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INFORMAZIONE, TECNOLOGIA E CONOSCENZA SOCIOLOGICA

Roberto Cipriani


Premessa


                Se oggi Peter Berger e Thomas Luckmann fossero chiamati a riscrivere o almeno ad aggiornare il loro testo classico The Social Construction of Reality (Garden City, New York, Doubleday, 1966, tradotto nel 1969 in italiano per i tipi bolognesi de il Mulino con il titolo improprio di La realtà come costruzione sociale) dovrebbero dedicare almeno un nuovo capitolo al ruolo dell’impatto che l’informatica ha cominciato a far registrare a partire dagli anni Ottanta.


                Resterebbe tuttavia ancora valida la prospettiva legata al ruolo della vita quotidiana come tool attraverso il quale passa gran parte della socializzazione e della legittimazione. In effetti oggi uno spazio cospicuo della giornata di molti soggetti è occupato dal lavoro al computer. Si pensi ad esempio al tempo impiegato nel disbrigo della posta elettronica da leggere e scrivere, da ricevere e da inviare, con tutti i problemi legati ad una tecnologia di avanguardia ma complessa e dunque soggetta a numerose défaillances.


                È sotto gli occhi di tutti il mutamento epocale che ha avuto luogo nel sistema della corrispondenza. Fino a qualche tempo fa il ricevere ed il spedire lettere erano delle attività supplementari nella routine quotidiana. Se scrivere una missiva comportava l’impiego di una certa quota oraria della giornata nondimeno si trattava di uno o pochi testi ogni giorno (per i soggetti più “gettonati”). Il che induceva anche a fare una selezione particolare delle lettere da scrivere o meno. Ora invece con la facilità dell’invio e della ricezione consentiti da Internet si è di fronte ad un incremento ossessivo di messaggi di ogni genere e di varia provenienza. I testi – è vero – sono piuttosto brevi ma il loro numero è esorbitante e spesso risulta duplicato per qualche difetto di procedura e/o di trasmissione. Il risultato è che la numerosità delle informazioni in circolazione è inversamente proporzionale alla loro qualità ed alla loro utilità. Solo di rado si ha motivo di apprezzare il vantaggio dell’innovazione in questo campo. Peraltro se la velocità appare un atout vincente non è detto che ciò abbia luogo in ogni caso. Anzi proprio quello che serve con maggiore urgenza a volte resta impigliato nelle maglie del server e giunge con ritardo rispetto alla scadenza prevista.


                Ecco dunque che l’e-mail è un secondo “ospite fisso” che si aggiunge a quello televisivo. La sua “invadenza” è ancora più cogente di quella di un telegiornale di prima serata. In effetti rimane sempre il dubbio che in arrivo sul proprio computer vi possa essere qualcosa di importante, di stretto interesse personale. Tale motivazione riguarda invece assai meno il video televisivo.


La cogenza della ripetitività e dell’estraniamento


                Hanno ragione Berger e Luckmann quando invitano a riflettere sul peso dei comportamenti fissi ripresi ogni giorno ed anche più volte in un giorno. Sono essi che – lentamente e senza una particolare consapevolezza da parte nostra – colonizzano habermasianamente i nostri spazi  esistenziali. Ogni giorno (ma soprattutto ogni notte) apriamo il nostro Outlook di posta elettronica o il nostro Explorer o Netscape di navigazione su Internet, estraniandoci dal contesto domestico.


                Tale “effetto estraniamento” dalla famiglia concerne i genitori, soprattutto i padri, che dedicano gran parte del loro tempo in casa ed in famiglia ad esplorare i siti di Internet od a leggere e/o scrivere posta elettronica, magari per completare o preparare il lavoro di ufficio. La già scarsa risorsa tempo si riduce quindi ancor più a danno delle relazioni intrafamiliari. I figli vengono infatti privati delle occasioni di scambio affettivo, di rapporto intergenerazionale. Spesso quasi tutto si riduce ad un rapido, formale saluto. Per non dire, infine, dei problemi che possono nascere da qualche inconveniente di funzionamento dell’hardware o del software in uso. Il nervosismo per un lavoro rimasto in sospeso, per una scadenza che rischia di non essere rispettata, si riverbera sul contesto familiare, rende difficile l’interazione, mette vieppiù a rischio la tenuta dei legami interpersonali.


L’effetto estraniamento dalla famiglia derivante dalla televisione non è molto diverso dal precedente, ma in questo caso le madri sono coinvolte in misura non certo trascurabile. Soprattutto se esse sono anche impegnate in attività di lavoro al di fuori dell’abitazione reputano giusto – una volta tornate a casa – potersi riposare e “distendere” con il seguire in tivù uno spettacolo od un film. E magari il programma non è quello che preferirebbe il suo bambino o la sua bambina. Naturalmente si deve pure considerare che anche i minori hanno spesso un loro televisore in camera. Ma questo non fa che accentuare il distacco tra loro e gli adulti di riferimento. Insomma la presenza dello strumento televisivo fa segnare di per sé un punto a sfavore della tenuta affettiva dell’ambito familiare. Pur senza voler demonizzare i nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia moderna è evidente che la socializzazione di un bambino non può essere totalmente affidata alla televisione. D’altra parte l’affettività ha ben altri terreni su cui possa essere coltivata, con una relazione più diretta a livello umano. Nel frattempo però l’aumento dell’offerta televisiva che non è più solo generalista (con ogni genere di programmazione) ma anche tematica (solo sport, solo musica e così via) tende ad occupare ogni spazio residuo dell’universo familiare. Se poi si aggiungono le possibilità ulteriori legate alla televisione satellitare, alla tivù a pagamento ed alle cassette in VHS si comprende bene a quale assedio massmediatico sia sottoposto il nucleo familiare. Così il televisore diventa un rifugio per bambini poco curati dai loro genitori e la pubblicità eccessiva di alcuni canali commerciali orienta pesantemente i gusti ed i desideri del bimbo consumatore. Ma soprattutto il fanciullo è costretto ad autogestire, senza alcun indirizzo preliminare, le sue opzioni a tutto campo, con accesso illimitato ad ogni tipo di immagine e di contenuto, in assenza totale di adulti.


Francesco Casetti (curatore del volume L’ospite fisso. Televisione e mass media nelle famiglie italiane, 1995, pp. 21-30) ha già ben delineato i caratteri di un certo consumo televisivo che si diversifica come “giornale”, “chiacchiera”, “stadio”, da cui dipendono i “consumi mediali”. “La televisione entra liberamente in casa… Solo il calcolo del tempo da spendere davanti al video può creare qualche remora”. La famiglia può anche far da filtro alla televisione, ma non sempre vi riesce. Qualche volta se ne serve come pretesto per un’interazione fra i membri del nucleo familiare. Ma in definitiva prevalgono gli “stili ricorrenti”. Insomma c’è un modello di uso della televisione che rispetta cadenze e modalità ripetitive (ciò vale sia per i canali che per il genere di trasmissioni).   


Forse anche per questo l’obiettivo dell’ente pubblico radiotelevisivo – come ha sostenuto pubblicamente lo stesso presidente della Radiotelevisione italiana – non è quello di fare programmi migliori ma di entrare in Borsa con RAI New Media. Il che la dice lunga anche sulle intenzioni reali dei gestori pubblici, che non si pongono affatto il problema di riuscire a contemperare esigenze di mercato ed istanze formative.


Il mix fra scienza e tecnologia


                Solitamente si è indotti a ritenere che la scienza ponga le basi per lo sviluppo della tecnologia. In realtà molti ritrovati delle più recenti applicazioni non derivano da procedure classiche di approccio scientifico. Più spesso sono le spinte necessitanti del mercato e della concorrenza che inducono ad accelerare i tempi di sperimentazione di una nuova tecnica, di un nuovo strumento, di un marchingegno che consenta di far meglio degli avversari, di superarli in affidabilità, diventando più appetibili fra i consumatori, raggiungendo così degli obiettivi di mera natura economica a livello immediato.


                La tecnologia sembra correre troppo in avanti rispetto alla scienza pura, ma anche rispetto a quella applicata. In fondo basta un meccanico piuttosto esperto per suggerire soluzioni vincenti che uno studioso di laboratorio farebbe fatica e soprattutto impiegherebbe più tempo a costruire, verificare, sottoporre a prove estreme.


                Questo divario fra scienza e tecnologia ripercorre la stessa traiettoria della divisione fra uguaglianza e rispetto dei soggetti individuali da una parte ed esigenze commerciali dall’altra. In fondo la macdonaldizzazione delle società contemporanee risponde a questi medesimi criteri di privilegiamento del profitto ad ogni costo.


                Come sostiene George Ritzer (in The McDonaldization of Society. An Investigation Into the Changing Character of Contemporary Social Life, Pine Forge Press, Thousand Oaks-London-New Delhi, 1993, pp. 16-17) il fenomeno McDonald’s sta allargandosi in misura allarmante ed investe molti settori delle nostre società attuali.


Ritzer da scienziato sociale studia la dinamica degli eventi in corso, mettendo in evidenza che il processo di macdonaldizzazione segue un percorso che fa leva essenzialmente sulla tecnologia. Infatti i capisaldi della razionalizzazione in atto sono l’efficienza, la calcolabilità, la prevedibilità ed il controllo assoluto di ogni operazione, passando – fin dove possibile – ad una sostituzione completa del personale umano con tecnologie non umane. Però il risultato finale che si registra – sulla scorta delle convincenti prove addotte dal sociologo dell’università del Maryland – è una sorta di paradosso della razionalizzazione, cioè l’irrazionalità della razionalità.


                A fronte di tale andamento la scienza del sociale non riesce a far altro che mettere in evidenza la disumanizzazione in atto, che cresce insieme con il livello della razionalizzazione. Insomma la ragione tecnologica fa agio su quella umana. E la scienza, disarmata e sconfitta, resta a guardare. Ma forse può ancora escogitare delle contromisure che impediscano una macdonaldizzazione totale.

LA RECENTE IMMIGRAZIONE IN ITALIA, NEL LAZIO ED A ROMA

Roberto Cipriani


Introduzione


            Una trentina di anni fa in Italia si scrivevano ancora molti saggi sull’emigrazione. Oggi ormai non si contano più libri e ricerche sull’immigrazione: una bibliografia parziale e provvisoria in proposito già annovera circa milletitoli.


Il fenomeno sociale più macroscopico che abbia interessato l’Italia nell’ultimo scorcio di questo secolo ‑ a partire dalla fine degli anni settanta ‑ è senz’altro il massiccio arrivo di molti stranieri. È un fatto del tutto nuovoche ha trasformato il nostro paese daarea di emigrazioneverso l’Europa e le Americhe a territorio di immigrazione dal Nord‑Africa e dalle Filippine ma anche ‑ in misura inferiore ‑ persino dagli Stati Uniti e  dalla Germania, per non dire – più di recente – delle regioni albaneso-jugoslave.


I dati statistici


           Già al 31 dicembre 1992, secondo i dati del Ministero degli Interni, risultavano registrati come “regolari” 925.172 stranieri con un aumento del 7% rispetto al 1991, che a sua volta aveva già registrato un aumento del 10,5% rispetto al 1990.


L’84% proveniva da paesi al di fuori dell’Europa, il 71% da paesi in via di sviluppo. 95.741 giungevano dal Marocco, 62.112 dagli Stati Uniti, 50.405 dalla Tunisia, 44.155 dalle Filippine, 39.425 dalla Germania e 39.020 dalla Jugoslavia. Meno di trentamila ma più di ventimila erano quelli che venivano – nell’ordine, per numero di immigrati ‑ dall’Albania, dalla Gran Bretagna, dal Senegal, dalla Francia, dall’Egitto.


            Al 31 dicembre 1998 gli stranieri soggiornanti registrati sarebbero – secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno – 1.033.235, ma la stima toccherebbe la cifra di 1.250.214. I cosiddetti extra-comunitari sarebbero 1.078.613. Quasi la metà sarebbe costituita da donne (46,8%). Le regolarizzazioni sono 400.638 (di cui 312.410 prenotazioni e 88.228 domande).


            Al 31 dicembre 1997 la provenienza europea si sarebbe notevolmente incrementata (con particolare riferimento ai paesi detti dell’Est) sino a toccare 486.448 unità. Ma resta cospicuo anche il flusso dall’Africa (350.952 soggetti) e dall’Asia (225.474 arrivi). 


Marocchini ed extracomunitari


            È da notare che il termine corrente ‑ nel linguaggio comune usato per indicare la maggior parte degli immigrati, specie se sono africani – è quello di “marocchini”. Ed in effetti questo corrisponde in qualche misura alla realtà, ma accomuna troppo e non distingue fra marocchini e tunisini, egiziani e senegalesi. Per di più vi è un sottile riferimento storico che non può sfuggire ai più anziani, testimoni dell’arrivo degli alleati in Italia ‑ nell’ultima fase della seconda guerra mondiale – accompagnati da truppe marocchine che vengono ricordate per atti di stupro specie nell’Italia meridionale e centrale. Ancor oggi rimane traccia di questo ricordo nel verbo marocchinare, che significa appunto violentare.


La dizione giuridica definisce inoltre extra‑comunitari coloro che non appartengono alle nazioni europee della Comunità Economica. Già questa condizione di essere extra, al di fuori, sembra legittimare in modo netto la differenziazione (e di fatto la superiorità dei cittadini nativi rispetto agli stranieri non appartenenti alla comunità definita implicitamente per eccellenza, quella europea). Questo eurocentrismo giuridico‑linguistico perdura e si rafforza col tempo sino ad entrare nel linguaggio comune.


Le componenti demografiche


La maggioranza degli immigrati in Italia è costituita ancora da uomini. L’età più ricorrente è ovviamente soprattutto quella lavorativa, fra i 19 ed i 40 anni, dal che si deduce che la ricerca di un lavoro è il motivo che spinge più spesso ad emigrare verso l’Italia. Minori sono le quote relative a ragioni familiari e motivi di studio.


Molti immigrati non sono sposati o comunque vivono lontani dalla loro famiglia, il che crea numerosi problemi legati alla solitudine ed alle carenze di tipo affettivo.


Provenienze ed approdi


Di rilievo è anche la presenza delle donne, occupate soprattutto come collaboratrici familiari e provenienti in particolare dalle Isole del Capo Verde e dalle Filippine.


Già nel 1992 almeno un immigrato su quattro risulta approdare a Roma (ora è 1 su 5, con  219.368 immigrati), sia perché la capitale è pur sempre un grande mercato e dunque offre maggiori occasioni di lavoro (sebbene precario), sia perché uno dei mezzi di trasporto più usati dagli immigrati per giungere in Italia è l’aereo, cosicché in molti casi sbarcano a Fiumicino e restano nella capitale.


Notevole è anche l’afflusso a Milano (117.330 persone nel 1992 e 161.746 nel 1997) ed a Napoli (43.420 immigrati nel 1992 e poco meno nel 1997, cioè 43.166, nonostante la crisi occupazionale che colpisce da lungo tempo i lavoratori della città partenopea).


Il 46% nel 1992 ed il 53,9% nel 1997 arriva nelle regioni settentrionali, il 35% nel 1992 ed il 29,4% nel 1997 in quelle centrali, appena l’11% nel 1992 e l’11,2% nel 1997 al sud, l’8% nel 1992 ed il 5,5% nel 1997 in Sicilia più che in Sardegna (rispettivamente, nel 1997, il 4,5% e solo l’1%).


La regione con il maggior numero di immigrati non è più il Lazio, con 229.043 nel 1992 e 241.243 nel 1997. Invece è ora la Lombardia con 167.017 nel 1992 ma ben 270.943 nel 1997. Ovviamente i poli di maggiore attrazione restano rispettivamente Roma e Milano, ma quest’ultima città e la relativa regione fanno segnare incrementi assai significativi.


È da segnalare la singolarità del fatto che l’Italia, insieme con il Canada, è uno dei paesi con il tasso maggiore di disoccupazione nell’ambito dei sette paesi più industrializzati nel mondo. Si è superato l’11% come media nazionale, ma in alcune zone si arriva anche al 20%, per cui il lavoro appare una risorsa piuttosto scarsa. Tuttavia i trends immigratori tendono ad aumentare.


Le forme dell’immigrazione: stabile, stagionale e transitoria (o provvisoria)


Va comunque considerato che l’Italia è anche un paese di passaggio in attesa di trovare accoglienza altrove, soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, in Germania ed in Australia.


Per altri l’immigrazione è solo stagionale. È questo il caso dei nordafricani che raggiungono alcune zone italiane nei periodi in cui è maggiormente necessaria la manodopera per le attività agricole, specialmente per la raccolta dei prodotti nei campi.


Ad ogni buon conto bisogna tenere presente che le cifre qui fornite non sono che quelle ufficiali. La realtà dei fatti è molto più cospicua. Sono numerosi gli immigrati giunti clandestinamente o il cui permesso di soggiorno è scaduto da tempo o non è mai stato richiesto. Di conseguenza si può ipotizzare ‑ come molti specialisti propongono ‑ che la presenza straniera in Italia ammonti ad un totale che viene stimato fra un milione e duecentocinquantamila e quasi un milione e quattrocentomila persone ‑ cioè circa il 2,5% della popolazione italiana residente ‑ con un aumento tendenziale annuo attorno al 10% (nel frattempo è molto più contenuto il movimento emigratorio degli italiani: ogni anno ne espatriano circa sessantamila ed altrettanti ne rientrano, sicché si ha un sostanziale pareggio dei flussi indigeni in entrata ed uscita).


Erano in aumento in Italia sin dal 1992 anche gli alunni stranieri, che toccavano un totale di 26.654 soggetti, di cui 6.045 in Lombardia e 3.999 nel Lazio. Appena il 4% era però il numero di allievi non italiani negli istituti scolastici delle isole. In generale frequentavano più i maschi che le donne. Al primo posto risultavano marocchini e marocchine, seguiti da cinesi, jugoslavi ed albanesi e poi da argentini, statunitensi e tedeschi. Si attestava invece attorno al 2% la quota di studenti universitari stranieri, né tende successivamente ad aumentare, restando dunque a livelli piuttosto bassi rispetto al resto d’Europa.


Gli stranieri presenti in Italia provengono da oltre 170 paesi, soprattutto dall’Africa (con oltre 50 paesi) e dall’Asia (con una quarantina di paesi). L’immigrazione dai paesi della Comunità Economica Europea è piuttosto contenuta.


Le appartenenze religiose


A parte la differenza di lingua, quella più evidente e condizionante è di natura religiosa. Secondo le stime, per il 1997, di Franco Pittau ed Alberto Colaiacono della Caritas di Roma i cattolici sarebbero 371.658, i musulmani 422.186, i cristiani acattolici arriverebbero a 275.759, ma nel caso specifico degli immigrati dai paesi in via di sviluppo (escluse l’America Latina e l’Europa Orientale) gli islamici hanno senz’altro la maggioranza relativa (in effetti dall’Africa e dall’Asia provengono molti dei musulmani che si trovano in Italia, soprattutto a Roma, dove non a caso è stata costruita nella zona di Monte Antenne una grande moschea, già inaugurata solennemente ed assiduamente frequentata).


Notevole è anche la presenza di ortodossi di rito russo-bizantino e greco, nonché di protestanti, per un totale – già citato – di 275.759 cristiani acattolici.


Non mancano buddisti e scintoisti (40.768), un po’ meno sarebbero gli induisti (28.236) e gli animisti (17.960). 4.244 sarebbero gli ebrei e 9.735 (in aumento rispetto al passato) i confuciani ed i taoisti.


Il caso romano-laziale


              In questo quadro così composito è difficile avere dati del tutto precisi ed affidabili e soprattutto aggiornati. Neppure indagini campionarie riescono a fornire indicazioni più soddisfacenti. Il fatto è che si ha a che fare con una popolazione molto instabile, dinamica, in forte cambiamento. Intanto i recenti sommovimenti dell’Est europeo, dei Balcani e di alcuni paesi africani fanno ipotizzare che ulteriori correnti immigratorie siano in arrivo, abbastanza disponibili ad entrare nel campo della sottoccupazione e del lavoro sommerso. Roma ed il Lazio rappresentano un quadro esemplare dei cambiamenti in atto.


            Le più recenti informazioni statistiche presentano un quadro variegato e di particolare interesse. In effetti il territorio romano e quello laziale sono per ragioni sia storiche che contingenti quasi un naturale bacino di accoglienza dei flussi migratori. Non solo la capitale ma anche il resto della regione, in particolare Latina e la sua provincia, rappresentano degli sbocchi facilmente accessibili per chi arriva dall’estero nel nostro Paese. Del resto le maggiori strutture di accoglienza sono attive proprio in tali aree. Si pensi ai centri romani della Caritas ed al campo profughi della zona pontina, strutture « provvidenziali » ma ormai insufficienti a recepire ondate immigratorie di portata inusitata. Si consideri che nel 1987 arrivavano ufficialmente a Roma appena 9.069 stranieri e quasi un decimo di tale misura in ognuna delle due province di Latina (981 immigrati) e Frosinone (980 arrivi). Ben più ridotta era la quota registrabile a Viterbo (296) e Rieti (126). Tutta la regione contava in quell’anno solo 11.449 movimenti dall’estero. Era già in calo il fenomeno emigratorio, che faceva registrare cifre attorno ad un terzo o poco più della popolazione immigrata. Tale tendenza si è mantenuta sostanzialmente immutata per un decennio, mentre è cresciuto a dismisura l’andamento immigratorio. Infatti già nei due anni fra il 1986 ed il 1988 si registrava un aumento di oltre il dieci per cento degli stranieri con regolare permesso di soggiorno presenti nelle provincie laziali: da 122.154 a 197.261. Notevole era sin d’allora la presenza di lavoratori generici e di collaboratrici domestiche (soprattutto asiatiche), ma anche di impiegati amministrativi. E non era trascurabile neppure il peso degli studenti stranieri sia a livello di scuole secondarie superiori (812 nel 1986-87) che di studi universitari (5.742 nel medesimo anno accademico). Negli atenei romani studiavano soprattutto iscritti a medicina (2.066 nel 1986-87) e ad università pontificie (806 nello stesso periodo). Si trattava in primo luogo di asiatici, seguiti da greci ed africani.


            In Italia la maggioranza cattolica fra l’immigrazione più recente è confermata al 29,9%, mentre la quota dei cristiani protestanti ed ortodossi è al 22,3%. Roma poi è particolarmente cattolica fra gli immigrati (al 42,4%) ma è pure musulmana (al 21,5%) e cristiana protestante-ortodossa (al 21,5%). Nella capitale, secondo una stima della Fondazione Migrantes, sarebbero 89.652 i cattolici, 45.365 i musulmani, 44.643 i protestanti e gli ortodossi insieme, 8.109 gli induisti, 7.682 i budddisti insieme con gli scintoisti, 2.900 gli animisti. Tra le comunità religiose cattoliche le più numerose sono, nell’ordine, le filippine e quelle polacche, spagnole e peruviane, tra le ortodosse e le protestanti quelle rumene e le inglesi e statunitensi.    


Conclusione


            Al 31 dicembre 1998 risultavano regolarmente soggiornanti e registrati nel Lazio 199.374 stranieri, con la maggioranza assoluta a Roma (ben 181.296 presenze « ufficiali »). Va anche notato che la provincia di Latina (7.715 soggiorni in regola) si conferma al secondo posto ed è seguita – ad una certa distanza – da quella di Frosinone (4.262 « regolari »). Va sottolineato il rilevante apporto di genere nella città di Roma con una stima di 113.116 donne su un totale di 219.368 soggiornanti calcolati non ufficialmente.


            Nel 1998 si sono avute nel Lazio 79.432 regolarizzazioni (il 19,8% del totale italiano), di cui 71.513 a Roma.   


            Non è difficile prevedere che nei prossimi anni il trend in corso non sarà destinato ad arrestarsi o a cambiare direzione. Insomma sempre più Roma ed il Lazio avranno un destino cosmopolita. Anche l’andamento del primo giubileo realmente globale ne è una prova.


* Sintesi di intervento.

HABEAS CORPUS

Roberto Cipriani


Habeas corpus è un’espressione latina che significa “abbi il corpo”, o meglio “abbi il tuo corpo”. Si riferiva ad una norma giuridica in base alla quale una persona non potesse essere arrestata e tratta in prigione senza un motivo fondato, senza cioè aver commesso una colpa: riusciva dunque a mantenere il possesso effettivo della sua stessa persona, del suo corpo.


L’origine di tale regola giuridica è abbastanza antica. La si fa risalire al periodo della Magna Charta inglese delle libertà (concessa nel 1215 dal re Giovanni).


