)”.


Molto dettagliata è poi la serie di motivazioni individuate come ostacolo alla scelta di una vita sacerdotale. Al primo posto è messo il non potersi sposare, avere figli (37,4%), c’è poi la rinuncia a molte cose (26,7%), seguita dalla irrevocabilità della scelta (23,8%) e dalla disponibilità di varie alternative per un impegno religioso (21,5%), nonché dalla solitudine connessa alla vita sacerdotale (20,2%).


La maggioranza relativa degli intervistati (il 45,1%) pensa inoltre che debba essere abolito il celibato obbligatorio per i preti cattolici. D’altra parte una quota consistente del campione (39,7%) darebbe senz’altro il sacerdozio anche alle donne.


Farsi prete


La vocazione al sacerdozio continua ad interessare migliaia di giovani, pur attratti e distratti da altre prospettive. La storia ci dimostra che ben altre e più consistenti sono state le crisi: due secoli fa (nell’ottocento, dopo la cosiddetta grande secolarizzazione, che portò alla chiusura di molti conventi ed altri luoghi di educazione religiosa) e poi soprattutto agli inizi del secolo scorso (nel novecento, che registrò – almeno nei primi due decenni – ampi vuoti nei seminari).


                La ripresa si è avuta a partire dagli anni venti, pur con alterne vicende, fra le quali vanno segnalate la stasi e talora la caduta vocazionale post-contestazione degli anni sessanta. Tuttavia guardando con una prospettiva a lunga gittata, senza dare rilevanza ad episodi contingenti, si può parlare di una sostanziale tenuta delle vocazioni – tenuto anche conto del calo demografico, che vede l’Italia particolarmente sfavorita.


                Il flusso vocazionale non si è dunque interrotto. Anzi si potrebbe supporre che proprio le difficoltà dell’oggi rendono ancora più consapevole e coerente la scelta sacerdotale. Mediamente si deve anche riconoscere che il livello qualitativo, spirituale e culturale, dei candidati al sacerdozio è andato migliorando, la didattica nei seminari e nelle facoltà teologiche si è aperta alle nuove scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia), la preparazione di base dei seminaristi è su un livello certamente più alto di quello dei loro predecessori di qualche decennio fa. Molti presbiteri contemporanei hanno conoscenze informatiche, linguistiche e manageriali nemmeno immaginabili nel passato.


                La modernizzazione non è indice di cedimento al materialismo, a tutto danno della dimensione spirituale. Anzi è dimostrato che un recupero vocazionale significativo si ottiene proprio in quei contesti in cui si è al passo con i tempi. Insomma se ieri un vescovo laureato in matematica costituiva un’eccezione come utente di un computer oggi non si riesce più ad operare in modo efficace in campo pastorale senza far ricorso a qualche strumento informatico. Dunque i ritrovati della modernità servono anche all’azione sacerdotale: per parlare, comunicare, rappresentare simbolicamente, trasmettere messaggi, fornire suggestioni forti e convincenti.


                L’informatica come la televisione non è una espressione diabolica. Perché soprattutto coloro che si avviano al sacerdozio ed i preti novelli non dovrebbero imparare a gestire dei mezzi così importanti e sempre più decisivi negli anni a venire?


                L’interesse alle nuove realtà mediatiche non è in conflitto con i percorsi educativi del clero in formazione. Anzi può rappresentare un utile punto di convergenza e di interazione proprio con quelle classi giovanili di età solitamente più refrattarie ad una frequentazione del personale di chiesa.


                In fondo anche la questione del celibato può apparire ai seminaristi ed ai giovani sacerdoti sotto altre vesti: come offerta di disponibilità nei riguardi degli altri, senza privilegiare rapporti di tipo familiare o coniugale. Per non dire della problematica di quanti affrontano la questione dell’omo-orientamento: la propria situazione di disagio può trovare alternative meno traumatiche, più consone, grazie ad una condivisione di esperienze incentrate su temi pratici, operativi, magari anche scientifici e tecnici.


                Appassionarsi al culturale, oltre che al cultuale, è certamente una via d’uscita dai meandri di un liturgismo fine a se stesso, di una cerimonialità affettata e poco partecipe. Del resto il confronto con l’esterno, con il mondo laico, con la cultura non strettamente religiosa, evita sia il rischio di una autoghettizzazione nel proprio quadro ecclesiastico di riferimento, sia quello di una esteriorità tutta di facciata, magari anche riverita ma di fatto poco apprezzata dagli altri.


                Lo stesso contesto familiare dei presbiteri merita una particolare cura in termini di presa di distanza e di necessaria separatezza, onde uscire da un invischiamento fatto di legami assai stretti, spesso coinvolgenti e perciò talora soffocanti. 


La provenienza dei sacerdoti


Ancora Luca Diotallevi nel suo studio sulla modernizzazione della chiesa in Italia, già citato sopra, ci ricorda (alle  pag. 126-127) che “un’altra struttura fondamentale della organizzazione ecclesiastica cattolica, ovvero quella addetta alla selezione ed alla formazione della principale figura di operatore religioso (il sacerdote) è il seminario”. In effetti è qui che nasce la classe dei presbiteri, si forma la loro “costruzione sociale della realtà religiosa”, con tutte le conseguenze che ne derivano.


                La vita in seminario è una seconda socializzazione, anzi si potrebbe dirla una sorta di “chiesizzazione”, cioè di ingresso nella chiesa come società umana. In questi anni decisivi si gettano le basi del futuro ministro di Dio e di mediatore religioso fra gli uomini. Ecco perché la scelta dei docenti, dei padri spirituali, dei rettori e loro collaboratori, è la chiave di volta che regge la struttura seminariale. Molto faranno poi anche le amicizie e le solidarietà giovanili ed intergenerazionali. Ma tutto ruota attorno al nucleo di idee, alla “politica” degli istituti di formazione, alla loro “poetica” per così dire, cioè all’arte ed alle regole dell’educazione dei nuovi preti.


                I seminari sono la spina dorsale della chiesa. Da essi si diramano forze nuove, linfa vitale per la continuità. Si tratta di una realtà cospicua: “trascurando il fenomeno dei seminari minori, quelli dedicati ai giovani che al massimo frequentino studi medi superiori, in Italia si hanno (sempre al 1995) 92 seminari maggiori – una sorta di università del personale ecclesiastico – destinati alla formazione filosofica e teologica del clero diocesano, e 155 seminari maggiori per la formazione del clero religioso. I seminari maggiori per il clero secolare sono 51 al Nord, 23 al Sud, 18 nell’Italia Centrale. Quasi il 40% di quelli per il clero regolare è concentrato a Roma.


                Nella valutazione di questo dato non si trascuri che il seminario è, seppur in gradi diversi – non infatti in tutti vengono svolti la ricerca e l’insegnamento -, un luogo di studi teologici e filosofici. Il dato appena riportato significa dunque anche una maggiore concentrazione di questi centri di studio e di diffusione della cultura religiosa e teologica al Nord.


                Per altro, anche università e facoltà di studi ecclesiastici sono più diffuse al Nord che al sud, mentre il massimo della loro concentrazione è a Roma. Complementare a questo è un dato che può essere interpretato come parziale misura di autonomia teologico-culturale dai centri di studio romani. Dei sacerdoti diocesani italiani già ordinati che proseguono gli studi in ambito romano (non dunque in assoluto) il 46,3% viene da diocesi delle regioni meridionali, mentre solo il 31,5% da diocesi settentrionali”.


                Dunque la preparazione a livello locale, specialmente nelle regioni settentrionali ha la meglio sui centri romani d’istruzione religiosa. Questo distacco da Roma non pare improduttivo o controproducente se poi sono le diocesi del Nord quelle più impegnate nella modernizzazione della pastorale (ne sono un indicatore significativo il numero di sinodi diocesani celebrati di recente). Ma non mancano diocesi delle altre regioni che risultano piuttosto attive nella loro azione apostolica.


                I risultati si vedono anche attraverso il numero delle ordinazioni sacerdotali. Va però considerato un ulteriore dato (L. Diotallevi, opera citata, pag. 138): “ben altre dimensioni ha il fenomeno delle importazioni di seminaristi da aree ricche di vocazioni ad aree povere, i quali poi in queste ultime vengono ordinati sacerdoti. Nel passato questo fenomeno veniva contenuto entro i confini nazionali, oggi si sta internazionalizzando (con diocesi soprattutto dell’Italia centrale che reclutano giovani prevalentemente nell’Europa dell’Est ed in paesi africani)”.


                Non è questo l’unico dato da tenere presente. Notevole è anche il contributo del clero regolare. Si è riusciti a rallentare pure il decremento del clero secolare, ma – come scrive lo stesso Diotallevi (pagg. 144-145) – “è grazie alla diversificazione dell’offerta religiosa, grazie ai grandi risultati in termini di reclutamento ottenuti da ordini, congregazioni ed istituti in Italia tra gli inizi del secolo e gli anni ’50 che la densità di personale ecclesiastico – e sacerdotale in ispecie – è stata tenuta a livelli decisamente alti (rispetto al contesto europeo), e comunque ha visto decisamente arginato il suo decremento nella seconda metà degli ultimi 100 anni”.


Quale futuro?


                Certamente esiste e continuerà ad esistere un problema di ricambio generazionale dei preti italiani. Si sa che una delle caratteristiche principali del clero italiano è l’età media piuttosto elevata (in effetti i sacerdoti diocesani nati in Italia e al di sotto di 40 anni di età sono appena 4.372, secondo i dati del giugno 1997), ma questo è anche il risultato di un allungamento della durata media della vita.


                All’orizzonte comunque non si intravede un crollo catastrofico del numero e della qualità delle vocazioni. I seminari sono meno pieni del passato. C’è stato forse in proposito qualche errore di calcolo previsionale (la costruzione di strutture faraoniche in assenza di informazioni e conoscenze adeguate sul trend vocazionale) ma con adeguati riassetti (accorpamenti, ridistribuzioni, razionalizzazioni) non è difficile immaginare che quella che Lorenzo Del Zanna chiamava alcuni decenni fa la “fabbrica dei preti” (Editrice Fiorentina, Firenze, 1968) continuerà a funzionare, a “produrre” nuovi soggetti, preparati all’esercizio ministeriale e sempre più dotati di strumenti adeguati all’azione pastorale.


                Va anche considerato che così come cresce la differenziazione funzionale all’interno della società tutta (nuove professioni, nuove competenze, nuovi settori operativi, nuove modalità di comunicazione) altrettanto si può immaginare stia avvenendo per la professionalità degli operatori religiosi a tempo pieno che sono i ministri di Dio.


                Indubbiamente non sta venendo meno la figura tradizionale del pastore d’anime, del parroco in particolare, ma accanto a questi profili tradizionali ne stanno emergendo altri con caratteristiche più adatte ai “segni dei tempi”: per esempio i comunicatori massmediatici (attraverso la stampa, la radio, la comunicazione televisiva e multimediale, informatica e telematica, ivi compreso il vastissimo, inarrestabile mondo di Internet, la nuova frontiera del millennio che comincia: una sfida non trascurabile nel panorama delle offerte di relazioni interpersonali sempre meno prevedibili e sempre più incontrollabili).


                La “nuova evangelizzazione” ed il “progetto culturale” devono fare i conti con queste nuove realtà, non facilmente però gestibili in proprio dal personale ecclesiastico, che deve abituarsi dunque ad affidarsi ancor più ai laici, ai diversi specialisti dei singoli settori di intervento.


                La sfida è oggi (e lo sarà sempre più) sul piano del confronto sulla qualità e sull’efficacia dei messaggi. L’annuncio evangelico se non adeguatamente mediato attraverso soluzioni interessanti e convincenti rischia di finire con l’essere una stanca ripetizione di formule vuote, che non dicono nulla. Il contenuto di tante omelie, poco pensate, sovente improvvisate, infarcite di luoghi comuni e di esempi poco credibili, non regge il confronto con la comunicazione globale delle reti televisive, delle immagini planetarie, delle nuove retoriche legate ad eventi spettacolari.


                Non si pensa tuttavia ad una rincorsa del nuovo ad ogni costo ma i sacerdoti del ventunesimo secolo sono chiamati, sono “vocati” appunto ad utilizzare un diverso taglio prospettico per la loro proposta religiosa, pur senza mutarne i valori di fondo, i principi evangelici di riferimento. Detto altrimenti la situazione è tale da non ammettere (e da non “perdonare”) l’ignoranza in campo informatico, l’obsolescenza cioè l’invecchiamento degli strumenti comunicativi, la superficialità della relazione interpersonale.


                Anzi l’obiettivo che sembra più pertinente per i sacerdoti di oggi e di domani è quello di trovare una felice congiunzione risolutiva fra la spersonalizzazione della società globale post-industriale ed il recupero della dimensione sia soggettiva che interindividuale: insomma occorre rimettere in sintonia uomo e società, nonostante le interferenze che rendono poco comprensibile, perché “disturbato”, il messaggio religioso.

IL PLURALISMO RELIGIOSO E MORALE. UN CONFRONTO TRA CATTOLICI E NON APPARTENENTI

Roberto Cipriani


Premessa


                La religione diffusa dell’Italia di oggi non differisce molto da quella del passato. Del resto una cospicua presenza islamica lungo la penisola non è neppure un fatto totalmente nuovo. Precedenti vicende hanno lasciato tracce indelebili di una cultura mediterranea non italocentrica ma legata al mondo arabo in più contesti, a partire dalla Sicilia in primo luogo.


                Certamente la situazione contemporanea ha caratteri che mettono anche in evidenza attività e comportamenti di altra natura rispetto a quella abituale del quadro italo-cattolico. Tale maggiore visibilità non ha però nell’immediato un peso determinante. Se l’islam è ormai la seconda religione, per numero di fedeli, nella capitale universale del cattolicesimo, non si può sostenere – come ha intitolato la piena prima pagina un quotidiano di Istambul qualche mese fa – che “l’islam ha conquistato Roma” (una sorta di nemesi storica, dopo la conquista di Gerusalemme nel 1099 da parte dei crociati).


                Detto questo della religione musulmana, è facile immaginare che pure le altre confessioni religiose, più o meno istituzionalizzate o più o meno movimentiste, non abbiano facile presa su un terreno certo già reso fertile dall’evangelizzazione cristiana e cattolica ma difficilmente ricettivo nei riguardi di altre fedi. I testimoni di Geova ci stanno provando con impeto e passione da molti decenni ma i risultati conseguiti non sono particolarmente visibili e pari agli sforzi compiuti attraverso i loro ripetuti tentativi di proselitismo a porta a porta, casa per casa.


                L’indagine RAMP (Religious and Moral Pluralism) mette in evidenza, in verità, una certa superiorità numerica dei geoviti rispetto ad altre espressioni religiose, ma in termini comparativi la loro incidenza è minima se si tratta dello 0,6% degli intervistati. D’altra parte del pluralismo difficile è prova il contenimento – da molti decenni a questa parte – delle appartenenze religiose cristiane non cattoliche, che assommano tutte insieme ad un solo punto di percentuale.


Non c’è grande pluralismo se si dichiara cattolico il 97,5% e protestante od ebraico o musulmano o buddista o testimone di Geova od altro cristiano o non cristiano appena il 2,5%. La situazione non cambia se si calcola nell’universo di quanti hanno risposto sull’appartenenza religiosa: da una parte c’è il 79,3% che si dice cattolico, dall’altra  c’è il 2% circa che risponde con altre opzioni.


                A tutto ciò non è estraneo il sentimento di attaccamento alle singole chiese-comunità, come prova il fatto che – su un quesito a tal riguardo – quasi la metà dei rispondenti dice di sentirsi vicina o molto vicina (per un totale del 45,5%) al proprio riferimento istituzionale religioso. Il che significa che c’è poco agio per altre soluzioni, per altri percorsi esperienziali.


                Singolare è peraltro il fatto che la percentuale degli appartenenti cattolici è perfettamente identica a quella di coloro che hanno sempre fatto parte della medesima chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa. Le trasmigrazioni da una situazione ad un’altra in effetti sono poco più dell’un per cento.


                C’è poi da registrare una tendenza – è difficile stabilire fino a che punto consapevole – a legarsi in amicizia con i propri correligionari. In molti casi (il 42% dell’intero universo) nessuno degli amici o nessuna delle amiche pratica un’altra religione. Solo il 3% dice di avere tutte le sue amicizie con soggetti appartenenti a religioni diverse dalla propria.


                Sugli obblighi religiosi imposti al genere femminile in talune circostanze non vi è particolare sensibilità in Italia, giacché si tratta di un’esperienza che non rientra nell’orizzonte quotidiano abituale. Tuttavia è interessante notare che ben il 66% della popolazione intervistata reagisce negativamente all’imposizione che per esempio obbliga le ragazze di una certa religione ad andare a scuola con il capo coperto. In questo caso probabilmente non si tratta di una sensibilità resa manifesta nei riguardi del genere ma di un’attenzione maggiore ai propri costumi, al proprio sistema tradizionale, che non pone divieti ed obblighi specifici in riferimento alla frequenza scolastica. Comunque l’atteggiamento di fondo resta valutativo a partire dal proprio orientamento religioso di base.


                Ancora più alte sono le percentuali che coinvolgono questioni di rilevanza etica ma con motivazioni religiose, quali l’assunzione di droga per motivi di ritualità religiosa (il disaccordo sale all’83,4%), il diniego delle trasfusioni di sangue (il 91,5% non è per niente d’accordo), il ricorso al suicidio (ben il 94,8% mostra di non accettare tale soluzione quale conseguenza di una scelta religiosa).


                Ancor più palese diventa il binomio atteggiamento-comportamento allorquando si considera la portata sociale delle presenze plurime di forme religiose in Italia. Solo un terzo della popolazione interrogata prende atto dell’arricchimento culturale che proviene dalla variegata articolazione di espressioni religiose attive nel Paese. Un terzo è nettamente contrario a tenere conto di questo apporto. Infine un altro 16,5% si dice sfavorevole. Dunque quasi la metà dei soggetti (48,7%) non apprezza il contributo culturale di religioni diverse dalla propria.


                Percentuali simili si registrano ove si considerino gli esiti conflittuali di una presenza religiosa altra, ma invero con qualche punto percentuale in meno, a tutto vantaggio di una maggiore disponibilità nei riguardi della diversità.


                Il confronto interreligioso appare piuttosto contrastato. Un quarto degli intervistati non è disposto a riconoscere elementi utili, in chiave di insegnamento, in altre religioni. Ma se il 14,3% mostra incertezza è invece evidente l’orientamento favorevole della maggioranza (si tocca il 60% dell’insieme campionato).


                La consapevolezza del pluralismo religioso come dato di fatto non manca, giacché il 98,8% conosce in qualche modo l’azione dei testimoni di Geova. Il 33,4% è informato su Scientology. Si tratta invero di notizie frammentarie, di impressioni, di approcci generici e superficiali, nondimeno la percezione di una differenziazione religiosa resta evidente.


                In particolare sulla libertà di religione c’è più accondiscendenza nei riguardi dei testimoni di Geova, di meno nei confronti di Scientology.


                In definitiva la tipologia degli italiani è caratterizzata per un quarto dai difensori della fede cattolica, per la maggioranza dai possibilisti (che vedrebbero verità anche in fedi diverse dalla propria), per la minoranza dagli incerti e dai negatori di ogni esperienza religiosa.


                Dal punto di vista dell’appartenenza religiosa la situazione del campione è riportata nella Tabella 1 che segue. Si può osservare una netta preponderanza di cattolici (79,3% del campione) tra coloro che hanno dichiarato di appartenere ad una chiesa, mentre coloro che hanno dichiarato di non appartenere a nessuna chiesa, che d’ora in avanti chiameremo non appartenenti, sono 403 (18,8% del campione).


Data l’esiguità della presenza, nel campione, di religioni non cattoliche si è deciso di concentrare l’attenzione sul confronto tra il sottocampione dei cattolici e quello dei non appartenenti. A tal proposito è bene precisare che i 403 non appartenenti non sono necessariamente non credenti; circa il 25% infatti dichiara di credere in un entità superiore (Dio). Ciò che quindi si intende analizzare in prima istanza è piuttosto l’influenza dell’appartenenza sulla morale individuale; alla religiosità invece saranno dedicate alcune considerazioni nella parte finale.


 


Atteggiamento morale dei cattolici: alcune ipotesi di tipologie prevalenti


Passiamo a vedere nel dettaglio le caratterizzazioni dei 6 gruppi scaturiti dall’analisi.


DESCRIZIONE ANALITICA DEI 6 GRUPPI


GRUPPO  1       I RIGORISTI


Dimensione: 362 soggetti (21,3% del campione dei cattolici)


Caratterizzazione degli atteggiamenti morali:


Si tratta del gruppo di coloro che sono convinti della funzione positiva della pena di morte per affrontare la criminalità. Ritengono inoltre che l’arrivo degli immigrati abbia influito negativamente sulla vita quotidiana e non amano in generale la presenza diversa vicino a sé.


L’obbedienza è il valore educativo che emerge maggiormente. Si è fieri di essere italiani e si ritiene che l’evasione si possa sotto certe condizioni giustificare. È anche presente un certo egocentrismo. Nel lavoro si è contrari al favoritismo verso i familiari e si ritiene utile cambiare l’organizzazione delle attività lavorative per risolverne i problemi.