Habeas corpus ad subiciendum erano le parole iniziali del writ che ingiungeva a chi avesse imprigionato qualcuno di dichiarare per quale ragione lo fosse e da quale giorno ed inoltre di presentare in carne ed ossa la persona imprigionata davanti ad un giudice perché ne venisse legittimata o meno la detenzione.


La finalità dell’habeas corpus era quella di salvaguardare l’integrità e la libertà del soggetto nei confronti di qualunque sopruso di un’autorità, ivi compresa quella giudiziaria (nel qual caso si passava al giudizio di un tribunale superiore).


L’Habeas Corpus Act del 1679 è il riferimento giuridico più autorevole in questo campo. E la stessa Costituzione degli Stati Uniti prevede che l’habeas corpus “shall not be suspended, unless when in cases of rebellion or invasion the public safety may require it”.


Le situazioni di guerra comportano spesso un’invocazione dell’habeas corpus. Se ne deduce così che l’elemento ultimo che fa di una persona un soggetto portatore di diritti è proprio la sua stessa corporeità, il suo soma, la sua materialità, costituita in gran parte di acqua. D’altra parte la stessa mente è capace di funzionare solo se già esiste un supporto fisico concreto. In definitiva nessuna azione umana è neppure immaginabile e realizzabile in assenza di un corpo che la compia di fatto. Di conseguenza nessuna sociologia nella misura in cui si interessa dell’agire umano può fare a meno di indagare il ruolo e le potenzialità del corpo. Insomma una sociologia del corpo non solo è utile ma certamente è indispensabile.


Per questo il testo qui presentato aiuta a colmare le numerose lacune che sinora hanno impedito all’analisi sociologica di cogliere sino in fondo la valenza di tante dinamiche rilevanti. Oggi ancor più che nel passato la dimensione corporea è finalmente al centro dell’attenzione dei sociologi, in concomitanza con l’accresciuta sensibilità degli individui sociali alla loro “presenza fisica”, alla loro “immagine esteriore”, a quanto risulta più appariscente e comunicativo.


Non a caso si pone una particolare cura nell’adattare il corpo alle esigenze più diverse, in vista del raggiungimento di particolari obiettivi: convincere, aiutare, affascinare, comunicare ed altro ancora. In pari tempo il consumo del corpo è più accentuato che nel passato sino a dar luogo ad un corpo virtuale che sostituisca quello reale per non affaticarlo, per esimerlo da compiti rischiosi, per sperimentare percorsi inusitati, per andare oltre i livelli gestibili nell’ambito della verificabilità empirica.


Il paradosso è che proprio l’elemento materiale della fisicità diviene oggetto di un approccio tipicamente spirituale, quello della sacralità. Si può anche discutere se il corpo sia il sacro per eccellenza o più semplicemente qualcosa di sacro. Il punto è che in entrambi i casi la sua connotazione ha a che vedere con la sacralità, con un carattere metafisico applicato a ciò che tuttavia resta di fatto ad un livello fisico.


Non c’è digital divide che riesca a separare anche le consapevolezze delle proprie consistenze corporee: un collegamento Internet rimane un prolungamento ed un’accelerazione delle possibilità di comunicazione ma non dà mai la possibilità del contatto fisico o della sola visione face to face, a contatto del respiro dell’altro, che nessuna telecamera tecnologicamente avanzata potrà mai trasmettere da un continente all’altro, da una persona lontana ad un’altra, limitandosi semmai ad una perfezionata emissione acustica che riproduce in tempo reale il respirare altruima senza alcuna possibilità di sostituire la realtà dell’incontro diretto, della simbiosi dei ritmi corporei, della condivisione di un abbraccio, dello scambio di uno sguardo, dell’emozione di una stretta di mano fra persone realmente l’una vicina all’altra.


La mente stessa ha bisogno di un corpo per esercitare le sue potenzialità raziocinative, le sue capacità analitiche ed interpretative di linguaggi e simboli. Ed in fondo anche la memoria ha bisogno di una mente in cui installarsi e di un corpo cui ancorarsi, per essere “substrate and servant of consciousness”.


Persino il dolore e la gioia sono inconcepibili senza una base corporea che ne renda possibile l’esperienza diretta attraverso il vissuto personale.


La differenza fra una persona reale ed un robot, ad esempio, non è solo data dalla presenza o dall’assenza di un soma ma essenzialmente dalle relazioni intersoggettive, emozionali, affettive, che una macchina non può mai né intrattenere né gestire. Il rapporto fra mente e corpo è imprescindibile giacché l’una e l’altro sono interconnessi all’interno di una collocazione anatomica precisa. Le nuove frontiere aperte dalla manipolazione delle cellule staminali non fanno che confermare la centralità della dimensione corporea in tutte le sue articolazioni, dal sistema nervoso a quello circolatorio. Anche gli esperimenti di clonazione e gli studi sul genoma rafforzano l’idea di una centralità del corpo, senza del quale non è possibile sviluppare alcuna forma di pensiero, di azione e di ricerca consapevole. In fondo non c’è cultura se non collegata ad una serie di soggetti-corpi interagenti fra loro. Persino nelle esperienze estreme che portano a sperimentare gli stati alterati di coscienza il tramite resta la struttura corporea. Per non dire delle esperienze musicali e di quelle coreutiche, dell’estasi e della contemplazione mistica.


Un discorso a parte meriterebbe il corpo femminile: soggetto-oggetto di strumentalizzazione consumistica, sottoposto ad un forte controllo culturale di matrice essenzialmente maschile. Questo è l’esito di una pedagogia fuorviante e per nulla paritaria, che sin dalle prime esperienze infantili di gioco pone le premesse per distinzioni di genere che non aiutano a collocare il corpo entro un quadro politicamente e socialmente corretto. Prevale cosi l’ottica moralistica a tutto danno della scoperta libera e spontanea, saggiamente orientata, delle differenze di sesso.


Una pedagogia altrettanto mistificante conduce a trasformare il corpo stesso in un’arma, come nel caso dei terroristi suicidi, i quali imbevuti di ideologia e di confessionalismo spinto si votano al martirio divenuto quasi una mania.


Quasi tutto sembra congiurare contro la libera espressione corporea: l’aumento delle comodità e l’asservimento alle logiche della velocità annientano le possibilità di sperimentazione alternativa basata sulle capacità di movimento autonomo dei singoli. Insomma si tende a favorire la passività, e dunque l’assenza di riflessione: si comincia con il corpo, si prosegue con la mente ed alla fine l’assoggettamento eterodiretto è un risultato acquisito.


La divisione per generi a livello corporeo ha una sua corrispondenza quasi speculare nella divisione per razze in termini corporei (dal colore della pelle all’altezza, dalla configurazione degli occhi alle caratteristiche dei capelli).


Il fatto è che la realtà dei corpi comporta molte realtà corporee, ricoperte o meno di abiti, regolate o prive di regole, segnate dal benessere o dal malessere, integre o frammentate, connotate dalla gioia o dal dolore. Del che questo libro offre prove esemplari.


In definitiva i vari autori qui coinvolti mostrano chiaramente – se per caso ce ne fosse ancora bisogno – che corpo e mente (e memoria) non sono affatto elementi scissi fra loro. Cartesio parlava di corpo come res extensa (cioè qualcosa di esteso) e di pensiero come res cogitans (cioè qualcosa che pensa), considerando l’uno e l’altro come due sostanze. Però poi lo stesso Cartesio vedeva proprio nell’uomo l’unione di corpo ed anima, annullando così il dualismo delle sostanze.

GIUBILANTI DEL 2000.PERCORSI DI VITA

Roberto Cipriani


Indice


Introduzione, di Roberto Cipriani


1.        Metodologia e tecniche dell’indagine, di Domenico Schiattone


2.        I contenuti del pellegrinaggio: riti, indulgenze, perdono e preghiera, di Roberto Cipriani


3.        I motivi della partecipazione: la figura del papa, l’istituzione religiosa, la religiosità, di Cecilia Costa


4.        Lavoro e vita quotidiana dei pellegrini, di Claudio Tognonato


5.        Il ruolo del genere nel vissuto dei giubilanti, di Emmanuela C. del Re 


6.        Valori, politica e religione dei romei, di Verónica Roldán


7.        I giovani del Giubileo, di Monica Simeoni


8.        Povertà, malattia, vecchiaia e morte nella percezione dei pellegrini, di Cecilia Costa


9.        Il vissuto del Giubileo, di Verónica Roldán


10.     Roma e l’arte: pellegrinaggio o turismo?, di Milena Gammaitoni


11.     I giapponesi a Roma, di Mitsuko Sato


12.     I polacchi dopo il viaggio giubilare, di Grzegorz Kaczyñski


13.   Un’ulteriore verifica: le parole dei giubilanti, di Lucio De Iorio


14.   I sentimenti dei pellegrini, di Vincenzo Masini


Conclusioni, di Roberto Cipriani


Appendice 1


La procedura di NVivo, di Fabrizio Leonardi


Appendice 2


I dati numerici sui giubilanti, di Roberto Cipriani

SAN GERARDO E L’ODIERNA DEVOZIONE POPOLARE

Roberto Cipriani


Premessa


            Ha ancora un seguito la devozione popolare verso Gerardo Maiella, il laico redentorista nato nel 1726 e morto or sono due secoli e mezzo? Può una forma di religiosità popolare durare così a lungo dopo la fine dell’esistenza terrena di un personaggio che da vivo tanto aveva attratto per le sue doti di carità, per il suo messaggio di solidarietà, per la sua pietà semplice e didascalica, per la sua opera di costante misericordia verso i poveri, i diseredati, gli emarginati? Si sa che una volta estintasi la generazione di coloro che hanno vissuto da vicino un’esperienza singolare come quella della frequentazione di un uomo straordinario, ben difficilmente le generazioni che seguono mantengono poi altrettanto vivido il ricordo: manca loro la partecipazione diretta ad un rapporto interpersonale fondante, per cui quasi ogni legame sembra cadere, il filo del ricordo si affievolisce, la connessione con il passato tende ad interrompersi, nonostante la forza di qualche evento portentoso che confermi le doti taumaturgiche di un laico legittimato dalla stessa Chiesa cattolica come degno dell’onore degli altari.


            Il fatto è che chi non è intervenuto nella fase ascendente che porta al riconoscimento di un santo non facilmente mostra lo stesso ardore, il medesimo impegno dei primi fedeli, dei testimoni oculari della vicenda umana di Gerardo Maiella. Il trapasso dalla prima alla seconda generazione segna spesso una cesura insanabile, non più recuperabile. C’è dunque da chiedersi perché, nonostante il trascorrere di tanti decenni, anche adesso si mantenga una memoria tanto diffusa del santo di Materdomini (così identificabile dal nome del luogo in cui il redentorista nato a Muro Lucano ebbe a morire).


            I suoi ventinove anni di vita sono bastati a fare di lui un punto di riferimento essenziale per tanta parte della cultura religiosa popolare del meridione italiano. Da converso, in soli tre anni, dal 1752 al 1755, girò in lungo ed in largo soprattutto tra la Campania e le regioni limitrofe, sempre portando l’afflato della sua fede, la passione del suo amore per gli altri, la sua sete di riscatto per i poveri. Eppure non muoveva da un’approfondita preparazione culturale: forse anche per questo è apparso molto vicino al mondo contadino meridionale, portando la sua forte testimonianza attraverso un’intensa e semplice religiosità.


            Ma come mai una figura così esemplata sul suo tempo riesce anche adesso a reggere l’impatto con la modernità avanzata? Oggi la situazione è ben diversa. Allora, invece, la mistica costituiva un punto di riferimento essenziale ed aveva i suoi campioni eccellenti in figure che si chiamavano Francesco de Geronimo ovvero di Girolamo (gesuita dotato di molte virtù, ricordato come “prefetto santo” per il suo ruolo di istitutore nel collegio napoletano dei nobili, missionario nei villaggi e predicatore popolare, sensibile alle necessità dei poveri, dedito alla catechesi dei più piccoli, diffusore della pratica della Via Crucis, giunto a portare la parola di Dio sin nei bassifondi e fra le donne più traviate, pacificatore indefesso, morto nel 1716) e Giovanni Giuseppe della Croce (ischitano di nascita, devoto del Santissimo Sacramento, amante dei poveri, entrato nell’ordine francescano dei minori riformati, non particolarmente istruito, assai dedito alla vita interiore e morto nel 1734 – e perciò da non confondere con Juan de la Cruz, che invece era nato in Spagna nel 1542 -); l’uno e l’altro sono ricordati puntualmente dallo storico Stanislao D’Aloe[1]: “nella nostra Chiesa fiorirono, a chiaro esempio di cristiane virtù, i santi Francesco di Girolamo gesuita, e Giovan Giuseppe della Croce frate alcantarino”. Si possono citare altresì Vincenzo Strambi (nato nel 1745, poi divenuto passionista con il carisma di grande predicatore sulle orme di San Paolo della Croce, e morto nel 1824) ed Egidio Maria di San Giuseppe (morto nel 1812). In campo femminile, poi, come non ricordare Teresa Margherita Redi (morta nel 1770), Veronica Giuliani (stigmatizzata dopo un triennio di vita a pane ed acqua, calunniata di essere una creatura diabolica, privata perciò della possibilità di ricevere l’eucarestia e morta nel 1727) e Maria Maddalena Martinengo (morta nel 1737)? Si tratta di figure di santi e beati la cui vita è stata esemplare per la perfezione ascetica attinta, per l’elevatezza di spirito religioso, per le doti personali, per la profonda interiorità, per i vertici raggiunti con la loro testimonianza di fede.


            Per cogliere al meglio le atmosfere di quegli anni lontani non c’è di meglio che la lettura dei testi di Alfonso Prandi[2] e di Massimo Petrocchi (acuto storico, studioso della religiosità settecentesca)[3]. Ma soprattutto occorre riandare al “grande” intellettuale religioso del tempo che fu il nobile napoletano Alfonso Maria de’ Liguori con le sue celebri Opere ascetiche. Egli, con le sue qualità di specialista della predicazione al popolo e dell’insegnamento catechistico, si rivolse in primo luogo ai poveri. Cagionevole di salute, dovette patire anche gravi malattie.


            Ma proprio in quel medesimo torno di anni non mancarono attacchi poderosi alla mistica da parte del quietismo (che non apprezzava le forme di penitenza e di acquisizione della perfezione) e del giansenismo (che preferiva insistere sul binomio grazia-predestinazione, abbastanza affine perciò alla prospettiva dell’etica protestante, rinvenibile fra calvinisti, pietisti, metodisti e battisti, in verità non del tutto privi di forme ascetiche). Però, ci fu anche chi ebbe a contrapporre ascetismo e misticismo: lo fece dapprima il Tempesti nel 1746 con il suo testo Maestro esimio di spirito, ovvero mistica teologia secondo lo spirito e le sentenze del santo (riferito a San Bonaventura), poi il gesuita Giovanni Battista Scaramelli con il Direttorio ascetico (1753) seguito dal Direttorio mistico (1754). Bernardo di Castelvetere (morto nel 1756) invece proponeva un unico approccio con il suo Direttorio ascetico-mistico per i confessori di terre e villaggi. E Gaetano da Bergamo (morto nel 1753) dal canto suo aveva dato ordine e organicità al suo manuale di spiritualità dal titolo Cappuccino ritirato (è appena il caso di ricordare che lo stesso Gerardo Maiella aveva dapprima scelto di entrare, senza riuscirvi, nell’ordine dei Cappuccini).


            Il Settecento fu anche un momento fervido per la pubblicistica devozionale: c’era Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), predicatore popolare che dettava consigli a proposito Della devozione al Santissimo Sacramento o sulla santa messa, con il suo Tesoro nascosto; ma c’era pure il già ricordato fondatore dei redentoristi, Alfonso Maria de’ Liguori (morto 32 anni dopo Gerardo Maiella, ma certamente grande ispiratore dello spirito gerardino): poderosa fu la sua produzione. Da grande vescovo meridionale e campano fu un esempio straordinario per Gerardo nella sua attenzione ai poveri, nella predicazione, nella santità di vita. Il suo pensiero, espresso in opere come Massime eterne (1728), Visite al SS.mo Sacramento (1745), Glorie di Maria (1750), fu pure un forte antidoto nei riguardi del giansenismo, come ha ben evidenziato il Cacciatore in S. Alfonso e il giansenismo[4].


            Ma Gerardo fu influenzato dal santo fondatore del suo ordine soprattutto per la devozione al Bambino Gesù, che secondo quanto si racconta gli appariva di frequente. A tale devozione si univano anche le altre due, di pretto stampo liguorino, a Gesù Sacramentato ed a Maria, evidenziate rispettivamente dai due contributi di Sant’Alfonso già citati (pubblicati nel 1745 e nel 1750). Quasi emulo di San Martino di Tours (vissuto nel IV secolo) anche il Maiella donò una sua veste ad un povero.


            Il suo ingresso nella congregazione redentorista non fu agevole, dopo il diniego di quella francescana, perché egli era debilitato e malaticcio. E nondimeno si prestava ad ogni sorta di incombenza. Anzi mostrava anche grandi capacità nel trattare con le persone, nel comprenderne le ragioni più profonde, sino a riuscire efficace in qualche previsione (o profezia che dir si voglia).


            Nonostante gravi accuse, che lo portarono sino alla proibizione di ricevere l’eucarestia, con la mortificazione e con la pazienza riuscì a superare anche i momenti più difficili, attraverso un impegno totale a favore dei più diseredati, dei più bisognosi, dei più desiderosi della parola di Dio. In tal modo si conformava alla passione stessa del Cristo, sulla scorta di una peculiare opzione, assai diffusa soprattutto nel Settecento, per la sofferenza della croce, secondo l’esempio emblematico di San Paolo detto appunto della Croce (morto nel 1772). In quest’ultimo si coniugavano – proprio come in Gerardo Maiella – mistica, “passionismo” e “nativitismo” – secondo lo studio di Brovetto dal titolo Morte mistica e divina natività nella spiritualità di San Paolo della Croce,[5].


            Del resto mistica ed ascetica erano state anche le caratteristiche del papa Benedetto XIII, il domenicano Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento, salito al soglio pontificio nel 1724 e morto nel 1730: l’anno santo del 1725 da lui promosso non eccelse in celebrazioni e si mantenne entro i limiti dimessi di una pietà popolare non magniloquente, avversa ai fasti del mondo ed invece attenta ai gesti semplici, alla preghiera, ai malati, ai poveri. Fu lo stesso papa Orsini a proibire ai sacerdoti di portare parrucche, ai romani di celebrare il carnevale durante l’anno santo, a tutti di giocare al lotto. Il suo comportamento fu esemplare: lavava i piedi ai pellegrini, volle un Concilio romano per impartire nuove norme al clero, veniva considerato dal popolo come un papa santo.


            La triangolazione di spiritualità, carità e dedizione a Dio ed al prossimo che si vede in Orsini, de’ Liguori e Maiella costituisce un parametro essenziale di riferimento per chi voglia usare un approccio storico e sociologico realmente comprendente, secondo l’idea di verstehen, cioè di capire appieno, immedesimandosi nella situazione e nello spirito delle persone e del loro tempo, in modo da avere una conoscenza adeguata anche sul piano scientifico, in quanto approfondita e ricca, veramente intesa nelle sue diverse sfaccettature di dati e di interpretazione dei dati. Non è un caso che uno studioso serio ed attento come Angelomichele De Spirito[6] abbia dedicato gran parte della sua vita a raccogliere ed a mettere a punto profili, contenuti e documenti relativi a questa sorta di “sacra triade cattolica” che ha connotato tanta parte della vita religiosa nel Settecento campano (l’Orsini era tanto attaccato ai luoghi del suo episcopato che restò arcivescovo di Benevento anche da papa).


            Dei tre, ben due sono stati elevati agli altari, sant’Alfonso nel 1839 da Gregorio XVI e san Gerardo nel 1904 da Pio X. Ma un tratto accomuna comunque i tre soggetti: la loro dirittura morale. Invece il carattere taumaturgico riguarda ovviamente i due canonizzati, per la loro supposta capacità di operare miracoli, la cui tipologia risulta abbastanza affine per casistica (in relazione alla specializzazione del potere guaritivo) e per destinatari (con riferimento alle classi più emarginate). Entrambi inoltre sono stati molto apprezzati da vivi ed hanno visto le loro tombe essere oggetto di venerazione sino ai giorni nostri.


I fondamenti della devozione popolare gerardina


            Per procedere ad una comparazione fra il passato ed il presente occorre fissare alcuni punti fermi relativi al contesto storico-socio-antropologico in cui si colloca l’origine stessa della odierna devozione popolare nei riguardi del santo venerato nel santuario di Materdomini.


            Innanzitutto è da tracciare e tenere presente il profilo umano e spirituale di Gerardo Maiella, nato da modesta famiglia (“cucitore” ovvero sarto il padre, contadina la madre). Già questo primo dato di fatto torna utile per capire l’immediata e facile consonanza fra le classi popolari meridionali ed una figura a loro così vicina per affinità di situazione socio-economica e familiarità di attività lavorative conosciute da presso anche se non proprio praticate.


            Occorre però completare il quadro aggiungendo che l’aspetto devozionale operante in Gerardo sin dall’età più tenera appare abituale in fanciulli che frequentino il mondo ecclesiastico. Si tratta di soggetti che sono portati a fantasticare sulle espressioni cultuali, creando altarini e processioni, cerimonie e pellegrinaggi, prendendo dunque ispirazione dalla pratiche di culto cui assistono o partecipano. Gerardo poi traeva linfa vitale dall’esperienza avuta in casa del vescovo di Lacedonia, monsignor Albini, al cui servizio si era posto.


            Ma l’esperienza più significativa cominciò quando entrò come fratello coadiutore laico fra i redentoristi (dopo non essere stato accolto né dai francescani cappuccini, né dagli stessi liguorini o redentoristi, almeno in un primo momento). Fu qui che rifulse il suo spirito di dedizione al prossimo, insieme con una forte propensione a gesti di carità. In particolare si prodigò a favore degli altri in occasione della carestia del 1755, l’ultimo anno della sua vita a causa della tisi che lo porterà a morte.


            Fu un uomo di penitenza, che praticò con intenso afflato religioso, ripercorrendo itinerari e modalità che erano stati tipici di secoli precedenti: cilizi, autoafflizioni, persino autoflagellazioni a sangue.


            Tuttavia tali forme di ascetismo spinto, di imitazione della passione di Cristo e di identificazione con l’Uomo-Dio non gli impedirono di mostrarsi anche assai misericordioso (come testimoniano tanti episodi che si raccontano di lui prono sui mali del mondo, sino a compiere opere ritenute miracolose).


            La sua era una pietà dalla duplice valenza, umana e cristiana, con impeti di solidarietà incondizionata che lo inducevano a vivere la carità in forma quasi mistica, tutta interiore negli intenti ma rivolta all’esterno nelle opere concrete di supporto.


            Neppure la calunnia scalfiva il suo animo completamente votato ad un’osservanza quasi cieca della regola dell’ubbidienza ai superiori. Nonostante la proibizione comminatagli di non poter ricevere l’eucaristia egli riuscì a mantenere salda la sua fede ed a dar prove sublimi di credenza assoluta senza tentennamenti e con fiducia profondissima nel suo Dio, in Maria, in Gesù Bambino, nel Santissimo Sacramento. Peraltro le carenze del suo corpo continuamente prostrato non gli facevano ostacolo anzi sembravano accrescere le sue potenzialità di resistenza e di testimonianza ferma, immarcescibile.


            A partire da un tale lievito di base si impasta tutto il magma multiforme della religiosità popolare legata alla figura di Gerardo Maiella, un santo giunto relativamente tardi all’onore della venerazione ufficiale della Chiesa ma di fatto rimasto ben vivo nella percezione diffusa dei suoi devoti per quasi un secolo e mezzo sino alla sua beatificazione dapprima (nel 1893) e canonizzazione qualche anno immediatamente dopo (nel 1904).


            Certamente la religiosità che si lega al Maiella ha più i caratteri del popolare che non dell’elitario, in quanto nasce e si sviluppa nell’ambito della socializzazione primaria familiare e non tanto a livello istituzionale. Forse anche questo aspetto può aver allungato i tempi della santificazione del giovane laico redentorista. L’attenzione verso di lui si è mantenuta sostanzialmente costante nei ceti più umili della popolazione. Solo più tardi è ripresa o è iniziata ex novo una maggiore sensibilizzazione dell’establishment ecclesiastico. Nel frattempo la religiosità popolare ha seguito un suo percorso peculiare che ha rivisitato credenze e riti, ha messo fra parentesi le soluzioni più legate a fattori organizzativi e regolativi, ha conservato piuttosto norme etiche e sentimenti devozionali. Il livello popolare, sulla scorta del modello gerardino, non ha fatto leva su una educazione regolare e dottrinale ma ha preferito basarsi sulla tradizione orale (racconti della vita di Gerardo, dei suoi interventi “miracolosi”, delle sua azioni straordinarie), entrando anche in conflitto implicito con il modello della religione-di-chiesa. In tal modo la religiosità popolare che ha avuto come focus di interesse la devozione al santo laico redentorista rappresenta anche una sorta di religione come protesta, per usare i termini preferiti da Alberto M. Cirese[7] che rinvia al modello gramsciano della contrapposizione fra chiesa e popolo.