Caratterizzazione con variabili religiose e di sfondo:


Con un livello di istruzione spesso medio-basso, pur ritenendo importante la funzione della religione cattolica in ambito civile, il gruppo dei rigoristi non è particolarmente partecipativo e non svolge volontariato religioso. Mostra una spiccata tolleranza verso la pratica dell’aborto e ritiene importante anche il ruolo della scienza.


GRUPPO 2         GLI INCERTI TIMOROSI


Dimensione: 215 soggetti (12,6% del campione dei cattolici)


Caratterizzazione degli atteggiamenti morali:


Il gruppo si caratterizza per un atteggiamento indeciso nei confronti delle diverse tematiche morali proposte. I punteggi medi oscillano in genere tra il 4 e il 5 (ricordiamo che la scala va da 1 a 7). Sono presenti, tuttavia, una propensione superiore alla media del campione per il favoritismo verso i parenti nel lavoro ed un certo sospetto per l’immigrato.


Caratterizzazione con variabili religiose e di sfondo:


Anche in questo caso siamo di fronte ad un gruppo con un livello di istruzione spesso medio-basso, probabilmente per la presenza di molti anziani. Anche per questo emergono bassi livelli di reddito; inoltre è alta rispetto alla media la presenza dei senza lavoro. Il tutto si accompagna ad un certo esclusivismo religioso.


GRUPPO 3     I TRADIZIONALI CELEBRATIVI


Dimensione: 309 soggetti (18,1% del campione dei cattolici)


Caratterizzazione degli atteggiamenti morali:


A differenza dei due gruppi precedenti, nei quali su livelli diversi di convinzione un certo conservatorismo si accompagnava ad un atteggiamento favorevole alla pena di morte, in questo gruppo sono presenti sia il timore dell’immigrato sia un’avversione per la pena di morte. Inoltre il rigore verso il clientelismo familiare è in parte contrapposto all’accettazione dell’evasione fiscale nei riguardi di uno Stato che spreca o che impone tasse alte. Dal punto di vista educativo viene soprattutto evidenziato il valore dell’obbedienza dei bimbi. Il lavoro inoltre dovrebbe essere dato prima agli uomini che alle donne.


Caratterizzazione con variabili religiose e di sfondo:


Alcune delle variabili di sfondo sono simili al gruppo precedente (livello di istruzione generalmente basso ed un certo esclusivismo), si evidenzia tuttavia una maggiore importanza per l’aspetto celebrativo, la funzione dell’oggetto sacro e la partecipazione. Il gruppo infine appare assolutamente contrario all’aborto.


GRUPPO 4      I RADICALI APERTI


Dimensione: 305 soggetti (17,9% del campione dei cattolici)


Caratterizzazione degli atteggiamenti morali:


Questo gruppo, come anche quello che segue, è caratterizzato da un atteggiamento aperto rispetto ai problemi morali sollevati dall’indagine. Esso manifesta infatti una maggiore tolleranza per i problemi dell’omosessualità e dell’eutanasia. L’immigrato viene considerato al pari degli altri italiani e non come un pericolo. Spesso si ritiene che l’uomo non debba essere privilegiato rispetto alla donna. 


Caratterizzazione con variabili religiose e di sfondo:


Con un livello di istruzione medio-alto, il gruppo vede una forte presenza della classe di età 35-44 anni e di singles. Spesso è espressa una scarsa vicinanza alla chiesa, insieme con la tolleranza e l’interesse per altre religioni. Tale apertura si estende anche alle opinioni sull’aborto. Inoltre viene espresso un certo favore verso la laicità dello Stato.


GRUPPO 5       I PRATICANTI IMPEGNATI


Dimensione: 379 soggetti (22,3% del campione dei cattolici)


Caratterizzazione degli atteggiamenti morali:


Una forte influenza religiosa e della coscienza nelle scelte personali e l’interesse verso la politica sembrano essere i tratti distintivi di questo gruppo, che si caratterizza anche per una forte apertura verso la presenza straniera e per la tolleranza nei riguardi del barbone vicino. Si è fortemente contrari alla pena di morte e prevale un atteggiamento di rifiuto sia del favoritismo familiare nell’ambito lavorativo sia dell’evasione fiscale, in qualunque situazione essa si manifesti. 


Caratterizzazione con variabili religiose e di sfondo:


Anche in questo gruppo si registra un livello di istruzione medio-alto, che in alcuni casi si accompagna anche a redditi alti. Si rileva un alto grado di convinzione religiosa, che spesso influisce sulla vita di ogni giorno. La partecipazione era per molti già presente in adolescenza. L’aspetto celebrativo è anche esso importante. Inoltre si manifesta una certa tolleranza per altre religioni. L’impegno politico risulta più caratterizzato nella direzione del centro-sinistra e con connotati anti-leghisti. C’è una buona disponibilità verso l’altro che soffre, sia vicino (barbone) che di altri paesi. Infine in alcuni casi viene praticato il volontariato.


GRUPPO  6        I NEGATIVISTI


Dimensione: 133 soggetti (7,8% del campione dei cattolici)


Caratterizzazione degli atteggiamenti morali:


Le risposte fornite da questo gruppo alle questioni di tipo morale sono tutte di segno negativo (ossia del genere ‘‘per niente d’accordo’’ oppure ‘‘pessima ragione’’). I negativisti in buona parte considerano nullo il controllo sulla propria vita e non si ritengono influenzati dalla religione, tantomeno dalla coscienza e dall’educazione ricevuta.  Non vedono positivamente la presenza straniera in Italia ma non considerano neanche gli italiani come dei grandi lavoratori. Gli aspetti relativi all’educazione dei bambini non sono ritenuti di rilievo o di interesse.


Caratterizzazione con variabili religiose e di sfondo:


L’atteggiamento sulle variabili religiose e di sfondo conferma pienamente quello sulle questioni morali. Colpisce la particolare concentrazione di questo gruppo nelle due regioni del Lazio e del Piemonte, contemporanea alla quasi assenza nel Nord-Est. Si evidenziano anche scarsa tolleranza verso altre religioni e poco interesse per il messaggio della scienza.


Confronto con l’atteggiamento morale dei non appartenenti


Analizziamo ora come i non appartenenti si distribuiscono nei 6 gruppi descritti in precedenza. Possiamo notare che oltre il 57% dei non appartenenti si distribuisce nel 1° e 4° gruppo.


Se confrontiamo tale risultato con quello analogo dei cattolici, ricaviamo innanzitutto un forte incremento del peso percentuale dei radicali aperti rispetto ai praticanti impegnati ed ai tradizionali celebrativi, come d’altronde era da aspettarsi considerando che assegniamo ai 6 gruppi soggetti che nella gran parte non credono. 


All’interno di ciascun gruppo si possono inoltre evidenziare alcune diversità di comportamento tra cattolici e non appartenenti.


Per quanto riguarda il primo gruppo i cattolici manifestano un maggior livello di rigore morale e di attenzione per i problemi educativi, tendono meno a giustificare l’evasione fiscale e sono meno nazionalisti-maschilisti, sono inoltre più intransigenti verso il favoritismo familiare.


Nei gruppi successivi si notano differenziazioni più sfumate tra i due sottocampioni. Esse riguardano: nel secondo gruppo un maggior nazionalismo-maschilismo dei non appartenenti; nel terzo una maggiore intransigenza dei cattolici verso il favoritismo familiare (che si verifica anche nel quarto, quinto e sesto gruppo); nel quarto inoltre i cattolici manifestano maggiore tolleranza per omosessualità ed eutanasia e sono meno propensi dei non appartenenti ad accettare che si possa rifiutare il lavoro; nel quinto gruppo i non appartenenti vedono meno negativamente la situazione odierna rispetto a 10 anni fa; nel sesto i cattolici esprimono livelli più contenuti, sebbene sempre elevati, di negatività per quanto riguarda l’aspetto educativo e il rifiuto del lavoro.


Non sembrano invece emergere comportamenti diversificati per quanto riguarda l’atteggiamento assunto rispetto alla pena di morte.


Considerazioni conclusive


In generale si può sostenere che quasi un quarto del campione intervistato è su posizioni difensiviste della propria appartenenza religiosa. Ben più ampia è la presenza di quanti manifestano un’appartenenza più debole, ma non sino ad annullarla del tutto. Non mancano poi gli incerti ed i negatori, ma rappresentano quote più contenute.


In definitiva vi è un continuum quasi senza soluzione che va dall’identità forte sino alla separatezza totale.


                La tipologia scaturita dalla nostra analisi statistica mette in evidenza la caratteristica della pratica religiosa (22,3%) come elemento maggioritario con appena un punto di differenza in più rispetto al gruppo di quanti si distinguono per il loro rigorismo (21,3%). Se si aggiunge poi la percentuale (18,1%) dei tradizionali si completa un quadro di tendenziale allineamento con i principali contenuti di riferimento dell’appartenenza. Non sono tuttavia da trascurare le componenti dei radicali (che raggiungono il 17,9%) e degli incerti (che arrivano al 12,6%).


                Appare infine in linea con i risultati di una precedente indagine nazionale (Cesareo et al., 1995) la quota di negativisti (7,8%), che non è molto diversa quantitativamente dalla quota dell’8,9% già nota in riferimento al territorio italiano.


                Se si sommano le categorie dei praticanti, dei rigoristi e dei tradizionali si ottiene una maggioranza assoluta di intervistati che, toccando il 61,7%, risulta – seppure in forma articolata – abbastanza interna al quadro religioso cattolico. Già l’abbinamento fra rigoristi (21,3%) e tradizionali (18,1%) costituisce uno zoccolo fondante di un’appartenenza a tutta prova che riguarda il 39,4% degli intervistati. Tale quota-parte del campione non è dissimile dall’insieme di quanti manifestano una sostanziale vicinanza alla propria chiesa.


                La presenza della categoria di un 21,3% di rigoristi fa il paio con l’atteggiamento di chiusura totale verso altre religioni reso esplicito da un quarto del campione degli intervistati. Un’altra conferma è data anche dal livello di incertezza su questo punto (14,3%), solo di poco superiore alla categoria di incerti timorosi (12,6%) accertata in questa medesima analisi statistica.


                A parte i rigoristi ed i tradizionali, va tuttavia rilevato un fronte molto largo di “aperturisti” verso altre esperienze religiose: sono gli stessi praticanti impegnati ed i radicali aperti che congiuntamente sono il 40,2% della popolazione interrogata. Ma anche gli incerti si schierano in buona misura a favore della sola chiesa cattolica per il finanziamento da parte dello Stato.


                Di particolare interesse è la categoria dei radicali aperti, forse la novità maggiore di questo studio. Sono soggetti pervasi da una marcata modernizzazione e secolarizzazione degli atteggiamenti. Il loro impegno verso il sociale e nel sociale è particolarmente evidente: lo dimostra lo stesso orientamento piuttosto contrario alla pena di morte. Il condizionamento religioso c’è ma è più attenuato rispetto al resto dell’universo. Nei confronti degli immigrati si registra la maggiore apertura. Ed in definitiva si assiste ad uno slittamento da valori tipicamente religiosi ad altri di natura più laica. Non si abbandona del tutto l’alveo religioso ma si prescinde da riferimenti tipicamente istituzionali. Ciò è reso possibile anche da un livello formativo-scolastico più alto. In generale si è favorevoli a prospettive innovative, fra cui il sacerdozio femminile. Ma forse l’elemento più caratteristico rimane l’apertura verso altre religioni, una sorta di propensione all’ecumenismo senza remore, condizioni, riserve. E nel frattempo si riduce, a livello personale, la frequentazione della preghiera, forse anche in connessione con la scarsa vicinanza alle posizioni di chiesa.


                Più scontata risulta la categoria dei rigoristi, con un livello medio di istruzione, favorevoli alla pena di morte e contrari all’immigrazione, ma pure rigidi in materia etica a livello generale. Il loro coinvolgimento religioso non è di particolare rilevanza.


                Fra i tradizionali celebrativi prevale l’età avanzata, insieme con elementi già presenti tra i rigoristi (specie in tema di immigrati), ma in campo religioso la differenza è più netta: i riti sono ritenuti importanti, la credenza in Dio è molto diffusa, la vicinanza alla chiesa abbastanza sentita, l’esclusivismo cattolico sostenuto con vigore, la religiosità piuttosto manifesta, l’innovazione religiosa non favorita. Insomma rigoristi e tradizionali sono abbastanza simili ma non nell’aspetto religioso, dominante nei secondi ma non altrettanto nei primi. Ed in fondo i radicali aperti sono quasi l’opposto dei rigoristi, segnatamente in tema di immigrati e pena di morte, mentre sono più vicini (anche se non del tutto) ai tradizionali in materia religiosa ma senza coinvolgimenti negli aspetti celebrativi e senza chiusure preconcette verso le novità.


                I praticanti impegnati, cioè la maggioranza relativa del campione esaminato, hanno evidenti connotazioni socialmente orientate (a favore degli immigrati come della religione, dell’etica comportamentale come della politica; contro la pena di morte, il nepotismo, l’evasione fiscale). Ma la loro specificità è indubbiamente il profilo religioso a tutto tondo: militante, praticante, ortodosso, altruistico, orientato a sinistra, ritualista e celebrativo.


                Il gruppo degli incerti si connota per una scarsa attenzione ad una prospettiva etica ben definita, giacché manifestano un atteggiamento che propende per il mantenimento della pena di morte, un orientamento contrario alla crescita di flussi migratori, una accondiscendenza per l’evasione fiscale. In pratica viene rovesciata qualche caratterizzazione offerta dal gruppo dei rigoristi, ma è pure confermata qualche propensione non “aperturista”. In campo religioso gli incerti fanno riferimento solo a qualche elemento generico.


                Da ultimi vanno presi in considerazione i negativisti, la minoranza significativa del campione che combina tendenze non oblative verso gli immigrati con orientamenti di rifiuto della disobbedienza fiscale. Fra di essi appare del tutto assente ogni sensibilità religiosamente orientata.


                Il pluralismo è di fatto assente sia in campo morale che religioso soprattutto fra i rigoristi. Il pluralismo morale si ritrova fra i tradizionali celebrativi, fra gli incerti timorosi, fra i negativisti e fra i radicali aperti, ma non alligna fra i rigoristi ed i praticanti impegnati. Quello religioso è presente solo tra i praticanti impegnati ed i radicali aperti, mentre è di solito assente fra i rigoristi, i tradizionali celebrativi, gli incerti timorosi ed i negativisti. Il massimo di pluralismo sia morale che religioso regna fra i radicali non a caso definiti aperti.


In termini di continuità fra le categorie si va dunque dall’assenza totale di pluralismo nei rigoristi fino all’affermazione piena del pluralismo rilevabile tra i radicali aperti. Nel mezzo, lungo un ideale continuum, si collocano le altre quattro categorie, con una graduazione che privilegia ora l’assenza ora la presenza di una delle due forme di pluralismo, ma appare ben evidente dai dati empirici raccolti che il gruppo dei tradizionali celebrativi è più vicino a quello dei rigoristi che lo precede e dei praticanti impegnati che lo segue. La categoria degli incerti timorosi fa da anello di congiunzione fra i praticanti ed i negativisti. I radicali aperti chiudono la serie come espressione massima in termini pluralistici, epperò sarebbero di fatto a metà del metaforico guado fra quanti si dicono (e tendenzialmente sono) pluralisti e quanti lo negano. Infine è da considerare che il profilo complessivo degli incerti timorosi, dei tradizionali celebrativi e dei negativisti appare connotato allo stesso modo da pluralismo morale ed esclusivismo religioso, mentre è su un fronte opposto l’insieme dei praticanti impegnati che risultano esclusivisti in campo morale e pluralisti in campo religioso. 


FLUSSO DI CONTINUITÀ DEL PLURALISMO


MORALE (M) E RELIGIOSO (R)


IN BASE ALLA SUA ASSENZA (–) O PRESENZA (+)


NEI PROFILI DEI 6 GRUPPI


Rigoristi: –M –R


ß


Tradizionali: +M –R


ß


Praticanti –M +R


ß


Incerti: +M –R


ß


Negativisti: +M –R


ß


Radicali: +M +R


                Per avere maggiori dettagli sulla composizione interna delle modalità più o meno pluralistiche di ciascun gruppo si può considerare il quadro sintetico che segue.



 


RIGORISTI


 


Pluralismo morale: assente


 


Pluralismo religioso: assente


Sì a pena di morte


 


No ai movimenti religiosi


No agli immigrati


 


Sì a scuole relig. sostenute da Stato


No al nepotismo


 


Sì a una sola vera religione

 


 


INCERTI TIMOROSI


 


Pluralismo morale: presente


 


Pluralismo religioso: assente


Sì al nepotismo


 


Sì a solo una vera religione


Sì alla pena di morte


 


Sì a solo rel. catt. finanziata da Stato


No agli immigrati


 


 

 


 


TRADIZIONALI CELEBRATIVI


 


Pluralismo morale: presente


 


Pluralismo religioso: assente


No agli immigrati


 


Sì a solo una vera religione


Sì all’evasione giustificata


 


No a movimenti religiosi


No al nepotismo


 


Sì a solo rel. catt. finanziata da Stato


No alla pena di morte


 


 

 


 


RADICALI APERTI


 


Pluralismo morale: presente


 


Pluralismo religioso: presente


No al suicidio


 


Sì a Scientology


Sì agli immigrati


 


Sì a donne preti


No alla pena di morte


 


Sì a verità in molte religioni


 


 


Sì a lib. di imparare da altre religioni


 


 


Sì a simboli religiosi proibiti nelle scuole statali


 


 


Sì ai testimoni di Geova


 


 


Sì a scuole rel. sostenute da Stato


 


 


Sì a solo rel. catt. finanziata da Stato

 


 


PRATICANTI IMPEGNATI


 


Pluralismo morale: assente


 


Pluralismo religioso: presente


Sì agli immigrati


 


Sì ai testimoni di Geova


Sì a influenza della religione


 


 


Sì a influenza della coscienza


 


 


No al nepotismo


 


 


No all’evasione giustificata


 


 


No alla pena di morte


 


 

 


 


NEGATIVISTI


 


Pluralismo morale: presente


 


Pluralismo religioso: assente


No all’evasione giustificata


 


No a lib. di imparare da altre religioni


No agli immigrati


 


No ai testimoni di Geova


Sì al nepotismo


 


No a Scientology


 


 


No ai movimenti religiosi


                Se si passa dal gruppo degli appartenenti a quello dei non appartenenti i caratteri sinora delineati non mutano in modo considerevole. Aumenta certamente il peso dei radicali aperti, ma si nota anche – specialmente fra i rigoristi – una discreta differenziazione fra cattolici e non in campo etico-educativo, senza dubbio maggiore nei soggetti religiosamente orientati, che sono anche meno nepotisti e più ben disposti verso il mondo femminile.


                Inoltre i cattolici classificati fra i radicali aperti appaiono, nel confronto con i non appartenenti al cattolicesimo, un po’ più disponibili ad affrontare i problemi dell’omosessualità e dell’eutanasia.


                L’argomento della pena di morte merita invece una più attenta considerazione. I cattolici sono un po’ più sfavorevoli degli altri in materia di pena capitale. Se poi sono anche più istruiti il livello di contrarietà sale maggiormente. Ma va ribadito che l’appartenenza religiosa cattolica non spiega in modo significativamente apprezzabile in chiave statistica l’atteggiamento sfavorevole verso la condanna estrema.


                In ultima analisi è confermata una ridotta propensione al pluralismo religioso, mentre maggiore è la frammentazione su tematiche morali. Il contesto culturale sembra avere un ruolo decisivo più che non la stessa appartenenza religiosa, visto che le attitudini non mutano sensibilmente nei due gruppi, dichiaratasi rispettivamente religiosi e non. Peraltro entrambi gli universi mostrano convergenze e divergenze al loro interno, ma con orientamenti che in linea di massima coincidono, anzi sembrano speculari fra di loro. Questo è il frutto del condizionamento cattolico sulla cultura italiana in generale oppure deriva da un ethos diffuso che contiene anche la variabile dipendente del cattolicesimo? L’interrogativo resta e segnala inequivocabilmente la necessità di ulteriori percorsi di ricerca.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


Bohrnstedt G.W., Knoke D. (1998) Statistica per le scienze sociali, Il Mulino, Bologna.


Bove G. (1994), Some methods for the simultaneous analysis of data matrices and the factorial invariance problem, Metron, 52, pagg. 73-87.


Cesareo V., Cipriani R., Garelli F., Lanzetti C., Rovati G. (1995), La religiosità in Italia, Mondadori, Milano.


Lavit C., Escoufier, Y., Sabatier R., Traissac P. (1994), The ACT (Statis method), Computational Statistics and Data Analysis, 18, pagg. 97-119.


Lebart L., Morineau A., Lambert T., Pleuvret P. (1996), SPAD Version 3. Manuel de référence, CISIA, St. Mandé.


Norušis M.J. (1997), SPSS Professional StatisticsTM 7.5, SPSS Inc., Chicago.

PER UNA METODOLOGIA DELLA RICERCA QUALITATIVA

Roberto Cipriani


Premessa


                L’oggetto di ogni ricerca sociologica è così complesso da richiedere approcci multipli. Solitamente si preferisce una metodologia quantitativa, ma tale scelta comporta di dover dare per scontate alcune conseguenze, in primo luogo quella relativa allo scarso approfondimento della materia affrontata. Infatti a fronte di tematiche nuove, di dinamiche non facilmente controllabili, di soggetti sociali ancora in via di definizione in termini di status e ruolo, la procedura fondata essenzialmente sulle risposte chiuse ad un questionario predeterminato poco si adatta alle esigenze relative alla conoscenza scientifica in campo sociale, un ambito ancora in fieri e proteso alla ricerca di una risposta soddisfacente al suo ubi consistam?, comunque tuttora in attesa di più precisi riconoscimenti (anche normativi) sulla sua funzione, sui suoi compiti, sulle sue competenze di campo. Pertanto una struttura di inchiesta troppo rigida rischia di mortificare istanze ed attese, di sottacere problemi acuti e centrali, di enfatizzare qualche dato percentuale a danno della reale conoscenza, di fornire – grazie alla forza di convinzione dei numeri – un quadro deformato e deformante della situazione presa in considerazione.


                D’altra parte non a caso la metodologia qualitativa nasce e si sviluppa in relazione ad una fenomenologia dai contorni tendenzialmente patologici: l’immigrazione di vaste masse che attraversano l’oceano alla ricerca di un lavoro. Il polacco Znaniecki e l’americano Thomas ne fanno oggetto di studio a Chicago, pubblicano – a partire del 1918 e via di seguito sino al quinto ed ultimo volume – la celebre opera sul contadino polacco in America ed in Europa, che fa leva sui documenti personali come struttura portante di un’analisi sociologica che è rimasta unica, irripetibile, per vari decenni riuscendo a condizionare fortemente la storia del pensiero sociologico lungo le due opposte sponde del gran “lago” Atlantico.


                A lungo sociologi europei e statunitensi si sono soffermati a considerare la portata dell’opera classica di Thomas e Znaniecki, ma alla fine detrattori ed elogiatori si sono quasi equivalsi per numero e ragioni espresse. Tuttavia l’effetto perverso è stato quello di una stasi sul versante della metodologia qualitativa, ancora incerta sul da farsi mentre nel frattempo i quantitativisti hanno pensato bene di proseguire per la loro strada, senza cimentarsi nella querelle fra opposti schieramenti e quasi aspettando al varco della nuova era tecnologica dominata dal computer i colleghi qualitativisti, già svantaggiati per il fatto di non possedere un tool strategico della portata pervasiva del software denominato SPSS (Statistical Package for Social Sciences).


La nuova ventata qualitativista


In tempi piuttosto recenti sono state finalmente prospettate nuove soluzioni analitiche a livello qualitativo sulla scorta di strumenti idonei, difficili da commercializzare per il basso numero di potenziali utenti ma di notevole interesse per gli studi di content analysis (e non solo). Anche in questo caso si deve registrare una tendenziale resistenza delle forze accademiche ed intellettuali, poco proclivi a misurarsi con le novità della tecnica e piuttosto adagiate nel quieto vivere della tradizione e della routine. Invero solo grazie ad alcuni coraggiosi pionieri oggi disponiamo di molte alternative alla classica somministrazione del questionario e riusciamo a produrre letture piuttosto raffinate a livello di “analisi del discorso”, di prossemica (intesa come uso dello spazio), di sequenza nell’ordine di prendere la parola, di “analisi conversazionale” e così via.


                L’applicazione completa anche di uno solo di questi metodi operativi richiede un  impegno sovente impari e soprattutto non in linea con le esigenze della ricerca empirica. Si è preferito di solito perciò lavorare con il qualitativo presentando i risultati in forma discorsiva, non sempre in consonanza fra loro ma stimolanti ed illuminanti proprio in forza della loro presunta contraddittorietà.


                Sarebbe certo più agevole predisporre un questionario uguale per tutti gli intervistandi ma la ricchezza delle problematiche poi emerse andrebbe persa in gran parte, a seguito dell’appiattimento entro le categorie precodificate della griglia comune da somministrare a ciascun attore sociale da intervistare.


                D’altra parte occorre anche considerare che la logica e le risorse della ricerca sociale non consentono quasi mai un’indagine a tappeto o comunque su un campione rappresentativo totalmente affidabile. Se poi anche esistono dati presso vari enti, istituti e fondazioni, non sempre essi sono aggiornati ed in ogni caso sono il frutto di raccolte asistematiche, vagamente campionarie, limitate nello spazio e nel tempo. Dunque nel caso in cui si optasse per la prospettiva quantitativa non sempre si avrebbe a disposizione un universo certo di riferimento e si rischierebbe di offrire un repertorio parziale, forse anche piuttosto orientato in chiave ideologica. L’orientamento qualitativista è dunque apparso sempre più spesso anche come un percorso obbligato e nondimeno l’unico in grado di indagare sin nei minimi dettagli, difficilmente ipotizzabili e prevedibili al completo pur in una batteria di domande tendenzialmente onnicomprensive degli aspetti sotto esame.


                Il numero contenuto di intervistati previsti dalla metodologia qualitativa, peraltro, non permette elaborazioni statistiche raffinate, neanche quelle più semplici. Ogni tentativo in tal senso risulterebbe mistificante e privo di qualsiasi fondamento scientifico.


                Si pensa dunque ad un approccio qualitativo mirato, cioè finalizzato a trovare risposte ad alcuni interrogativi di fondo, attraverso interviste semistrutturate basate su poche ma decisive questioni, quelle di primaria importanza nell’ambito del settore in esame e debitamente affrontate a livello organizzativo, formativo, situazionale, strumentale, manageriale, contestuale, sia da parte  delle organizzazioni sia da parte degli utenti. In questo quadro si collocano altresì le problematiche di metodo delle attività, di politica sociale, di professionalità, di sviluppo, di occupazione, di valori operanti nell’agire sociale delle organizzazioni, dei singoli attori, degli esperti e degli osservatori, categorie particolarmente importanti queste ultime due perché esterne all’ambito delle attività da prendere in considerazione.


La metodologia qualitativa ed i metodi applicativi


Nell’impossibilità di condurre interviste a largo raggio, si sceglie solitamente una modalità che ha una lunga storia nel campo delle indagini sociali: si fa ricorso al know how dei cosiddetti testimoni privilegiati (o qualificati che dir si voglia). Si tratta di soggetti che per competenze acquisite, ruoli svolti, esperienze fatte, sapere accumulato, sono in grado – con l’aiuto e lo stimolo degli intervistatori – di guardare come dall’alto e dunque di valutare a ragion veduta, senza cedere a tecnicismi di maniera, a linguaggi da iniziati, a formule standardizzate.


                Il ruolo dei testimoni qualificati è cruciale nel lavoro sociologico. Ecco perché essi vanno scelti con cura ed in modo da rappresentare complessivamente (anche se non statisticamente) il variegato universo di riferimento dell’indagine. La loro resa sul piano conoscitivo e scientifico è disomogenea (né c’è da aspettarsi diversamente) ma proprio per questo consente di avere un quadro multiforme della realtà studiata, anche sulla base dell’impegno – più o meno accentuato – che ogni intervistato profonde nel corso dell’intervista.


                Di particolare rilevanza è poi l’interscambio che si realizza fra informazione orale e documentazione scritta. L’una rimanda all’altra e viceversa. Talora la prima anticipa la seconda e consente di prevedere sviluppi futuri e di intervenire in tempi adeguati, senza dover rincorrere continuamente ed aggiornare – per esempio – testi di legge, scadenze, prerogative, limitazioni.


                La corsa contro il tempo passa anche attraverso le accelerazioni possibili grazie ad Internet, fonte inesauribile di informazioni preziose, di segnalazioni indispensabili, di suggerimenti operativi. Soprattutto la forma del network, a rete, permette scambi rapidi e fruttuosi al massimo, data la tempestività dell’input.


                Si ricollega assai opportunamente alle interviste semistrutturate l’attività di focus group, che prevede la discussione in comune dei temi di indagine fra esponenti delle organizzazioni e delle associazioni coinvolte dall’indagine, nonché fra singoli intervistati che sono già stati ascoltati individualmente.


L’approccio biografico


                Furono soprattutto Thomas e Znaniecki (1918-20) a volere sperimentare degli strumenti qualitativi, a carattere personale e biografico, per conoscere la realtà della immigrazione polacca in America, insieme con i riscontri registrabili nella terra di origine, in Polonia. La consapevolezza metodologica dei due autori è piena e matura sin dagli inizi della loro ricerca empirica e non giunge solo post factum come lascerebbero supporre le date – piuttosto posteriori – di qualche approfondimento specifico (Znaniecki, 1924; Thomas, 1973).


                Fondamentale appare la corposa “Nota metodologica” premessa a Il contadino polacco. Da questo approccio teorico iniziale trae linfa vitale la metodologia qualitativa che rende possibile in modo peculiare la convergenza fra individuale e sociale, tra prevalenza della società e dominanza dell’attore sociale. Si passa così a mostrare (e dimostrare) “che una causa sociale non può essere semplice, come lo è una causa fisica, ma che essa è complessa e deve includere sia un elemento oggettivo sia un elemento soggettivo, cioè un valore e un atteggiamento” (Thomas, Znaniecki, 1918-20; ed. it., 1968: 39). A parte il ricorso – per noi oggi obsoleto e fuorviante – al concetto di causa, l’affermazione dei due autori ha una sua pregnanza se si considera, fra l’altro, che “un valore sociale, agendo sugli individui membri del gruppo, produce un effetto più o meno diverso su ciascuno; anche quando esso agisce sul medesimo individuo in momenti diversi, non lo influenza nello stesso modo”. Il che lascia supporre che per esempio una rilevazione estemporanea come quella attraverso questionario a mo’ di “intervista e fuggi” perde ampie quote di conoscenza se non raccoglie ed interpreta valori ed atteggiamenti nel tempo, lungo i diversi momenti storici di un’esperienza umana che non è mai uguale a se stessa ma transeunte, dinamica, controversa, contraddittoria, difficilmente rispondente alla logica del sì e no una volta per tutte. Certo anche un racconto biografico è una narrazione hic et nunc, corre cioè il rischio di una immediatezza che è in pari tempo fuggevole e sfuggente, ma offre uno sguardo d’assieme sulle “attività” del soggetto che altrimenti resterebbero insondate. Inoltre il rapporto interlocutorio libero, non vincolato da items precisi, consente recuperi di ritagli, scampoli, dettagli, indizi talora ben più signficativi, da soli, di un’intera batteria di domande con risposta precodificata.


                Il nucleo essenziale della metodologia thomas-znanieckiana è condensato in quattro pagine della loro “Nota” (Thomas, Znaniecki, 1918-20; ed. it., 1968: 42-46). Ne riportiamo i passi più significativi.


                “Il fatto semplice e ben noto è che i risultati sociali dell’attività individuale dipendono non soltanto dall’azione in sé, ma anche dalle condizioni sociali in cui essa si svolge; e di conseguenza la causa di un mutamento sociale deve comprendere sia elementi individuali sia elementi sociali. Ignorando questo fatto, la teoria sociale si trova di fronte a un compito infinito ogni qual volta vuol spiegare il più semplice dei mutamenti sociali. Infatti la medesima azione produce, in condizioni sociali diverse, risultati del tutto differenti… Inoltre, la teoria sociale dimentica anche che l’uniformità dei risultati di certe azioni è essa stessa un problema, e richiede una spiegazione esattamente quanto la richiedono le variazioni.”


                Per risolvere i vari dubbi metodologici Thomas e Znaniecki partono allora da un presupposto che orienta tutta la loro attività scientifico-conoscitiva: “la causa di un fenomeno sociale o individuale non è mai un altro fenomeno sociale o individuale isolato, ma è sempre una combinazione di un fenomeno sociale e un fenomeno individuale”. Quindi individuo e società sono elementi che si ritrovano insieme nella spiegazione dei fenomeni.


                Si tratta dunque di tutto un lavoro di ricostruzione del passato, di ritorno a ciò che ha preceduto il presente, al fine di cercare i fattori generativi di un evento, di un fenomeno. Un tale procedimento non è dissimile da quello riepilogativo e riordinativo compiuto attraverso una storia di vita, raccontata in prima persona ma coinvolgente anche altri nel cimento di spiegare l’esistente rimontando al preesistente.


La definizione della situazione


                Un’esemplificazione messa in campo dai due autori aiuta molto a cogliere il senso del loro punto di vista. “Due individui, sotto l’influenza di un comportamento tirannico dei loro padri, sviluppano atteggiamenti completamente diversi: l’uno mostra sottomissione, l’altro una segreta rivolta e risentimento. Se la tirannia del padre viene considerata come causa di questi atteggiamenti opposti, dobbiamo conoscere completamente il carattere di questi individui e tutto il loro passato allo scopo di spiegare la differenza di effetto. Se però comprendiamo che la tirannia non è l’unica causa di entrambi i fatti, ma soltanto un elemento comune che entra nella composizione di due cause diverse, il nostro compito diventerà semplice, cioè sarà quello di trovare gli altri elementi di queste cause.”


                Dunque gli indizi emergenti, i dati fenomenici da soli non bastano a fornire la via d’uscita per la comprensione-spiegazione. Tutto va contestualizzato e storicizzato, cioè incastonato in un quadro complessivo che presiede ad ogni comportamento, ad ogni scelta individuale o di gruppo. In questo scavo all’intorno dell’oggetto di studio sembrano convergere sotto molti aspetti la psicologia (come pure la psicanalisi) e la sociologia, ma quest’ultima non può mai prescindere dalla stretta relazione fra il soggetto ed il suo ambiente sociale.


                Lo sbocco naturale dell’interazione fra atteggiamento e valore, tra individuale e sociale è la situazione (Thomas. Znaniecki, 1918-20; ed. it., 1968: 61-62) come “insieme di valori e di atteggiamenti con cui l’individuo o il gruppo ha rapporti in un processo di attività, e rispetto ai quali è progettata quest’attività e vengono valutati i suoi risultati. Ogni attività concreta è la soluzione di una situazione. La situazione comprende tre tipi di dati: 1) le condizioni oggettive entro le quali devono agire l’individuo o la società, cioè la totalità dei valori – economici, sociali, religiosi, intellettuali ecc. – che al momento dato influenzano direttamente o indirettamente lo stato cosciente dell’individuo o del gruppo; 2) gli atteggiamenti preesistenti dell’individuo o del gruppo che al momento dato esercitano un’influenza reale sul suo comportamento: 3) la definizione della situazione, cioè la concezione più o meno chiara delle condizioni e la consapevolezza degli atteggiamenti”. Quindi a monte si collocano valori ed atteggiamenti, che insieme operano ed interagiscono al momento definito come situazione, cioè nella fase che precede l’attività. Prima però di assumere una qualunque decisione, si tende a definire la situazione, a valutarla nelle sue potenzialità, nei suoi rischi o vantaggi. L’agire non giunge come un operare privo di senso, immotivato. Ogni azione ha alla sua base una serie di considerazioni valutative, che si incentrano sul tornaconto personale, sull’opportunità del momento, sulle conseguenze ipotizzabili post factum. Ecco infatti che “la definizione della situazione è un presupposto necessario di ogni atto della volontà, poiché in date condizioni e con un dato insieme di atteggiamenti è possibile una pluralità indefinita di azioni, e un’azione determinata può apparire solamente se queste condizioni vengono selezionate, interpretate e combinate in un certo modo, e se si raggiunge una sistemazione di questi atteggiamenti in modo tale che uno di essi divenga predominante e subordini a sé gli altri… Ma in genere c’è un processo di riflessione in seguito al quale o si applica una definizione sociale già pronta o viene elaborata una nuova definizione personale”.


L’individuo ed il suo agire sociale


                Molto lucida è la precisazione che Znaniecki (1924; 1996: 35) fornisce più tardi nella sua introduzione all’Autobiografia di Wadyslaw Berkan: “l’individuo dal punto di vista sociologico non è un complesso di sensazioni che possiede un’esistenza a parte, bensì esiste solo a condizione che dette sensazioni siano attuali e coscienti al soggetto. Egli è piuttosto un insieme composito di azioni, ciascuna delle quali si riferisce agli oggetti dell’ambiente circostante, e che è possibile comprendere e definire unicamente in rapporto a tali oggetti, su cui agisce o tenta di agire”. In pratica l’approccio sociologico si diversifica da quello psicologico in quanto non si restringe all’ambito delle “sensazioni” ma si rapporta a tutto l’ambiente circostante per giungere alla comprensione. Soprattutto l’individuo in situazione sociale interessa al sociologo.


Filoni diversi di analisi qualitativa hanno dato luogo a sviluppi interessanti ma parziali. Si prenda il caso dell’analisi linguistica, che ha visto susseguirsi numerose proposte nel campo della content analysis, dell’analisi del discorso e della successione nel prendere la parola, ma in sostanza con innovazioni più a carattere tecnico che di livello teorico alto.


                Solo più di recente si è potuto registrare qualcosa di più significativo, per esempio con la proposta della grounded theory e la serie di nuovi sussidi per la ricerca assistita dall’elaborazione elettronica. Si può dire di essere giunti ad una sorta di nuova frontiera nell’ambito dell’analisi qualitativa in generale e di quella applicata alla storia di vita in particolare.


Superiorità dell’approccio qualitativo?


                Per risolvere i quattro problemi della rappresentatività, della reattività, della “regolarità”, della replicabilità, Katz ricorre ad una rivisitazione dell’induzione analitica, che consiste nel mantenere una stretta relazione fra dati e spiegazione, sicché quando emerga un elemento che contraddice la spiegazione vigente occorre tenere conto proprio della contraddizione trasformandola in un caso positivo, cioè di conferma di una spiegazione alternativa rispetto a quella in uso.


                Si parla correttamente di induzione analitica in quanto il procedimento parte dai dati, come livello particolare, e giunge alla spiegazione, come livello generale. Dunque si va dal particolare al generale attraverso l’analisi: da qui appunto il concetto di induzione analitica. L’intento di Katz è di proporre una soluzione con un carattere grounded, cioè fondato sui dati (Glaser e Strauss 1967).


                Invece la prospettiva abduttivistica, preferita da altri, non accoglie né la posizione induttivistica né quella deduttivistica (dal generale al particolare, dunque dalla teoria e dalle ipotesi per passare alla verifica attraverso i dati). Lo stesso Katz peralto non sembra condividere l’apporto di Peirce (1984) sull’abduzione come soluzione intermedia che si muove a mezza strada fra il generale ed il particolare come punti di partenza.


                Anche per Katz la falsifica di un’ipotesi non è la fine di un’indagine ma un nuovo inizio che porta a modificare la spiegazione di partenza. Soprattutto Katz non si prende cura della quantità dei dati, anzi la giudica priva di evidence, senza rilevanza per la logica dell’induzione analitica, che anzi presuppone una grande variabilità dei dati qualitativi per scoprire le risultanze negatrici della spiegazione usata come non definitiva. Questa logica induttiva respinge ogni tentativo di conciliazione fra quantitativisti e qualitativisti, in quanto a trovarne scapito sarebbe la metodologia qualitativa che non riesce a trovare in se stessa le ragioni fondanti della propria autonomia scientifica (Katz, 1988:131).


                Nell’induzione analitica mancano quadri teorici pre-definiti in assoluto. Quindi la ricerca è completamente aperta alle suggestioni desumibili dai dati empirici. Seguendo questa prospettiva metodologica “non si comincia con un’ipotesi e poi si incontrano le eccezioni una per volta. Invece, si comincia con ipotesi multiple che vengono messe a confronto con una massa di risultati in senso contrario. L’induzione analitica consente al ricercatore di dibattersi senza sosta fra le scelte di: quale ipotesi preferire e sostenere; poi quale dato scegliere come una “eccezione” nella massa di quelli in senso contrario, ignorando consapevolmente in via temporanea il carattere invalidante degli altri dati; e poi se cambiare ciò che spiega o ciò che deve essere spiegato…” (Katz, 1988: 132). Si tratta comunque più di una tensione metodologica che non di una pretesa di voler attingere gli universali sociologici, poiché la spiegazione perfetta ed ultima non esiste. Resta quindi appena una strategia complessiva, non vincente aprioristicamente ed anzi destinata più volte ad essere fallimentare. In questo senso Katz non ambisce a sostenere la superiorità dell’approccio qualitativo nei confronti del quantitativo. Gli obiettivi sono assai più modesti ma sufficientemente chiari.


Il confronto fra le due metodologie


                Innanzitutto entrambe le metodologie, la qualitativa e la quantitativa, sono accomunate dal fatto di ottenere risultati non assoluti, instabili, soggetti a verifiche continue, condizionati da fattori non sempre individuabili. Ad esempio il probabilismo delle relazioni statistiche da una parte e la forzatura di inserimento dei casi limite entro una categoria sociologica piuttosto che in un’altra sono i punti deboli di entrambi gli approcci.


                Katz è contrario a qualunque esaltazione del processo induttivo e perciò critica aspramente i fautori di una epistemologia dell’induzione, che anzi definirebbe – d’accordo con alcuni filosofi – una sorta di “retroduzione”, in quanto si è di fronte solamente ad un’alternanza di osservazione e spiegazione, invece di passare alla scoperta della spiegazione unicamente dopo l’osservazione dei fatti.


                Fin qui la posizione descritta dall’autore come analytic fieldwork, indagine analitica sul campo. Indubbiamente la sua è una prospettiva degna di attenzione, ma parca di indicazioni operative, forse sin troppo aperta, libera, senza costrizioni metodologiche rigorose. Può anche risultare convincente ma quasi solo per i già convinti della possibile qualità scientifica della metodologia non quantitativa. Né giova all’insieme del discorso la ripetizione, talora letterale, di alcuni concetti e motivi ritenuti strategici (Katz, 1988: 134, secondo capoverso e 148, ultimo capoverso). Nondimeno rimane il significato di un invito pressante a fondare tutto o quasi sui dati.