            Una forma peculiare della religiosità popolare è quella che contempla un dialogo diretto con la divinità o con la santità come nel caso di Gerardo Maiella. Il che può avvenire nella forma abituale della preghiera, più o meno recitata secondo schemi liturgici approvati, o della interlocuzione personale e diretta con il destinatario soprannaturale per definizione (Dio stesso) o divenuto tale dopo l’esperienza naturale dell’esistenza umana (come nel caso di san Gerardo).


            Così il dialogo si allaccia attraverso un pellegrinaggio, una visita al santuario, la partecipazione ad una messa, l’esecuzione di un canto, la promessa di un’azione specifica sotto forma di voto da sciogliere, l’invio di un’offerta, lo scrivere una lettera alla redazione di una rivista religiosa (come In cammino con san Gerardo). Tutti questi contenuti religiosi e popolari insieme fanno altresì ricorso ad un vocabolario specifico, ad una terminologia che di solito non è quella della chiesa ufficiale, anche perché si avvalgono spesso di una opzione linguistica (dialettale) ben diversa da quella dei documenti magisteriali della chiesa. Anche le aggettivazioni utilizzate non sono quelle abituali di gente colta, di personale ecclesiastico, bensì di uso comune fra le gente che condivide un medesimo vissuto religioso-popolare.


            Alcuni, sbrigativamente e con un approccio privo di scientificità, bollano come magico-superstiziose talune manifestazioni, senza prima andare a fondo di ciascuna di esse per raccoglierne ed accoglierne i contenuti principali, per poi leggerli alla luce della metodologia storico-socio-antropologica più accreditata, dunque ben al di là di giudizi estemporanei. Per far questo occorre un’adeguata preparazione di base per poter svolgere adeguate indagini sul campo, non orientate da spirito aprioristicamente critico, valutativo, persino denigratorio.


I contenuti della religiosità popolare


            Studiare la religiosità popolare è affare di non poco momento, anzi è questione complessa ed imprevedibile nei suoi sviluppi. Non si può affrontare il fenomeno del culto a san Gerardo avendo in mente pre-considerazioni di natura teologica o ideologica. Altrimenti si rischia di avere risposte ed interpretazioni pre-costituite che rendono inutile la stessa ricerca scientifica, visto che i suoi risultati sono largamente scontati ed in linea solo con il punto di vista di chi effettua lo studio del caso.


            Non si può trascurare il fatto che la devozione popolare è parte della cultura, cioè della maniera in cui le persone considerano la vita e se stesse, costruendo la loro concezione del mondo anche sulla base della socializzazione e dell’educazione ricevute.


            Va poi considerato che esistono diverse subculture, all’interno di una cultura generale più vasta, sia essa meridionale o campana o pugliese o lucana o calabrese o laziale (per rimanere nell’ambito delle provenienze più frequenti tra i pellegrini che si recano a Materdomini). Ogni subcultura conserva e trasmette le proprie modalità di approccio: rituali, organizzative, emozionali.


            Nonostante varie differenze, alcuni tratti restano comuni: l’organizzarsi in forme associate, magari temporanee; il rispettare i sacerdoti; l’assecondare gli organizzatori dei pellegrinaggi; l’evitare forme esplicite di anticlericalismo; l’accettare i valori religiosi; il trasmettere lo spirito religioso alle generazioni più giovani; il creare motivazioni favorevoli alla religione; il fornire soluzioni comportamentali alle difficoltà esistenziali.


            Il sentimento religioso popolare si fonda essenzialmente sulla vicinanza al santo, che è visto come intercessore presso la divinità e che per questo è pregato con insistenza perché sia di supporto nelle situazioni della vita meno favorevoli. Ma non mancano altre forme rituali, sopratutto nell’ambito dei cosiddetti “sacramentali”, cioè cerimonie volte ad offrire esiti spirituali mediante benedizioni, esorcismi, consacrazioni, atti benefici, uso di oggetti sacri (statue, immaginette, rosari, acqua benedetta), frequentazioni di luoghi consacrati, ricorsi a simboli religiosi ed a formule tradizionali più o meno codificate (ivi comprese quelle contenute nei benedizionali, ovvero nelle raccolte di benedizioni per ogni tipo di circostanza).


            Un carattere emerge fra tutti gli altri: coloro che praticano la religiosità popolare sono portati a considerare il santo come qualcosa di assolutamente vivo. Per questo gli si parla, gli si rivolgono discorsi, lo si invoca, lo si ritiene un compagno di vita, lo si tratta amichevolmente, lo si compiace con feste ed omaggi vari, lo si fa destinatario di promesse e di voti. A sua volta lo stesso santo è ritenuto interagire concedendo miracoli e favori, intercessioni ed aiuti, ma anche comminando qualche “punizione” o diniego. Il rapporto è talora privatizzato al punto che il santo diventa interlocutore privilegiato se non esclusivo specialmente se il devoto ne porta il nome o ne cura il culto in ogni sua espressione (dall’organizzazione di pellegrinaggi alla celebrazione di messe in suo onore, dalla raccolte di offerte per il santuario alla predisposizione dei festeggiamenti in occasione della ricorrenza annuale secondo il calendario liturgico).


            La fiducia verso l’oggetto della devozione è totale. Il santo è venerato da una medesima famiglia nell’arco di più generazioni. Egli diviene quasi un membro del consorzio familiare, tanto che lo si chiama per nome, fraternamente, od anche con un soprannome, tanto è spinta la dimestichezza con lui, sino a porlo sullo stesso piano di chi lo invoca. Non è un caso che la presenza del santo è ben visibile in una casa, giacché la sua immagine è presente quasi in ogni stanza, su ogni parete (sia una foto, un dipinto, od un souvenir del suo santuario, oppure un calendario che ne narra i portenti o una piccola acquasantiera con la sua immagine, od anche un “abitino” simile a quello usato per la statua del santo od altro ancora).


            Solitamente si ritiene che la religiosità popolare comporti che il santo provveda a compiere miracoli straordinari. In realtà il devoto o la devota non si aspetta molto: basta anche ottenere semplicemente qualcosa che vada oltre le possibilità materiali del richiedente. E tutto quel che succede e succederà dopo la richiesta di “grazia” sarà interpretato alla luce della sola prospettiva religiosa, indipendentemente dal fatto che un intervento medico od un farmaco adeguato abbia prodotto l’esito desiderato. Insomma la realtà è letta ad un altro livello: Dio ed il santo operano in modo naturale, non fanno alcuno sforzo speciale per intervenire sulla realtà. Tutto è spiegato dunque in chiave religiosa.


            Peraltro non è tanto importante ottenere un miracolo quanto essere rassicurati e riappacificati con se stessi da parte del santo. Una benedizione, un intingere le dita nell’acqua santa ed il portare con sé un’immagine del santo in fondo non sono altro che una manifestazione di fiducia, un’attribuzione di credito alla figura del patrono implorato. Persino un esito negativo, nonostante le preghiere indirizzate al santo, può costituire un rafforzamento della fede verso il rappresentante celeste. In effetti la sanzione è valutata comunque quale prova di attenzione del santo e per di più suscita ulteriori rapporti, più saldi legami, finalizzati ad acquisire la benevolenza dall’alto.


            Né va dimenticato il carattere socio-integrativo della devozione: ci si sente parte di una comunità di fedeli, si condivide un’esperienza comune di parrocchia o di paese, si esterna agli altri il proprio bisogno materiale o spirituale, si mettono insieme le risorse per sollecitare l’attenzione del santo, dedicandogli celebrazioni, omaggi, offerte, atti devozionali, privazioni materiali, percorsi compiuti a piedi od in ginocchio, cappelline o nicchie (edicole) lungo le strade, statue e quadri che lo raffigurano (da porre in casa o nelle chiese).


            L’origine di tutto ciò è in genere un episodio eccezionale, più o meno fondato storicamente ma raccontato con ricchezza di dettagli per renderlo comunque vero od almeno verosimile. Di solito il contesto riferito è quello di una situazione critica, se non addirittura drammatica, che viene risolta dall’intervento straordinario del santo: di Gerardo Maiella, ad esempio, si raccontano vari episodi che i suoi devoti chiamano impropriamente “miracoli” e che sono rappresentati nel suo santuario.


            Sullo sfondo del legame tra il devoto ed il santo si staglia sempre la dimensione esistenziale del fedele che dalla nascita al matrimonio, dalla procreazione alla morte, attraversa di continuo fasi cruciali della sua vita, in pericolo o comunque non agevole in quanto ricca di imprevisti. A queste situazioni critiche si aggiungono sovente le condizioni materiali ovvero socio-economiche, non sempre floride o sufficienti. Appunto per questo la relazione con il santo diviene una sorta di palliativo sul piano emozionale. In pari tempo manca del tutto un inquadramento teologico-dottrinale di tipo confessionale che possa spiegare le situazioni vissute. E manca per di più un soddisfacente livello di consapevolezza critica che dia il giusto peso a persone e circostanze della vita. Per dirla con de Martino, il negativo viene destorificato, non se ne individuano le ragioni reali, ogni spiegazione è rinviata alla volontà superiore, della divinità e/o del santo. Così la mitologizzazione prevale sulla visione storica, l’impianto religioso espunge altre letture, il rito contribuisce a celare il tracciato reale dei fatti e delle loro conseguenze.


            Tali dinamiche non sono del tutto esenti da un mix con elementi magico-superstiziosi, dato che la contiguità fra le pratiche popolari di diversa natura non è facilmente risolvibile, onde poter giungere ad una “purificazione” totale quale quella desiderata dal magistero cattolico. Talune manifestazioni di religiosità popolare possono perciò apparire non certo ortodosse eppure non perdono, per tale ragione, la loro valenza di pratica religiosa consolidata, radicata nel tempo e pertanto legittimata dalla prassi della tradizione.


La presenza dei devoti nella rivista In cammino con San Gerardo


            Come si articola in particolare l’odierna religiosità popolare che ha come centro ispiratore il culto gerardino? I percorsi di studio praticabili possono essere vari ed intersecarsi fra loro. Tentativi in proposito non mancano[8]. Ma c’è un luogo indiziario particolarmente significativo che conviene compulsare per trarne qualche spunto interpretativo non usuale e scontato. Si tratta di uno strumento di comunicazione sempre più utilizzato ed enfatizzato, ancor più oggi grazie al networking telematico che consente anche ad un remoto simpatizzante del santo di Materdomini di collegarsi con la struttura editoriale e cultuale del santuario di Caposele, al limite dei Monti Picentini.


            In effetti la rubrica “La voce dei devoti” curata mensilmente da padre Luciano Panella, rettore del santuario di Materdomini, sulla rivista In cammino con San Gerardo, offre il destro per un’analisi che contempli insieme le istanze dei devoti e le risposte di un qualificato missionario redentorista. Il mensile si autodefinisce “di cultura e formazione cristiana”. E tale di fatto esso appare. Ma non è difficile immaginare che le pagine più lette siano quelle che rientrano sotto l’etichetta abbastanza ampia di “Echi dal Santuario”, che include non solo “La voce dei devoti” ma pure “Piazza Santuario”, “Cronaca del Santuario”, nonché “I nostri defunti”, “Sorrisi”, “Gli amici di San Gerardo”, “Fiori d’arancio”, “Storie di fede gerardina”, “San Gerardo nella vita quotidiana”, eccetera. Solitamente queste parti, non sempre tutte presenti e piuttosto discontinue, sono collocate quasi alla fine del giornale, ma non per questo appaiono di minor rilievo. D’altra parte la ricchezza stessa dell’apparato iconico, dato soprattutto dalla presenza di molte foto (fino a 14 tutte insieme, come nel numero di ottobre del 2004 a pagina 41), ne sottolinea il carattere segnatamente comunicativo ed attrattivo, con un forte appeal nei riguardi dei lettori, che così hanno poco da leggere e molto da guardare.


            Un’altra didascalia in forma di titolo, che si trova di solito sulla medesima pagina de “La voce dei devoti”, recita “Fatti, testimonianze e curiosità dei devoti di San Gerardo”, anche se talora la scelta dei messaggi sembra finalizzata piuttosto a dare informazioni sul santuario che non a ricevere istanze e sollecitazioni da parte dei fedeli. Naturalmente c’è anche da chiedersi quale sia la consistenza delle missive inviate dai devoti, in termini di numero e di frequenza nell’arco temporale di quattro settimane o di un intero anno. Per non dire delle ristrettezze, note e solite, che impediscono di pubblicare i testi delle lettere per intero e che comportano comunque una cernita di contenuti da parte di chi confeziona il prodotto giornalistico.


            Sia “La voce dei devoti” che “Fatti, testimonianze e curiosità dei devoti di San Gerardo” sono “pezzi” sempre presenti sul mensile. Invero non si nota una particolare differenza fra l’una e l’altra rubrica, se non nel fatto che nel primo caso vengono pubblicate lettere (o meglio brevi brani) di corrispondenti “gerardini” senza che vi sia alcuna replica da parte del giornale, che invece si ritrova nel secondo caso con l’interlocuzione di domande e risposte (affidate quest’ultime a padre Luciano Panella).


            Per avere un punto di riferimento sufficientemente preciso e relativamente diluito nel tempo si è pensato all’intera durata di un anno liturgico, in particolare dal mese di novembre a quello di ottobre dell’anno successivo e dunque dal 2003 al 2004. Sono undici numeri di In cammino con San Gerardo in quanto si deve tenere conto del fatto che in luglio ed agosto viene pubblicato un unico numero, per la concomitanza con le vacanze estive.


            Va detto che “La voce dei devoti” non occupa mai più di una pagina per ogni mese. Ma catalogare ed analizzare i vari items rintracciabili nella corrispondenza pubblicata su In cammino con San Gerardo non è agevole. La definizione di apposite categorie di analisi rischia di appiattire troppo i contenuti entro gabbie definitorie precostituite e d’altro canto può lasciare fuori alcuni aspetti rilevanti della devozione popolare che si esprime nei riguardi di san Maiella. Conviene dunque riferire – numero per numero del mensile – quali siano i temi affrontati, le richieste avanzate, le risposte fornite. In tal modo si ottiene una sorta di silloge che rende conto di quanto emerge nelle pagine prese in considerazione.


            L’universo in esame non è certo cospicuo dal punto di vista numerico e nondimeno appare sufficiente per suggerire talune riflessioni di merito, anche perché l’arco di tempo delle unità di analisi abbraccia un intero anno e dunque concede poco alla casualità della scelta ed alla contingenza dei vari momenti.


            Per quanto ininfluente ai fini dell’indagine, si intende seguire l’ordine cronologico, secondo la sequenza calendariale relativa alla data di pubblicazione dei singoli numeri della rivista, partendo dunque dal numero 11 del novembre 2003 e giungendo sino al numero 10 dell’ottobre 2004.


Un anno della rivista gerardina


            Nel numero 11 del 2003 si chiedono informazioni sulle messe “perpetue” per i defunti (una serie di 20 celebrazioni eucaristiche per ogni mese “in favore di tutti gli iscritti”), sull’episodio del fazzoletto di san Gerardo ritenuto portentoso, sulla dedica del santuario con la sua intitolazione di “Materdomini”. Altri ringraziano il santo o ricordano l’importanza di Muro Lucano come luogo natio di Gerardo. A 3 domande vengono fornite altrettante risposte, il tutto in forma assai breve. Nella rubrica “La voce dei devoti” invece non risultano risposte.


            Nel successivo numero di dicembre 2003 le domande restano 3 e ricevono altrettante repliche che hanno un carattere sostanzialmente informativo: su una grata deformata sita nel santuario, su un miracolo “gerardino” a Napoli con salvataggio di una barca in pericolo, sulle processioni di san Gerardo (quest’ultima risposta è data ad un lettore tedesco di Colonia). Sono invece 4 le missive senza replica, che provengono – tra l’altro – dalla Repubblica Slovacca (con una richiesta concernente la novena di san Gerardo), dal Brasile (e specificamente da un parroco che segnala un sito “gerardino”) e da Potenza (per manifestare l’intenzione di proseguire un’adozione a distanza).


            Il nuovo anno 2004 presenta ancora 3 lettere e relative risposte. La prima riguarda le immagini delle “Litanie Lauretane” pubblicate dal santuario, la seconda di provenienza argentina domanda l’invio di materiali religiosi e souvenirs, la terza attiene alla possibilità di celebrazioni nuziali nel santuario. Altre 2 lettere non ricevono risposta giacché sono essenzialmente dei ringraziamenti al santo.


            Nel febbraio 2004 sono ben 5 le corrispondenze de “La voce dei devoti”, di cui una da Buenos Aires ed una in forma di poesia dedicata al santo. Le altre sono dei ringraziamneti in forma varia. Da segnalare è soprattutto quanto scrive una lettrice, Gerardina, che si dice “molto triste” e che aggiunge: “un giorno vi racconterò la mia storia”. Le risposte alle 3 domande solite (tali almeno per il numero di quelle pubblicate) vanno dal consiglio di non includere denaro in busta alla chiarificazione sugli oggetti di argento posti nel santuario, che in realtà sono degli ex voto. Nel terzo caso è fornito un indirizzo elettronico per le adozioni a distanza.


            Si riducono a 2 le domande del marzo 2004. Un lettore di nome Gerardo si vuole informare in merito alla pubblicazione di una foto nella rubrica “I nostri defunti”, un altro chiede il perché dell’appellativo di “pazzerello” dato a san Gerardo. Sono invece 4 le lettere de “La voce dei devoti”, tutte dall’estero (dal Benin, dalla Germania e 2 dagli Stati Uniti): si invoca il santo per due gravidanze, si offre materiale religioso ai devoti di san Gerardo e si parla di una chiesa dedicata a st. Gerard Majella a New York.


            Sono ancora 2 le domande nel numero di aprile del 2004. Gerardina, una devota, vuol sapere delle cresime in agosto presso il santuario. Ad Andrea, portatore di handicap, si assicura che l’accesso al santuario è agevolato con rampe ed ascensori. Da Palermo e dalla Filippine scrivono rispettivamente per chiedere preghiere e per segnalare l’esistenza di un Centro San Gerardo di accoglienza e consulenza familiare.


            A maggio 2004 le lettere tornano ad essere 3. Si vuol sapere se dopo il terremoto esiste ancora l’antica soffitta dove il santo si sottoponeva a penitenza, se c’è un limite di età per diventare redentorista e se è possibile svolgere attività di volontariato presso il santuario. Per “La voce dei devoti”, oltre una poesia, vi sono 3 missive tutte riguardanti questioni di maternità, anche in relazione alla richiesta di ottenere per san Gerardo il titolo di “Patrono delle mamme e dei bambini”.


            Nessuna risposta è presente a pagina 31 della rivista datata giugno 2004. Come “Fatti, testimonianze e curiosità dei devoti di San Gerardo” sono pubblicate una lettera di una famiglia che si affida al santo e quella di una donna che spera di divenire madre. Ne “La voce dei devoti” si parla dapprima di un parto ormai prossimo e poi di un forte desiderio di gravidanza. Una terza richiesta è di preghiere, in particolare per una figlia, perché abbia sempre buoni sentimenti religiosi.


            Prima delle ferie estive esce il numero doppio 7/8 di luglio/agosto 2004, con un saluto di un devoto che è emigrato da Tropea, in provincia di Catanzaro, a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. Il resto della pagina delle corrispondenze è tutto dedicato a “La voce dei devoti”, che scrivono dagli Stati Uniti, da Nuoro e da Monaco. La prima lettera parla della protezione del santo per la nascita di un bambino, la seconda domanda preghiere perché venga esaudito il desiderio di avere un figlio, la terza racconta dell’ascolto frequente di Radio Maria.


            Alla ripresa autunnale, nel numero 9 di settembre 2004, c’è una sola domanda con relativa risposta: si chiedono preghiere e si suggerisce di inserire il commento al Vangelo per tutte le domeniche del mese. “La voce dei devoti” è dedicata a 4 brevi interventi. Nell’ordine, si ringrazia il santo (dall’Argentina), si affidano a san Gerardo le figlie (una delle quali è stata riconosciuta innocente dopo un’ingiusta accusa), si riconosce all’intercessione “gerardina” il bon esito di una gravidanza e si ringrazia per la guarigione di una bambina.


            Infine nell’ultimo numero della serie esaminata, quello dell’ottobre 2004, la posta dei lettori è ridotta ad appena 2 colonne (su 3 disponibili nella medesima pagina). A scrivere sono un salesiano dell’Uruguay (che parla di una cappella a san Gerardo nei pressi di Montevideo), un fedele di Sarno in provincia di Salerno (che apprezza il modo di conduzione del santuario) e, dal Benin, Seton Rita Adjagba (che ringrazia per un parto ben riuscito).


Conclusioni


            Prima di procedere con le considerazioni sociologiche sulla devozionalità che emerge dalla lettura delle corrispondenze dei lettori e con i lettori di In cammino con San Gerardo, è bene puntualizzare che una metodologia più corretta avrebbe dovuto comportare una analisi complessiva e dettagliata sull’intera collezione di lettere giunte al santuario nel dodici mesi scelti come campione indicativo. Si è dunque consapevoli di un tale limite di rappresentatività, rispetto al dato reale del flusso postale (sia cartaceo che elettronico). Nondimeno la disamina condotta fornisce indizi e suggestioni di non scarso momento.


            Innanzitutto si nota una forte presenza del livello di riconoscenza che intercorre fra i devoti ed il santo. I ringraziamenti sono una costante che difficilmente manca. Ma vengono evidenziati quelli che maggiormente rispondono a certi requisiti o meglio a certe peculiarità taumaturgiche del santo. In altri termini più di frequente i fedeli sembrano gratificati da san Gerardo perché li ha aiutati per una gravidanza difficile, per un parto desiderato, per un figlio nato. Non a caso è l’elemento femminile ad essere dominantemente presente in simili frangenti. Tale emergenza della datità neonatale risponde perfettamente alle istanze che anche la congregazione redentorista sembra favorire, quella cioè di far sì che il Maiella sia proclamato protettore delle mamme e dei bimbi.


            Una simile evidenza ben si coniuga con la narrazione tradizionale che fa di san Gerardo un fervido appassionato della figura del Cristo nella sua fattispecie di bambino di Betlemme, appunto Gesù Bambino. Già si è detto che in questo il Maiella segue da presso un input (come si direbbe oggi) che gli viene da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, anch’egli aficionado del divino fanciullo nato in Palestina. Insomma il “nativitismo” di Gerardo che contempla, venera ed adora la diade Madre/Figlio costituirebbe di fatto il fondamento che mira a legittimare il suo patronato sulle mamme e sulla loro prole.


            Si colloca entro la medesima prospettiva pure la diffusione delle adozioni a distanza, in quanto rappresentano una metafora del rapporto genitoriale/filiale quale si riscontra in Maria e nel suo figlio-Dio.


            Non è difficile scorgere nel taglio degli interventi di risposta ai lettori della rivista mensile un chiaro modello didascalico, catechetico quasi, che mira ad ammaestrare, ad illuminare, ad istruire sulla base del modello esistenziale “gerardino”. A tale scopo torna più volte il racconto della biografia di Gerardo, ricca di episodi in apparenza inspiegabili eppure semplici nel loro svolgimento concreto. Da qui deriva la “mitologizzazione” che fa del santo lucano un prediletto dall’alto, come manifestato esplicitamente dalle numerose apparizioni di Gesù Bambino, che lo avrebbe onorato del suo discorrere con lui.


            A ben considerare quanto emerso, nel mensile, dai testi epistolari a contenuto devozionale, quasi nulla sembra scaturire in merito all’aiuto prestato dal Maiella ai poveri, agli emarginati, ai diseredati. Questo tratto risulta in subordine, se non anche del tutto trascurato. Non ne parlerebbero i lettori del mensile, ma neppure chi è addetto alle risposte si premura di richiamare alla memoria tale contenuto specifico dell’azione terrena del santo.


            Quello che viene enfatizzato è ben altro: la connotazione internazionale del culto per san Gerardo, insieme con la qualità del santuario e della sua capacità di accoglienza. Anche nel riprendere gli episodi della vita “gerardina” non vengono preferiti quelli che riguardano le sue opere di carità, bensi azioni di carattere miracolistico o considerate tali (in modo allusivo).


            Più che nelle risposte ai devoti, si ha la percezione che l’intento reale di chi interloquisce con loro sia impegnato nelle esigenze informative e “pubblicitarie” del santuario e delle attività ad esso connesse. Lo stesso rinvio ad Internet ed alle sue molteplici potenzialità d’uso altro non è che una modalità aggiornata ed efficace di promozione religioso-cultuale-culturale. Ed anche in questo contesto prevalgono attenzioni di tipo operativo rispetto ad altre di matrice più spirituale: come nel caso dell’invito a non porre denaro nelle buste da spedire per via postale.


            Il format del colloquio con i lettori si presenta abbastanza standardizzato, poco mutevole. Tutto rientra in una norma implicita di base e di fondo. Insomma il tono e l’atmosfera complessiva della pagina dedicata ai devoti sembrano più a servizio del santuario che non degli interlocutori postali e/o informatici. Qualche incidente di percorso (titoli non corrispondenti ai contenuti e testi ripetuti o comunque ripetitivi nella sostanza) non aiuta certo a sgombrare il campo da dubbi e perplessità sulla conduzione delle rubriche esaminate.


            Sia pure nel breve torno di un anno un’attenta lettura comporta la constatazione di una certa staticità sia di forme che di contenuti. I temi sono ricorrenti, qualche volta prevedibili e scontati. Alcune note informative paiono prefabbricate e comunque quasi cucite addosso al lettore interpellante. Una diversa collocazione, magari formalizzata a mo’ di annuncio di date ed orari, ridarebbe respiro al dialogo tra i religiosi del santuario ed i devoti di san Gerardo, mettendo probabilmente in evidenza più articolati dinamismi di religiosità popolare “gerardina”.


            Un altro aspetto non trascurabile è che sia data voce a più di un religioso come interlocutore privilegiato, in una rubrica che di per sé si qualificherebbe come meno “intra-istituzionale”. In realtà il discorso rimane fra addetti ai lavori, escludendo di fatto i laici quali protagonisti principali dell’esperienza devozionale popolare.


            Sul piano tecnico non è chiaro poi se le lettere arrivino alla redazione in forma epistolare cartacea (con busta ed indirizzo postale) oppure informatica (attraverso computer, mediante l’uso di indirizzi contenenti il simbolo @). L’una e/o l’altra soluzione già da sole costituirebbero un indicatore di prim’ordine per l’analisi sociologica. In linea ipotetica si può presumere che i messaggi più numerosi siano quelli inviati in modo tradizionale (con busta affrancata).


            Ma un punto resta fermo: l’andamento registrato nel periodo dal novembre 2003 all’ottobre 2004 porta sostanzialmente ad una saturazione di problematiche e di notizie, di temi ed avvisi. Si riesce difficilmente ad immaginare qualcosa di diverso nei mesi successivi. Una conferma in tal senso viene “navigando” sul sito web (www.sangerardo.it) che ricalca da vicino l’impostazione della rivista mensile, salvo qualche dettaglio tecnico, di per sé innovativo. In realtà il sito web non pretende essere un luogo di confronto con i suoi utenti-visitatori. Rimane una sorta di interfaccia facilmente accessibile ad un pubblico piuttosto ampio e non necessariamente devoto, magari solo curioso.


            Forse però un segnale diverso giunge da una più verosimile ed affidabile rubrica con i lettori, quella tenuta mensilmente da padre Fiore (padrefiore@sangerardo.it). In tal caso il discorso è di carattere più generale e dunque meno “gerardino” nei contenuti. Domande e risposte hanno uno spazio maggiore, anche se non adeguato alla difficoltà delle problematiche trattate. L’orizzonte prospettato appare ben più ampio.


            Se si fa un confronto diretto nel numero di maggio del 2005, “La voce dei devoti” risulta curata in modo anonimo; difatti i messaggi vengono inviati genericamente a santuario@sangerardo.it. Inoltre su 5 testi pubblicati ben quattro sono firmati da religiosi. Se ne potrebbe desumere – stando ancorati al dato che appare in calce alle lettere – che i devoti siano quasi solo dei religiosi, magari redentoristi. E che pensare infine quando poi si constata – nel numero di giugno del 2005 – che “La voce dei devoti” non è più presente?


            Ma la devozione “gerardina” di oggi come di ieri non è probabilmente tutta qui.



[1] Cfr. la sua opera in cinque volumi dal titolo Storia della Chiesa di Napoli provata con monumenti (edita a Napoli nel 1861, presso lo Stabilimento Tipografico sito in Strada Banchi-nuovi, 13), pag. 611.


[2] Cfr. specialmente il capitolo su “Spiritualità e sensibilità” nel volume Sensibilità e razionalità nel Settecento, pubblicato a Firenze nel 1967.


[3] Cfr. il saggio “La spiritualità nel Settecento italiano”, che si legge nel numero 27, pp. 68-83, e nel numero 28, pp. 88-98, di Scuola e cultura del 1968.


[4] Il saggio è stato pubblicato a Firenze nel 1944.


[5] L’opera è stata pubblicata a Roma in tre volumi tra il 1962 ed il 1968.


[6]  Cfr. fra l’altro “Gerardo Maiella e la religiosità popolare del suo tempo”, Specilegium Historicum, XLII, fascicolo I, 1994, pp. 65-88.


[7] Cfr. Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino, 1976.


[8] Cfr. Luigi Martella, Pellegrini a San Gerardo. Ricerca socio-antropologica, Valsele Tipografica, Napoli, 1984, pp. 284.

SOCIOLOGIA E RELIGIONE IN FRANCO FERRAROTTI

Roberto Cipriani


Premessa


            Dell’opera di Franco Ferrarotti come sociologo anche della religione già si è detto in altra sede ed in misura adeguata (Cipriani 1997: 210-213). Qui si intende seguire un altro percorso, più a carattere cronobiografico, per ricostruire l’approccio del sociologo di Robella, luogo originario della sua famiglia, non lontano da Trino e da Palazzolo Vercellese, e dunque neppure dal Po, che però viene quasi del tutto obliterato, in quanto raramente menzionato dal Nostro. Il che fa supporre che in effetti la sua infanzia ed adolescenza siano trascorse in ambiti piuttosto ristretti e restrittivi, comunque tali da non consentirgli una certa mobilità territoriale: eppure il gran fiume era lì a due passi dalla cascina in cui egli era nato, presso Palazzolo e Trino.


            In fondo però Ferrarotti si compiace di dirsi oriundo di Robella, perché questo gli consente di legittimare ancor più la sua nomea di spirito indipendente, autonomo, ribelle appunto come Robella, forse così chiamata perché si era rivoltata contro il marchese di Monferrato.


            Gli anni iniziali della sua esistenza sono stati caratterizzati da malattie polmonari, poche compagnie (solo scolastiche), intense letture, ma anche da occasioni straordinarie di conoscenze ed approfondimenti, riconducibili ai testi reperiti presso la biblioteca parrocchiale ed al lascito del parroco di La Saletta (vicino Robella) per far condurre studi in seminario. Così Ferrarotti frequentò il ginnasio seminariale a Moncrivello (ad una trentina di chilometri da Trino), seguito con cura dal cugino monsignor Leopoldo, canonico a Vercelli e poi protonotario apostolico soprannumerario. Un altro canonico vercellese, il cugino monsignor Pietro Ferrarotti , era un eminente cultore di lingue classiche, per cui vari libri antichi erano messi a disposizione del suo giovanissimo parente, lettore avido ed indefesso.


            Con tutte queste frequentazioni di persone e libri, in un’età che dà una sorta di imprinting,non poteva mancare più di un semplice riverbero di quanto conosciuto ed appreso.


Dalla religione alla sociologia e ritorno


            Ferrarotti sembra giungere tardi ad interessarsi del fenomeno religioso, con la sua nota trilogia sul sacro (1983a, 1983b, 1990). Ma in realtà le cose non stanno così, come egli stesso precisa: “Molti pensano che questa sia una cosa degli ultimi tempi, ma ho pubblicato un lungo saggio in un volume curato da due antropologi Callari Galli e Gualtiero Harrison e da uno storico, Paolo Brezzi. Ho scritto il primo articolo: La sociologia di fronte al fenomeno religioso pubblicato da Feltrinelli, nel 1996” (Tognonato 2003: 43). In realtà un primo saggio con il medesimo titolo era già nel volume del 1974 dal titolo Sociologia del fenomeno religioso (Ferrarotti, Cipriani 1974: 15-77). A dire il vero è più probabile che la data riportata nel testo citato non sia corretta, in quanto il contributo pubblicato da Feltrinelli risale non al 1996 ma al 1966, si trova all’interno di un’opera collettanea, Culturologia del sacro e del profano, curata da Gualtiero Harrison (1966), ed ha come titolo Durkheim e Max Weber di fronte al fenomeno religioso, poi ripreso nella parte ferrarottiana dell’altro volume sopra citato, di cui sono coautore.Non solo. Ancor prima della trilogia già richiamata all’inizio di questo paragrafo, Ferrarotti insieme con altri aveva pubblicato due volumi di Studi sulla produzione sociale del sacro: il primocon il titolo Forme del sacro in un’epoca di crisi (Ferrarotti et alii 1978) ed il secondo con un’intitolazione più ampia, Forme evolutive dei valori nel quadro della mobilità odierna di grandi gruppi umani (Ferrarotti 1982).


            Per ulteriore chiarezza Ferrarotti aggiunge: “Ho delle idee che sono quasi dei pregiudizi ormai, anche se sono pronto a cambiarle. Per me il sacro è ineffabile, il sacro è l’indicibile, non se ne può parlare, per me il sacro è semplicemente un punto d’appoggio extra-logico, meta-utilitario, che si sottrae alle leggi del mercato e che quindi ci dà la possibilità di valutare, vedere, riflettere sulla società che crediamo di conoscere. Perché quella in cui noi viviamo non lo è, è la giungla, il fenomeno hobbesiano. Invece la religione è il braccio amministrativo del sacro che può essere di due modi: o aperta, un’amministrazione un po’ per tutti, ecumenica – per esempio Giovanni XXIII – oppure invece può essere una amministrazione monopolistica del sacro ai fini di costruire una struttura ierocratica di potere che abbia il controllo di legare e slegare e decidere chi si salverà e chi no. In fondo, una volta di più abbiamo – e mi riferisco alle cinque grandi religioni storiche – il pericolo o l’occasione di mercificare anche il sacro, attraverso il monopolio. Proprio come un’impresa commerciale che col suo brevetto blocca il prodotto” (Tognonato 2003: 43). Al di là di questo c’è l’idea di una “religione perenne”, più volte propugnata da Ferrarotti, come quando afferma la necessità di “una sintesi delle convergenze di tutte le religioni storiche per assicurare il sacro rispetto al pericolo di venire monopolizzato” (Tognonato 2003: 43). Viene pure indicata una strada da percorrere: “il compito è immane ma mi piacerebbe prendere il concetto di caduta, di salvezza, il concetto di redenzione, il concetto di giustizia, il concetto di conversione. Sono alcuni momenti che tornano in tutte le religioni, tornano nell’islamismo, come nel cristianesimo, come nel giudaismo. Naturalmente qui il lavoro è enorme, bisognerebbe un lavoro anche di filologi, esegeti, quello che Tertulliano nel De testimonio animae dice che è in fondo all’anima, anche nelle persone non cristiane. Vi sono dei lumi, vi sono delle idee che sono cristiane, che sono in fondo di portata universale. C’è questo lógos spermaticós che gira ovunque e quello è l’unico modo di uscire dal monopolio esercitato sul sacro da parte delle religioni che si dividono il mondo” (Tognonato 2003: 44). Si era nel luglio del 1990 e Ferrarotti mostrava di apprezzare l’esperienza fatta ad Assisi da Giovanni Paolo II insieme con esponenti di altre religioni ma ne metteva in dubbio gli esiti temendo, guardando all’attivismo del pontefice, la “enorme sproporzione tra l’attività direi proprio materiale e turistica e l’elaborazione dottrinaria profonda” (Tognonato 2003: 44).


            Da queste riflessioni emerge una peculiare attenzione alle forme del sacro, tema per lui presente sin dall’infanzia: “Il sacro in primo luogo come esperienza fondamentale, personale, è stata per me la percezione di un tempo fuori dal tempo. Una dimensione di attonita stupefazione di fronte all’armonia, che poi mi è tornata, per esempio, in certe sere anche al mare, quando in sostanza tutto tace, il mondo non c’è più, c’è solo il rumore di qualche motocicletta che passa  sullo stradone lontano e c’è questa presenza del sacro come silenzio, il sacro come zona d’ombra, il sacro come presenza d’un assente. Quindi, bisogno anche della solitudine a cui io mi sono fin da giovane abituato, e che mi è sempre piaciuto molto. Il mio ideale di vita sarebbe quello dell’eremita” (Tognonato 2003: 45). L’apprezzamento per il sacro non si limita a questo giacché “proprio il sacro, in quanto si sottrae alla legge del mercato, indica un valore trascendente che resta ed è alla base, offre la base per l’autovalutazione del momento storico” (Tognonato 2003: 41).


La critica sociologica della religione


            Sin dai primi numeri della sua rivista La Critica Sociologica Ferrarotti ha tempestivamente colto il destro per dire la sua, magari ironizzando su un convegno internazionale di teologi e sociologi della religione (Morte di Dio in alberghi di lusso:Ferrarotti 1969) o più in particolare sulla situazione italiana (Diciannove milioni di italiani sospesi a divinis: Ferrarotti 1974) ed europea in prospettiva internazionale (Fine o metamorfosi del cristianesimo costantiniano?:Ferrarotti 1989) o su tematiche teoriche di ordine più generale (Religione e rapporti sociali in K. Marx: Ferrarotti 1983c). Queste ultime poi ritornano a più riprese nei vari saggi dedicati da Ferrarotti (1985) al pensiero dei classici.


            Non sono mancate poi le occasioni per esprimere opinioni e fornire interpretazioni soprattutto sullo specifico della fenomenologia religiosa italiana, con in primo luogo il ruolo del papato per la sua influenza diretta sulla politica interna del nostro paese. Fra le numerose interviste rilasciate vanno segnalate quella realizzata da Maurizio Ortolani (1990), sul volume Una fede senza dogmi (allora appena uscito presso Laterza), e quella relativa all’indagine realizzata dall’ISPES, per conto dei periodici Famiglia Cristiana e Jesus (Ferrarotti 1991).


            La lettura che Ferrarotti propone della chiesa cattolica è coerente nel corso dei decenni e fa perno su una sua idea della “fisiologia della chiesa. Lo sviluppo della chiesa come struttura di potere segue una linea sinusoidale, vale a dire una costante fluttuazione che la porta ad oscillare fra una coraggiosa posizione ecumenica alla Giovanni XXIII e il tradizionalismo dogmatico e militante di un Giovanni Paolo II, passando attraverso il filtro, teologicamente e intellettualmente molto raffinato, di un Paolo VI. È questa capacità di oscillazione che garantisce alla chiesa la sua longevità, la sua straordinaria ‘resistenza’ istituzionale e la sua apparentemente inesauribile capacità di rinnovamento interno” (Ferrarotti 1982: 19).


            Nell’intervista pubblicata da Ortolani (1990: 11) sul Giornale d’Italia emergono poi chiaramente alcune considerazioni di Ferrarotti sulla religione e sul disorientamento etico : “Il disorientamento ha origine dal venir meno dei punti di riferimento contro i quali le società tradizionali misuravano e giudicavano se stesse. Le società dinamiche odierne hanno la presunzione di esprimere da se stesse, dal proprio interno i propri valori. Sono società immanenti che ritengono di poter fare a meno di qualsiasi trascendenza. Ma per questa via è inevitabile che finiscano, come il viaggiatore di Marco Aurelio, di dimenticare lo scopo del viaggio lungo la strada. Di qui il disorientamento, il disagio esistenziale e sociale, il senso acuto di una fretta che è tanto urgente quanto priva di ragioni”. Inoltre “una società odierna, dinamica e tecnicamente progredita, […] ha bisogno di un insieme di esperienze e di valori condivisi e convissuti. Le società tradizionali mutuavano questi valori dai testi sacri; le società odierne li ricercano nel frutto di quella consapevolezza sociale media che mi piace chiamare ‘religione laica’ o ‘religione civile’ ”. Risulta qui evidente il costante dilemma del nostro autore sempre in bilico fra l’attenzione se non l’ammirazione per i principi di una religione come quella cristiana ed il profondo disagio che egli prova dinanzi al concreto operare degli uomini di chiesa. E tuttavia non sembra esserci via di uscita, se non in una specie di dimensione laica o civile della religione, appunto la fede senza dogmi e la teologia per atei. Intanto egli porta avanti la pars destruens ed infatti se la prende con papa Wojtyla, “perché anche un Papa attivo e viaggiatore come il presente, è pur sempre un uomo del suo tempo, figlio della sua tradizione antropologica e culturale. Non fa dunque meraviglia che un Papa venuto dalle trincee, cresciuto in una Chiesa militante come quella polacca, abbia tutte le virtù, ma anche le chiusure e i limiti della sua matrice storica, sociale e culturale”. Ma, sistemato il conto aperto con la necessità di esprimere a pieno il suo spirito critico nei riguardi del pontefice polacco, Ferrarotti pur rimanendo su posizioni di non allineamento mostra una singolare sensibilità al tema della preghiera, che gli offre lo spunto per avanzare altre osservazioni, senza trascurare un invito a cercare soluzioni più concretamente ed espressivamente ecumeniche. Infatti soggiunge che “la preghiera, a mio parere, è l’atto religioso per eccellenza ed è un peccato che nel raduno interreligioso di Assisi ogni gruppo religioso abbia pregato per conto suo. Per me la preghiera ecumenica dovrebbe esprimere la fondamentale convergenza dei valori positividelle cinque grandi religioni universali (giudaismo, cristianesimo, islamismo, induismo e buddismo). Detto altrimenti la preghiera ecumenica è un atto di riconoscimento e accettazione dell’altro e del diverso e fra i suoi precedenti importanti richiamerei in primo luogo la virtù di certi illuministi, a torto ritenuti irreligiosi, che si rassume nella predicazione e ancor più nella pratica della tolleranza”. Dunque la preghiera sembrerebbe la formula vincente per una pratica effettiva dell’ecumenismo. In tal modo invero Ferrarotti non fa altro che considerare con somma attenzione un dato ormai da molti anni noto ai sociologi della religione più attenti ai dati empirici che alle preoccupazioni confessionali ed istituzionali. Orbene è un risultato costante quello che vede molta più gente dedicarsi alla pratica della preghiera che non a quella della partecipazione settimanale ai riti. Ecco quindi che la preghiera non solo è un’esperienza abbastanza diffusa e quotidiana ma rende più condivisibili alcuni punti di vista che di per sé non parrebbero convergenti. Ed allora i vecchi illuministi della “religione civile” e quelli contemporanei della fede adogmatica e della teologia atea paiono marciare lungo la medesima direttrice, che un tempo si definiva di tolleranza e che oggi si presenta come accoglienza e disponibilità. In tal senso la lezione ferrarottiana è insieme sociologica, perché si fonda sull’accertamento empirico, ma anche non del tutto areligiosa nella misura in cui condivide ansie e preoccupazioni per la tenuta dei rapporti sociali, ivi compresi quelli che passano attraverso le forme e le formule religiose (siano esse dichiarazioni di fede o semplici invocazioni).


            Ancor più illuminante, se possibile, è un altro intervento ferrarottiano pubblicato su La Critica Sociologica (Ferrarotti 1989). Si parla di un “cristianesimo costantiniano”. La contrapposizione instaurata è tra la curia vaticana e la teologia della liberazione. Si sottolinea il carattere restauratore del pontificato wojtyliano. E si segnala il crescere di una centralizzazione del potere all’interno della chiesa cattolica: “la Curia romana, la cui nuova costituzione è stata prolungata [sic!] con la Pastor bonus, ha chiaramente stabilito che ogni documento della Santa Sede abbia l’avallo dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede. Il trionfo di Mons. Joseph Ratzinger sembra consolidarsi forse al di là delle sue stesse speranze. L’uomo che a suo tempo era stato tra i fondatori della rivista Concilium, la rivista internazionale dei teologi progressisti, e che nel 1965 si dichiara nettamente contrario alla chiusura della Chiesa ‘nell’angusto ghetto di un’ortodossia che non sospetta neppure la sua sterilità e che in ogni caso si rende tanto più inefficace quanto più testardamente esercita il suo compito’ – e ancora ‘che non è fuggendo il mondo che si può rinnovare la Chiesa; il tentativo è già naufragato con lo zelante Paolo IV, che volle sospendere il Concilio di Trento per rinnovare la Chiesa con il fanatismo dello zelota’, passato alla rivista Communio, dieci anni dopo il Concilio, lancia da Monaco quello che si potrebbe considerare a ragione il manifesto della restaurazione: ‘Una reale riforma della Chiesa presuppone un abbandono inequivocabile delle vie sbagliate che nel frattempo hanno portato a conseguenze catastrofiche. Bisogna separare lo spirito del Concilio, vale a dire il Concilio vissuto nella sua essenza spirituale e teologica, dall’Antispirito’ ”(Ferrarotti 1989: 36). L’Antispirito ha a che vedere con la materia, con il quotidiano, con la realtà effettiva, interpreta Ferrarotti, il quale in proposito scrive che “il neo-integralismo viene a confermarci che lo spirito del Concilio Vaticano II ha ceduto al Vaticano costantiniano di sempre” (Ferrarotti 1989: 37). Riprendendo e parafrasando Ratzinger, la conclusione di Ferrarotti è che “la sterile purezza dell’ortodossia sarebbe solo l’anticamera del deserto spirituale e dell’irrilevanza storica” (Ferrarotti 1989: 46). Parole assai dure, queste ultime, ma che inducono a riflessioni e letture sociologiche non superficiali, anche perché provengono da un laico non insensibile al richiamo universalistico di alcune idee presenti nelle religioni più diffuse.