La grounded theory


                Anche la più innovativa delle teorie qualitative, la grounded theory di Glaser e Strauss (1967), si basa essenzialmente sui dati, tanto che una traduzione italiana che possa renderne appieno il significato sarebbe proprio “teoria a base dati” o meglio ancora “teoria basata sui dati”. Sebbene formalizzata da oltre un trentennio essa ha stentato a trovare larga accoglienza sia in America che in Europa. Le prime formulazioni potevano suscitare perplessità e riserve, ma col passare del tempo i due autori hanno meglio precisato il senso della loro proposta, approfondendo aspetti e procedure, per poi giungere ad una sostanziale diversificazione fra di loro, con Glaser autore free lance a svolgere singolarmente il ruolo dell’accademico più rigoroso e con Strauss, universitario di professione, più propenso alla serendipity, all’improvvisazione feconda nell’approccio qualitativo. Forse è ancora presto per avere un quadro chiaro delle ragioni scientifiche che hanno portato i due autori a dividere le loro strade. La polemica in proposito non mancherà di fornire ulteriori spunti specialmente a livello di implementazione nella fase di ricerca empirica.


                Appunto in questo ambito applicativo la teoria di Glaser e Strauss si è rivelata particolarmente feconda, segnatamente a partire dallo sviluppo di metodi assistiti da programmi per computer. Anzi un intero settore di software “dedicato” alla costruzione di teorie ha registrato notevoli progressi, proprio grazie all’input della teorizzazione basata sui dati. In effetti come in ogni scienza anche in campo sociologico i miglioramenti, le scoperte, le nuove soluzioni si possono raggiungere più facilmente quanto più numerosi sono i ricercatori impegnati su un medesimo ambito di problemi. Ecco dunque che l’esperienza quotidiana sul campo della ricerca aiuta ad individuare difetti e malfunzionamenti, a segnalarli ai creatori di programmi in modo da provvedervi adeguatamente in vista di un aggiornamento, di una nuova release. Tutto questo non era possibile in precedenza in quanto ancora non erano disponibili strumenti computazionali specifici per la metodologia qualitativa. Quando successivamente essi hanno fatto la loro comparsa il numero degli utenti non era sufficientemente numeroso da richiamare l’attenzione e gli investimenti delle grandi case produttrici e distributrici di programmi per computer. Per questo l’iniziativa è ricaduta sulle spalle (non forti economicamente) di ricercatori universitari isolati, di appassionati della ricerca qualitativa, di teorici con una formazione qualitativistica di lunga durata e di comprovata esperienza empirica.


                Da tutto questo è facile desumere che Glaser e Strauss in primis rispetto ad altri hanno lanciato il “manifesto” della scoperta basata sui dati, persino in anticipo sui tempi. Infatti solo con l’avvento degli elaboratori a carattere personale e domestico è stato possibile pensare a programmi peculiari di ricerca qualitativa in grado di reggere il confronto con i più prestigiosi e noti strumenti a carattere statistico (SPSS, in primo luogo).


                Dopo i primi tentativi di connubio con gli approcci di tipo numerico (conteggio delle parole presenti in un testo, co-occorrenze di vocaboli, gerarchizzazione statistica dei concetti principali e di altri ad essi strettamente collegati) si è giunti a formule più complesse e talora all’impostazione di un intero programma di computer-assistenza esplicitamente congegnato per rispondere alle istanze avanzate dalla grounded theory: per esempio Kwalitan, appositamente realizzato per questo scopo da Vincent Peters e Fred Wester (1995).


                Non sono mancate critiche anche abbastanza serrate e motivate, che hanno rimproverato alla grounded theory una scarsa attenzione alla qualità dei dati raccolti, quasi che le tecniche di raccolta fossero più importanti del valore intrinseco delle informazioni. Non era certo nelle intenzioni di Strauss e Glaser proporre un’accumulazione indiscriminata di elementi, nondimeno l’impressione che si ricava dal loro approccio sembra dar ragione alle riserve avanzate. Gli appunti poi mossi da Katz hanno qualche fondamento in relazione alla tendenziale separatezza fra scoperta e verifica che traspare dalla teoria a basata sui dati, quasi a sottolineare una sudditanza dell’analisi qualitativa rispetto ad un livello più alto di rigore scientifico e di teoresi. La sudditanza è anche terminologica quando si parla di codifica, campionamento teoretico, comparazione ed altro ancora. Si ha quasi l’impressione – osserva giustamente Kathy Charmaz (1988: 109-110), cui si devono anche le riflessioni sopra riportate – che non si abbia più a che fare con un procedimento induttivo ma con un tipico andamento quantitativistico di logica deduttiva.


                Alla stessa Kathy Charmaz si deve forse la migliore “volgarizzazione” della teoria di Glaser e Strauss, con dettagli ed esemplificazioni che aiutano la comprensione dei vari passaggi nei loro significati impliciti. Tuttavia va precisato che la Charmaz risponde debitamente alle varie obiezioni avanzate rispetto ai punti critici dell’approccio glaser-straussiano: in primo luogo ella precisa che la raccolta dei dati e l’analisi procedono di pari passo e che i dati utilizzati per le finalità di theory building (costruzione della teoria) non possono non essere qualitativamente ineccepibili; in secondo luogo le procedure ed i risultati sono conformi ai dati e non invece a rigidi schemi precostituiti, dunque mantengono un carattere induttivo e non certo deduttivo (come sarebbe se si facesse ricorso a pre-requisiti già definiti); in terza istanza i grounded theorists non si adeguano ai criteri formali tipici della metodologia quantitativa, anzi ne rifuggono, pur senza dimenticare l’importanza della continua verifica dei dati e dei collegamenti possibili fra di essi, per non dire di un eventuale sconfinamento dal terreno peculiare di ricerca per sondare altre potenziali tracce indiziarie; da ultimo Strauss e Glaser non trascurano il dinamismo processuale della realtà sociale, anzi lo presuppongono e sono consapevoli della probabilità di un superamento dei risultati raggiunti in un primo momento (in pratica, altri ricercatori potrebbero far scaturire interpretazioni diverse dai medesimi dati, in quanto non è fissata una volta per tutte l’unica lettura possibile della realtà esaminata).


L’analisi computer-assistita


                La grounded theory non solo evolve attraverso i suoi stessi ideatori ma consente percorsi personali a quanti si cimentino con essa per condurre ricerche qualitative, raccogliere storie di vita, analizzare biografie. Del resto gli strumenti tecnici non mancano ed hanno raggiunto un livello di perfezione e di familiarità tra i ricercatori che ormai è l’imbarazzo della scelta quasi l’unico, vero problema. A tutt’oggi si contano almeno una trentina di programmi per computer utilizzabili nell’analisi qualitativa e quindi applicabili anche alle storie di vita.


                Nell’impossibilità di render conto in questa sede di tutta la serie del software per la ricerca qualitativa, ci si limita a segnalare tre programmi: il primo, The Ethnograph, oggi giunto alla versione v5.0, è stato un po’ l’antesignano della nuova generazione di programmi qualitativisti che provvedono alla codifica prima e poi al “recupero” (gestibile) del materiale codificato; il secondo, HyperRESEARCH, è più mirato alla costruzione di teorie; il terzo, QSR NUD·IST, è finalizzato alla gerarchizzazione delle categorie analitiche ed ha ora una nuovissima versione: Nvivo.


                Già da questa prima elencazione si comprende che i programmi non rispondono tutti alle medesime esigenze. Invero le caratteristiche del software rappresentano esse stesse il primo problema da affrontare.


                Alla categoria di The Ethnograph appartengono anche QUALPRO, il già citato KwalitanHyperQual2Textbase Alpha (con possibilità di applicazioni statistiche riportabili in SPSS).


                Fra i programmi destinati alla costruzione di teorie si possono annoverare oltre HyperRESEARCH anche ATLASti (con caratteri da ipertesto e rappresentazione grafica, come pure Hypersoft), AQUAD ed il suo vecchio antesignano del 1985 Qualog (entrambi simili a HyperRESEARCH in quanto usano sistemi logici per la verifica di ipotesi) e QCA (Qualitative Comparative Analysis).


                In realtà anche QSR NUD·IST torna utile per la costruzione di teorie ma offre in più la possibilità di creare un albero gerarchico mediante i legami categoriali. Con l’aggiunta poi di QSR NUD·IST MERGE è dato unire insieme due o più ricerche condotte con QSR NUD·IST.


                Nel frattempo qualche programma, pur promettente come TAP (Text Analysis Package), è uscito fuori del mercato. Qualche altro appare abbastanza datato, come i “recuperatori” di testo WordCruncher (complesso, ma di grandi capacità per le frequenze e le concordanze) e ZyINDEX (adatto soprattutto all’indicizzazione, permette molte revisioni e qualche funzione di ipertesto).


                MAX ed il suo epigono WinMAX servono alla gestione dei testi e generano variabili specifiche con dati sia qualitativi che quantitativi (quest’ultima caratteristica della combinazione fra qualità e quantità si ritrova anche in Intext/PC e nel già noto ma superato TEXTPACK PC, entrambi adatti per l’analisi del contenuto).


                Non è facile descrivere e valutare i singoli programmi. La loro obsolescenza è una costante, soprattutto per i packages migliori e perciò più richiesti. Si rischia di parlare di qualcosa che nel frattempo è già stato risolto in modo diverso e di fatto superato con gli aggiornamenti.


                Ancora nel recente passato vi era una netta distinzione fra i programmi per il DOS (su macchine IBM o IBM-compatibili) e quelli per il sistema Macintosh. Ora i pacchetti sono ancora disponibili solo per l’uno o l’altro sistema operativo, ma taluni (ancora pochi invero) sono disegnati apposta anche per Windows (sia per vecchie che nuove releases ed anche per Windows 95 98).


                Il software tende comunque a collocarsi entro un unico sistema operativo, soprattutto entro il DOS. Nel caso di Windows l’opzione è unica o condivisa con il sistema Macintosh. Ma ormai anche le barriere di incompatibilità fra i programmi tendono a cadere, un po’ come quelle fra qualitativo e quantitativo: si va verso il massimo di compenetrabilità mutua possibile.


                I tre programmi che vengono illustrati qui di seguito sono in lingua inglese (lo stesso dicasi per i rispettivi manuali) ed usano sistemi specifici di basi di dati testuali non formattati. Di fatto, una volta effettuata la codifica, i codici sono collegati a dei puntatori che contengono gli indirizzi delle parti di testo utilizzate. Il che consente facilmente ed immediatamente il recupero dei testi o delle loro parti che interessano il ricercatore.


                La codifica, in particolare, consiste nell’attribuire dei codici (concetti, categorie analitiche, termini di sintesi od altro ancora) alle porzioni di testo (dette perciò segmenti). Tali codici sono scelti dal ricercatore in modo assolutamente libero (in questo consiste peraltro la responsabilità – e la capacità – del soggetto umano a fronte della macchina che svolge solo il ruolo di supina elaboratrice). Ovviamente la scelta dei codici dipende dai temi oggetto di indagine e dalle eventuali ipotesi da verificare (le ipotesi sono eventuali perché per esempio la grounded theory non ne prevede esplicitamente).


                Il recupero (retrieval) più semplice dei segmenti avviene con la ricerca e la comparsa sullo schermo di tutte quelle parti di testo cui è stato attribuito in precedenza un medesimo codice.


                Appunto l’attribuzione di un codice è la parte più delicata di ogni programma di computer-assistenza.


                L’inconveniente maggiore, in qualche programma, è rappresentato dal fatto che ogni segmento appare fuori di contesto, giacché non compare sullo schermo ciò che precede e segue la parte di testo recuperata. In ogni caso il contesto è sempre ricostruibile in qualche misura, in modo da cogliere meglio il senso del passo considerato.


                Sono di grande rilevanza sia le caratteristiche della codifica che quelle del recupero.


                Per la codifica è importante che essa avvenga sullo schermo, in modo da poter controllare direttamente le operazioni in corso di svolgimento. Con testi aventi già una strutturazione definita dal ricercatore la codifica può avvenire in modo automatico. Torna utile poi disporre della possibilità di aggiungere dei memos (promemoria, note, appunti, ipotesi interpretative) da collegare ai codici e quindi ai segmenti di riferimento. Gli stessi legami fra i codici vanno definiti, così da avere una struttura di flusso, una gerarchia fra le categorie di codici. Altra possibilità interessante è quella di prescindere dalla codifica dei segmenti affinché questi siano collegabili fra di loro per altre ragioni non legate necessariamente alla loro codifica: si tratta di creare dei legami (links) che superano la rete dei codici per poter usare nessi di livello più alto, più generale, cioè gli hyperlinks. Successivamente si può passare pure ad una rete che colleghi fra loro i memos, i codici ed i segmenti. Un’ulteriore operazione è quella di definire delle variabili (di sesso, occupazione, età, scolarizzazione, residenza o altro) che possono essere connesse ai vari testi. Da ultimo si perviene in alcuni programmi ad una classificazione delle categorie di codici collegate alle suddette variabili.


                Per la fase di recupero è determinante l’opzione, la capacità di fare selezione, specialmente con lo scopo di individuare le cosiddette co-occorrenze, cioè la compresenza di elementi diversi. Ci si può trovare dinanzi ad una sovrapponibilità di segmenti (per una porzione del testo si hanno due o più segmenti con altrettanti codici) o ad una sequenza di segmenti (per esempio nel corso del testo si ha prima un segmento con il codice x, poi uno con il codice y, quindi ancora un segmento con il codice x, seguito da un altro con il codice y – od altre possibili combinazioni sequenziali come x, y, y, x – ) od infine ad una prossimità di segmenti (due o più segmenti con i relativi codici sono abbastanza vicini nel testo, per esempio a distanza di qualche frase o di poche parole).


                Altre soluzioni, non sempre accessibili in via automatica, possono far reperire parti di testo che affrontano lo stesso argomento o in cui si trovano riferimenti di confronto (per esempio a conferma o in contraddizione), oppure due o più segmenti che ricostruiscono in successione più o meno cronologica i vari periodi all’interno di una medesima biografia, oppure segmenti correlabili fra loro per l’affinità dei temi affrontati od anche per la contemporaneità dei fatti narrati.


                Un’operazione più semplice, che ormai è presente anche in diversi elaboratori di testi (wordprocessors) – almeno quelli con versioni più recenti -, riguarda il calcolo delle frequenze delle parole. Un’altra elaborazione usuale è quella del calcolo delle frequenze dei codici e – talora – delle co-occorrenze fra parole e codici.


Conclusione


                Non più tardi di una decina di anni fa si lamentava che l’analisi qualitativa, la metodologia delle storie di vita, la storia orale, la sociologia non numerica avessero scarse possibilità di risalire la china della scientificità nel campo delle scienze sociali, largamente surclassate dai metodi quantitativi, dalle elaborazioni statistiche più raffinate, dal diffondersi di strumenti computeristici tutti orientati ad accrescere le capacità, già notevoli, dei ricercatori impegnati nell’indagine sui dati hard forniti da tabelle e percentuali, medie e scarti quadratici medi, indici di correlazione e coefficienti di contingenza.


                Dopo i primi timidi tentativi a metà degli anni ottanta, si dispone ora di qualche teorizzazione più sistematica ed articolata (prima fra tutte la grounded theory, le cui origini risalgono già agli anni sessanta), finalmente accompagnata e messa alla prova da supporti computazionali che non si limitano al puro e semplice calcolo delle frequenze o, al massimo, delle co-occorrenze.


                Sarebbe ovviamente errato e fuorviante credere che l’ausilio di una macchina algoritmica risolva tutti i problemi irrisolti della sociologia qualitativa. Il fatto è che anche nelle migliori condizioni, con un laboratorio ben attrezzato di hardware e software, il ricercatore resta il fattore primo di ogni ricerca. Egli ne è l’artefice, semmai il realizzatore compartecipe unito con il soggetto dell’indagine (non mancano esempi di autori che hanno preposto in copertina come co-autore il nome del loro biografato), comunque il decisore primo che orienta, incanala i flussi interpretativi entro l’alveo delle categorie condizionali di un fenomeno sociologicamente rilevante. Anche con il migliore dei programmi in uso oggi come pure nel futuro rimarrà al ricercatore la responsabilità (e la libertà) di stabilire ciò che è significativo rispetto a quanto è succedaneo, pur entro la cogenza dei dati.


                L’analisi computer-assistita non è il toccasana di una metodologia “inferma”, tutt’al più appare ora come una nuova frontiera da esplorare, nella ricerca di un confronto alla pari con i vicini del territorio quantitativista.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


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– Roberto Cipriani, “L’analisi computerassistita delle storie di vita”, in Luca Ricolfi (a cura di), La ricerca qualitativa, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, pp. 205-242 (riprende ampiamente il presente saggio e ne amplia i contenuti tecnici ed operativi).


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– Florian Znaniecki, “Il valore sociologico dell’autobiografia”, in R. Cipriani (a cura di), La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life history, Euroma Editrice Universitaria di Roma – La Goliardica, Roma, 1995, 3.a edizione, pp.33-42 (è un brano tratto dall’introduzione di Znaniecki al volume Zycioris wlasny (Autobiografia) di Wladyslaw Berkan, pubblicato a Poznan dall’Instytut Socjologiczny, presso la casa editrice Fiszer e Majewski, nel 1924, pp. III-XII).


AGGIORNAMENTI SUL SOFTWARE DI ANALISI QUALITATIVA COMPUTER ASSISTITA


         – The Ethnograph: Il programma ed il manuale sono distribuiti da Qualis Research Associate, P.O. Box 2070, Amherst, MA 01004, USA, tel.: 001-413-2568835, fax: 001-413-2568472, posta elettronica: Qualis@QualisResearch.com oppure Qualis@MCIMail.com, sito WWW – da cui è possibile caricare anche una demonstration – : http://www.QualisResearch.com


La nuova release chiamata Ethnograph v5.0 costa 185 sterline inglesi e può essere ordinata presso Scolari, Sage Publications, 6 Bonhill Street, London, EC2A 4PU, UK, tel.: 0044-171-3301222, fax: 0044-171-3748741, posta eletronica: info@scolari.co.uk


         – HyperRESEARCH: Il programma ed il manuale sono distribuiti da Research Ware, P.O. Box 1258, Randolph, MA 02368-1258, USA, tel. e fax: 001-617-9613909, posta elettronica: researchwr@aol.com, sito WWW: http://members.aol.com/researchwr


– QSR NUD·IST e QSR NUD·IST MERGE: Il programma ed il manuale sono distribuiti da Sage Publications, 6 Bonhill Street, London EC2A 4PU, UK, tel.: 0044-171-3740645, fax: 0044-171-3748741, posta elettronica: nudist@sagepub.co.uk, sito WWW: http//www.sagepub.co.uk


La nuova release chiamata NVivo costa 255 sterline inglesi ed è applicabile anche ai dati visuali.


N. B.: Per questi ed altri programmi ci si può rivolgere anche a Scolari, Sage Publications, 6 Bonhill Street, London EC2A 4PU, United Kingdom, tel.: 0044-171-3301222, fax: 0044-171-3748741, posta elettronica: info@scolari.co.uk

QUANDO UN PAPA STA MORENDO

Roberto Cipriani

Nel momento in cui scrivo queste riflessioni, a pochi metri da me e dalla mia abitazione il papa dei cattolici sta vivendo ancora una volta un’esperienza fisicamente dolorosa ma per lui quasi abituale. Non è la prima volta che affronta la morte. Ora certamente il rischio è ancora più grave di quel giorno dell’attentato da parte di Alì Agca. Ma ancora una volta il suo comportamento stupisce: il suo tasso di umanità è particolarmente alto. Forse anche per questo Giovanni Paolo II, ovvero Karol Wojtyła, ha mostrato di capire uomini e donne di ogni continente in una maniera eccezionale. Soprattutto ha capito i giovani e le donne, che ricambiano con affetto. Ieri sera, venerdì primo aprile, mi hanno impressionato i gruppi di giovani, seduti a terra, con una candela o con un lumino acceso, in preghiera o in canto, quasi incantati ancora una volta da qualcuno che vuole loro molto bene: Giovanni Paolo ovvero Colui che il papa rappresenta.


            Se i simboli valgono qualcosa non erano fuori luogo, sul selciato di piazza San Pietro, alcune lanterne disposte a croce per terra, con un andamento un po’ curvo, quasi a seguire i selci del pavimento (i famosi sampietrini), ma in maniera tale che il braccio minore della croce fosse orientato verso i giovani e quello più lungo disposto in modo da avere la sua base orientata verso la finestra dietro la quale, al terzo piano del palazzo apostolico, proprio all’angolo (sì in corrispondenza delle pietre d’angolo), giaceva in un letto il papa, motivo principale della presenza di quei giovani e di tanti altri nella storica piazza circoscritta dal colonnato berniniano.


            Ma un altro elemento rendeva irripetibile quell’atmosfera: il silenzio, nonostante la presenza di tanti giovani, di tanti bambini, di tanti adulti, di migliaia di persone che non parlavano o parlavano sottovoce quasi non volessero disturbare il convitato presente-assente da quella finestra per lui abituale, ora illuminata ma affiancata sulla destra da un’altra finestra senza alcun filo di luce.