Una polemica a distanza…ravvicinata


            La diatriba con Ferrarotti sul tema del sacro, della religione e della metodologia sociologica ha connotato almeno un paio di decenni dei rapporti, un po’ ad elastico, da me costantemente mantenuti con lui, senza pentimento alcuno e nonostante varie vicissitudini. Il fatto è che al promoter della ripresa sociologica in Italia devo anch’io gran parte dei miei percorsi di studio, che tentano di svilupparne gli inputs, le suggestioni più intriganti. Questo è vero sia per l’approccio biografico nel campo della ricerca sociologica sia per il rispetto che ho sempre apprezzato in Ferrarotti per i miei interessi di indagine empirica applicata al fenomeno religioso. In altri contesti accademici e con altri soggetti universitari né l’una né l’altra mia propensione avrebbe trovato facile cittadinanza. E di ciò si deve essere grati. Tuttavia non sono mancati momenti di contrapposizione accentuata, dovuta anche alla crescita ed alla maturazione di persone e gruppi che poi hanno fatto le loro scelte più o meno autonome. Proprio la costituzione di un’équipe scientifica, in realtà piuttosto estemporanea (come ha dimostrato la storia individuale di ognuno dei suoi componenti), diede luogo venticinque anni fa ad un confronto piuttosto vivace. L’occasione fu data dalla presentazione di un testo collettivo sotto l’etichetta di Groupe de l’Institut de Sociologie, Università de Rome, con il titolo “Histoires de vie et groupes primaires: une méthodologie pour l’analyse du phénomène religieux”, inserito negli atti pre-conferenza della sedicesima Conférence Internationale de Sociologie des Religions, da tenersi a Losanna nell’estate del 1981. Ferrarotti ebbe modo di ricevere tale pubblicazione e scrisse, indirizzandola a me e per conoscenza ai “sigg.” E. Campelli, R. Cavallaro, E. Pozzi (ma non all’antropologo culturale Vincenzo Padiglione, co-autore del testo in discussione), la seguente lettera, datata Roma, 31 luglio 1981: “Caro Cipriani, Voglia scusarmi se con tanto ritardo rispondo al Suo invio della copia del rapporto per Losanna. Le condizioni di studio e di ricerca in cui verso solo ora cominciano a darmi qualche margine per riflessioni non strettamente legate a progetti specifici. In breve, e con la dovuta chiarezza, riassumo in pochi punti le mie reazioni al Suo rapporto: 1) noto con un certo grado di sorpresa che l’impostazione del rapporto, dal punto di vista concettuale, non tiene alcun conto dell’apparato teorico-concettuale delineato, or sono alcuni anni, nel saggio introduttivo a Forme del sacro in un’epoca di crisi (1979). Può darsi che quell’apparato meriti di venire dismesso, ma, a giudicare dalle reazioni ottenute dalla sua pubblicazione in Social Research, andava comunque citato e debitamente criticato. Forse, da una tale critica, categorie come “secolarizzazione”, “eclissi del sacro”, “ripresa del sacro”, “revival del religioso”, ecc. avrebbero mostrato tutta la loro natura acritica e meramente strumentale. Ancor più utile, dal punto di vista dell’impostazione, sarebbe stato il riferimento al mio concetto di “etica religiosa come tecnica di convivenza”, che, come Ella sa, è reperibile nel mio testo apparso nel volume collettaneo La culturologia del sacro e del profano (1966!). 2) Concettualmente, il rapporto mi appare singolarmente indebolito dalla caratteristica confusione tra paleo-positivismo e positivismo. Confondere le due posizioni è grave. È per me sgradevole doverla rinviare ad un mio vecchio testo, uscito nel primo numero dei Quaderni di sociologia (1951; ristampato nel 1955 e nel 1973): “Dato pragmatico e dato problematico”. Se mi permetto di richiamarlo è perché nutro rispetto non solo per la sua capacità di riflessione filosofica in senso pieno, ma anche per il suo scrupolo filologico. 3) Di qui, da questa confusione, deriva l’ineliminabile caduta nello psicologismo. L’istanza critica contro questo esito credo che sia un leit motiv di tutta la mia produzione (stampata e parlata) degli ultimi vent’anni. Ma, se Le servisse, La potrei rinviare a La sociologia come partecipazione, 1961 (per non citare poi, sul piano giornalistico più immediato e meno rilevante tutta la mia polemica contro i “neo-eraclitei” e le loro estemporanee divagazioni, che vedo riprese nel rapporto, sullo statu nascenti e via discorrendo; va da sé che da anni emerge da tale critica, sul piano della ricerca, l’idea del “gruppo primario” come tema d’indagine invece dell’individuo monadico; una recente applicazione l’ho sperimentata – ma fin dal 1970! – a proposito di Oscar Lewis). 4) Attualmente – ma da oltre tre anni – lavoro sulla “griglia metodologica”, di cui ho parlato diffusamente con Lei e con i due studenti da Lei accompagnati, senza peraltro averne, a tutt’oggi, alcun feed-back. In sintesi: il “fatto” (positivistico, duro fait social alla Durkheim) com’è configurato al livello macro-sistemico; quindi al livello della “comunità strutturata” (sub-sistema nel linguaggio di Parsons); quindi, com’è vissuto sul piano del “gruppo primario” e psicologico-individuale (sempre in senso non “monadico” bensì interattivo), “interazione dialettica non mistificata”. È da questo quarto punto, voglio dire al livello critico cui questo punto tende, che sarà dato cominciare a sviluppare un concetto di “dialettica relazionale”, che rompa con il Diamat ortodosso e nello stesso tempo travalichi i limiti della sociologia “formalistica” (nel caso migliore: simmeliana). Ma per questo, com’è ovvio, occorre teoricamente fondare un nuovo concetto di “storicità” – fondazione che non può certo dirsi assicurata dalle piccole polemiche accademiche di oggi sulle varie “storie” (dal basso, orale, psico-, ecc.). È appena necessario che Le dica, concludendo questa lettera già troppo lunga, che sarò lieto di intrattenermi con Lei e con i colleghi, come per il passato, ma non per dar corso, com’è avvenuto, ad un mio monologo, bensì solo se ci sarà un effettivo scambio, un feed-back creativo, quale spesso ho avuto in centri di studio anche stranieri. Sul piano pratico, La prego di voler cancellare dal Suo rapporto qualsiasi accenno ai miei lavori. Nella redazione presente, l’accenno mi pare riduttivo e testimonia, del resto, un fraintendimento grave della mia posizione, sia teorica che di ricerca – fraintendimento di cui non potrei non tener conto in avvenire. Un cordiale saluto. Franco Ferrarotti”.


            Alla lettera del Maestro non ho mai risposto per iscritto, nonostante avessi in effetti preparato una sofferta replica che cercava di superare il fraintendimento occorso, dovuto probabilmente anche a fattori legati a rapporti interindividuali del momento. Per una migliore comprensione dei fatti e per cercare di dipanare la complessa vicenda teorico-metodologica, ed altresì interpersonale, può risultare utile riportare qui di seguito la risposta, datata 3 agosto 1981 (appena tre giorni dopo) e mai fatta pervenire al destinatario: “Al Prof. Franco Ferrarotti, sede. Professore carissimo, ho appena letto la Sua lettera del 31 u. s., di cui debbo senz’altro ringraziarLa per aver voluto dedicare sì ampio spazio ed impegno nell’affrontare quelle tematiche che ormai da anni andiamo discutendo all’interno della cattedra. Purtroppo per una serie di circostanze il confronto scientifico viene ad essere rinviato. È questa un’ulteriore ragione per apprezzare la Sua lettera che chiede una verifica da farsi in termini espliciti e chiarendo i presupposti teorici del nostro lavoro. In  verità mi ripromettevo di affrontare la questione con una relazione scritta in occasione del convegno di novembre sulle storie di vita. Ma forse ancor prima di questa occasione avremo modo di riesaminare quelle che sono le nostre linee di ricerca. Il che significa che quanto prima Le farò avere un testo scritto sulla cui base voglio sperare sarà possibile discutere. Quanto al merito della lettera, preciso che il saggio introduttivo a “Forme del sacro” è stato da me utilizzato, dopo attenta lettura e relative annotazioni, già nel paper presentato all’Euro-Arab Social Research Group. Anzi l’uso acritico di talune categorie è stato proprio il filo conduttore del mio discorso. Per quanto concerne poi il saggio su “La culturologia del sacro e del profano” non posso non tenerne conto, anche perché esso è ripreso nel volume “Sociologia del fenomeno religioso”, di cui sono coautore con Lei. Sul secondo punto, relativo alla confusione fra paleo-positivismo e positivismo, posso anche essere d’accordo con Lei pur non cogliendo immediatamente il senso dell’obiezione ed il riferimento testuale. Ad ogni modo, per questo aspetto come per quello successivo del taglio psicologistico conseguente, può essere che talune sottolineature o sfumature diano luogo ad equivoci. Peraltro – e questo lo sanno bene tutti i firmatari del rapporto, me compreso – è difficile essere d’accordo in più persone su un unico scritto. Del resto già dopo il convegno dei sociologi della religione ci siamo accorti di alcune forzature e di alcuni aspetti da rivedere. Non posso infine non essere d’accordo con Lei sulla griglia metodologica che propone, proprio per evitare cadute di vario genere. Ma, mi creda, se anche non definita negli stessi termini la linea d’analisi che seguiamo non è affatto distante da tale Sua proposta, nonostante le apparenze. Come vede (ma forse sarà opportuno un incontro più disteso e senza la fretta di questa mia lettera) si tratta finalmente di avere un effettivo scambio, al di là delle eventuali divergenze, pur utili, come Lei ha scritto di recente. Mi spiace di non poterLa incontrare subito anche per rendere più esplicite alcune mie posizioni metodologiche. Credo comunque che del tutto riparleremo con maggior profitto al più presto. Con tutta la mia cordialità. Roberto Cipriani. P. S.: Gli atti delle Conferenze Internazionali di Sociologia della Religione vengono stampati già due-tre mesi prima del convegno”.


            I chiarimenti successivi non sono mancati ed anzi il dialogo è proseguito quasi su binari paralleli, perché in pratica la fenomenologia religiosa e la metodologia biografica sono poi stati oggetti di ulteriori approfondimenti, che sono andati ben al di là del primo tentativo (Campelli et alii 1981) al centro della disputa epistolare. Qualche tempo dopo Ferrarotti avrebbe dato inizio alla pubblicazione della sua trilogia sul sacro (Ferrarotti 1983a, 1983b, 1990) ed io gli avrei dedicato la terza edizione del mio lavoro sulla metodologia delle storie di vita (Cipriani 1987, 1992, 1995).


Conclusione


            C’è segnatamente una scelta ferrarottiana che rappresenta più di un indizio sul suo modo di concepire la religione: è il suo interesse per la figura di Simone Weil. Il suo definirla Pellegrina dell’assoluto (Ferrarotti 1996) corrisponde a “la natura ardente, assetata di certezze trascendenti e nello stesso tempo la grande capacità di analisi realistica di Simone Weil” (Ferrarotti 1996: 5). Non a caso Ferrarotti riconduce l’esperienza “forsennata” della Weil entro l’alveo della sua “fede senza dogmi” (Ferrarotti 1990). Il rapporto è con un Dio presente ma anche assente, in una difficile composizione fra il bisogno di credere e la razionalità. Per questo Ferrarotti scrive della Weil ma forse pensa almeno in parte anche a se stesso, specialmente quando annota: “non c’è dunque da stupirsi se la Weil, pur credente, si fermi ad una certa distanza, rispetto alle religioni storiche; resti sulla porta della sinagoga, della cattedrale, della moschea o infine del wat indù o buddhista. Il dogma va raccordato con l’esperienza di ogni persona, calato nella quotidianità, e nello stesso tempo deve essere rispettata una certa distanza, che scoraggi ogni uso puramente strumentale e che non faccia del dogma una ragione di divisione o, peggio, di odio fra i fedeli” (Ferrarotti 1996: 104). Il tentativo di assimilazione sfocia nel rinvio ad una sorta di “etica pubblica ‘naturalmente’, prima che esplicitamente o dogmaticamente, cristiana, tale da permeare la consapevolezza sociale media e includere in sé il ‘diritto naturale’ ” (Ferrarotti 1996: 105). In tutto questo non si può riconoscere a Franco Ferrarotti, se non altro, una sostanziale coerenza d’impostazione della sua analisi sul fenomeno religioso, che per lui è vicino e distante al tempo stesso.


Bibliografia


CAMPELLI E. et aliiHistoires de vie et groupes primaires: une méthodologie pour l’analyse du phénomène religieux, in Actes de la 16ème Conférence Internationale de Sociologie des Religions, Lausanne, 1981, pp. 411-423.


CIPRIANI R. (a cura di), La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life historyEuroma Editrice Universitaria di Roma – La Goliardica, Roma, 1987, 1992, 1995.


CIPRIANI R., Manuale di sociologia della religione, Borla, Roma, 1997.


FERRAROTTI F., Morte di Dio in alberghi di lusso, in La Critica Sociologica, 9, 1969, p. 74.


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ID., Una teologia per atei. La religione perenne, Laterza, Roma-Bari, 1983a.


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ID., Religione e rapporti sociali in K. Marx, in La Critica Sociologica, 65, 1983c, pp. 50-59.


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    1985, pp. 13-35.


ID., Fine o metamorfosi del cristianesimo costantiniano?, in La Critica Sociologica, 90-91, 1989,


    pp. 33-47.


ID., Una fede senza dogmi, Laterza, Roma-Bari, 1990.


ID., Il cattolicesimo degli italiani, intervista, in BRUNETTA G., LONGO A. (a cura di), Italia


    cattolica. Fede e pratica religiosa negli anni ‘90, Valecchi, Firenze, 1991, pp. 404-410.


ID., Simone Weil. La pellegrina dell’assoluto, Edizioni Messaggero, Padova, 1996.


ID. (a cura di), Forme evolutive dei valori nel quadro della mobilità odierna di grandi gruppi umani, Quaderni di “Affari Sociali Internazionali”, Franco Angeli, Milano, 1982.


FERRAROTTI F., CIPRIANI R:, Sociologia del fenomeno religioso, Bulzoni, Roma, 1974.


FERRAROTTI F. et aliiStudi sulla produzione sociale del sacro. Forme del sacro in un’epoca di


    crisi, Liguori, Napoli, 1978.


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ORTOLANI M., Colloquio con Franco Ferrarotti sul suo ultimo libro Una fede senza dogmi, in Il Giornale d’Italia, 22 febbraio 1990, p. 11.


TOGNONATO C., Tornando a casa. Conversazioni con Franco Ferrarotti 1990-2002, Edizioni


    Associate Editrice Internazionale, Roma, 2003.

IL DILEMMA DELLA DIGNITA’ FEMMINILE NEL MONDO CATTOLICO

Roberto Cipriani


Premessa


Per parlare correttamente e fondatamente della dignità femminile nel contesto cattolico occorre anche perlustrarne in primo luogo le remote radici, che affondano assai indietro nel tempo e che si sono poi riprodotte e ramificate sino ai nostri giorni. Insomma la storia in proposito è lunga, affascinante e ricca di sorprese, che contraddicono il comune sentire legato principalmente all’esperienza della quotidianità contemporanea.


Nella sua originale e didascalica ricostruzione di una sorta di mappa cronologica delle religioni (The Histomap of Religion edita nel 1966, ma già pubblicata da John B. Sparks nel 1943) la storica Anne Spark Glanz sostiene che già 160.000 anni fa la fecondità della donna era considerata una potenza naturale (che molto più tardi corrisponderà in qualche modo al concetto di mana, lemma di origine polinesiana che sta ad indicare una forza straordinaria presente in un soggetto umano o in un altro elemento naturale e che può estrinsecarsi attraverso pratiche rituali e/o sacrificali). Ma nel contempo mancava probabilmente pure la consapevolezza della funzione procreatrice maschile, di cui si è potuto avere contezza piena solo in epoche successive.


Risalirebbe in particolare a 120.000 anni fa l’attribuzione di un significato religioso all’unione generatrice, in stretta affinità con la potenza divina e con la sensazione di appagamento. Mentre ancora più recente (100.000 anni fa) sarebbe il sorgere di tabù e di cerimonie a contenuto sessuale miranti alla preservazione della capacità creatrice sia maschile che femminile.


Peraltro la religione come rappresentazione, in particolare come danza (femminile, ma anche maschile), è attestata già nel periodo dell’Homo sapiens,cioè nel paleolitico superiore (conclusosi verso l’8000 avanti Cristo, con il ritiro dei ghiacci): è quanto proverebbe una raffigurazione presente nelle grotte dell’Addaura sul versante occidentale del monte Pellegrino, nei pressi di Palermo.


80.000 anni fa invero i rituali non avevano relazione né con l’osceno né con il puro ed è solo con il passaggio dal nomadismo al sedentarismo (caratterizzato da una forma di agricoltura stabile) che si ebbe un aumento dei culti legati alla natura ed alla fertilità. Inoltre restava forte la dipendenza del genere umano dalla coltivazione del suolo e dalla presenza di animali (da accrescere sempre più di numero, grazie alla riproduzione). La stessa fertilità della flora e della fauna era associata a quella umana: si praticavano riti a carattere propiziatorio (soprattutto di tipo sessuale): 20.000 anni fa sorgeva il rito detto della Venere di Willendorf (o di Savignano), la quale era connotata da molti attributi della fecondità, cioè fianchi adiposi e grandi seni (che si ritrovano anche nelle grotte spagnole di Altamira ed ancor più nell’arte detta di Cro-Magnon, dal nome della località francese della Dordogna dove sono stati scoperti dei reperti risalenti al magdaleniano, cioè a circa 18.000-10.000 anni fa).


Ancora in Spagna, a Cogul, si trova una decorazione pittorica (realizzata 18.000 anni fa o un po’ più tardi) che rappresenta una danza di donne attorno ad un uomo.


Culti fallici compaiono in India qualche migliaio di anni dopo. Tali riti permangono nell’induismo con Linga (simbolo maschile) e Yoni (simbolo femminile).


Intanto cominciavano a svilupparsi le figura di dei tribali e re-divinità, mentre trovava diffusione anche il culto della dea madre, collegata alla natura ed alla fertilità (Iside, Astarte – protettrice delle prostitute, le quali operavano nel suo tempio -, Rea, Afrodite, Cibele – di cui è figlio Attis, protettore della natura e destinatario di un culto affine a quello cristiano -); presso gli Ashanti (popolazione sudanese attualmente nel Ghana) erano già presenti alcune dee della terra; presso gli egiziani si venerava Hator, dea madre raffigurata come mucca (mentre il bue era simbolo di Api).


L’era pre-cristiana


Tra il 4500 ed il 2500 avanti Cristo giungevano in Europa dall’oriente popoli ad organizzazione patriarcale (androcentrica), ma nel centro dell’Asia sopravviveva nondimeno il culto della Grande Dea (Nanaia o Anahita): Gengis Khan le si prostrava nove volte.


Nel nord-est dell’India era Leimaren la dea suprema, fonte della creazione e della parola sacra. Invece nell’isola giapponese di Hokkaiko prevaleva Fuchi-kamui, dea del fuoco e della casa.


In Africa presso i Bantu la parte del corpo femminile destinato alla procreazione era considerata un tempio ed era detta Lemba.


Presso i pellerossa Navajo c’era Asdzáá-nadleehé, la dea che si rinnova, mentre la madre cosmica era detta Shima.


Per gli Aztechi la dea della terra era Coatlícue, quella della fertilità Chicomecóatl, quella del mais Xilonen.


Presso i Maya si venerava una dea della procreazione, detta Ix Chel. E nelle Ande c’è tuttora il culto della Pachamama, cioè la madre terra. In Australia poi la gran madre ha il nome di Kunapipi.


Per gli Inuit, gli eschimesi del Canada, la dea per eccellenza è Nuliajok (o Sedna).


Singolare è infine il caso della Corea dove lo sciamano è quasi sempre donna (mudang). 


Va anche ricordato che fra il 3000 ed il 2000 avanti Cristo è documentato in Egitto il culto fallico del dio Min. Presso i Fenici si venerava la Signora di Byblos.


Zeus (Giove) ed Era (Giunone) rappresentavano nel mondo classico greco-latino l’idea di unione (perpetuata più tardi anche nel calendimaggio, con il matrimonio fra il re e la regina di maggio). Presso i Sumeri c’era la dea luna. La grande madre-terra era venerata dagli Hittiti e dai Cretesi (al tempo di Minosse). La madre-terra greca era Gea, ma in particolare Demetra (Cerere) proteggeva le messi e Flora e Pomona la frutta.


Ermes (Priapo) era il dio fallico  greco-romano. Nel contempo si sviluppava il culto di Dioniso (misteri dionisiaci), cui seguirono poi i misteri baccanali.


Eostric era la dea teutonica della fertilità (divenuta poi Ester, presso i cristiani). Soprattutto tra gli ebrei si ricordava il “seme di Adamo” e si rispettava il principio della vita negli animali.


Va anche detto che la concezione riguardante il condottiero vincitore era tale da farlo considerare un dio; lo stesso dicasi per il re, da trattare ugualmente come un dio per il potere esercitato.


Un ruolo importante hanno le tre consorti della trinità induista (Brahama, Siva, Visnu): Sarasvati (dea della sapienza), Lakshmi (dea della bellezza), Kali (o Parvati, moglie di Siva o Durga). Yashoda è poi la dea nutrice di Visnu. Sempre presso gli induisti i numi tutelari dei villaggi sono Mata, o Amba o Amma cioè mamma. Aditi è la dea infinita, Nirrti quella ctonia, Prthivi la grande terra, Kali è la dea feroce, Tripurasundari e Lakshmi quelle benefiche. Le dee consorti (tra cui Aindri), di derivazione sanscrita, sono obbedienti ai mariti, invece quelle locali sono più indipendenti. Infine va ricordato che il fiume Gange, detto Ganga, è una dea, regina di tutte le dee come personificazioni dei fiumi. Però va anche chiarito che la situazione è androcentrica: la lettura dei Veda è proibita alle donne, che per giungere alla liberazione ultima devono sperare di rinascere come uomini. La moglie mangia dopo il marito, non lo nomina ma lo serve. Durante il ciclo mestruale la donna non può accedere alla parte più interna dei templi (1).


Secondo una norma della legge ebraica era consentito solo all’uomo di ripudiare la donna e non viceversa. Lo stesso accadeva in epoca romana, durante la quale operarono pure delle diaconesse.


Gli inizi del cristianesimo


Nel III secolo dopo Cristo gli gnostici consideravano Maria di Magdala una apostola e permettevano funzioni sacerdotali femminili: non a caso nella cattedrale di Marsiglia c’è una raffigurazione di Maria Maddalena che evangelizza.


Grande importanza ebbe pure Elena (247/248-328/335), madre di Costantino. Dunque nei primi tre secoli c’è stata un’attribuzione di maggior potere alle donne (poi di nuovo nel XII e XIII secolo, nonché nel XVI e XVII, ma questi ultimi dati sono controversi). In campo cristiano è da menzionare Marcella, vedova romana, che con la sua seguace Paola (347-404) – più tardi detta la Vecchia – riuniva gruppi di donne altolocate e dedite ad una vita di pietà e povertà. Va citata anche Perpetua, sorella di Agostino e fondatrice di un ordine femminile.


San Gerolamo fu sostenitore della verginità femminile (“cesserà di essere una donna e sarà chiamato uomo”), favorendo così un’ambigua condizione di potere e subordinazione insieme. Quattro donne emersero fra le altre: Eudossia, Pulcheria, Teodora ed Irene.


Nel vangelo di Luca, 8, 1-3, già si parlava di varie donne operanti insieme con Gesù: «In seguito Egli se ne andava di città in città e di villaggio in villaggio, predicando e annunziando la buona novella del regno d’Iddio, mentre i Dodici erano con lui, come pure alcune donne, che erano state liberate da spiriti maligni e da malattie. Maria, detta Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna moglie di Cuza procuratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano coi loro beni». Di loro si è persa quasi ogni traccia storica: ma vi pone qualche rimedio Carla Ricci in un suo pregevole contributo (2).


È nel IV secolo che comincia a diffondersi il monachesimo femminile. Gregorio Nisseno parla di sua sorella Macrina (offrendoci così la prima biografia cristiana dedicata ad una donna) e ricorda in modo accorato la lamentazione funebre delle consorelle colpite dalla perdita della loro maestra, fatta oggetto di grande venerazione:


«È stata spenta la luce dei nostri occhi;


è stato tolto il lume della guida delle nostre anime;


è stata distrutta la sicurezza della nostra vita;


è stato tolto il sigillo dell’immortalità;


è stato strappato il legame della concordia;


è stato abbattuto il sostegno dei deboli;


è stato soppresso il rimedio dei malati.


Grazie a te anche la notte era per noi illuminata in luogo del giorno della tua vita pura;


ora invece anche il giorno si cambierà in tenebra» (3).


Secondo Elena Giannarelli che introduce, traduce ed annota l’opera del Nisseno, «il IV secolo è uno dei momenti chiave nella storia della Chiesa antica: caratterizzato dal diffondersi, da Oriente a Occidente, di un fenomeno importantissimo come il monachesimo, esso assegna soprattutto la definitiva affermazione della religione cristiana, con la conversione delle classi sociali più elevate dell’impero. Ciò avviene grazie all’apporto dell’elemento femminile, più aperto e disponibile ad accogliere novità religiose quando queste diano dignità e valore nuovi a una categoria definita dalla tradizione ebraica e pagano-classica come sinonimo di debolezza. La donna costituisce per il cristianesimo un problema notevole che proprio in questa età si cerca di risolvere» (4).


Ma qual è l’esemplarità biografica, teologica e filosofica insieme del caso di Macrina? «Attraverso la santità della protagonista si esalta nella sua realizzazione concreta il solo modo che l’essere umano ha di giungere alla perfezione. I presupposti sono: la rinuncia ai valori terreni, il superamento della propria dimensione fisica, l’imperturbabilità, una tensione continua verso Dio, l’abbandono totale alla sua volontà, il prevalere dello spirito sulla carne. “Filosofia” intesa in questo senso è il tema centrale dell’opera; lo si vede subito fin dalla premessa del libro: anche il genere letterario scelto è in linea perfetta con un simile assunto. Si tratta di una biografia filosofica; ciò consente di seguire il progresso del personaggio verso una dimensione superiore a quella propria dell’uomo comune.


Caratteristica del Nisseno è la concezione dinamica della virtù, per cui il raggiungimento della santità prevede una serie di tappe. In questo iter concepito in modo dialettico, dove ogni fase è un superamento della precedente, c’è un elemento immutabile: la vocazione, che non viene mai meno, malgrado ostacoli e opposizioni. Nel caso della sorella, Gregorio deve misurarsi con l’handicap naturale di Macrina, che è una donna» (5). 


Agostino scrive di sua madre Monica, Gregorio Nazianzeno di sua madre Nonna, Gerolamo di varie donne, vergini e vedove.