            Era quasi mezzanotte quando sono rientrato a casa, ma dalla mia finestra ho visto che ancora molti si recavano verso la piazza per una veglia durata tutta la notte sino alle prime luci dell’alba.


            Quel che resta impresso di queste ore è il clima di attonita quiete, quasi a rendere omogeneo l’atteggiamento dei fedeli con quello del papa: una serena attesa, che diventa quasi contagiosa.


            Non si tratta solo di simpatia per il papa: è una vera e propria empatia, cioè sofferenza ed attitudine che si immedesimano con quelle del pontefice. In fondo è quella medesima empatia che il vescovo di Roma ha provato e manifestato nei riguardi dei giovani, alla cui presenza ha spesso infranto le regole del cerimoniale, per gioire in loro, scherzare in loro, cantare in loro, ironizzare in loro, insomma diventando – lui papa – più scanzonato, per quanto possibile, dei giovani stessi. Il tutto è chiaramente emblematizzato dal grido John Paul Two we love you, cui il papa era solito rispondere John Paul Two loves you.


            Che dire, infine, di un pontificato durato quasi ventisette anni? Occorre più calma per fare qualche considerazione fondata in proposito. Per ora ci si può limitare ad una semplice osservazione di dati di fatto: papa Wojtyła è stato tanto difensore dei principi tradizionali della chiesa cattolica quanto aperto al dialogo con le altre religioni e disponibile ad allargare le frontiere della fede. Certamente il suo pontificato ha inciso visibilmente sulla storia della chiesa cattolica, ma non solo.


Roberto Cipriani


Sociologo della religione


Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia


Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione – Università Roma Tre


(Roma, 2 aprile 2005, ore 15)

RELIGIONE, CHIESA E MODERNIZZAZIONE

Roberto Cipriani


Premessa


   Anzitutto definirei speciale l’evento che viviamo in questo Istituto di Scienze Religiose di Assisi, che si colloca all’interno di un modello esemplare di studi religiosi, non ancora del tutto diffuso in Italia: quello che vede insieme laiche e laici, religiose e religiosi.


L’evento è speciale perché saluta la pubblicazione e la presentazione di un nuovo volume.


Speciale è poi l’occasione in sé, che consente una sorta di koiné tra persone che, per varie vicende, hanno visto i loro percorsi biografici intersecarsi più volte nel corso degli ultimi decenni: con Don Vittorio Peri nel Centro Sportivo Italiano,con Mons. Lorenzo Chiarinelli in tempi che risalgono a quando egli non era ancora ordinario diocesano; con Luca Diotallevi, al quale vorrei adesso offrire qualcosa appunto di speciale, parlando di questo “casoitaliano” e cioè di che cosa sta avvenendo nella religiosità che è in Italia.


La prima ricerca scientifica sulla religione degli italiani, statisticamente rappresentativa, è contenuta nel volume La religione in Italia, pubblicato da Mondadori nel 1995. Si tratta di un’indagine condotta su un campione di 7500 persone, ponderato poi su 4500 soggetti.


Ma ripercorriamo insieme le tappe dei vari filoni di questa ricerca.


Il primo percorso si riferisce agli anni ’94-’95, il tempo contrassegnato dal Convegno ecclesiale di Palermo e durante il quale esce il citato volume della Mondadori.


Il secondo percorso èquello dell’indagine sul pluralismo religiosoe morale, non ancora pubblicata, condotta a livello internazionale e che avrebbe dovuto includere anche un confronto con gli Stati Uniti d’America, mentre si è limitata alla sola Europa.


Il terzo percorso riguarda l’indagine, ancora in lavorazione, sui giubilantii pellegrini venuti a Roma per il Grande Giubileo del 2000. Si tratta di una ricerca sociologica del tutto nuova, se si escludono i tentativi, solo avviati, di Gabriele De Rosa e Alphonse Dupront, nel 1975 e nel 1983, che, peraltro, hanno lasciato quasi solamente le tracce delle difficoltà incontrate.


Si parlerà degli italiani, ma l’analisi condotta su 1033 persone ha riguardato giubilanti di ben otto lingue. Il medesimo questionario, infatti, è stato somministrato, debitamente tradotto, a soggetti di otto idiomi diversi, tra cui il giapponese. Il che ha richiesto, oltre il difficile lavoro di traduzione, un’attenzione specifica alla quantificazione del campione.


Il quarto ed ultimo percorso apre uno squarcio sul futuro, per sapere che cosa potrebbe accadere  della cattolicità di qui a qualche anno.


    Fanno da guida, in questa tappa, i dati di una recente indagine condotta da William D’Antonio, uno dei massimi studiosi del cattolicesimo statunitense.


Ovviamente dobbiamo tener conto della diversità del contesto nord-americano, ma al tempo stesso occorre essere anche attenti a coglierne le indicazioni significative perché, per esperienze sociologiche e storiche, sappiamo bene che quanto avviene negli Stati Uniti dopo non molto si riverbera anche da noi, sia pure con caratteri diversi.


Questo è il panorama su cui ci soffermeremo ed al quale fa da “finestra” la copertina-vetrata del libro di Diotallevi: non saprei se posta lì a caso o per precisa opzione dell’editore. Per noi è una vera e propria opportunità conoscitiva.


La copertina, dunque, vista da lontano assomiglia un po’ a quella del mio manuale di Sociologia della religione pubblicato qualche tempo fa nella stessa collana. Lì c’era un mantra, un disegno variopinto, realizzato con granelli di sabbia che, alla fine, vengono spazzati via, separati gli uni dagli altri, con conseguente scomparsa del disegno.


Forse è più duraturo il disegno della vetrata: prima di tutto il mantra è posto a terra, mentre la vetrata è posta in alto, quindi è più difficile da raggiungersi. Tuttavia esistono tra i due motivi in copertina anche esplicite analogie: sia la molteplicità dei granelli di sabbia del mantra che la varietà dei colori riconducono al pluralismo delle religioni, agli innumerevoli dati delle esperienze religiose.


C’è poi un’altra osservazione che forse sarà sfuggita allo stesso autore del libro: la vetrata della sua copertina è verosimilmente rovesciata; ed infatti solo se si capovolge il libro s’intravede una croce che altrimenti sfuggirebbe.


Tale rovesciamento comporta dunque uno sguardo più attento, volto a scrutare, a cogliere qualcosa che sta dentro le fibre strutturali le quali, nella fattispecie, sono quelle del Cristianesimo, del Cattolicesimo, della Chiesa, cercate e lette attraverso i sinodi, le vocazioni, le organizzazioni ed altro ancora.


Si tratta, insomma, al di là della suggestione metaforica, di voler vedere come si presenta la cattolicità italiana, o meglio la religiosità che è in Italia, cioè una situazione che va, sotto questo profilo, mutando notevolmente rispetto al passato.


Certe equazioni non funzionano più, ma le eccezioni non mancano. Per dirla con un episodio: qualche tempo fa andai ad Istanbul per una conferenza sul “fatto religioso” e sul “fatto educativo”; citai in quell’occasione un dato, a tutti noto del resto: che a Roma l’Islam è ormai la seconda religione, vista la notevole presenza d’immigrati appartenenti a questa fede. L’indomani, la prima pagina di un quotidiano locale riportava il seguente, sintomatico titolo: “L’Islam ha conquistato Roma”. Si trattava forse di una sorta di revanche rispetto alla conquista di Costantinopoli e di Gerusalemme.


*


Ma torniamo al nostro tema e vediamo che cosa nell’ambito religioso sta avvenendo in Italia, a partire dal riferimento fornito nel 1995 dall’indagine cosiddetta della Cattolica, sulla base di numerosissimi indicatori.


In Italia abbiamo una religiosità che tende sostanzialmente al livello medio-basso: lo dice la relativa quota del 28%, la più rilevante in termini statistici.


Oltre questo dato maggioritario c’è una polarizzazione che si esprime con circa un 10% di non-credenza, di indifferenza e quindi di religiosità nulla e con un 12,3% di religiosità cosiddetta alta.


Ne risulta che, in sostanza, non ci troviamo di fronte ad una religiosità particolarmente visibile ed accentuata.


Entrando ancor più nel merito del discorso e quindi nei temi del libro in esame, cioè religione, Chiesa e modernizzazione, analizziamo il dato relativo alla identificazione con la Chiesa: il 31% esprime il suo sì senza riserva; il 32% dice sì con qualche riserva; il 24% si ritiene cattolico, ma a modo suo; l’11% si autodefinisce cattolico, ma non ha le idee troppo chiare. Il cattolicesimo italiano è, dunque, tutt’altro che omogeneo.


C’è poi la tipologia dell’appartenenza: il 22% appartiene al Cattolicesimo per convinzione personale, quindi in modo attivo e militante; il 40%, per convinzione personale, ma non sempre in modo attivo (e qui siamo nell’ambito della religione diffusa”); il 27% appartiene per tradizione; il 9% per condivisione di alcune idee.


Ancora più interessante è il dato relativo alla fede in Gesù Cristo e all’adesione agli insegnamenti della Chiesa Cattolica: sono più numerosi quelli che credono in Gesù Cristo, meno quelli che credono nella Chiesa Cattolica. Messi insieme gli uni e gli altri danno il 53%; filtrando poi questo risultato emerge che il 40% è vissuto in un ambiente in cui prevale la propria fede religiosa, quindi in un contesto presumibilmente tutto cattolico; infine il 31% si riconosce nella fede espressa.


Alla domanda se il credente debba far parte di associazioni o gruppi o movimenti religiosi il 15% risponde sì, ma di fatto vi aderisce solo l’8%: ecco dunque il precipitato storico reale, rispetto all’affermazione di principio.


Un altro aspetto interessante è poi quello relativo all’autovalutazione della preparazione religiosa degli italiani: il 44% la considera sufficiente o buona; il 26% quasi sufficiente; il 28% scarsa o nulla.


In pratica gli stessi Italiani, per più della metà, riconoscono di non avere un’adeguata cultura religiosa.


Quanto alla struttura parrocchiale, che costituisce anche un tópos dell’indagine di Diotallevi, alla domanda “La vita socialerisentirebbe negativamente della chiusura della Parrocchia?” il 56%, quindi la maggioranza assoluta, risponde: “Poco o niente”; il 35% che ne risentirebbe abbastanza; molto, il 7%. Il che significa che il 42% degli intervistati è particolarmente sensibile alla presenza della struttura parrocchiale e non vorrebbe che fosse abolita.


Analizziamo adesso la dinamica riguardante la presenza regolare alla messa: le donne sono più religiose degli uomini; gli anziani (uomini e donne) più religiosi dei giovani. Se, però, esaminiamo la serie storica,  constatiamo che la stessa fascia d’età intervistata nel 1972, quando aveva 25-34 anni, intervistata poi nel 1994, all’età di 47-56 anni, dimostra un aumento di religiosità, anzitutto con un più alto tasso di partecipazione alla messa, che è una delle ritualità più significative e visibili.


Così dicasi della fascia d’età successiva: chi aveva 35-54 anni nel ’72 esprimeva una religiosità intorno al 35%; nel ’94, a 57 e più anni, la percentuale sale al 46% che, tradotto sociologicamente, significa: se c’è una socializzazione religiosa di base questa, col passare del tempo, dà i suoi risultati.


Propongo inoltre un’ultima analisi in chiave diacronica, come sapientemente ha fatto anche Diotallevi nel suo libro: guardando al passato e compiendo una rappresentazione grafica di varie ricerche, di vari autori, di vari enti, in vari anni, per quanto concerne la presenza regolare alla messa negli ultimi venticinque anni, cioè dall’indagine Burgalassi del 1968 a quella dell’Università Cattolica del’94, i risultati procedono con una percentuale del 34, 35, 28, 35, 32, 29, 30, 33, 31, attestandosi, cioè, lungo l’arco di ben 25 anni, attorno al 30%, punto più, punto meno, quindi con un continuum che non si interrompe.


Concluso il primo dei quattro momenti, consideriamo ora la “presenzadei sacerdoti in Italia”: essa è di circa un sacerdote per 10000 abitanti, ma con una rilevanza maggiore nel Triveneto e nella Lombardia e con più bassi livelli nelle regioni meridionali: Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia.


Circa “l’immagine che gli Italiani hanno dei preti” solo il 10% ritiene compito di un credente consigliarsi con dei sacerdoti; il 9,8% ritiene tipico del credente contribuire alle necessità economiche della Chiesa o del proprio gruppo religioso.


Dell’omelia domenicale il 46% lamenta la lunghezza, il 23% l’impostazione polemica. Il 49% non la ritiene affatto stimolante (e questo è probabilmente il dato più intrigante) ed infine c’è un 14% che ha difficoltà per comprenderla.


Interessante è il dato sulla “confessione”: più di un quarto non si accosta mai ad essa, però il 22% ne vorrebbe cambiare la modalità; il 18% attribuisce il suo non gradimento al modo di confessare di alcuni preti; il 28% sostiene che basta pentirsi davanti a Dio.


Inoltre il 50% dice di non aver mai dato denaro alla Parrocchia; il 78% di non aver mai parlato con un sacerdote su problemi personali o familiari. Al tempo stesso, quasi la metà degli intervistati afferma che in Italia la Chiesa cattolica è l’unica autorità spirituale e morale degna di rispetto.


Quanto all’8 per mille va rilevato che il 58% ritiene giusto il finanziamento delle Chiese.


Degno di attenzione è anche il giudizio degli italiani sulla “clausura, sia perquanto riguarda ireligiosi che le religiose”:il 16% ritiene che sia la testimonianza più alta; il 20% una forma valida al pari delle altre; un 18% la immagina priva di senso. E la maggioranza vede più positivamente il fatto che i religiosi abitino fra la gente.


La domanda sui “principali ostacoli alla scelta di vita sacerdotale” ottiene queste risposte: il 20% indica il principale ostacolo nella solitudine; il 21% dice, genericamente, che oggi esistono altre possibilità di fare una scelta religiosa; il 26% è del parere che il sacerdozio comporta la rinuncia a troppe cose. Tali percentuali possono essere anche cumulate attorno a due risposte: il 37% reputa un ostacolo il non potersi sposare e il 23%, il dover fare una scelta per sempre.


Un altro dato, forse inatteso, concerne “il sacerdozio alle donne”: il 34,8% vede positivamente l’accesso femminile alla funzione sacerdotale; il 28,9% appare perplesso.


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Passiamo adesso al secondo aspetto: l’indagine europea sul pluralismo religioso e morale, completata durante il 2000 e basata su 2149 soggetti intervistati in Italia: di questi, 1703 si sono dichiarati cattolici, quindi il 79,3%, raggruppabili nel modo seguente:


I gruppo:     i rigoristi, 21%


II gruppo:                i timorosi e gli incerti, il 12%


III gruppo:   i tradizionali celebrativi, il 18%


IV gruppo:  i radicali aperti, il 17%


V gruppo:    i praticanti impegnati, il 22%


VI gruppo:  i negativisti, il 7,8%.


    Si può delineare ora qualche breve profilo.


I “rigoristi”(21%) hanno un livello d’istruzione medio-basso; per essi il massimo valore educativo è l’obbedienza; per di più ritengono importante la funzione della religione cattolica, ma non svolgono volontariato religioso e sono tolleranti verso l’aborto.


Gli “incerti timorosi” (12%) presentano un livello d’istruzione medio- basso(anche per la presenza di molti anziani); sono indecisi per alcuni versi, ma non quando si tratta di favoritismi verso i parenti.


I “tradizionali celebrativi” (18%) danno molta importanza alle celebrazioni liturgiche; temono gli immigrati; accettano l’evasione fiscale nei confronti dello Stato, giustificandola in nome degli sprechi pubblici; ritengono importante l’obbedienza e sono contrari all’aborto e alla pena di morte.


I “radicali aperti” (17%) sono soprattutto giovani adulti di 35-44 anni e singles; esprimono tolleranza per l’omosessualità e per l’eutanasia; considerano gli immigrati alla pari degli italiani; vedono favorevolmente uno stato di tipo laicale.


I “praticanti impegnati” (22%) hanno un livello d’istruzione medio-alto; sono molto coscienti delle loro scelte personali; hanno un forte grado di convinzione religiosa, praticano il volontariato, manifestano tolleranza verso le altre religioni.


I “negativisti” (7,8%) non vedono bene la presenza di stranieri in Italia; non sono tolleranti verso le altre religioni; non sono favorevoli alla pena di morte.


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Ora è la volta del terzo momento, l’indagine sul giubileo, cui pongo a mo’ di premessa una citazione che potrà stupire: “I dogmi costituiscono l’ostacolo più formidabile all’instaurazione di un sistema inteso ad offrire un modello per il presente ed il futuro”. Sono parole di Mohamed Katami, Presidente dell’Iran. Si tratta, evidentemente, di una posizione molto chiara da parte di un intellettuale che, se anche non è seguito dalla maggioranza degli islamici dell’Iran, rappresenta pur sempre un punto di riferimento per dei gruppi che riflettono su queste dimensioni per andare al di là del pregiudizio verso un Islam considerato sempre e comunque intollerante ed integralista.


Del resto, anche in base a molti dati sociologici raccolti sulla religiosità islamica, si può rilevare statisticamente che i fondamentalisti sono una minoranza. Forse sembrano di più perché gridano un po’ più forte, perché si fanno presenti con azioni più vistose: ciò non toglie che si debba usare molta attenzione per non enfatizzare ancor più l’effetto moltiplicatore dei mass media.


Il prendere le mosse da una citazione di Katami è giustificato dal fatto che il mio lavoro, all’interno della ricerca sul giubileo, riguarda il “rapporto tra ortodossia ed eterodossia”, una questione molto delicata. Si tenga presente, tuttavia, che le interviste sono state somministrate a persone particolarmente impegnate, non a caso giunte a Roma per celebrare il giubileo.


Eppure anche fra questi praticanti giubilari abbiamo trovato diversificazioni in termini di ortodossia e di eterodossia, più precisamente in termini di presa di distanza rispetto all’insegnamento ufficiale della Chiesa Cattolica.


Dopo vari tentativi di elaborazione statistica, si è rilevato che in sostanza i giubilanti venuti a Roma per l’anno 2000 si dividono in quattro grandi categorie:praticanti ortodossi, disaffiliati eterodossi, osservanti ortodossi, militanti eterodossi.


I “praticanti ortodossi” sono quelli molto interni, che vanno a messa anche tutti i giorni e che non cambiano neppure una virgola di quanto viene detto dal Magistero.


I “disaffiliati eterodossi” sono coloro che mantengono un riferimento generale al Cattolicesimo, non partecipano a nessuna associazione e, posti di fronte ad una domanda specifica, affermano perfino di non appartenere alla Chiesa cattolica, sebbene siano venuti a celebrare il giubileo a Roma.


Gli “osservanti ortodossi” (oltre il 50%) in tutte le lingue in cui abbiamo condotto le interviste sono sempre la maggioranza. Sono quelli della “religione diffusa”, che vanno a messa tutte le domeniche o quasi e che, in linea di massima, rispettano gli orientamenti generali della Chiesa.


I “militanti eterodossi” prendono posizione in modo netto soprattutto su questioni cruciali come l’omosessualità e, in misura di gran lunga minore, il “sacerdozio alle donne”.


Chi sono, dunque, gli italiani che sono andati a Roma nell’anno 2000? I dati della cluster analysis su tutto il campione mondiale mettono in rilievo una fortissima presenza degli Italiani.


Nel nostro campione, poiché conosciamo abbastanza bene gli italiani, abbiamo ridotto la loro quota ad appena il 38%: nonostante questo , nella cluster analysis risulta molto forte la presenza delle donne italiane, quasi a sottolineare che i veri pellegrini del giubileo sono state appunto le donne italiane con una partecipazione massiccia, significativa persino in un contesto internazionale.


Rispetto alle due dimensioni dell’ortodossia e dell’eterodossia la maggioranza degli italiani, uomini e donne, recatisi a Roma per celebrare il giubileo, rientra nella categoria degli ortodossi. Quindi non sono proprio impegnatissimi, militanti, ma persone dotate di una religiosità comune.


Occorre tenere presente che il dato complessivo dell’indagine, riguardante tutti gli intervistati delle varie nazionalità collocabili all’interno della categoria “osservanti ortodossi”, è del 56%, quindi di gran lunga più bassa di quello relativo agli italiani che costituiscono, per questa stessa categoria, il 10%.


Anche fra gli italiani, tuttavia, abbiamo quote non trascurabili che potrebbero contenere interessanti segnali per il futuro, come l’11,1% di “praticanti ortodossi”: quelli sempre legati alla parrocchia, che vanno a messa la domenica e anche nei giorni feriali, che si accostano alla confessione ed alla comunione, sono andati a Roma per il giubileo, si sono confessati ed hanno fatto penitenza.


I “disaffiliati eterodossi” (12,3%) giungono anche a dire di non appartenere alla Chiesa cattolica, tuttavia hanno celebrato il giubileo, pur conservando tutto il loro disaccordo con gli insegnamenti della Chiesa su alcune tematiche.


I “militanti eterodossi”(10,2%) sono quelli che anche in Italia non hanno apprezzato l’insegnamento della Chiesa in merito al gay pride; anzi, alcuni di essi dicono esplicitamente che le pratiche omosessuali sono da considerarsi non punibili.


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Data questa situazione, quali potrebbero essere le prospettive future del Cattolicesimo?


Una possibile risposta ci può venire dall’indagine condotta negli Stati Uniti da William D’Antonio, insieme con altri ricercatori.