Clemente Alessandrino (studiato soprattutto da Giuseppe Lazzati) è il teorico dell’uguaglianza fra uomo e donna.


Dopo qualche tempo, «nel nono secolo le donne cristiane, le loro famiglie e i loro consiglieri ecclesiastici avevano creato un’alternativa ai ruoli convenzionali consentiti alle donne nelle società precedenti. Nell’Europa cristiana, le donne devote potevano lasciare le famiglie, evitare il matrimonio e le gravidanze. Potevano diventare “spose di Cristo” e raccogliere i frutti della loro unione spirituale» (6).


In effetti «l’eredità lasciata alle donne europee del nono secolo dalla cultura greca, romana, ebrea, celtica e germanica si basava soprattutto su tradizioni che giustificavano e perpetuavano la loro subordinazione, ma in parte essa fu anche rappresentata da immagini e memorie di donne che conferivano loro potere. La vita e gli insegnamenti di Gesù di Nazaret, più tardi istituzionalizzati nella forma della fede e delle pratiche della Chiesa cristiana, contribuirono sia alle tradizioni basate sul potere, che a quelle basate sulla subordinazione della donna» (7).


«Le donne europee, come le donne di epoche precedenti, vissero quindi in una cultura in cui i valori, le leggi, le immagini e le istituzioni decretavano la loro inferiorità e imponevano la loro subordinazione agli uomini. La subordinazione femminile fu, tra le tradizioni ereditate dalle donne europee, la più potente e resistente» (8).


Il secondo millennio


Verso l’anno mille si diffuse un’idea ascetica, spiritualista della chiesa cristiana. E dopo un paio di secoli, secondo lo storico francese Duby, cominciò ad essere rivalutata la posizione delle donne. Lo studioso parigino del Collège de France si interroga sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle donne medievali, annotando: «Almeno, nel loro campo, sotto i veli dei quali l’autorità maschile le avvolge, nelle camere nelle quali vorrebbe tenerle ammassate, e dietro lo schermo che innalzano davanti agli occhi dello storico le invettive ed il disprezzo degli uomini, io le indovino, solidamente unite dai segreti che si trasmettono e da forme d’amore compatibili a quelle che fanno, all’epoca, la coesione delle compagnie militari, investite di grandi poteri – sulla servitù, per la loro condizione di mogli, sulla discendenza, per la maternità, sui cavalieri che le circondano, per la loro cultura, le loro attrattive, e per le relazioni che sono sospettate di intrattenere con le potenze invisibili -, io le indovino, ripeto, forti, molto più forti di quanto non immaginassi, e perché no, felici, così forti che i maschi si danno da fare per indebolirle con le angosce del peccato. D’altra parte mi è sembrato di poter situare verso il 1180, quando il prepotente slancio di crescita che trascinava l’Europa si trovava nell’acme del suo vigore, il momento in cui la posizione di queste donne fu in parte rivalutata, in cui gli uomini si abituarono a trattarle come persone, a discutere con loro, ad allargare il campo della loro libertà, a coltivare quei doni particolari che le rendono più vicine al soprannaturale» (9).


Ma non è questa l’unica lettura possibile, giacché secondo un’altra prospettiva ed appena qualche tempo dopo «nel tredicesimo secolo gli atteggiamenti nei confronti dei ruoli delle donne all’interno della Chiesa si erano cristallizzati intorno a queste preoccupazioni maschili, questo miscuglio di paure tradizionali della femmina come essere sessuato. Consentire, sì, alla donna una vita di devozione religiosa, ma, visti i pericoli inerenti al suo essere, questa vita deve essere fortemente limitata e controllata. Le monache devono essere tenute separate dagli uomini, anche religiosi. Le proibizioni di monasteri associati, dell’insegnamento delle monache ai bambini maschi, di qualunque contatto non strettamente necessario tra le donne e i loro confessori, guadagnarono un grande appoggio. Fatto ancora più importante, le donne devono essere tenute in rigido isolamento. Non devono lasciare il convento, non devono avere contatti con nessuno al di là delle sue mura» (10).


Frattanto la stessa verginità era scelta come modo primario di sottrarsi alla subalternità rispetto al maschio. La chiesa istituzionale aveva cercato di mantenere comunque la donna in un ruolo di sudditanza. Le prove documentali non mancano. Ancora Duby ce ne dà conferma attraverso l’analisi di un testo indirizzato dall’abate Adamo di Perseigne ad una nobildonna: «Appare con estrema evidenza ciò che gli uomini di Chiesa pensavano del corpo della donna e ciò che volevano che ne pensassero le stesse donne: “un ricettacolo di escrementi”, ripetevano. In ogni caso la tana del peccato corruttore, dacché i nostri primi progenitori per la colpa di Eva furono cacciati dal Paradiso terrestre, a causa delle pulsioni incontrollabili della carne. Ne consegue che le dame, queste ragazze che non hanno conservato l’integrità, l’innocenza del corpo, devono distaccarsene, farlo tacere quanto più è possibile. Abbandonarlo, certamente, all’uomo che ricevette solennemente la loro carne peritura, che se impadronì e che arde ancora dal desiderio di trarne godimento. Che l’unione, la commixtio dei sessi, si compia. È cosa necessaria: è la legge del matrimonio, il dovere degli sposi. L’ideale sarebbe che questo dovere fosse penoso. Per molte donne in questo tempo lo era fisicamente. Comunque sia, la dama si guardi, con tutte le sue forze, dal parteciparvi. Resti di marmo, contratta, con i denti serrati, resista, rifiuti di farsi traviare dal piacere» (11).


Parole austere, tipiche di un ambiente, quello cistercense, poco propenso a compromessi o cedimenti in favore di una certa flessibilità.


In pari tempo, invero, anche il potere delle badesse era riconosciuto uguale, di fatto, a quello dei vescovi. E l’influenza delle donne si esercitava anche sugli uomini, come nel caso di Matilde di Canossa, che fece incontrare Enrico IV e Gregorio VII nel gennaio 1077 e fu esaltata in un poema di quasi tremila versi (Codice Vaticano Latino 1922) dal monaco Donizone, il quale terminò la sua opera dal titolo Vita di Matilde di Canossa dopo la morte della contessa, di cui scrisse che «lasciò dunque la parte del re e, pia, ospitò per tre mesi il papa Gregorio, a cui come Marta servì; sempre attenta, coglieva, con l’udito della sua mente, ogni discorso del papa, al par di Maria le parole di Cristo» (12).


Matilde fu elogiata anche da Rangerio, vescovo di Lucca, che nella sua Vita metrica di Sant’Anselmo così la ricorda: «non appena conobbe le gioie malvagie della misera carne, ne ebbe orrore e subito se ne vergognò. Non poté conservarsi al primo marito come avrebbe voluto, e al suo uomo appena fanciulla si sottomise. Le parole materne, la potenza di una stirpe importante, la trattennero dal suo pio volere. Ma quando il Signore la sciolse dalla madre e dall’uomo, dispose ella sola al solo Dio di votarsi».


Che dire poi del caso di Eloisa (1101-1163) ed Abelardo? Ella fu dotta, famosa, eroina del libero amore, e rifiutò il matrimonio ma non rinunciò ad avere un figlio: una monaca passionale, ribelle a Dio ed anticipatrice della liberazione femminile. Di lei Georges Duby dice che fu «donna sensibile, sensuale, ma della quale la sensualità fa la forza, perché è proprio quest’incendio, nell’intimo della sua natura femminile, che la spinge a passare, come dice Pietro di Cluny, da una saggezza profana alla vera filosofia, ossia all’amore di Cristo. Diventando modello e consolazione per tutte le nobili donne che, d’accordo con il proprio marito, entravano tardi in convento, e magari alcune rimpiangevano i piaceri che avevano avuto la possibilità di gustare talvolta nel letto nuziale. Ma era un modello anche per gli uomini: la sua storia, come quella di Maria Maddalena, non insegnava loro, per strapparli alla pigrizia e al sussiego, che le dissolutezze dell’amore, soffocate dalla virtù, sono in grado di rendere un corpo femminile, per debole e impastato di smanie che sia, più puro e più rigoroso del loro?» (13).


Nel XII secolo apparvero i Re-taumaturghi. Intanto San Bernardo di Chiaravalle diffondeva il culto di Maria ed il papa Innocenzo III imponeva la confessione, portando a compimento un progetto risalente ai primi anni del nuovo millennio ed in particolare al vescovo Burcardo di Worms ed al suo manuale pratico dal titolo Decretum: «invitare le donne, almeno le più nobili, a confidarsi con un uomo di Chiesa, era trattarle da persone in grado di correggersi da sole; ma era anche catturarle: la Chiesa le prendeva nella sua rete … La Chiesa decise di porre sotto il più stretto controllo la sessualità … La Chiesa divise di conseguenza gli uomini in due gruppi. Ai servitori di Dio vietò l’uso del sesso, lo permise agli altri, alle condizioni draconiane che essa dettava. Rimanevano le donne, il pericolo, perché tutto ruotava attorno a esse. La Chiesa decise di assoggettarle, e a questo scopo definì chiaramente i peccati dei quali le donne, per il loro temperamento, si rendevano colpevoli. Nel momento in cui Burcardo componeva la lista di queste colpe specifiche, l’autorità ecclesiastica accentuava il proprio sforzo per rigenerare l’istituzione matrimoniale, per imporre una morale del matrimonio, dirigere la coscienza delle donne: stesso progetto, stessa lotta. Fu un lungo processo; finì con il trasferimento ai preti del potere dei padri di consegnare la mano della figlia in quella di un genero, e con l’interposizione di un confessore tra il marito e la moglie» (14).


Cominciavano a diffondersi le beghine.


Restano peraltro esemplari i ruoli di santa Caterina da Siena (15) e di santa Caterina de’ Ricci (16). Ma anche quello di altre sante medievali, da Sant’Elisabetta d’Ungheria a Santa Chiara da Assisi, a Chiara da Montefalco, ad Angela da Foligno (17).


Però dal XIV al XVIII secolo migliaia di donne, accusate di stregoneria ed eresia, vennero bruciate dai cristiani (18).


Non scamparono all’accusa di eresia neanche le beghine. Papa Giovanni XII le condannò di fatto nel 1317.


In Europa, nel XVI secolo Teresa de Cepeda y Ahumada (1515-1582), detta di Avila, pensava alla riforma delle carmelitane, riportando l’ordine delle religiose all’antico rigore.


Nella stessa temperie storica si cominciava ad affacciare una nuova figura di laica, la zitella, propugnata in particolare dalla Compagnia di Sant’Orsola, fondata da Angela Merici, che vedeva una concreta possibilità di mettere insieme religiosità ed impegno nel mondo.


Secondo Gabriella Zarri si assisteva così ad una sorta di secolarizzazione della vita religiosa ed in pari tempo ad una nuova sacralizzazione della vita coniugale. In pratica la donna sposata viveva in un recinto sacro, sottoposta al controllo sociale: ogni suo rapporto familiare e sociale era rigidamente codificato e sanzionato (19).


Ne è prova, fra l’altro, il testo di un documento storico risalente al 1580 e relativo alla Visita Apostolica fatta dal vescovo di Melfi, Gaspare Cenci, nella terra di Cerignola, in Capitanata. In un editto per l’osservanza delle festività veniva ingiunto quanto segue: «commandamo in virtu della instessa authorita che tutti li homini et donne di qualsivoglia qualita, anche che siano zite o vacantie conformi alli precetti della chiesa, in tutti giorni di festa commandate come sotto non havendo canonici impedimenti, debbano andar a vider et ascoltar messa, altrimente facendo oltro che commetterando peccato mortale sarando scomonicate nominatamente. Et ordinamo al Reverendo Arciprete, voglia tener essatta cura de tutti et massime delle donne che non andarando alla messa in detti giorni accio nella festa seguente le possi escomunicare nominatamente. Parimenti ordinamo et commandamo in virtu della medesma authorita, che  tutte le vidue o madre o altri che passato il mese della morte de loro mariti, figli et altri propinchi, nel qual tempo si tollera stiano in casa vadino alla chiesa ad ascoltar et veder messa sotto la istessa pena come de sopra» (20).


Questo editto denotava una evidente situazione di rigida sorveglianza sulla pratica religiosa dei cittadini e massimamente delle donne. Sebbene il comando impartito riguardasse tutta la popolazione adulta, i riferimenti più precisi avevano a che vedere con il genere femminile (zite, cioè sposate, e vacantie, cioè nubili). Del resto non a caso la stessa scomunica era prevista più che altro al femminile (scomonicate). Questa peculiare attenzione all’inadempienza da parte delle donne era altresì ribadita anche a proposito di vedove (vidue) e madri di famiglia affinché – trascorso un mese di lutto tollerato – riprendessero la loro frequentazione del rito festivo. In caso di mancata ottemperanza non solo si sarebbe commesso un peccato grave (mortale) ma si sarebbe andato incontro alla massima sanzione religiosa, per di più con un carattere pubblico: la scomunica non generica ma nominativa, da pronunciarsi in chiesa in occasione della festa comandata immediatamente successiva a quella della mancata presenza alla messa.    


Un secolo dopo, una propugnatrice della mistica dell’abbandono totale a Dio, Jeanne-Marie Guyon, vedova con tre figli, autrice fra l’altro nel 1685 di Le Cantique des Cantiques interprété selon le sens mystique, veniva accusata di quietismo (come Molinos et Fénelon) ed imprigionata dal 1688 al 1702.


Risale quasi al medesimo periodo la contestualizzazione di La finzione di Maria, romanzo storico di Fulvio Tomizza, pubblicato nel 1981 e fondato su documenti di archivio, risalenti alla seconda metà del 1600: tutto ruota attorno all’accusa degli inquisitori che attribuiscono a Maria Janis, una ragazza del Bergamasco, la colpa di fingersi santa. La conclusione dell’opera è amara. «Ben più oscuro e mortificante fu l’inizio della nuova vita di Maria. Nella stessa estate il tribunale ecclesiastico chiuse definitivamente anche il suo caso facendole la grazia, non richiesta, di essere trasferita dalle carceri al “pio Luogo dei Mendicanti di questa città, qualora i signori Governatori di detto luogo si compiacciano di riceverla”. L’avranno di certo ricevuta: l’umiliarsi riesce gradito agli uomini, e su una raccomandazione del sant’Uffizio non si discute. In quel ricovero di derelitti, da cui forse è più difficile venir fuori che di prigione, Maria Janis di Vertova avrà finito i suoi giorni. La sua condizione non le permetteva di poter contare su protettori né su amici disposti a garantire sulla sua condotta. Come i reverendi padri sono riusciti a dimostrare, era soltanto una donna» (21).


Già in precedenza nel contesto asiatico, attraverso l’induismo si era sviluppato il culto Bhakti di Rama e della moglie Sita.


Più tardi è documentato in Giappone il culto ad Amaterasu, dea del sole (segnatamente dal XVII secolo ad oggi, nel tempio di Ise); ma è da ricordare anche la dea Kannon, cui è dedicata una delle statue più grandi al mondo.


Il mondo contemporaneo


In campo cattolico la proclamazione del dogma dell’Immacolata nel 1854 con la bolla Ineffabilis Deus di Pio IX ridiede spazio al culto mariano.


Nel 1875 la signora Elena Petrovna Blavatskij fondò a New York la Società Teosofica, a carattere sincretistico, con l’intento di unire la religiosità orientale con quella occidentale.


Nello stesso anno Mary Baker Eddy (1821-1910) pubblicò il testo-base della Christian Science Association, fondata un anno dopo: Science and Health with Key to the Scriptures.


Nel 1920 ebbe luogo la canonizzazione di Giovanna d’Arco.


Nel 1950 venne proclamato il dogma dell’Assunzione (con la costituzione Munificentissimus Deus di Pio XII), che apportò nuova linfa alla devozione mariana.


Le donne cattoliche furono molto attive in Italia sin dall’inizio del ‘900: è da citare fra le altre Adelaide Coari (cui è intitolata la sezione femminile dell’Archivio Storico del Movimento Sociale Cattolico in Italia presso l’Università Cattolica di Milano): «Il riferimento della sezione femminile dell’Archivio storico alla Coari  – nata a Milano nel 1881 e morta nel 1969 – non è casuale, perché fu un personaggio di spicco del femminismo cristiano di inizio secolo, impegnata fin dalla prima ora nel Partito Popolare di Sturzo, appassionata promotrice dell’educazione popolare e assidua operatrice dell’Opera dei figli di don Orione, anticipatrice di posizioni ecumeniche e di dialogo tra le Chiese; ancora ricordata da chi le fu scolaro, ma ignorata da chi redige la storia. Bisogna dire lo scandalo di tale memoria perduta all’interno del movimento cattolico femminile. E pensare che fu Giovanni XXIII a trasmettere, tramite don Giuseppe De Luca, alla studiosa Paola Gaiotti «le carte da lui gelosamente custodite, che testimoniavano di una presenza femminile cattolica, consapevole, agguerrita, dialogante, entro la vicenda complessiva delle donne italiane. Fu lui – testimonia la stessa Paola Gaiotti che negli anni ’60 produsse il primo studio sul femminismo cattolico – a volere riaccendere la nostra memoria» … La storia moderna delle donne, pur attraversata da tante differenze di propositi, di stili, di linguaggi, di valori, è stata una storia comune; un cammino su cui si sono ritrovate fondatrici di congregazioni, umili operatrici di molteplici azioni di solidarietà, donne di grande esperienza religiosa e non credenti. Un’unica storia costruita e costituita da molte storie individuali. E la riflessione sulla storia delle donne è ormai un campo di ricerca comune tra le diverse correnti di pensiero, tra laiche e religiose, tra credenti e non» (22).


Ma è la relazione donna-Chiesa a costituire un problema costante: «Certamente il piano di maggiore scontro tra le donne e la Chiesa è sempre stato quello culturale e con esso l’accesso all’istruzione; e la storia ci mostra come la presenza femminile nella cultura, seppur minoritaria per quantità, abbia dato frutti qualitativamente pregiati, soprattutto in ambito ecclesiale. La modernità ha portato le donne ad uscire dalla cerchia domestica per inserirsi nel mondo produttivo ed ha richiesto loro istruzione e professionalità, di qui posizioni molto contrastanti nel comportamento della Chiesa. Pro e contro la cultura femminile, fu tema di discussione e di dibattito per molta parte del nostro secolo entro gli ambienti culturali e le associazioni cattoliche: secondo una maggioranza benpensante la donna, creata prima di tutto per la famiglia, doveva attrezzarsi solo per tale scopo, non serviva che facesse la speculatrice o la scienziata. Le donne però hanno continuato a  studiare, a produrre cultura, ad affermare l’uguaglianza con gli uomini insieme alla propria peculiare differenza» (23). Nondimeno streghe e madonne, diavolesse ed ossesse continuano ad abitare il terreno della cultura e della religiosità popolare anche in epoca contemporanea (24).


A sorpresa giungeva l’espressione di “Dio mamma” usata da papa Luciani nel 1978, ripresa in qualche misura anche nel n. 239 del Catechismo della Chiesa Cattolica, che rinvia ad Isaia (66, 13) ed ai Salmi (131, 2) ma tali passi solo molto indirettamente presuppongono una maternità di Dio, se non a livello metaforico (25).


Ma la martire Edith Stein aveva scritto: «la prima cosa non è essere uomo o donna ma persona».


Questo significa andare ben oltre la sottolineatura di genere, che pure ha potuto affermarsi a fatica in ambiente cattolico. Lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II nei suoi documenti più rilevanti ha solo en passant toccato i temi relativi al ruolo delle donne. I suoi documenti ne parlano qua e là in modo disorganico e rapsodico in termini di diritto, lavoro e parità e madre di famiglia. Così le persone vedove e nubili «possono contribuire non poco alla santità e alla operosità nella Chiesa» (Lumen gentium, 41). Nella Gaudium et spes, al n. 52, si parla della «madre nella casa, di cui abbisognano specialmente i figli più piccoli, pur senza trascurare la promozione sociale della donna». E poco più avanti, al n. 60, si ribadisce quale sia lo specifico del ruolo muliebre, proprio cioè dell’indole femminile: «Le donne lavorano già in quasi tutti i settori della vita; conviene però che esse possano svolgere pienamente i loro compiti secondo l’indole ad esse propria. Sarà dovere di tutti far sì che la partecipazione propria e necessaria delle donne nella vita culturale sia riconosciuta e promossa». Senza negare il diritto alla cultura si coglie l’occasione per ricordare il proprium della funzione legata all’essere madre e/o moglie. Del resto anche in precedenza, al n. 29, tutto era visto in rapporto alla condizione di coniugabile con «la facoltà di scegliere liberamente il marito e di abbracciare il suo stato di vita». Quest’ultimo riferimento rimanda indirettamente all’opzione della scelta religiosa, in chiave di vita monacale. Ma in pari tempo non si nega «di accedere a quella pari educazione e cultura che si riconosce all’uomo».  Ben poco di più si trova nelle centinaia di pagine dei vari testi conciliari (costituzioni, decreti e dichiarazioni), fatta eccezione per il Messaggio del Concilio alle Donne, in data 8 dicembre 1965.


Non è così nel caso della Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II dal titolo Mulieris dignitatem, datata 15 agosto 1988. Si tratta del documento più importante che la Chiesa cattolica abbia mai prodotto sulla questione femminile. Il respiro del testo è ampio ed articolato, giacché spazia dai testi biblici a quelli teologici, dalla patristica al magistero ecclesiale. La Lettera ha un tono dichiaratamente meditativo sulla donna come madre di Dio, sul suo essere immagine e somiglianza di Dio.


In particolare al n. 6 si legge che la donna «è immediatamente riconosciuta dall’uomo come «carne della sua carne e osso delle sue ossa» (Cf. Gen 2, 23) e appunto per questo è chiamata «donna». Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi dell’uomo: ’iš – ’iššah, cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. «La si chiamerà donna (’išš) perché dall’uomo (’iš) è stata tolta» (Gen 2, 23)».


Dopo aver affermato al n. 10 che «la donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile», il papa si sofferma sulla figura di Cristo e sul suo atteggiamento nei riguardi delle donne nonché sulle figure femminili del vangelo. 


 Il n. 12 fa riferimento all’atteggiamento di Gesù nei confronti della donna: ««Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna» (Gv 4, 27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi contemporanei. «Si meravigliavano», anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, «pensò tra di sé: “se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”» (Lc 7, 39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di «santo sdegno», dovevano riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole del Cristo: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt 21, 31)».


Ancora più esplicito, se possibile, è il rinvio al «principio» dell’uguaglianza fra uomo e donna in quanto fatti entrambi ad «immagine e somiglianza» di Dio. «La  questione posta è quella del diritto «maschile» di «ripudiare la propria moglie per  qualsiasi motivo» (Mt 19, 3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele: «Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via» (Mt 19, 7). Gesù risponde: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19, 8)». Dunque si conferma autorevolmente la necessità di non discriminare la donna, che più volte è protagonista nel vangelo come miracolata, dotata di grande fede, di dignitosa umiltà, di particolare saggezza, nonostante povertà e malattie.


Gesù – chiarisce a più riprese Giovanni Paolo II – era in contraddizione con i suoi tempi e con i suoi interlocutori. Ed in effetti, come si legge nel successivo punto 13, l’insegnamento di Cristo non dà adito a nulla «che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna».


Proprio una donna, «e per di più «donna peccatrice», diventa «discepola» di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4, 39-42)».


Molti colloqui di Gesù con le donne sono citati come tra i più belli nel vangelo. Sono donne quelle che restano ai piedi della croce, sono ancora donne quelle che annunciano il risorto, prima fra tutte Maria di Magdala detta non a caso «apostola degli apostoli» secondo l’espressione tipica di Tommaso d’Aquino ma anche secondo Rabano Mauro.


La Mulieris dignitatem scioglie anche qualche nodo problematico relativo a taluni insegnamenti della Chiesa delle origini in merito al posto della donna nella società e nella famiglia. A tale proposito il documento papale è quanto mai esplicito, chiaro: «nella relazione marito-moglie la «sottomissione» non è unilaterale, bensì reciproca» (n. 24). Ecco perché «la «mascolinità» e la «femminilità» si distinguono e nello stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda» (n. 25).


La lunga schiera di donne citate nel vangelo e quelle presenti nella storia della Chiesa sia primitiva (Febe, Prisca, Evodia, Sintiche, Trifena, Perside, Trifosa) sia successiva (Macrina, Olga, Matilde, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta, Brigida, Giovanna d’Arco, Elisabeth Seton, Mary Ward) testimoniano quanto esse abbiano contribuito al rafforzamento del cattolicesimo ed all’azione della Chiesa.    


Il documento pontificio raggiunge però la sua acme nella parte finale, soprattutto nei nn. 29 e 30 dove si legge quanto segue: «Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto, ampio e diversificato, la donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità». Inoltre «la donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto che Dio «le affida l’uomo» sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi. Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende «forte» e consolida la sua vocazione».


La conclusione poi è un inno di ringraziamento alle donne: «per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le donne dedite ai tanti e tanti esseri umani, che attendono l’amore gratuito di un’altra persona; per le donne che lavorano professionalmente, donne a volte gravate da una grande responsabilità sociale; per le donne «perfette» e per le donne «deboli» – per tutte. Così come sono uscite dal cuore di Dio in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state abbracciate dal suo eterno amore; così come, insieme con l’uomo, sono pellegrine su questa terra».


Come il Cristo era in contraddizione con il suo entourage palestinese, così Giovanni Paolo II sembra in contrapposizione con la mainstream cattolica non sempre propensa a lasciare spazio alla presenza femminile.


Appare quindi abbastanza fondata l’ipotesi formulata da Feliciana Merino Escalera secondo la quale, in accordo anche con Carla Bettinelli, il papa si sarebbe rifatto in larga parte agli spunti offerti da Edith Stein nei suoi saggi sulla donna. La studiosa spagnola ritiene infatti «probabile questa influenza». «Ogni volta che mi immergo nella Mulieris Dignitatem – scrive la Merino Escalera – constato quanto le idee di santa Teresa Benedetta della Croce coincidano con quelle del Santo Padre, soprattutto se consideriamo che Edith Stein venne beatificata da Sua Santità nel 1987 e che l’Enciclica venne pubblicata nel 1988» (26).


Le convergenze fra la Stein ed il pontefice sono numerose ed incontrovertibili: «entrambi concepiscono la relazione uomo-donna inserita nella storia della salvezza»; «tanto la Stein che Giovanni Paolo II evidenziano l’importanza del peccato nella degenerazione dell’ordine iniziale, nella perdita della originaria unità, dell’uomo con se stesso, con gli altri e con Dio»; l’una e l’altro instaurano un «parallelismo Adamo-Cristo/Eva-Maria»; da parte di ambedue viene enfatizzato «il rapporto che Cristo ha sempre mantenuto con le donne, a differenza della prassi ecclesiale e di determinate pratiche discriminatorie nel contesto socio-culturale»; in entrambi i casi c’è «la rivalutazione delle due vocazioni essenziali della donna: maternità e verginità»; viene comunque difesa «la necessità di preservare la specificità femminile, il «genio» della donna»; infine viene riscontrata una «complementarietà essenziale: l’esser kenegdo, espressione ebrea utilizzata da Edith Stein, immagine speculare per cui l’uomo contempla la propria natura, coincide con la «reciprocità» di Giovanni Paolo II. In entrambi si tratta del fatto che l’uomo e la donna sono l’uno per l’altra, che nella loro unione realizzano la chiamata fondamentale all’amore e al dono reciproco, il livello più elevato della realizzazione della persona» (27).    


Meno elogiativo risulta invece il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992. Si parla della donna ai nn. 369, 371, 372, 373, ma solo per confermare prospettive già note. Il n. 1577 ribadisce che l’ordinazione sacra concerne solo i battezzati di sesso maschile. Nel n. 1605 si afferma, ancora una volta, che l’uomo e la donna sono fatti l’uno per l’altra. Lo stesso dicasi per l’uguale dignità di uomo e donna (n. 2334). Sono 32 i punti principali in cui si tratta della dignità femminile ma in nessuno di essi si legge uno slancio peculiare per una rivisitazione sostanziale di letture scontate.


Per uno sguardo meno tradizionale sul mondo religioso femminile occorre consultare altri documenti, per esempio un compact disc a carattere multimediale predisposto da Carla Ricci, promosso dall’AECA e realizzato dall’Alfa Cfp Opera Diocesana Giovanni XXIII di Piangipane (Ravenna), dall’Associazione Opera Sacro Cuore di Lugo (Ravenna), dall’Enac Emilia Romagna di Fidenza (Parma) e dall’Engim di Cesena (Forlì). Il CD rom, dal titolo Lei multimedia,è diffuso gratuitamente ed è di facile uso. In particolare si segnalano le voci “religione” e “femminismo cattolico” come più pregnanti ed utili, grazie alla descrizione del riferimento, all’elenco di enti ed indirizzi, alle suggestioni per navigare in Internet, alla bibliografia ed alle riviste sull’argomento.


Donne, religione e società italiana


Gli indicatori più affidabili in merito alla presenza femminile nel nostro Paese si trovano nei risultati empirici delle ricerche sul campo.


Che cosa pensano, fra l’altro, delle donne consacrate alla vita religiosa gli italiani e le italiane? L’indagine nazionale su La religiosità in Italia (28), condotta nel periodo 1994-95, ha fornito risultati derivanti da un campione “ponderato” di 4500 soggetti. Essa può fornire qualche indicazione sul tema che qui ci interessa.


Le risposte alla domanda n. 274 (giudizio sulla clausura) del questionario somministrato sono state quanto mai significative. È vero che il quesito riguardava sia i religiosi che le religiose, ma si può ritenere che in buona misura i dati ottenuti siano applicabili in primo luogo alle religiose, non fosse per altro che per la loro maggiore numerosità sul territorio nazionale rispetto ai loro confratelli religiosi e dunque per la loro maggiore visibilità, che ne fa un parametro essenziale di riferimento per quanto concerne la percezione e l’immagine a livello diffuso.


Se si aggiunge poi che il connotato della clausura limitava ma anche sottolineava il carattere di separatezza e di diversità che riguarda più specificamente la condizione delle congregazioni religiose femminili si può concludere che i dati acquisiti attraverso l’inchiesta appaiono abbastanza probanti in termini di valutazione complessiva sulle monache operanti in Italia.


Appunto l’uso del sinonimo monache, rispetto al nome di suore, già segnala qualche differenza rilevante. Infatti il parlare di monache (al posto di suore) comporta di per sé – per situazione di fatto e di uso linguistico comune – un’accezione più valutativa ed in negativo per le donne votate alla professione religiosa. Ma ormai anche il termine suore, per affinità, è accompagnato da giudizi di valore non sempre neutrali, solo alcune volte positivi, generalmente sfavorevoli.


Invece in campo maschile il riferimento ai monaci, piuttosto che ai frati od ai religiosi, assume un orientamento più positivo, induce a maggior rispetto, quasi ad una separazione nel contesto delle organizzazioni religiose. Insomma i monaci sarebbero più credibili ed affidabili. Nel loro novero rientra però una miriade di profili concreti. Ed a loro vantaggio sembra prevalere comunque l’idea di persone tutte dedite al servizio divino, alla contemplazione, alla preghiera, ai lavori più umili.


Ma veniamo al contenuto preciso del quesito posto: “Qual è il suo giudizio sui religiosi e sulle religiose che vivono in clausura (cioè permanentemente chiusi in convento)?”. Era prevista una sola risposta possibile, fra quelle indicate dal questionario. Ha detto che “è la testimonianza religiosa più alta” il 16,9% degli intervistati. Il 20,4% ha ritenuto che “è una forma di testimonianza religiosa valida come le altre”. La maggioranza relativa, cioè il 44%, ha reputato che “è meglio che i religiosi vivano tra la gente”. Infine il 18,7% ha detto che “è una cosa senza senso” o ha espresso altri giudizi negativi. Solo 20 intervistati su 4500 non hanno dato alcuna risposta.


C’è dunque una chiara sollecitazione a vivere nel sociale, ad evitare l’isolamento entro ambiti ristretti. È quasi un invito a “sporcarsi le mani” con le questioni del mondo, della società, degli altri soggetti umani. Insomma la clausura ( e – si può immaginare – anche altre forme succedanee, simili o tendenzialmente affini, fra quelle relative alla vita conventuale) non sembra particolarmente apprezzata, anzi è vista come una segregazione volontaria rispetto alle questioni reali, stringenti, tipiche di chi vive nel quotidiano, cioè affrontando un’esperienza comune alla maggioranza degli individui sociali.


Considerazioni più favorevoli, si direbbe a livello elogiativo, provengono da quasi il 17% degli intervistati. Si può presumere che questo gruppo di rispondenti sia molto legato a posizioni di religione-di-chiesa, cioè ad un’osservanza ed una pratica religiosa costanti, insomma ad una linea ortodossa e ad una militanza forte e consapevole. In fondo è facile ipotizzare che questo stesso sia il bacino di provenienza della maggior parte delle vocazioni religiose.


Favorevole ma meno appassionato è il giudizio di coloro che considerano la clausura come una modalità religiosa al pari di molte altre possibili. Questo orientamento interessa il 20,4% dei casi campionati. Insomma la particolare condizione di vita claustrale, per quanto rigorosa, non comporta un aumento degli atteggiamenti favorevoli.


Non va poi trascurato il 18,7% che si mostra particolarmente ostile, giudica senza senso il tutto, esprime opinioni piuttosto sfavorevoli. Va tenuto presente che questo sottouniverso non è costituito solo da soggetti non orientati religiosamente ma anche da credenti e praticanti (magari saltuari).


In definitiva la vita monastica in generale (fatte salve le dovute eccezioni) non trova molta comprensione nel più vasto ambito sociale. Certamente questo dato di fatto può anche dipendere da una scarsa conoscenza e frequentazione da parte di soggetti ad essa esterni e che hanno poca dimestichezza con lo spirito e le problematiche dell’esperienza religiosa comunitaria, improntata a regole ben definite. I consensi, più o meno differenziati, non mancano ma non provengono da una quota rilevante della popolazione italiana. Anche forzando l’interpretazione dei dati, non più di un italiano su tre appare favorevole alla soluzione cenobitica in senso stretto.


Illuminante, a complemento e completamento di quanto detto sinora, è il dato relativo agli ostacoli che si frappongono nella scelta della vita religiosa. Anche in questo caso valgono le osservazioni di carattere generale premesse all’interpretazione dei risultati considerati sopra.


Ebbene, la domanda del questionario era così formulata: “A suo giudizio, quali sono oggi i principali ostacoli alla scelta di una vita sacerdotale o religiosa (prete, suora, frate)?”. Si potevano dare non più di due risposte. Le alternative proposte erano le seguenti: “la solitudine legata a questo tipo di vita” (che ha raccolto il 20,2% di sì), “oggi ci sono altre possibilità per fare una scelta di impegno religioso” (che ha registrato il 21,5% di consensi), “bisogna rinunciare a troppe cose” (che ha ottenuto il 26,7% di pareri favorevoli), “non potersi sposare, avere figli” (che è giunto fino al 37,4% dell’universo campionato), “è una scelta che impegna per sempre” (che ha attinto il 23,8% di intervistati consenzienti), “è la mentalità corrente che ostacola questa scelta” (che ha trovato d’accordo il 13,9% del campione), “il peso della responsabilità che la scelta comporta” (che ha fatto registrare il 18% di risposte), “il vincolo eccessivo nei confronti dei superiori” (che si è attestato sul 3,1%), “è un modo di vita retrogrado” (che ha riguardato il 5,2% degli intervistati). Hanno espresso altri giudizi 2,5 intervistati ogni 100.


Il quadro complessivo che emerge è una conferma in larga misura di quanto osservato in precedenza. Le nove motivazioni formulate nella domanda in questione hanno visto numerose adesioni, più o meno consistenti su tutta la linea. In generale l’impedimento matrimoniale sembra essere la ragione considerata come più significativa di altre, ma anche quelle relative alla rinuncia piuttosto ampia ed alla scelta definitiva e irrevocabile sembrano rilevanti, per non parlare della solitudine e della possibilità di altre opzioni religiose.


Detto altrimenti, le motivazioni per la non scelta appaiono abbastanza concrete, decisive, consapevoli. Si può immaginare che gli intervistati non solo non hanno manifestato in proprio la preferenza a favore dell’ingresso in una congregazione religiosa ma sono anche indotti a ritenere che non esistono in genere delle ragioni che inducano altri ed altre a comportarsi diversamente, in quanto gli ostacoli non appaiono facilmente sormontabili e le limitazioni sono piuttosto cospicue. È in questione principalmente la rinuncia a metter su famiglia ed a quel che ne consegue. La scelta peraltro è per la vita, per la sua intera durata, senza possibilità – si direbbe – di ritorno.


I vincoli previsti risultano non facilmente sopportabili. Sono pesanti da sostenere, specie in un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata da larghe libertà di comportamento e da possibilità plurime di impegno religioso e non. Qualcuno degli intervistati poi preferisce esprimersi in un linguaggio che non lascia adito ad alcuna ipotesi differenziata, visto che comunque si tratta di un “modo di vita retrogrado”.


In riferimento al ruolo delle donne (e di conseguenza delle religiose) all’interno della chiesa il campione degli intervistati pensa che esse dovrebbero “contare di più” (lo dice il 47,95) o almeno “contare come oggi” (secondo il 49,3%), mentre appena il 2,7% propende per l’item “contare di meno”. E 61 intervistati non si esprimono affatto. In pratica se si tiene conto che l’universo di ricerca è composto per metà da uomini e per l’altra metà da donne è attribuibile piuttosto alle intervistate la richiesta di maggior attenzione per loro nella chiesa cattolica, mentre saranno stati in maggioranza gli uomini a ritenere che le donne dovrebbero contare come oggi.


Intrigante è da ultimo il risultato relativo al “giudizio sulla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio”. Evidentemente questa proposta concerne primariamente le religiose, che potrebbero ambire ad un ruolo pieno come ministre di Dio al servizio dei fedeli.


Intanto il 34,8% vede in modo positivo l’accesso femminile alla funzione sacerdotale. È vero che il 28,9% appare perplesso, ma ciò è forse dovuto più alla novità della proposta ed al suo carattere modificativo della realtà esistente od anche, magari, ad una mancanza di informazioni e motivazioni sufficienti per esprimere un punto di vista consapevole. D’altra parte l’atteggiamento negativo non è particolarmente diffuso, visto che arriva a non più del 31,5%, in effetti appena un intervistato su tre.


In definitiva l’inchiesta nazionale su La religiosità in Italia mette in evidenza luci ed ombre della situazione attinente alla vita religiosa, declinata essenzialmente al femminile. Nel complesso la valutazione non è del tutto positiva, salvo alcuni settori di maggiore ortodossia di chiesa. Del resto, però, la stessa ostilità dichiarata è minoritaria. Prevale invece l’atteggiamento intermedio: si può inferire che non si disprezza ma neppure si apprezza più di tanto il contributo delle donne che operano nell’ambito delle congregazioni religiose. Forse gioca in senso negativo una mancanza di comunicazione fra mondo monacale e realtà mondana, fra vita cenobitica ed esperienza sociale in senso lato.


Dunque ad alcune chiusure che provengono dal mondo religioso femminile corrispondono altrettante, se non più massicce resistenze che costellano gli orientamenti di fondo dell’universo sociale extra-monastico. Insomma c’è un corto circuito. A volte si tenta di ripararlo ma rischiando di procurare danni maggiori.


Conclusione: nascita e sviluppo del misticismo femminile


         Un significativo indicatore del rapporto intercorrente fra condizione femminile e contesto cristiano e cattolico è costituito dalla dinamica relativa al misticismo o meglio ai diversi misticismi che hanno attraversato tante generazioni di donne, assoggettate anche in questo campo al potere definitorio degli uomini (teologi, filosofi ed esponenti dell’apparato ecclesiastico).


         Una prima verifica si può avere a partire dalla lettura dell’opera di Egeria, scritta nel IV secolo come diario di viaggio in Terrasanta. L’autrice non si era permessa di cimentarsi in ipotesi e suggestioni relative a testi biblici: questo era compito riservato ai vescovi, ai sapienti, comunque a degli uomini. Già il suo viaggio ai luoghi santi era stato un azzardo. Non avrebbe dovuto andare  oltre, con commenti e riflessioni personali (29).


         In pratica «quelle forme di misticismo che erano compatibili con le prospettive ecclesiastiche dominanti vennero lasciate fiorire, e quelle che non lo erano vennero eliminate» (30).     


Insomma potere e conoscenza sono sempre in stretta relazione. Ed il genere fa spesso da spartiacque nell’esercizio del potere stesso anche in campo religioso e spirituale, indipendentemente dalle buone intenzioni dei soggetti coinvolti. Di conseguenza la costruzione storico-sociale del misticismo è un’operazione di tipo patriarcale, di cui le donne diffidano. Di fatto sarebbe avvenuta un’appropriazione indebita da parte degli ecclesiastici e degli accademici i quali si sarebbero impossessati strumentalmente della mistica e della spiritualità «conservando ad esse il potere ma assoggettandole ad un tornaconto maschile, oppure privandole del potere e perciò addomesticandole e femminilizzandole» (31). In tal modo tutto resta tranquillo, senza cambiamenti in campo pubblico, nella politica, cioè dove si esercita il potere reale.


Il definitiva il misticismo femminile è frutto delle contingenze storiche legate ai rapporti di genere e di potere e quindi rimane il precipitato ultimo di una costruzione sociale che va smontata punto per punto al fine di ricostruire, consapevolmente, i vari passaggi che hanno portato alla situazione presente. Per Grace M. Jantzen, in fondo, proprio il decostruire il misticismo è oggi «il compito mistico» per eccellenza (32).


Per secoli la donna ha subito mortificazioni di natura spirituale e corporale. In qualche modo le è stata negata la possibilità di esprimersi al meglio delle sue potenzialità senza sottostare a limiti imposti dall’altro e dall’alto. Ora si assiste anche ad una singolare «rivincita»: proprio le donne, a lungo tenute lontane dall’altare e dalle decisioni più importanti, si stanno riappropriando di uno spazio che è loro dovuto nella Chiesa. Ed ecco che sposando inaspettatamente anima e corpo propongono una mirabile simbiosi fra spirituale e materiale giusto in un ambito non facilmente soggetto a restrizioni di sorta, quello della preghiera. Appare dunque singolare e straordinaria insieme la «provocazione» di cinque teologhe spagnole che hanno scritto altrettanti saggi sulle possibilità offerte dal pregare con i cinque sensi del corpo, cioè udito, vista, tatto, olfatto e gusto. La felice coniugazione di elementi ascetico-contemplativi e fisico-corporali praticabili dall’orante attraverso orecchi, occhi, dita, naso e palato rende più partecipata, unica, non ripetitiva l’esperienza della preghiera. Così l’udito serve per ascoltare la parola di Dio, ma anche se stessi; l’olfatto converte la preghiera in sensazione divina e dà l’idea del profumo di Cristo nell’esistenza umana (Mt 26, 7 e Mc 14, 3); la vista richiama alla mente il valore dello sguardo femminile, di quello divino e della stessa Maria; il gusto si accompagna al vissuto della convivialità eucaristica; il tatto mette in campo le medesime sensazioni provate dalla figlia di Giario (presa per mano da Gesù ed alzatasi dal letto di morte) e dall’emorroissa che aveva toccato il Figlio dell’uomo con viva fede – dopo essere rimasta a lungo senza sperimentare alcun contatto umano, reietta com’era per il suo stato di impurità – (33).


Come si vede non solo sono delle teologhe a scrivere di questo ma anche le fenomenologie esemplarmente citate hanno come protagoniste delle donne, che dunque recuperano in pieno la loro dignità e restano degne di memoria, sulla scorta di quanto avvenuto alla donna di Betania che infranse un vaso prezioso per versarne il profumo sul corpo del Signore, il quale nonostante lo sdegno di taluni così testimoniò il suo apprezzamento verso di lei: «in verità vi dico: ovunque sarà predicato il Vangelo nel mondo intero, si parlerà pure di quello che ella ha fatto, in memoria di lei» (Mc 14, 9).



Note


1 – Cf C. TADDEI FERRETTI, Donne e religioni: un rapporto poliedrico, in «Prospettiva Persona», n. 31 (2000), 43-47, passim.


2 – Cf C. RICCI, Maria di Magdala e le molte altre, D’Auria, Napoli 1995.


3 – GREGORIO DI NISSA, La vita di Santa Macrina, Fabbri Editori, Milano 1997, 132.


4 – E. GIANNARELLI in GREGORIO DI NISSA, op. cit., 13-14.


5 – E. GIANNARELLI in GREGORIO DI NISSA, op. cit., 36-37.


6 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, Le donne in Europa. 1. Nei campi e nelle chiese, Editori Laterza, Roma-Bari 1992, 129; ed. or., Harper and Row, New York 1988.


7 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, op. cit., 113.


8 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, op. cit., 138.


9 – G. DUBY, I peccati delle donne nel Medioevo, Editori Laterza, Roma-Bari 1997, 140-141; ed. or., Gallimard, Paris 1996.


10 – B. S. ANDERSON, J. P. ZINSSER, op. cit., 301; Cf pure E. E. GREEN, Lacrime amare. Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2000.


11 – G. DUBY, op. cit., 81-82.


12 – DONIZONE, Vita di Matilde di Canossa, Jaca Book, Milano 1984.


13 – G. DUBY, Donne nello specchio del Medioevo, Editori Laterza, Roma-Bari 1995, 102; ed. or., Gallimard, Paris 1995.


14 – G. DUBY, I peccati delle donne nel Medioevoop. cit., 28-29.


15 – G. M. JANTZEN, Power, Gender and Christian Mysticism, Cambridge University Press, Cambridge 1995/1997, 216-223.


16 – Cf G. ANODAL, Santa Caterina de’ Ricci. Una maestra di vita per la donna d’oggi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995.


17 – Cf E. PASZTOR, Donne e sante. Studi sulla religiosità femminile nel Medio Evo, Studium, Roma 2001.


18 – G. M. JANTZEN, op. cit., 242-277.


19 – Cf G. ZARRI, Recinti, il Mulino, Bologna 2000.


20 – AA. VV., Una Visita Apostolica a Cerignola alla fine del XVI secolo, Centro Ricerche di Storia ed Arte “Nicola Zingarelli”, Cerignola 2000, 32.


21 – F. TOMIZZA, La finzione di Maria, Rizzoli, Milano 1981; Narrativa Club, Milano 1982, 215.


22 – R. VEGETTI, Il genio femminile: una storia mancata. Donne cattoliche del ‘900, in «Orientamenti Sociali Sardi», n. 1 (2000), 183-184. Cf pure AA. VV., Una memoria mancata. Donne cattoliche nel ‘900 italiano, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», n. 2 (1998).


23 – R. VEGETTI, op. cit., 185.


24 – Cf L. M. LOMBARDI SATRIANI (a cura di), Santi, streghe & diavoli. Il patrimonio delle tradizioni popolari nella società meridionale e in Sardegna, Sansoni, Firenze 1971. Cf pure C. TULLIO ALTAN (a cura di), La sagra degli ossessi. Il patrimonio delle tradizioni popolari italiane nella società settentrionale, Sansoni, Firenze 1972.


25 – Cf P. RODRÍGUEZ, Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione divina, Editori Riuniti, Roma 2001.


26 – F. MERINO ESCALERA, La vocazione della donna e il femminismo di Edith Stein, in «Nuovo Sviluppo. Rivista semestrale di Scienze Umane», n. 1 (2000), 26.


27 – F. MERINO ESCALERA, op. cit., 26-29.


28 – Cf AA. VV., La religiosità in Italia, Mondadori, Milano 1995.


29 – Cf G. M. JANTZEN, op. cit., 76.


30 – G. M. JANTZEN, op. cit., 341.


31 – G. M. JANTZEN, op. cit., 347.


32 – G. M. JANTZEN, op. cit., 353.


33 – Cf I. GÓMEZ-ACEBO (a cura di), A. FUERTES TUYA, M. ZUBÍA GUINEA, M. NAVARRO PUERTO, T. LEÓN MARTÍN, Pregare con i sensi. L’esperienza di cinque teologhe, Paoline, Milano 2000; ed. or., Desclée de Brouwer, 1997.

IL CULTO CRISTOLOGICO NELLA RELIGIOSITÀ POPOLARE

Roberto Cipriani


Premessa


La nostra indagine sul culto cristologico del crocifisso, condotta alla metà degli anni novanta, riguarda un caso singolare di religiosità popolare tuttora rilevabile nella Sicilia centrale, presso il santuario di Castel Belici, 489 metri s.l.m., non lontano dai comuni di Marianopoli e Villalba, in provincia di Caltanissetta. Ogni anno il 3 maggio, nella giornata che il calendario liturgico cattolico dedica all’Invenzione della Santa Croce, diverse migliaia di pellegrini spesso a piedi, talora scalzi, si recano a rendere omaggio ad un crocifisso ligneo scolpito nel XVII secolo da frate Umile da Petralia.