Alla domanda: “Che cosa ritenete che sia veramente importante all’interno della Chiesa?” l’80%, dato di assoluta rilevanza, risponde: “Isacramenti, quali l’eucaristia e il matrimonio”.


Ma “che cosa rende peculiarel’appartenenza al cattolicesimo?”.


Qui le risposte si attestano attorno al divorzio e ad altre questioni simili. Non viene ritenuto elemento peculiare l’andare a messa la domenica, anche se questa pratica, negli Stati Uniti, è seguita da un’alta percentuale di fedeli. Molto più qualificante viene ritenuto, invece, il dar tempo e denaro ai poveri.


Un altro 49%, quindi metà del campione, afferma che i parroci fanno un buon lavoro: un giudizio di massima positivo.


Osservazioni di particolare pregnanza sono infatti legate al fatto che i leaders della Chiesa cattolica non sono in collegamento con il laicato.


Se osserviamo con attenzione il dato della “pratica religiosa” quello italiano si aggira attorno al 28-31%; negli Usa il 37% va a messa almeno una volta alla settimana; quindi quest’ultima è una percentuale più alta di sei punti rispetto all’Italia.


Ma particolarmente interessante è il segnale relativo alla “preghiera personale”.“Quando preghiregolarmente, a parte la messa?”Il 54% risponde: “Ogni giorno”. Ritengo che questo sia il risultato più rimarchevole di tutta l’indagine.


Va ricordato che Roma, definita città sacra, stando ai dati sulla pratica religiosa sembra essere, in realtà, la città più secolarizzata d’Italia, con dati di frequenza dichiarata alla messa intorno al 20% (ma in realtà si arriva probabilmente al 14-15%). Quando, però, andiamo a fare la domanda sulla “preghiera”, risulta che il 70% dei romani prega, così come più o meno si era verificato per il resto degli italiani. Letti, non in chiave teologica o pastorale, ma in chiave sociologica, questi dati dicono che ci sarebbe più religiosità fuori della Chiesa che dentro di essa.


D’altra parte la preghiera non è sottoposta a sanzione pubblica o a controllo sociale, come nel caso della messa in cui si può verificare se vi si è partecipato o meno.


La preghiera è un fatto personale cui nessuno è costretto, in quanto nessuno può effettuare controlli.


Siamo dunque di fronte a germi di religiosità latente, invisibile, ma ben diversa da quella detta “invisibile” ed ipotizzata da Luckmann.


Ma torniamo al libro di Diotallevi.


Il suo contributo dimostra che, in fondo, la religiosità italiana non è tutta meridionale, anzi proprio quella meridionale, semmai, per certi aspetti fa più problema.


Indubbiamente ci troviamo di fronte ad un lavoro che si connota per un aggiornamento inteso nello spirito conciliare del termine e cioè come “ripresa di questione e d’interesse” circa la situazione italiana.


Quello di Diotallevi è un approccio strutturale, statistico, da cui la religiosità emerge in modo complesso e composito. È un’analisi dei dati sciolta dall’ipoteca ideologica e tale da renderne immediata e chiara la comprensione.


Certamente potremmo discutere se quello che Luca Diotallevi ha costruito sia una sorta di “ecclesiosfera”, come la definirebbe Emile Poulat: L’eglise c’est un monde, la Chiesa è veramente un mondo, un mondo articolato, un po’ come la vetrata posta in copertina per il volume di Luca Diotallevi.


Sintesi dalla trascrizione della registrazione audiomagnetica.

LA TRASFORMAZIONE DEI LUOGHI EDUCATIVI

Roberto Cipriani


Premessa


                In una società sempre più  complessa e globale è scontato che anche le prassi educative risentano dell’impatto delle novità tecnologiche e delle trasformazioni rivoluzionarie in atto. E l’adattamento al nuovo diventa una sfida, cui è facile rinunciare ma assai più difficile rispondere in modo adeguato. E non è solo una questione di età ma piuttosto di spirito, di temperamento, di attitudine.


                Le soluzioni reattive possono essere di due tipi: o rifiuto totale o assuefazione rassegnata ed acritica. La soluzione intermedia, cioè quella dell’uso oculato, prudente e misurato, non appare essere quella prevalente.


                Eppure con le novità che incalzano occorre fare i conti, altrimenti si viene sopraffatti. Non è questione di predicare l’accettazione incondizionata del nuovo, è invece questione di capire, programmare, scegliere. Detto altrimenti, non conviene inseguire ogni genere di modifica dell’esistente, conviene piuttosto essere attendisti, aspettare al varco gli sviluppi dell’innovazione ed eventualmente farne uso solo se già appaiono sufficientemente affidabili e convincenti.


Quasi ogni giorno la tecnologia informatica, per esempio, offre sul mercato releases sempre più aggiornate (dapprima Windows ’95, poi Windows ’98, ora siamo in attesa di Windows 2000). In questa rincorsa forsennata non si ha neppure il tempo di appropriarsi di quanto si è cominciato a sperimentare che subito incalza una ulteriore proposta. Insomma la fase di epoché, di attesa, di sospensione, non è concessa, si deve essere tempestivi, pena l’obsolescenza. Ma è proprio giusto e conveniente che sia così?


Anche in questo caso giova usare molta discrezione, senza chiusure preconcette ed aperture incondizionate. Occorre dunque filtrare ciò che è possibile implementare, adoperare senza inconvenienti gravi e perdite di tempo sconsiderate. Insomma il nuovo va gestito sapientemente, altrimenti si rischia di essere “agiti da” esso.


I nuovi luoghi educativi


                Rispetto agli spazi ed ai tempi tradizionali dell’azione educativa altri scenari si affacciano all’orizzonte e prospettano percorsi inusitati, agevolazioni attraenti, immagini affascinanti. C’è da chiedersi però se non si finisca per essere vittime di solerti mercanti, tutti protesi a magnificare i loro prodotti senza nulla (o poco) concedere allo sguardo critico dei potenziali utenti, ammaliati dai portentosi ritrovati della tecnica, salvo poi ricredersi quando scoprono le difficoltà di un software troppo innovativo, le trappole di un hardware che non funziona a dovere, le bizze di una struttura troppo complessa per essere del tutto perfetta e priva di mende, di difetti.


                Il punto essenziale è però avere abbastanza know how, almeno in termini di conoscenze anche minime, per sfuggire ai raggiri dei venditori di fumo e dei propagandisti pronti ad ogni genere di risposta prefabbricata e poco attenti ai quesiti cruciali, di sostanza, posti dai possibili acquirenti.


                In questo quadro la ricerca e la sperimentazione di nuovi luoghi educativi meritano una cura tutta particolare, che non può esaurirsi nell’affidarsi ad un qualunque esperto, forse un po’ amico ma che difficilmente resterà a nostra disposizione nei momenti strategici delle varie attività quotidiane e dell’impegno educativo, didattico, socializzativo.


Insomma, prima di pensare alla novità del “luogo” (o del logo, come si usa spesso dire pensando quasi esclusivamente al problema dell’immagine più che a quello dei contenuti), è consigliabile riflettere adeguatamente sul da farsi e soprattutto sulle ricadute che ne possono derivare per quanto riguarda l’esito educativo.


Luogo e contesto educativo


                Ogni luogo ha una sua collocazione ed una sua consistenza grazie al contesto che lo accompagna. Dunque lo stesso contesto è parte essenziale del luogo. L’uno e l’altro hanno una rilevanza non trascurabile dal punto di vista del risultato della relazione pedagogica. Del resto un quadro contestuale deteriorato – è ben noto – non depone a favore di un rapporto positivo fra educatori più o meno giovani e nuove generazioni. Il disordine, la  sciatteria, il degrado di un istituto scolastico, per esempio, non creano le condizioni più favorevoli per un’azione educativa corretta ed efficace. Occorre dunque che ogni struttura seppure tradizionale sia messa a regime, sia risistemata, in modo da offrire i prerequisiti di base per l’attivazione dei meccanismi più adatti in rapporto all’agire educativo-socializzante.


                Se almeno questo primo requisito non viene soddisfatto qualunque altro apporto è suscettibile di essere vanificato dalle carenze di base e dall’impossibilità di operare al meglio delle risorse disponibili.


                Dando dunque per scontato un livello almeno accettabile delle strutture di base, dei luoghi canonici della militanza educativa, risulta più agevole poi affrontare debitamente il tema dei nuovi luoghi educativi.


                Innanzitutto va chiarito, a scanso di equivoci, come non sia il luogo a creare il fatto educativo, che invece deriva essenzialmente dal supplemento di umanità che vi è collegato e dal sapere scientificamente orientato che vi presiede, calibrando in modo opportuno ogni tipo di intervento.


                In effetti, sia detto ancora una volta, il luogo di per sé nulla garantisce a livello di efficienza e riuscita se non vi si aggiunge un afflato intenzionale dell’educatore che tenda a porsi dalla parte del soggetto destinatario ancor più che in prospettiva diadica, differenziata o persino nettamente oppositiva.


                Pertanto va detto esplicitamente che il luogo deve essere pensato direttamente in funzione di chi ne fa uso. Esso è di per sé uno strumento educativo, è come un tassello fondamentale che si inserisce in un mosaico articolato e funzionale di competenze, conoscenze, legami, proposte e riuscite di proposte.


Il tempio e la cafeteria come metafore


                Si pensi, ad esempio, alla struttura di un tempio. Se essa non è indirizzata allo svolgimento delle sue funzioni precipue (raccoglimento, preghiera, meditazione, celebrazione) non fa altro che allontanare il raggiungimento dell’obiettivo per il quale è nata. Lo stesso dicasi per un edificio scolastico, un’aula, una sala di riunioni.


                Ecco perché l’allocazione di iniziative educative (da quelle scolastiche a quelle ecclesiali) in quadri contestuali impropri si trasforma in un grave ostacolo per la realizzazione di quanto perseguito a livello pedagogico. Di fatto però avviene che alcune scuole utilizzino stanze in appartamento e che taluni laboratori siano sistemati negli scantinati e che pure delle palestre abbiano sede in locali poco aerati e comunque inadatti. La stessa aula per i docenti è talora ricavata in un ambiente che di per sé sarebbe destinato a fungere da ripostiglio. Ed è sintomatico che negli istituti di istruzione non siano previsti spazi appositi per gli incontri fra gli studenti, al di fuori del regime-orario assai vincolante delle lezioni. Il fatto che ci sia un’aula docenti e quasi mai un’aula studenti la dice lunga sull’ideologia sottesa ad un sistema scolastico pensato più a misura degli adulti che delle classi più giovani di età, cioè della maggioranza degli utenti. Per non dire, peraltro, della totale assenza di spazi conviviali, a forte socializzazione, quali possono essere dei locali di ristoro, la cui caricatura estrema sono – in funzione sostitutiva e per di più orientata in chiave di mero profitto economico – le macchine automatiche distributrici di bevande ed altri alimenti, senza che però si crei all’intorno ed all’interno dello spazio circostante alcuna relazione umana significativa sul piano della condivisione, dello scambio, della discussione, del confronto. Ecco perché lo “scandalo” di una cafeteria nelle scuole costituisce il segno emblematico di una disfunzione essenziale: il rapporto libero, spontaneo, alla pari, sembra sia da scoraggiare al massimo.


                In fondo è questo un esempio di una concezione statica dell’ambiente educativo. L’inserimento di un nuovo elemento pare scombussolare schemi preesistenti, modalità inveterate. Non a caso lo stesso Ivan Illich, già sostenitore accanito della descolarizzazione della società contemporanea, si è poi fatto fautore di un più ampio processo: il ricorso alla convivialità come forma di compartecipazione, di esperienza comune, di comunicazione ed uguaglianza proposte e praticate.


                In che misura, ad esempio in un istituto scolastico in cui funzioni una mensa durante l’intervallo-pranzo, il dirigente scolastico, i docenti, gli amministrativi e gli ausiliari siedono allo stesso tavolo degli alunni ed utilizzano compiutamente anche questo luogo-spazio-momento in apparenza non educativo ma in realtà elemento privilegiato per una più libera interazione in prassi, senza i vincoli degli strumenti di controllo e di sanzione solitamente in vigore nell’ambiente-classe? Ovviamente può anche capitare che si perda questa felice occasione, offerta proprio dal clima amichevole dell’ora di pranzo, per trasportarvi mezzi e contenuti di una pedagogia piuttosto formalizzata e formalizzante. Al contrario sarebbe da immaginare una non soluzione di continuità fra il modello tipicamente scolastico, magari anche d’impronta tradizionale, e quello più orientato in una prospettiva conviviale, indubbiamente assai più efficace in un impatto educativo.


I limiti del luogo educativo


                Non si tratta tuttavia di estendere il luogo educativo ad ogni spazio, sino a colonizzare tutti gli ambiti dell’attività giovanile. Il punto-chiave è un altro. Sarebbe auspicabile un impianto educativo così rispettoso del soggetto in socializzazione da non far sentire il peso di una presenza ingombrante ma accettata perché gradita, utile, persino piacevole. La compresenza di adulti-educatori e di ragazzi e giovani in crescita può rientrare, se opportunamente calibrata nei tempi (e, ovviamente, pure nei luoghi), in un quadro complessivo di incontri, confronti, verifiche, che favoriscano la maturazione personale non solo dei soggetti da educare ma anche degli stessi educatori la cui formazione non è da considerare acquisita una volta per sempre ma come precipitato storico di una dinamica continua che vede nella gestione del processo educativo un mezzo formidabile di sintonizzazione con gli eventi contemporanei, di comprensione profonda delle nuove classi di età, di affinamento della prassi educativa, in chiave di maggior consapevolezza e di aumento dell’efficacia operativa.


                Sempre più si sta affermando, in tempi recenti, la propensione ad una metodologia diversificata nei modi e nei mezzi. Sembra particolarmente accreditata, ora più che mai, la soluzione del laboratorio come luogo innovativo rispetto alla vecchia struttura di aula e di classe. Va però detto che il cambiamento di nome non è sufficiente a testimoniare un reale mutamento di rotta. Serve a ben poco, in pratica, mettere sulla porta di un’aula il cartello con la scritta “laboratorio” se non si registra una netta virata per quanto concerne la mentalità dell’adulto che entra in contatto con il gruppo di giovani in formazione e con ciascuno di essi in modo opportuno, coerente e personalizzato.


                Orbene, proprio il laboratorio è prevedibile sia la prospettiva vincente dell’educazione-insegnamento nell’immediato o prossimo futuro. La tendenza è già in atto ed è rafforzata dalla larga diffusione delle tecniche computeristiche. Alcuni dati di fatto appaiono particolarmente significativi: innanzitutto le competenze divengono facilmente superate grazie all’accelerato andamento delle modifiche tecnologiche; in secondo luogo risulterà sempre più difficile operare a livello individuale, giacché l’interdipendenza diverrà sempre più vincolante, il che comporterà ancor più un’azione di équipe, debitamente programmata e guidata da una leadership accorta e preparata; in terzo luogo va considerato che nel processo di globalizzazione di molti processi (economici, culturali, linguistici, tecnologici) le turbolenze, gli imprevisti, le difficoltà, gli incidenti di percorso sono da ritenere vieppiù come una costante, un punto fisso continuamente riemergente.


Le conseguenze educative


Tutto questo non è privo di conseguenze a livello educativo: i soggetti impegnati nella relazione interpersonale sono indotti a rivedere molte delle loro convinzioni precedenti, ad assumere un atteggiamento ed un comportamento di notevole (ma non eccessiva) apertura alle novità del loro settore, a riqualificarsi di continuo senza inutili e controproducenti resistenze, a ricominciare sempre da capo per trovare le risposte più giuste anche alle istanze più imprevedibili, a misurarsi in via normale, quotidiana, con il proprio know how, il sapere educativo, e con il quadro culturale specifico dei giovani interlocutori, rinunciando a velleitarismi personali e cercando piuttosto le forme più opportune di cooperazione e di disponibilità nei riguardi altrui.


                Diventa peraltro necessaria una divisione sempre definita dei compiti, dei ruoli, delle finalità, delle metodologie educative. Ogni pressapochismo potrebbe sfociare in danni rilevanti per la formazione dei giovani in socializzazione. Del resto è ben noto che un errore dell’educatore è in grado di annientare anni di duro lavoro; un intervento fuori luogo, magari intempestivo, può rompere definitivamente un legame, un’intesa faticosamente raggiunta. Una volta interrotta la comunicazione, è assai ardua la ripresa (gli stessi tentativi di recupero, sovente maldestri, potrebbero in effetti peggiorare la situazione).


                L’educazione davanti allo schermo di un computer è diversa ma parallela rispetto a quella dinanzi ad un televisore. In comune i due media hanno l’interfaccia tra l’uomo e l’immagine. Ma in realtà c’è qualcosa di ben diverso nei due sets di azione. In un caso il soggetto è in grado di interagire direttamente, di stabilire che cosa fare con il mezzo, nel secondo caso la discrezionalità è ben limitata, l’interattività inesistente, con lo zapping che appare per quel che in effetti è: una parvenza di libertà a fronte di una serie di gabbie costruite da altri. Quest’ultimo particolare del discorso può valere anche per il computer, dato il carattere tendenzialmente rigido dei programmi di scrittura, disegno, calcolo. Anche la stessa navigazione in Internet segue percorsi obbligati e obbliganti: si aprono nuovi mercati di vendita forzosa, si intravedono orizzonti per il libero esercizio della fantasia ma sapersi districare in un’eccedenza ossessiva di offerte è impresa che riesce a ben pochi, impertinenti oppositori che non si lasciano irretire nelle maglie fitte di una rete tanto ampia quanto capace di imbrigliare le resistenze più vigorose.


                A questo punto un quesito cruciale va posto: chi possiede capacità, conoscenze, soluzioni, metodi, strumenti adeguati al bisogno impellente di un’educazione mirata ad una saggia utenza dei mass media? Quale scuola, quale facoltà universitaria ha fornito sinora qualche formula almeno approssimata per risolvere questa drammatica emergenza educativa?


                Il fatto è che ancora ci si trastulla con schede e formulari, con pianificazioni astratte ed avulse dalla realtà, con progetti più utili agli interessi degli educatori che a quelli dei ragazzi.


                Il gap è dunque vistoso. Basti dire che molti educatori non posseggono neppure le basi elementari per maneggiare agevolmente queste nuove risorse. Come possono poi educare gli altri o farlo in modo non distorto da manipolazioni di vario genere?


                Se si pensa che i giovani delle ultime generazioni sono cresciuti con le trovate ammiccanti degli spots televisivi e con le abilità digitali (nel senso del muovere destramente le dita) delle playstations per i videogames, dunque con luoghi fittizi, altamente virtuali, cioè con non luoghi fatti passare per reali, com’è possibile da parte degli educatori odierni recuperare il terreno perduto ed avere un’idea più precisa in merito ai nuovi luoghi educativi?


Conclusione


                Ebbene, nell’impossibilità di realizzare in breve spazio di tempo un’immersione totale nelle nuove dimensioni del vissuto giovanile, conviene almeno non arrendersi del tutto ma avvicinarsi con intelligenza e perspicacia a quanto sta avvenendo nel mondo giovanile. Ancora una volta, come sempre, prima di pensare a che cosa fare è conveniente dare uno sguardo al campo di azione, per capire in modo fondato quali siano e come siano i nuovi luoghi educativi.


                In fondo bisogna pur prendere atto che la famiglia e la scuola oggi più che nel passato non sono più quasi gli unici luoghi dell’intervento educativo. Anche in termini di spazio-tempo sono di fatto altri luoghi e contesti a prevalere. Infatti il numero di ore trascorso dinanzi ad un televisore o ad un computer già eguaglia se proprio non supera la quantità di tempo trascorsa in famiglia intrattenendo relazioni significative. Lo stare in casa o a scuola e magari il restarvi per molte ore non rapppresentano di per sé una prova scontata dell’esistenza di un rapporto fondante. Del resto – com’è noto – si può essere fisicamente presenti ma mentalmente distratti. Non a caso si cerca la fuga, resa manifesta con il marinare la scuola, o la separazione dal nucleo familiare, ben esemplificata dal chiudersi in camera da parte di chi vive sotto lo stesso tetto ma in separazione quasi completa (la stessa convivialità del pranzare insieme viene infatti meno).


                Spetta all’educatore evitare che tale separazione sia consensuale. Va riaperta la comunicazione, va rinnovato lo sforzo educativo. Nondimeno tale riavvicinamento ha da essere delicato, attento, rispettoso, prudente, cercando in prima istanza di capire le ragioni dell’altro, le motivazioni inespresse, i problemi connessi, il senso di un rifugio in luoghi che affidati all’autoregolazione ed all’autoeducazione dei singoli non consentono un approccio graduale, calibrato, strategicamente misurato per affrontare le contraddizioni, gli imprevisti, le avversità di un’esistenza che non sempre lascia spazio alla normalità del quotidiano ed alla serenità della spensieratezza giovanile.


Bibliografia di riferimento


E. Besozzi, Elementi di sociologia dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1993.


A.      Calvani, Dal libro stampato al libro multimediale, La Nuova Italia, Firenze, 1990.


F. Casetti (a cura di), L’ospite fisso. Televisione e mass media nelle famiglie italiane, CISF, Ed. San Paolo, Alba, 1995.


A.      Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi, Torino, 1997.


S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.


I. Illich, Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 1971.


I. Illich, Convivialità, Red/Studio redazionale, 1993.        


R. Maragliano, Esseri multimediali. Immagini del bambino di fine millennio, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1996.


M. Wolf, Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano, 1992.


Roberto Cipriani è professore ordinario di Sociologia nell’Università di Roma Tre.

RELIGIONE INVISIBILE O “RELIGIONE DIFFUSA” IN ITALIA?

Roberto Cipriani


Premessa


            Di solito un autore viene considerato un classico, sempre che lo meriti, solo dopo che si è conclusa la sua attività scientifica. Nel caso di Thomas Luckmann c’è stata una singolare anticipazione dei tempi. Egli è divenuto un classico da subito. Il suo volume sulla religione invisibile, dapprima pubblicato in lingua tedesca nel 1963 (Luckmann 1963) e poi in inglese nel 1967 – con l’aggiunta di due capitoli, il terzo su “The Anthropological Condition of Religion”, ed il settimo su “Modern Religious Themes”, ed il nuovo titolo (Luckmann 1967) scelto non dall’’autore ma dall’editore -, è stato immediatamente annoverato fra le opere classiche della sociologia della religione, cioè fra quei testi che uno studioso di scienze sociali della religione non può assolutamente ignorare e che uno studente frequentante corsi sociologici non può non leggere. Insomma The Invisible Religion è collocabile, sin dalla sua prima edizione, in una lista ideale di masterworks del pensiero sociologico, insieme con il saggio weberiano sull’etica protestante e quello durkheimiano sulle forme elementari della religione. E non a caso Luckmann sin dalle pagine di esordio del suo testo rende omaggio ai suoi illustri predecessori: “Sebbene le loro teorie siano così diverse, è significativo che sia Weber che Durkheim abbiano cercato la chiave per una comprensione della posizione sociale dell’individuo nello studio della religione” (Luckmann 1969: 11).


            Ma vi è di più. Al di là del tributo così reso, il collegamento fra Durkheim e Luckmann è ben più netto di quanto il sociologo di Costanza voglia consapevolmente riconoscere. Vi è un passo durkheimiano ne Le forme elementari della vita religiosa (Durkheim 1973: 58) che sembra anticipare la proposta luckmanniana sulla religione invisibile: “Ma se nella definizione di religione si introduce la nozione chiesa, non se ne lasciano fuori, a un colpo, le religioni individuali? Non c’è società dove non ricorrano. Ogni Ojibway, come vedremo, ha il suo manitù personale, da lui scelto, al quale rende particolari doveri religiosi; il melanesiano delle isole Banks il suo tamaniu; il romano il suo genius; il cristiano il suo santo patrono e il suo angelo custode, etc. Tutti questi culti sembrano, per definizione, indipendenti da ogni idea di gruppo. E queste religioni individuali non solo sono frequentissime nella storia, ma alcuni oggi si chiedono se esse non siano predestinate a diventare la forma più alta della vita religiosa e se un giorno non resterà in piedi altro culto che quello da ciascuno creatosi liberamente nel suo foro interiore”.


La fortuna del concetto di religione invisibile


            La pubblicazione di Das Problem der Religion in der modernen Gesellschaft nel 1963 e di The Invisible Religion nel 1967 suscitò pareri discordi. Vi fu chi salutò l’opera come un fatto innovativo e chi invece mostrò qualche riserva, anche rilevante. Riusciva difficile soprattutto accettare l’idea di religione in chiave di temi moderni, sconvolgendo tutta una serie di schemi definitori della religione, quasi sempre collegati all’idea di una dimensione soprannaturale di riferimento e ad un gruppo organizzato di pratica cultuale. In particolare la sociologia di ispirazione cattolica vedeva nell’interpretazione luckmanniana un ulteriore contributo, stavolta definitivo ed irreversibile, alla tesi della secolarizzazione e dell’eclissi del sacro. In quegli anni il dibattito era assai vivace – come hanno ben mostrato Karel Dobbelaere prima (1981) e Olivier Tschannen dopo (1992) – e vedeva in campo autori come Sabino Samele Acquaviva (1961), Charles Y. Glock e Rodney Stark (1965), Hermann Lübbe (1970), Bryan R. Wilson (1966), Peter L. Berger (1967; 1969), Thomas O’Dea (1967), Richard K. Fenn (1969; 1970; ed infine 1978), David Martin (1969; con una ripresa, più tardi: 1978).


             Nonostante la sua vetustà (sono passati quasi quattro decenni dalla sua prima formulazione) l’idea di una religione invisibile tiene banco anche oggi e continua a riaffiorare nella dialettica scientifica (Besecke 2001). Ma invero, per quanto mi risulta, non è stata sottoposta al vaglio di specifiche e puntuali indagini sul campo. Quando lo è stata, sia pure in misura parziale, si è registrato un certo iato fra l’astrattezza della teoria e la concretezza del dato empirico (Cipriani 1978). Il suo valore resta semmai legato al taglio originale di una sociologia della conoscenza applicata al fenomeno religioso, secondo la prospettiva magistrale di The Social Construction of Reality, l’altro testo subito divenuto classico e scritto in quegli stessi anni da Peter L. Berger e Thomas Luckmann (1969). Invero la religione appare come il prodotto di una costruzione di significato operata a livello soggettivo attraverso quello collettivo. Si avrebbe così una formazione religiosa del Sé, caratteristica tipica di ogni individuo umano, unico depositario dell’esperienza religiosa. C’è però da obiettare se la concezione luckmanniana della religione corrisponda almeno in parte a quello che è il comune sentire nei riguardi della religione o se non rimanga una mera costruzione astratta, senza basi empiriche.


            Secondo quello che è sotto gli occhi di tutti e che nessuna indagine ha potuto contestare, le religioni storicamente organizzate e consolidate sono tuttora attive e dominanti, con il peso della loro influenza dottrinale, simbolica, comportamentale. Ciò è vero per il cristianesimo come per l’islam, sia per l’induismo che per il buddismo, nel caso dell’ebraismo come in quello dello scintoismo.


            Secondo Luckmann la religione non può limitarsi alla sola chiesa ma è qualcosa che concerne i nuovi valori dominanti della società contemporanea. Sarebbe soprattutto la sfera privata ad assumere il carattere di nuova forma sociale di religione.


            Ed in effetti non mancano segnali anche consistenti di “modern religious themes” all’interno dei vecchi contesti ideologici confessionali.


Come spiegare altrimenti anche gli esiti post-comunisti in Polonia, quelli post-Tito nei paesi già iugoslavi e più di recente quelli post-talebani in Afghanistan?


            Insomma dalle macerie dei vecchi stati e delle vecchie forme religiose sembrano sbocciare nuovi aneliti  che si manifestano attraverso scelte ed azioni sociali improntate a modelli di individualismo, familismo, autonomia, auto-realizzazione ed auto-espressione (in particolare mediante la sessualità e la mobilità). Si tratta soprattutto della sfera del privato, che riesce ad esprimersi in forme piuttosto indipendenti. Ma intanto c’è da chiedersi se si è di fronte ad una novità assoluta o se invece i temi religiosi moderni non siano piuttosto antichi, cioè una costante dell’agire individuale e sociale. In fondo la nuova morale altro non sarebbe che la sedimentazione di preesistenti filoni più o meno sotterranei ed incorporati da tempo nelle modalità religiose tradizionali, ma non affioranti solo per ragioni contingenti: l’assenza di ricerche in proposito ed il forte peso del controllo sociale – se non pure di quello a carattere poliziesco, rintracciabile in alcuni contesti storici e geografici peculiari -.


            Valga come esempio la traiettoria sociologica del movimento polacco di Solidarnosc. Il suo legame con la chiesa cattolica polacca è stato utile per qualche tempo. Poi, a liberazione dal sistema comunista avvenuta, la sua influenza ha cominciato a perdere lena, sino a ridursi di molto. Nel frattempo altre istanze, individualiste e familiste, hanno avuto modo di prevalere, intaccando la precedente solidarietà fra movimento politico-sindacale ed appartenenza religiosa. Ed oggi la pratica religiosa, sebbene ancora alta a confronto con quella di altre nazioni europee, segna il passo, anzi retrocede, di fronte alle nuove esigenze moderne delle generazioni in crescita, non consapevoli delle esperienze precedenti e peraltro non restie ad accogliere le ventate occidentalizzanti (e secolarizzanti) del consumismo e dell’uso del tempo libero. Ma ciò è avvenuto non solo per il trapasso da una coorte di età ad un’altra bensì anche per germi previi che già operavano nella formale e compatta solidarietà di facciata del passato. Così anche nella Polonia tendenzialmente sacralizzata erano in nuce i prodromi di una secolarizzazione a venire. Infatti “i sondaggi d’opinione hanno evidenziato una diminuzione della fiducia nella chiesa dall’82% nel 1990 al 57% nel 1992 e una decrescente accettazione del suo coinvolgimento nella vita politica polacca” (Jasinska-Kania 1995: 451).


Per completezza di discorso si deve però precisare che tutto questo non ha comportato il totale superamento dell’esperienza religiosa cattolica ma ha semmai favorito il riaffiorare di spinte presenti precedentemente ma non del tutto manifeste e visibili (Erenc, Wszeborowski 1993; Gorlach, Sarega 1993). Insomma anche nel polacco credente e praticante si annidava il soggetto individualista e familista, tutto proteso all’auto-realizzazione ed all’auto-espressione. Ancora una volta si mostra così il carattere ambiguo, ambivalente della secolarizzazione: essa sembra erodere l’istituzione religiosa, ma in realtà non fa che favorire i fattori portanti di un’adesione assai composita, fatta di consensi sui valori e di dissensi nei fatti, di decisioni corrive e di scelte contrastanti. Il nuovo modo di credere supera il modello religione-di-chiesa ma lo riadatta ai nuovi ambiti comportamentali che esaltano l’autonomia e l’indipendenza individuale.


Luckmann ritiene inoltre che il cosmo sacro moderno abbia una relativa instabilità che dipende dai diversi strati sociali in cui esso è esperito, come prova ulteriore dell’incoerenza e della disarticolazione interna. In effetti, ricorda lo stesso Luckmann, i temi religiosi tradizionali ed abituali vengono risistemati nell’orbita del secolare e del privato, specialmente da parte dei giovani e di quanti vivono in contesti urbani. Parrebbe avverarsi così la previsione durkheimiana di una religione tutta individuale, cioè fondata sulle decisioni del singolo, assunte nel suo foro interiore come direbbero gli studiosi di morale.


            L’esasperazione dell’individualismo viene poi definita da Robert N. Bellah e dai suoi collaboratori (1996) con il termine di “Sheilaism”, cioè come forma religiosa del tutto personale che dunque può prendere il nome dal soggetto stesso (Sheila Larson) che la incarna: “Io credo in Dio. Non sono una religiosa fanatica. Non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che sono andata in chiesa. La mia fede mi ha fatto fare molta strada. È lo Sheilaismo. La mia piccola voce interiore” (Bellah 1996: 281). D’altro canto, come Bellah chiarisce bene, l’individualismo religioso può essere presente nella stessa “church religion”, ma le sue radici storiche vanno indietro nel tempo, sino al diciottesimo secolo ed al caso esemplare di Anne Hutchinson che “cominciò a trarre le proprie conclusioni teologiche dalle sue esperienze religiose e ad insegnarle agli altri, conclusioni che si discostavano da quelle del clero ufficiale” (Bellah 1996: 294). Ma ancor più tipico è il caso di individualismo religioso manifestato da Tim Eichelberger: “Io mi sento religioso in un certo  senso. Non ho alcuna affiliazione o qualcosa di simile” (Bellah 1996: 295). Per questi soggetti, proprio come nella religione invisibile ipotizzata da Luckmann, uno degli obiettivi principali è la “self-realization” (Bellah 1996: 295). Inoltre essi sono spesso assai critici della religione istituzionale (Bellah 1996: 296).


La religione invisibile in Italia


            In Italia una prima risposta alla provocazione luckmanniana giunse nel 1970 con una ricerca condotta dal prete-sociologo Silvano Burgalassi, che di certo dietro ispirazione de La religione invisibile fu indotto ad intitolare il suo lavoro come Le cristianità nascoste. Ma, al di là del richiamo del titolo, l’indagine di Burgalassi non adotta la religione invisibile come schema-guida del suo studio.


            Ciò è avvenuto invece mediante un’ampia ed approfondita inchiesta, cui Luckmann stesso, insieme con altri studiosi quali Rock Caporale e Bryan Wilson, diede il suo apporto nella fase di impostazione teorica e metodologica. Era un’indagine a largo raggio (diretta da Sabino Samele Acquaviva ed Antonio Grumelli) in due regioni italiane, il Veneto e l’Abruzzo e Molise, in particolare l’asse industriale Padova-Venezia e le aree in via di sviluppo nelle province di Chieti, Pescara e Campobasso. Si pensava di seguire l’evoluzione del fenomeno di secolarizzazione lungo il continuum antichità-modernità. Le categorie di analisi utilizzate furono quelle della razionalizzazione, dell’urbanizzazione e del pluralismo, della privatizzazione e della separazione tra religione e società, con la conseguente emarginazione della chiesa come struttura, con i mutamenti nel mondo dei simboli, con la carenza di significato dell’esistenza (Cipriani 1978: 12). 


In realtà la religione non si può definire solo come un equivalente delle forme tradizionali di organizzazione ecclesiale. Sulla base di tale asserzione Luckmann propone di concepire la religione soprattutto come una serie di manifestazioni che nulla hanno a che vedere con la chiesa come istituzione. Ciò conferma il gap tra il modello della religione ufficiale ed il vissuto quotidiano, divario che assume connotati di drammaticità quando il magistero ecclesiastico sembra poter risolvere ogni situazione facendo ricorso ad una astratta elencazione di norme che non aiutano a superare i dubbi e non tengono conto dell’incessante mutamento della realtà sociale (Cipriani 1978: 13).


In definitiva per l’Italia si potrebbe parlare in pari tempo di religione diffusa e di secolarizzazione diffusa, ma quest’ultima espressione non avrebbe i contenuti individuati da Nicholas J. Demerath III (2001: 225) in altro contesto.


L’indagine in Abruzzo e Molise


            I dati con cui viene qui effettuato il confronto sono quelli relativi all’area abruzzese-molisana, nell’ambito dell’approccio complessivo che prevedeva 400 interviste. La rilevazione effettuata nei primi anni settanta non diede luogo a conferme della prospettiva luckmanniana: la mobilità territoriale appariva scarsa, quella socio-economica un po’ più accentuata ma senza sbalzi notevoli; le attività svolte nel tempo libero non sembravano numerose; profondo e diffuso era invece il familismo. Infatti in proposito si notava un esasperato individualismo che si esprimeva nell’interesse per il microcosmo familiare, con un rifiuto pressoché totale del macrocosmo sociale. Il desiderio di contribuire al benessere della comunità restava una velleità, dato che mancava una predisposizione alla socialità. La ricerca del benessere materiale rimaneva comunque una voce preminente, come del resto si rilevava pure in altre indagini. Il consumismo aveva raggiunto anche le zone rurali; il risparmio non attraeva più come nel passato; pochissimi erano quelli che si accontentavano di quanto già possedessero (Cipriani 1978: 42).


            A ciò si aggiunga che il familismo, per altro verso, si riaffacciava nell’indicazione delle qualità di una donna ideale, vista soprattutto come una “brava” madre, una “brava” moglie, una “brava” donna di casa. Per questo oltre il 60% del campione affermava che la donna non dovesse avere importanti incarichi di lavoro e dovesse collaborare alla carriera del marito, imparando perciò a saper vivere in società. Lo stesso 55% di intervistati residenti nelle province e propensi a far lavorare la moglie fuori casa probabilmente pensava piuttosto al tornaconto familiare che non al rispetto dei bisogni di autonomia e di autogestione della propria vita da parte della donna (Cipriani 1978: 45).


            Infine, per rendere conto moralmente delle proprie azioni gli intervistati facevano riferimento quasi esclusivamente alla propria coscienza, posta al di sopra della stessa realtà superiore. Degli altri individui si aveva scarsa considerazione perché non si riteneva di dovere rendere ragione ad essi del proprio operato. Anche le motivazioni che inducevano al matrimonio rientravano nel quadro tipico del familismo: si cercava la soddisfazione di avere dei figli ed un coniuge che fosse di aiuto durante la propria esistenza. Era però la componente sessuale che risultava senza dubbio la più importante in tutte le zone dell’indagine (Cipriani 1978: 47).


            Sulla base di tali premesse empiriche non riusciva difficile concludere nei termini che qui si citano come probanti ancor oggi, a distanza di circa un ventennio. Infatti sembrerebbe che sesso e famiglia siano proprio quei temi predominanti del cosmo sacro moderno di cui parla Thomas Luckmann con riferimento alla cosiddetta “religione invisibile”, in cui l’autoespressione e l’autorealizzazione della sessualità nonché la famiglia quale fonte di significanza “ultima” per l’individuo asserragliato nella “sfera privata” occupano un posto-chiave, tanto più se i due elementi sono strettamente legati fra loro (Cipriani 1978: ibidem).


            Tuttavia questi dati non sono sufficienti di per sé a sostenere l’ipotesi della religione invisibile come sostituto più o meno funzionale della cosiddetta religione-di-chiesa, giacché quest’ultima è ancora ben attestata e documentata dalla nostra e da altre indagini. Quasi l’80% dei rispondenti dice di credere in Dio, ma non ha una chiara idea o immagine di che cosa sia tale realtà superiore, tanto da far pensare ad una crisi della rappresentazione di Dio. Peraltro un eventuale rifiuto della religione istituzionale non trova sbocchi alternativi consistenti e gratificanti. Inoltre una certa avversione verso la chiesa cattolica come organizzazione riguarda solo determinati aspetti e di rado coinvolge gli elementi costitutivi della credenza. Insomma c’è una costante del processo di secolarizzazione: massima adesione ai valori di base e minimo consenso all’ordinamento organizzativo-burocratico di chiesa (Cipriani 1978: 59). Vi è dunque una tensione fra individuo ed istituzione, per cui risulta che la religione-di-chiesa è inadeguata alle istanze di base della popolazione: circa il 50% segue la dottrina ufficiale ma il 41% fa un’opzione personalizzata, in chiave di razionalizzazione dell’agire. Intanto però la fiducia complessiva nel ruolo della chiesa non registra cadute rilevanti. Infatti il nostro campione d’indagine è indubbiamente favorevole ad una chiesa tradizionalista ma nello stesso tempo è in larga parte possibilista nei confronti di una chiesa che muti le condizioni attuali della società: sono qui evidenti per un verso l’esigenza di salvaguardare il passato e contemporaneamente la volontà di un cambiamento ritenuto indilazionabile (Cipriani 1978: 61-2).


            Un’altra utile indicazione proviene da un’apposita tabella sul rapporto tra religione e società. Ovviamente nelle zone meno urbanizzate dell’Abruzzo e del Molise i dati appaiono abbastanza più in linea con la religione ufficiale, intanto però nei capoluoghi di provincia le differenze si notano e di fatto distinguono tra una religione istituzionale ed una religione soggettiva, o per dirla con James (1998: 45) “siamo colpiti da una grande suddivisione nell’ambito religioso: da un lato troviamo la religione istituzionale, dall’altro quella personale. Come dice Paul Sabatier, un ramo della religione privilegia la prospettiva della divinità, l’altra quella dell’uomo. Culto e sacrifico, procedure per influire sulle decisioni della divinità, teologia, liturgia e organizzazione ecclesiastica sono gli elementi essenziali della religione nel ramo istituzionale. Limitassimo a questo la nostra indagine, dovremmo definire la religione come un’arte esteriore, l’arte di conquistare il favore degli dei. Al contrario, nel ramo più personale della religione è la disposizione interiore dell’uomo stesso che costituisce il centro di interesse, la sua coscienza, le sue aridità desertiche, la sua disperazione, la sua incompletezza. E sebbene il favore di Dio, in quanto perduto o guadagnato, sia sempre un fattore essenziale della storia, e la teologia vi giochi una parte vitale, tuttavia gli atti a cui spinge questo tipo di religione sono personali e non rituali, l’individuo affronta la questione per se stessa e l’organizzazione ecclesiastica, con i suoi sacerdoti e i sacramenti e gli altri elementi intermedi, scende in una posizione assolutamente secondaria. Il rapporto va direttamente da cuore a cuore, da anima ad anima, tra l’uomo e il suo Creatore”.


I risultati dell’inchiesta


            Ed ecco i risultati in percentuale ottenuti nell’indagine abruzzese-molisana:


1)      la chiesa è importante perché con la sua organizzazione riesce ad unire gli individui tra loro: 57%;


2)      per sentirsi uniti tra di loro i credenti non hanno bisogno di una chiesa organizzata: 5%;


3)      la religione è un fatto privato, l’individuo non ha bisogno di vivere con gli altri, gli basta rispettare alcuni principi: 15%;


4)      la religione è un’esperienza così intima che ogni individuo la vive a modo suo, come se egli fosse chiesa per se stesso: 22%.


Si evidenzia qui una chiara distinzione fra due universi differenziati: il 57% più legato alla religione-di-chiesa, il 42% che mantiene la credenza ma non si affida alla chiesa e la vive nella sua sfera privata. Ma a dire il vero tale privatizzazione della religione non è certo (o almeno non è ancora) la religione invisibile di Luckmann. Qui ancora una volta potrebbe applicarsi la definizione di una religione diffusa intesa come legame con una particolare forma di credenza religiosa e dunque di religione-di-chiesa. Da tale contingenza ha origine il flusso canalizzato che permea, in forme di intensità graduata, l’azione sociale di quanti in una o più occasioni manifestano concretamente l’esistenza di inputs pregressi, debitamente introiettati e poi rivissuti, recuperati, fatti riemergere (Cipriani 1988: 15-6). Tale religione diffusa è in primo luogo un fenomeno globale intimamente legato al più vasto set di valori e modelli di comportamento, senza profonde fratture, ma con aggiustamenti di volta in volta resi praticabili per il bisogno di superare comunque momenti e motivi di impasse (Cipriani 1988: 14-5). In effetti “le variabili nella ‘religione diffusa’ sono … più mutevoli in base alle sintesi che essa produce di volta in volta. Tali sintesi si realizzano a livelli definiti dalla dialettica fra i valori di base della legittimazione primaria e secondaria e quelli ‘diversi’ che appaiono all’orizzonte nel lungo confronto con altre prospettive ideologiche. Il ‘nuovo’ valore è interiorizzato ma quasi mai è assunto in una forma del tutto pura o con una modalità che possa rimpiazzare completamente la prospettiva preesistente. Il nuovo modo di vedere la realtà, la diversa Weltanschauung, è, comunque, il risultato dell’incontro-scontro tra ciò che già esiste e ciò che è ancora in fase di divenire. La ‘religione diffusa’ diventa perciò dominante proprio dove c’è una precedente, dominante forma fideistica di religione. Se così non fosse, l’esito delle interazioni sociali produrrebbe sedimenti abbastanza differenti che sarebbero tipici di situazioni multiculturali, e perciò pluriconfessionali” (Cipriani 1989: 29).


            Una formulazione ancor più chiara di ciò che si intende per religione diffusa precisa che “il termine ‘diffusa’ è da intendere almeno in un duplice significato. Innanzitutto, essa è diffusa in quanto comprende ampie quote della popolazione italiana e va oltre i soli limiti della religione-di-chiesa; talora infatti è in aperto contrasto con la religione-di-chiesa per motivi religiosi (cfr. il dissenso interno al cattolicesimo in occasione del referendum sull’aborto e sul divorzio). Inoltre, essa si è espansa poiché si è mostrata come il precipitato storico-culturale di una presenza quasi bimillenaria dell’istituzione cattolica in Italia e della sua azione socializzatrice e legittimatrice. Le premesse dell’attuale ‘religione diffusa’ sono state poste nel corso dei secoli. In effetti essa è sia diffusa in che per.(Cipriani 1984: 32). 


            In definitiva “la teoria di Thomas Luckmann sulla ‘religione invisibile’ ha destato particolare attenzione da parte dei sociologi italiani, anche se non sempre ha riscosso consenso scientifico. L’idea di una sostituzione funzionale della religione-di-chiesa con una serie di elementi quali ‘autonomia individuale, auto-espressione, auto-realizzazione, ethos della mobilità, sesso e familismo’ si è sviluppata di pari passo con la teoria della secolarizzazione. Dunque la ‘religione invisibile’ concepita da Thomas Luckmann, che si basa sull’assunto di una crisi dell’apparato istituzionale, sembra essere applicabile solo in relazione a certi aspetti della moderna società italiana, e non elimina del tutto la cosiddetta religione-di-chiesa” (Cipriani 1984: 30).       


            Semmai una forma di religione invisibile all’interno sia della religione-di-chiesa sia della religione diffusa può essere rappresentata dalla preghiera, cosicché alla fine l’esperienza religiosa più praticata, in pubblico o/e in privato, è proprio il rivolgersi a Dio ed ai santi. Insomma gli italiani che pregano sono molto più numerosi di quelli che vanno a messa. E tale loro comportamento ha spesso luogo in forma non visibile, quasi in segreto. Già l’indagine in Abruzzo e Molise segnalava questo dato (nei capoluoghi di provincia):


1)      non pregano mai: 5%;


2)      pregano qualche volta o in occasione di alcune ricorrenze religiose o soltanto in certi momenti difficili: 49%;


3)      pregano varie volte: 16%;


4)      pregano tutti i giorni o quasi: 29%.


In pratica un terzo della popolazione è abituata alla preghiera quotidiana, la maggioranza prega meno, ma solo una minoranza si astiene del tutto da tale modalità di espressione religiosa. Una simile maggioranza ‘silenziosa’ o/e ‘invisibile’ costituirebbe il nucleo principale della cosiddetta religione diffusa, che mantiene un suo continuum con la religione-di-chiesa ma senza divergerne totalmente, pur incorporando anche una buona parte dei temi moderni della religione invisibile alla Luckmann.


Il confronto con l’approccio di Thomas Luckmann


            Le ipotesi luckmanniane non sono facilmente verificabili. Tutt’al più sembrano avere una apprezzabile efficacia analitica le sole linee teoriche generali della cosiddetta ‘religione invisibile’. Si può dire che la proposta di Luckmann riesce utilissima sul piano metodologico, a patto che non si vogliano forzare i termini del suo discorso conclusivo sino a renderlo universalmente ed aprioristicamente valido. Proprio questo non è, in quanto si oppongono ad un’accettazione incondizionata della teoria luckmanniana le discordanze con essa da noi accertate: non vi è una rimarchevole mobilità territoriale, la religione non ha perso la sua ‘significanza ultima’ e non è stata soppiantata da altre forme alternative di orientamento della vita. Con ciò non vogliamo negare la privatizzazione del fatto religioso, l’isolazionismo, le carenze di socialità, l’evidente utilitarismo, il consumismo e gli altri caratteri tipici di una società secolarizzata. Tuttavia ci preme sottolineare che la maggior parte di tali fenomeni non costituisce una novità nel tessuto sociale del nostro paese, giacché ad esempio la scarsa apertura sociale e la ricerca dell’esclusivo vantaggio personale sono retaggi di una cultura del passato che d’altronde è comune ad altri contesti, anche al di fuori del continente europeo e di quello nordamericano.


Va condivisa, invece, perché coglie nel segno, l’osservazione diligente e penetrante della crisi istituzionale della chiesa, i cui modelli ufficiali subiscono un’estesa erosione, se si appura, come nelle nostre indagini, che l’insegnamento della gerarchia riscuote un credito minimo.


Ponendo in discussione le idee di Luckmann non possiamo, inoltre, esimerci dall’affrontare due aspetti nodali della ‘religione invisibile’: la famiglia e il sesso.


Per la prima c’è da dire che l’universo della nostra ricerca ha fornito dati inequivocabili, che confermerebbero le tesi del sociologo tedesco, sia pure parzialmente giacché il familismo non mette da parte i fattori religiosi ed anzi spesso opera un loro recupero, altrimenti poco realizzabile: non per nulla la religione occupa uno dei primi posti nella graduatoria dei valori costruita dagli stessi intervistati. Per non dire, poi, che il familismo italiano (e delle regioni meridionali in special modo) ha radici storiche che affondano nel passato di una cultura plurisecolare.


Per il sesso non pare si debba parlare di un tema dominante nel senso più completo del termine. Non mettiamo in dubbio quanto già abbiamo rilevato nell’interpretazione dei dati: il tema della sessualità quando si disvela appare nelle sue vere dimensioni di realtà fondamentale nella vita. Ma ciò non accade sempre, ragion per cui non ce la sentiamo di attribuire al fatto sessuale la valenza di sostituto funzionale della religione. Una siffatta ‘sessualità reticente’ non pare raggiungere livelli di ‘significanza ultima’.


Anche l’individualismo va spiegato con termini diversi da quelli usati da Luckmann. Esso va ascritto, in misura non trascurabile, alla religione-di-chiesa che con il personalismo delle pratiche devozionali, con la preminenza data al travaglio intimistico-individualista e con l’imbrigliamento delle tensioni sociali più spontanee ha impedito lo sviluppo di una sensibilità verso gli altri non circoscritta alla panacea delle opere di beneficenza che gratificano più i ‘benefattori’ che i beneficiati. Dunque l’individualismo nasce sul terreno stesso della religione-di-chiesa e, in linea di massima, non si contrappone ad essa. Anzi la privatizzazione del fatto religioso è un precipitato tipico della religiosità ecclesiastica, benché talvolta i suoi risultati ultimi comportino una presa di posizione nei riguardi della istituzione religiosa (Cipriani 1978: 69-70).


Continuità e mutamento nelle indagini sulla religione in Italia


            Segnatamente illuminante per un’ulteriore verifica delle ipotesi di Luckmann è la dinamica registrata dalle varie inchieste condotte nell’ambito del progetto denominato European Values Study, implementato nel 1981 e proseguito nel 1990 (Capraro 1995) e nel 1999 (Gubert 2000; Abbruzzese 2000). Lo studio ha riguardato un universo di 2000 persone, scelte come campione rappresentativo, cui è stato somministrato un ampio questionario.


            L’83% degli italiani interrogati si dichiara una persona religiosa sia nel 1981 che nel 1999 (ma nel 1990 la percentuale era scesa all’80%). Risulta in aumento il dedicarsi alla preghiera ed alla meditazione: si passa dal 72% del 1981 al 73% del 1990 ed al 77% del 1999. Appare in crescita pure la credenza in Dio: era all’84% nel 1981, poi all’83% nel 1990, ma all’88% nel 1999.


            In questo quadro piuttosto caratterizzato da ortodossia ed ortoprassi, non manca tuttavia qualche chiusura verso l’altro, insieme con qualche resistenza territoriale: “preferiscono garantirsi una rigida serie di privilegi di gruppo. In mancanza di lavoro le precedenze sono chiare: gli italiani prima degli stranieri, la gente del posto prima di quella di altre località, gli uomini prima delle donne” (Abbruzzese 2000: 452-3). Si attestano dunque e trovano conferma le spinte individualiste e familiste.


            In pratica “la dimensione religiosa sopravvive nel contesto di una società secolarizzata, essa produce ancora una pratica e lega ancora delle collettività di credenti; e questo accade in modo del tutto inatteso rispetto ad una tendenza storica che voleva la pratica religiosa in costante diminuzione con il progredire della laicizzazione delle coscienze e l’individualismo dei comportamenti” (Abbruzzese 2000: 453).


            Quindi si rivelano compossibili e compatibili sia la tenuta (se non l’aumento) della pratica religiosa sia il diffondersi dell’egoismo soggettivo. La religiosità rimane costante ma la secolarizzazione procede. Questo è il paradosso italiano. “Oggi, permanendo non solo gli elementi di secolarizzazione e di laicizzazione come tratto dominante, ma anche sussistendo una vera e propria crisi delle diverse sensibilità culturali, l’intreccio tra appartenenza religiosa e società civile e quindi quello tra etica religiosa e etica civile non può risolversi che in modo problematico … Ciò dà la misura della diversità del processo di secolarizzazione in Italia rispetto alla tendenza europea (in particolare rispetto a quella francese) ma costringe anche ad interrogarsi sulle valenze e le potenzialità di questa sensibilità religiosa tutta interna alla società contemporanea, tutta iscritta all’interno di quello stesso processo di secolarizzazione che da cinque secoli è il segnale compiuto dell’avvento della società moderna” (Abbruzzese 2000: 454).


            Questa peculiarità non era sfuggita a Robert N. Bellah (1974) che, in occasione di una sua research visit in Italia nel 1972, aveva individuato una sorta di religious ground bass, una religione reale contrapposta a quella ufficiale. Le altre quattro religioni degli italiani sarebbero il cattolicesimo legale (di chiesa), il liberalismo, l’attivismo ed il socialismo. Vi è qui un manifesto intento di applicare il modello della religione civile ad un quadro sociologico assai diverso dagli Stati Uniti.


            La religione civile degli italiani avrebbe una forte venatura particolaristica, attenta “alla famiglia, al clan, ai gruppi di pseudo-parentela come la mafia, al villaggio, alla città, alla fazione ed alla cricca” (Bellah 1974: 445).


            Una conferma dello scarso impegno civile a fronte di un’alta pratica religiosa, specie nel meridione italiano, viene anche dallo studio sul campo di Robert Putnam (1993). Ma tale dato è contestabile, se si considera che proprio in Sicilia, ad esempio, è presente un marcato orientamento di valori religiosi a carattere universalistico (Cipriani 1992). Nuova e vecchia religiosità convivono senza particolari conflitti. Infatti si registrerebbe “la permanenza di una forte religiosità che conserva un altrettanto forte riferimento alla Chiesa e che costituisce una norma di condotta capace di alimentare senso civico, dall’altra, la presenza diffusa di una religiosità consuetudinaria e poco vincolante sul piano del giudizio morale e della condotta civile. Sarebbe però arbitrario assimilare la religiosità diffusa alla religiosità popolare ed al basso continuo della religiosità particolaristica” (Gucciardo 2001: 109). Ciò emerge da un’inchiesta sui valori e sui modelli di comportamento di studenti universitari di Palermo (Gucciardo 1997).   


            Sempre a proposito di valori, un’altra indagine siciliana (Cipriani 1992: 347) ha accertato che vi è “un rientro dei valori religiosi, sotto altra veste, non ecclesiale ma pubblica. Tali valori, che travalicano i confini della mera religione-di-chiesa, abbracciano molti generi di esperienza e di relazione, di difformità come di distacco dalla chiesa e di religione diffusa vissuta quale condizione prevalente. È  giusto questo tutto l’arco della religione dei valori, in cui onestà, lealtà e tolleranza riscuotono ampi consensi ma possono invero lasciare irrisolto il problema della coerenza fra pensiero espresso e condotta reale”. Luckmann (1990: 67) riconosce che nel passato il problema della trasmissione dei valori era stato risolto brillantemente a livello pastorale ma che non trova facile soluzione al presente. 


            Sul piano dei valori particolaristici il dato siciliano al primo posto è quello del familismo con il 62,6% mentre l’individualismo non va oltre il 9,2%; l’amore per i figli fa registrare il 32,3% mentre il buon uso del denaro tocca il 9,6% ed il guadagnare molto è appena al 4,5%. Minore è la rilevanza della sessualità fra i valori ricevuti attraverso la socializzazione fino ai diciotto anni di età. E comunque l’opinione sulla sessualità vede prevalere la dimensione affettiva e coniugale.


            In tal modo la religione diffusa, frutto della socializzazione, rientra nel più vasto ambito della cosiddetta religione dei valori (Cipriani 1992), ma, già prima della nostra ricerca in Sicilia, Calvaruso e Abbruzzese (1985: 79) così si esprimevano: “la religiosità diffusa diviene allora la dimensione religiosa dominante per tutti coloro che, immersi nella realtà secolare della società contemporanea, pur non riuscendo ad accettare quelle dimensioni del cosmo sacro più distanti e provocatorie rispetto alla visione razionale del mondo, non per questo dismettono la  loro esigenza di significatività. Nella dimensione immanente dell’individuale quotidiano, la religiosità diffusa, più che testimoniare la presenza di un processo di laicizzazione in una società religiosamente orientata, sembra avvalorare la permanenza del sacro in una società secolarizzata”.


            Anche in Italia è evidente una crisi della religione istituzionale, giacché “la maggioranza della popolazione si caratterizza, pertanto, per un riferimento religioso allentato, che persiste sull’onda della tradizione o di quanto risponde ad alcune esigenze dell’uomo contemporaneo, senza però produrre una particolare mobilitazione delle coscienze. Sono quindi evidenti i segni di ambivalenza presenti nell’adesione di una larga quota di popolazione al modello della religione di Chiesa … Contrariamente a molte previsioni, a molti luoghi comuni, gli orientamenti religiosi persistono nell’attuale società, manifestano una singolare tenuta, evidenziano segni di vitalità. Ciò appare singolare in una società che si vuole avanzata e secolarizzata … La religione persiste in quanto si è adattata alle attuali condizioni di vita, in quanto partecipa del processo di stemperamento cui vanno incontro nel tempo presente i grandi riferimenti ideali e le ideologie … La religione viene così confinata sullo sfondo della vita, dietro le quinte dell’esistenza, come un faro ultimo di significato la cui certezza di presenza ha già una funzione rassicurante. Proprio in questo scollamento tra riferimenti ultimi e scelte contingenti, tra identità originaria e orientamenti quotidiani, si annida il paradosso della persistenza della religione nella società contemporanea” (Garelli 1992: 65-6).


            Intanto secondo l’inchiesta nazionale sulla religiosità in Italia (Lanzetti 1995a: 91) l’83% degli intervistati prega almeno qualche volta nell’anno. La famiglia rimane il maggior fattore di soddisfazione (lo dice il 73% dell’universo). Invece “quelli che potremmo chiamare ‘valori edonistico-materialistici’ (carriera, denaro, risparmio, divertimento) occupano tutto sommato un posto secondario, dato che  compaiono in fondo alla classifica” (Rovati 1995: 190-1)


            C’è poi un’accettazione ideale della chiesa ma con un’autonomia di giudizio personale in materia etica (Garelli 1995: 242-5). Peraltrosi rileva una certa personalizzazione della religione, specie nell’etica familiare e sessuale. Però tale dato “non va confuso con il processo di ‘privatizzazione’ del fenomeno religioso, preannunciato da Luckmann e Acquaviva già negli anni Sessanta e ripreso successivamente da Berger. Non si tratta, in altre parole, del fatto che la religione riduce la sua forza nella sfera pubblica e si rinchiude nella sfera privata, in modo particolare nello spazio della famiglia e nella coscienza dei singoli. Nel caso italiano … la forma istituzionale è ancora molto rilevante nell’area privata e in quella sociale” (Lanzetti 1995b: 273).


            Ancora più esplicite sono le parole usate da Enzo Pace (2001: 8), a conclusione dell’indagine italiana più recente, sul pluralismo religioso e morale, svolta con un questionario compilato da 2149 soggetti: “la secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita, che per convenzione data in Italia dal referendum che vide nel 1974 l’approvazione della legge sul divorzio con una forte maggioranza (oltre il 60% in favore), non ridusse lo spazio occupato dalla religione. Segnò l’avvio di un processo di individualizzazione della credenza: … la gente cominciò a pensare in modo diverso, sentì un crescente bisogno di indipendenza che si unì, per le circostanze favorevoli e per i mutamenti in atto, con i modi moderni di pensiero e di stili di vita, mettendo l’accento sulla difesa dell’individuo e delle sue prerogative”. Sempre Pace (2001: 9) parla di una “soft secularisation” tipica dell’Italia, dove “il relativismo diffuso tra la popolazione può essere interpretato come un indicatore della tendenza fra la maggioranza degli italiani a “muoversi liberamente” nella costruzione del loro proprio sistema di credenza; una mobilità religiosa che appare assai moderna” (Pace 2001: 10), ma che ha connotati piuttosto diversi dall’ethos della mobilità, uno dei “religious modern themes” individuati da Luckmann come costitutivi della religione invisibile.


            A rafforzare il punto di vista di Pace giunge anche Italo De Sandre (2001: 53) che ribalta la formula, risalente al tredicesimo secolo, secondo cui extra ecclesiam, nulla  salus (fuori della chiesa, non c’è salvezza), e la trasforma in extra ecclesiam, salus (fuori della chiesa, c’è salvezza).  


            Probabilmente alla base di questa resistenza della religione visibile o, più precisamente, della religione diffusa è il fatto che in Italia c’è una situazione diversa da quella in cui “la religione non viene trasmessa in modo normale ed efficace mediante procedimenti di socializzazione di base” (Luckmann 1983: 169). Dunque la religione degli italiani ha un carattere che tende ad essere diffuso,condiviso. In pratica, come risultava anche dall’indagine nazionale conclusa nel 1995 da Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti e Rovati, “la religione in senso lato (di chiesa o modale/diffusa) è di gran lunga preponderante e chiaramente quasi tutta di tipo cattolico. La religione-di-chiesa è percentualmente una minoranza, e la religione diffusa (chiamata modale in quanto è in pratica la moda, cioè la caratteristica con la frequenza più alta) costituisce la maggioranza. Ma tra la minoranza e la maggioranza non vi è soluzione di continuità” (Cipriani 2001: 303).


 


Conclusione


            In definitiva la religione invisibile, almeno per ora, non sembra avere un consistente futuro, all’orizzonte di questo nuovo secolo. Per questo pare convincente Franco Garelli, sulla base anche delle sue numerose indagini empiriche in Italia, quando scrive che “contrariamente a molte previsioni Dio non è morto in Europa, né si è esaurita la  traiettoria sociale del cristianesimo. La religione appare ancora fortemente integrata con la cultura, anche se si assiste al depotenziamento della fede, allo stemperamento delle credenze, alla discontinuità della pratica; anche se i valori religiosi scivolano sempre più sullo sfondo dell’esistenza e sono esposti a una marcata interpretazione soggettiva” (Garelli 1996: 205).   


Il che non lascia però tranquilla la gerarchia religiosa. Non a caso il papa Paolo VI, da intellettuale accorto, aveva già capito bene quanto stava avvenendo nella fase postconciliare, tanto da dire a Jean Guitton: “Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non-cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte”. In tal modo il cattolicesimo stesso diverrebbe invisibile. Ma questa sarebbe un’altra storia e forse l’oggetto di studio per i futuri sociologi della religione.

















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Relazione presentata in occasione della Conferenza Internazionale “Europe and the Invisible Religion” tenutasi nell’Università di Zurigo (18-19 gennaio 2002). Dedico questo testo alla memoria dei colleghi sociologi della religione Giuseppe Capraro e Paolo Giuriati.