Il tempio, lasciato senza cura per un lungo periodo, è stato recuperato al culto popolare per volontà dei devoti e delle devote del Signuri di Bilìci, ritenuto portentoso e taumaturgo per molte malattie. La chiesa di Castel Belici è ricca di ex voto, a testimonianza delle grazie che i fedeli ritengono di aver ottenute dal miracoloso Crocifisso.


Grazie alla spinta dal basso, all’interesse ed alla pressione del popolo, la devozione è rifiorita di recente, anche per l’occasione del 350.mo anniversario dall’inizio del culto al Crocifisso nella cappella del castello feudale. Una commissione di laici, accompagnata da una vigile consulenza sacerdotale, ha da tempo l’incarico di organizzare la celebrazione solenne del 3 maggio e di curare l’accoglienza presso il santuario.


L’inchiesta è stata realizzata sia con una metodologia quantitativa (mediante la somministrazione di 350 questionari ai pellegrini) sia con una metodologia qualitativa (attraverso l’osservazione partecipante e numerose interviste libere con vari protagonisti dell’evento).


I partecipanti al pellegrinaggio, provenienti da diverse parti della Sicilia, chiamano il viaggio (u viaggiu) la loro esperienza di cammino verso il santuario. Il viaggio può essere intrapreso sia per chiedere un aiuto particolare sia per ringraziare di qualche vantaggio ottenuto.


Del resto se in un comune della Sicilia centrale, ad esempio in provincia di Caltanissetta, Agrigento, Palermo, capita che qualcuno abbia dei problemi di salute, che non riesce a risolvere per le vie mediche abituali, può sentirsi consigliare da un congiunto, un amico, magari un estraneo, di rivolgersi “a lu Signuri di Bilìci”, il quale “provvederà”.


Questo genere di provvidenza non può che essere di natura metafisica, divina. In effetti, “lu Signuri di Bilìci” altri non è che Cristo stesso raffigurato come crocifisso, in una scultura in legno realizzata da un frate-artista del XVII secolo, frate Umile da Petralia, autore di molte altre opere simili realizzate in diverse parti d’Italia (dalla Sicilia, soprattutto, a Roma, Loreto, Assisi).


Indubbiamente l’opera del religioso-scultore è di fattura pregevole. Soprattutto il capo del crocifisso suscita un notevole fascino. Lo si direbbe una creazione non umana. Non a caso su di esso è nata una leggenda, variamente ricordata e costellata di dettagli da parte dei nostri intervistati, che raccontano dell’intervento di un angelo per completare l’opera rimasta incompiuta proprio all’altezza della testa.


Se è vero che la suddetta opera d’arte esercita una sua attrattiva tutta speciale nondimeno vi è da dire che la sua presenza al castello di Belici non è casuale. Essa è in fondo il frutto di un preciso disegno che nasce dall’azione controriformista della chiesa cattolica, a lunga gittata nel secolo XVII, con il desiderio di contrastare il movimento protestante.


In effetti il caso del Crocifisso di Belici non è isolato. Esso è un punto di riferimento essenziale, uno snodo si direbbe, per una fitta rete di culto che si ramifica in particolare nella Sicilia centrale e vede il proliferare di espressioni locali e persino domestiche che ruotano senza soluzione di continuità attorno alla figura del Cristo crocifisso.


La scelta di questa immagine, di così forte impatto per la cultura popolare, non è senza significato. Essa risponde ad un desiderio preciso: mantenere legate o recuperare le masse popolari alla chiesa-istituzione, ritrovare un punto di dialogo, di connessione. Quale migliore soluzione, dunque, se non quella della figura umanissima del Gesù dolente, vittima sacrificale, incarnazione massima del dolore umano, modello di sofferenza e parametro essenziale per gruppi di persone avvilite da drammi personali quotidiani e tragedie immani che scaturiscono da guerre, pestilenze e carestie?


Sociologicamente si deve osservare che il cattolicesimo in quest’area (ma non mancano esempi anche altrove) ha colto nel segno facendo della figura del Cristo in croce un medium formidabile di comunicazione, in grado di resistere alle traversie dei secoli e suscettibile di essere recuperato anche in un’epoca che si direbbe tutta dominata da spinte secolarizzanti e da nuovi idoli globali.


In verità il culto del Crocifisso riesce ad allignare agevolmente su un terreno che non è affatto alieno da sensibilità di tipo religioso, come è emerso anche in una precedente indagine condotta nella medesima area [Cipriani 1992] e che tuttavia non aveva dedicato spazio alla religiosità popolare, esaminata invece più specificamente attraverso questa ricerca sul pellegrinaggio al Castello di Belìce.


Altre forme di pellegrinaggio non mancano di costellare il calendario annuale dei devoti siciliani, impegnati a visitare i numerosi santuari dell’isola o ad affrontare viaggi più lunghi per recarsi a San Giovanni Rotondo presso la tomba di Padre Pio, a Pompei, a Loreto, od ancora più lontano a Fatima o, soprattutto, a Lourdes. Del pellegrinaggio a quest’ultima località francese si pensava di tenere anche conto, nel progetto originario di questa ricerca. Ma poi per ragioni contingenti (la sopravvenuta indisponibilità di ricercatori già specialisti in questo genere di ricerche in itinere) ed anche per considerazioni più rigorosamente metodologiche (il campione dei treni per ammalati e loro accompagnatori a Lourdes è troppo ristretto, per cui risulterebbe poco rappresentativo di una realtà più vasta) si è preferito concentrare tutta la nostra attenzione sull’evento (limitato nel tempo ma assai più ampiamente rilevante) de “’u viaggiu a lu Signuri di Bilìci”, cioè al castello, dopo l’attraversamento dell’omonimo torrente.


Il simbolo della croce


La croce, simbolo cristiano per eccellenza, ha una forma ascensionale, che ben si attaglia a costituire il culmine di una forma  elevata. La presenza di una croce o di un crocifisso rende un monte ancor più manifestamente sacro. D’altro canto gran parte della mistica cristiana ha il carattere di una prassi ascetica, cioè di un’ascesi, che di per se stessa indica la procedura volta al progredire verso gradi sempre maggiori di spiritualità, mortificazione, rinuncia. I percorsi ascensionali di questo tipo comportano una gradualità, scandita da una divisione in fasi, in tappe successive di avvicinamento e di innalzamento.


L’obiettivo rimane sempre il raggiungimento di un luogo stabile, sicuro, protetto e protettivo. Insomma la vetta diventa un elemento di distinzione, che marca la differenza fra chi vi giunge e chi deve accontentarsi di guardarla da lontano.


La mole maestosa di una montagna funge sovente da salvaguardia contro eventi ostili e diventa punto di riferimento essenziale, non trascurabile. La sua forma vagamente triangolare sembra alludere anche alla tensione umana verso la dimensione divina. In effetti la base terrena è il piedistallo di una massa piuttosto consistente che si innalza verso l’alto per esprimere purezza, spiritualità eccelsa.


Clara Gallini [1971: 26-28] in riferimento alla tradizione delle “novene sarde”, le quali comportano la costruzione di villaggi provvisori nei pressi del santuario, scrive che “sono due mondi profondamente diversi a prima vista.


Il paese è sempre lì, stabile nel tempo, e visibile a tutti, perché per la sua strada ci si deve comunque passare. La chiesa campestre bisogna invece cercarsela, spesso in fondo a una strada che finisce proprio lì…


L’ubicazione di una chiesa campestre … viene scelta … con un maggior grado di libertà, che consente quindi di tener conto anche di motivazioni estetiche: si segue, di solito, un sicuro senso paesaggistico. È rarissimo il caso che comunità di novena sorgano ai margini della pianura …; il più delle volte sorgono in montagna: potrà essere la testata di una piccola valle … o la vetta di un monte …, da cui si spazi su un ampio paesaggio; potrà essere, come avviene anche per i paesi, il cuore di un altopiano. Ma per lo più si preferisce costruire sul dolce declivio di un colle che scende giù, pochi chilometri più in basso, verso il fiume o un lago, oppure su uno sprone o al bordo, quasi precipite, di un altopiano o di un pianoro, da cui lo sguardo abbracci ampie distese di monti e di valli. La zona circostante è spesso ricca di fonti e quindi di vegetazione, di macchia o degli ultimi boschi rimasti. È raro che vi si coltivi. Ecco la prima rottura che lo spazio della novena propone rispetto a quello, noto e quotidiano, dell’orizzonte di paese.


È una natura diversa e più varia, che dà l’immagine della libertà. Una libertà raggiungibile con poche ore di cammino a piedi, come si faceva fino a pochi anni orsono: or ancor più ravvicinata, a portata di una mezz’ora di automobile.


Una libertà che si crede di ottenere, situandosi entro una zona-limite.


Un numero considerevole di chiese campestri è infatti decentrato rispetto alla superficie dell’agro comunale, ed è molto spesso situato in un punto vicinissimo al tracciato del suo confine o addirittura sul confine stesso; si può anche dare il caso che, in questo luogo, si situi la confluenza di tre o più confini di paese. Sappiamo che i tracciati dei limiti comunali furono stabiliti legalmente e disegnati su carte catastali attorno alla metà del secolo scorso. Sappiamo anche che  gli operatori cercarono di rispettare, il più possibile, l’andamento di quei confini che la tradizione orale, rigorosamente osservata per secoli, attribuiva all’agro di ogni singolo abitato. Per questo, possiamo ritenere che la attuale ubicazione “di confine” delle chiese campestri risponda a una situazione assai vicina a quella originaria.


Essere al confine significa due cose: situarsi in una posizione il più possibile eccentrica rispetto al paese e protendersi, al contrario, verso l’altro o gli altri paesi più vicini. La comunità di novena è, insomma, una specie di zona franca “fuori” del paese dalla cui parrocchia dipende, ma “al centro” di convergenza di un certo numero di paesi diversi.


È in questo peculiarissimo punto che si sono poste le premesse per la realizzazione, entro la festa, di un momento di libertà.


Libertà vigilata, di breve tempo, pronta immediatamente a venir risucchiata entro le durezze della vita di sempre, come un elastico che prima si tiri al massimo e poi, all’improvviso, si molli, facendolo ribattere di nuovo sulla mano, nella posizione da cui era partito.


Anche l’urbanistica delle due comunità – di paese e di novena – risponde a criteri antitetici.


Il paese fa corpo, come un pugno chiuso, entro uno spazio sociale guadagnato di fronte a una natura che isola e separa, e a un modo di produzione (quello agricolo e pastorale) che frantuma in microunità familiari autonome.


Il paese afferma la propria socialità contro la natura e un modo di produzione che isola e separa.


La novena si apre alla natura, vi si immerge con confidenza. La festa nega la produzione e afferma il vivere di gruppo”.


Quanto scrive Clara Gallini sulle modalità delle “novene sarde” corrisponde in larga misura (fatta eccezione per la costruzione del villaggio provvisorio) a quanto si riscontra a Belici, meta del pellegrinaggio che ha luogo il 3 maggio in onore del Crocifisso. In effetti il santuario è collocato su un altopiano che domina un paesaggio mirabile ed è punto di confine o di confluenza ravvicinata di diversi comuni (soprattutto Marianopoli e Villalba, ma anche Santa Caterina Villarmosa, Resuttano, Vallelunga Pratameno, nella provincia di Caltanissetta, e Castellana Sicula, Valledolmo, Petralia Soprana, Petralia Sottana, nella provincia di Palermo), di due province (Caltanissetta e Palermo) e di due diocesi (Caltanissetta e Cefalù). Proprio nella zona del santuario è collocato il limite territoriale. Ai suoi piedi corrono i torrenti Belici, Vicaretto ed Ogliaro, la ferrovia  Caltanissetta-Palermo, l’acquedotto della Madonie. Queste ultime fanno da corona per lo scenario di fondo della vista che si gode dall’altezza dei 489 metri di Castel Belici e dei 499 metri del luogo in cui è situato il cosiddetto calvario (dove è collocata una croce in ferro, ora sormontata da un pilastro che fa da piedistallo ad una statua del Redentore con le braccia aperte).


Si è detto che il monte può essere considerato pure un centro, una sorta di ombelico. A tal proposito conviene ricordare, fra l’altro, l’importanza scritturistica del monte Tabor (alto appena 588 metri, luogo della transizione del Cristo dalla condizione umana a quella divina, mediante la trasfigurazione), la cui radice linguistica ha a che vedere con la dimensione ombelicale.


Appunto da un ombelico primordiale sarebbe nato il mondo. E dall’ombelico di Visnù, secondo un’antica tradizione induista, ebbe origine il fiore di loto che schiudendosi costituì la prima comparsa della vita. Il centro del loto era occupato dal monte Meru, asse del mondo. Fiore puro ed incontaminato, il loto è anche simbolo di una capacità di resistenza persino in acque torbide, dunque è un chiaro segno dell’inattaccabilità del bene da parte del male. Infine non è da trascurare il nesso precipuo fra il loto-ombelico e l’acqua, linfa di vita e contenitore di vita (nel grembo materno).


L’omphalos, l’ombelico secondo la lingua greca, è non solo generatore ma essenzialmente un centro spirituale. Celebre è rimasto l’omphalos collocato a Delfi in Grecia, luogo sacro ad Apollo che ivi avrebbe ucciso il serpente Pitone (citato da Varrone nel De lingua latina, VII, 17), figura ctonia, sotterranea (come non sottolineare qui il singolare elemento di convergenza con la figura del  demonio sconfitto dal Cristo crocifisso?). Detto luogo era ritenuto punto d’incontro fra l’esistenza terrena degli uomini, quella sotterranea dei morti e quella divina. Anche l’isola di Ogigia era per Omero l’ombelico del mondo.


Omphalos è considerato sia il Santo Sepolcro, dove si narra venne posto il corpo del Cristo dopo la morte, sia l’albero di pipal detto della Bodhi (illuminazione), presso il quale il Buddha fu illuminato. Ogni riferimento ombelicale è inoltre un ritorno alle origini, alla vita primordiale, come avviene nella pratica yoga che prevede appunto la contemplazione del luogo primigenio, cioè l’ombelico, centro energetico e trasformatore.


Nella cultura celtica il dio Nabelco (Marte) era signore e centro, anzi la divinità del centro: del resto proprio in un luogo sacro, all’interno di una foresta, i druidi eleggevano il loro signore e capo-sacerdote.   


“Il luogo sacro – scrive Cazeneuve [1971: 244] – si presenta sempre, più o meno, come il centro del mondo, dato che ogni gruppo primitivo tende a limitare a se stesso la sua  nozione dell’universo umano. Spesso, il centro del mondo è una montagna “dove si incontrano il cielo e la terra” [Eliade 1948: 321; 1949: 30; 1976: 111], cioè evidentemente il piano umano e il piano extra-umano”.


Si può aggiungere che “il sacro celeste rimane attivo nell’esperienza religiosa, per mezzo del simbolismo dell’“altezza”, dell’“ascensione”, del “centro”, ecc. … La montagna è più vicina al cielo, e questo le conferisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (“alto”, “verticale”, “supremo”, ecc.), e d’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche. Ed è, in quanto tale, dimora degli dei. Tutte le mitologie hanno una montagna sacra, variante più o meno illustre dell’Olimpo. Tutti gli dei celesti hanno luoghi riservati al loro culto, sulle cime” [Eliade 1976: 111].


Inoltre “l’altitudine ha una virtù consacrante. Le regioni superiori sono sature di forze sacre. Tutto quel che più si avvicina al cielo, partecipa con intensità variabile alla trascendenza. L’“altitudine”, il “superiore”, sono assimilati al trascendente, al sovrumano. Ogni “ascensione” è una rottura di livello, un passaggio nell’oltretomba, un superamento dello spazio profano e della condizione umana. Inutile aggiungere che il sacro dell’“altitudine” è convalidato dal sacro delle regioni atmosferiche superiori e, quindi, del Cielo … Ne consegue che la consacrazione mediante rituali di ascensione o scalata di monti, o salita di scale, è valida perché inserisce chi la pratica in una regione superiore celeste. La ricchezza e la varietà del simbolismo dell’“ascensione” sono caotiche soltanto in apparenza; considerati nel loro insieme, tutti questi riti e simboli si spiegano col sacro dell’“altitudine”, cioè del celeste. Trascendere la tradizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra (tempio, altare) per mezzo della consacrazione rituale o della morte, si esprime concretamente con un “passaggio”, una “salita”, un’“ascensione”” [Eliade 1976: 113-14].


Per di più “San Giovanni della Croce rappresenta le tappe della perfezione mistica per mezzo di una Subida del monte Carmelo, e illustra da sé il proprio libro con una montagna dalla lunga e faticosa ascesa. Tutte le visioni e tutte le estasi mistiche comprendono una ascensione al cielo. Secondo attesta Porfirio, Plotino conobbe questo rapimento celeste quattro volte durante tutto il periodo della loro convivenza. San Paolo fu anch’egli sollevato fino al terzo cielo” [Eliade 1976: 120-21].


Ancora Eliade [1976: 239] presenta poi una disamina più puntuale: “la pietra su cui si era addormentato Giacobbe non era soltanto la “casa di Dio”, era anche il luogo dove, per mezzo della “scala degli angeli”, Cielo e Terra venivano posti in comunicazione. Di conseguenza il betilo era un “centro del Mondo”, come la Ka’ba della Mecca o il Monte Sinai, come tutti i templi, palazzi e “centri” consacrati ritualmente. La qualità di “scala” che unisce il Cielo e la Terra derivava da una teofania effettuatasi in quel punto; la divinità che si mostrò a Giacobbe sul betilo rivelava, in quel momento, il luogo ove poteva scendere in terra, il punto ove il trascendente poteva manifestarsi nell’immanente”.


Lo studioso rumeno ricorda inoltre “alcune credenze intorno all’omphalos (“ombelico”) del quale Pausania dice (X, 16, 2): “Quel che gli abitanti di Dodona chiamano omphalos è fatto di pietra bianca e si ritiene che occupi il centro della terra, e Pindaro, in una delle sue odi, conferma questa opinione”. Molti lavori sono stati pubblicati sull’argomento … Una tomba, considerata come punto d’interferenza del mondo dei morti, del mondo dei vivi e di quello degli dei, può essere contemporaneamente un “centro”, un “omphalos della Terra” … Il luogo, ove poteva stabilirsi la comunicazione col mondo dei morti e con quello degli dei sotterranei, era consacrato come un anello di congiunzione fra i vari piani cosmici, e un tal luogo poteva trovarsi unicamente in un “centro”” [Eliade 1976: 240]. Inoltre “sovrapponendosi all’antico culto ctonio di Delfo, Apollo si annetté l’omphalos e i suoi privilegi. Inseguito dalle Erinni, Oreste è purificato da Apollo accanto all’omphalos, il luogo sacro per eccellenza, l’“ombelico” che col suo simbolismo garantisce una nuova nascita e una coscienza reintegrata” [Eliade 1976: 240-41].


Il simbolismo del centro rinvia direttamente ai miti relativi all’albero cosmico, simbolo dell’universo e suo pilastro di sostegno. Tale albero detto anche albero della vita, albero dai frutti miracolosi che danno immortalità a chi ne mangia (è chiara qui l’allusione pure alla proposta fatta dal serpente ad Adamo), incarna in sé l’idea di sorgente di vita e di vita immortale. “L’Albero della Vita è il prototipo di tutte le piante miracolose, che risuscitano i morti, guariscono le malattie o danno la giovinezza, ecc.” [Eliade 1976: 302]. Non a caso “il vero legno della Croce risuscita i morti, ed Elena madre di Costantino lo fece ricercare. La Croce fu fatta col legno dell’Albero della Vita, che stava in Paradiso, e da questo deriva la sua virtú. L’iconografia cristiana spesso rappresenta la Croce come Albero di Vita. Leggende sul legno della Croce e sul viaggio di Seth in paradiso circolarono per tutto il medioevo in tutti i paesi cristiani. … Adamo … mandò il figlio Seth a domandare l’olio della misericordia all’Arcangelo che custodisce la porta del Paradiso. … L’Arcangelo gli consigliò di guardare il Paradiso tre volte. La prima volta Seth vide la fonte da cui nascevano i quattro fiumi e, al disopra della sorgente, un albero secco. Al secondo sguardo, un serpente si avvolse intorno al tronco. Al terzo, vide l’albero innalzarsi fino al cielo: portava sulla cima un neonato e le sue radici affondavano nell’Inferno (l’Albero della Vita si trovava al centro dell’Universo, e il suo asse attraversava le tre regioni cosmiche). L’Angelo spiegò a Seth quel che aveva veduto, e gli annunciò l’avvento di un Redentore; gli diede poi tre semi del frutto dell’albero fatale gustato dai suoi genitori … dai semi … spuntarono nella valle di Hebron tre alberi, che crebbero di una spanna fino al tempo di Mosè. Questo, conoscendone l’origine divina, li trapiantò sul Monte Tabor o Horeb (“centro del mondo”). … Davide ricevette il comando divino di portarli a Gerusalemme (altro “centro”). … i tre alberi si fusero in uno solo, che servì a fabbricare la Croce del Redentore” [Eliade 1976: 303-0]. L’albero della croce del Cristo è origine di nuova vita, elemento sacrale. Ma “il simbolo che incorpora la realtà assoluta, la sacralità e l’immortalità è di difficile accesso. I simboli di questa specie si collocano in un “centro”, cioè sono sempre ben difesi, e giungere fino a loro equivale a un’iniziazione, a una conquista (“eroica” o “mistica”) dell’immortalità” [Eliade 1976: 392].


“Ma non si creda che questo “itinerario difficile” si attui soltanto nelle prove iniziatiche o eroiche …: lo ritroviamo in molte altre circostanze, per esempio nelle complicate circonvoluzioni di certi templi, come quello di Barabudur, i pellegrinaggi ai Luoghi Santi (Mecca, Hardwar, Gerusalemme, ecc.), le tribolazioni dell’asceta sempre alla ricerca della strada che lo conduca a se stesso, al “centro” del proprio essere, ecc. La strada è ardua, sparsa di pericoli, perché in realtà si tratta di un rito di passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita e dall’uomo alla divinità. L’accesso al “centro” equivale a una consacrazione, a un’iniziazione; all’esistenza di ieri, profana e illusoria, succede una nuova vita, reale, duratura ed efficace” [Eliade 1976: 393-94].


La ricchezza delle suggestioni eliadiane non si esaurisce qui. “In Mesopotamia un monte centrale (la “montagna dei paesi”) unisce Cielo e Terra. Tabor, nome del monte palestinese, potrebbe essere tabbur, e significare“ombelico”, omphalos; quanto al monte Gerizim era chiamato “ombelico della Terra” (tabbur eres). La Palestina, grazie alla sua condizione di luogo più alto (è infatti prossima alla cima della montagna cosmica), non fu inondata dal diluvio. Per i cristiani il Golgota era al centro del mondo, ed era insieme cima della montagna cosmica e sito ove Adamo era stato creato e sepolto. Sicché il sangue del Redentore aveva bagnato il cranio di Adamo, sepolto appunto ai piedi della Croce, e l’aveva riscattato” [Eliade 1976: 386-87]. Non solo. Va anche tenuto presente che “il paradiso dove Adamo fu creato di creta sta, ben inteso, al centro del Cosmo. Il paradiso era l’“ombelico della terra” e, secondo una tradizione siriana, era situato “sopra una montagna più alta di tutte le altre”. Secondo il libro siriaco La Caverna dei Tesori, Adamo fu creato al centro della terra, nello stesso punto ove era destinata a sorgere la Croce di Gesú” [Eliade 1976: 390].


La croce è uno dei simboli fondamentali in campo religioso (non solo per i cristiani, ma anche per gli antichi egiziani, i cretesi, i cinesi ed altri ancora). I suo bracci si intersecano in un centro e si inscrivono in un cerchio ma danno luogo anche ad un quadrato. La croce ha molte valenze simboliche: evoca la terra, su cui è infissa; è riferimento di partenza per ogni orientamento verso i punti cardinali; segue l’asse est-ovest, nord-sud, alto-basso, destra-sinistra, terra-cielo, terra-sottoterra (o viceversa, in ognuna delle direzioni); essa è sintesi e misura; è il cordone ombelicale del mondo legato alla sua origine; segna i luoghi sacri; indica le sepolture; sormonta gli altari o vi sottosta come punto d’intersezione delle strutture del tempio; è punto di irraggiamento; è elemento ascensionale, come una scala; è elemento di connessione, come un ponte; ricorda l’azione salvifica del Cristo; è speranza rivolta al cielo; è segno di sofferenza ma anche di amore per i nemici; è simbolo di passione e di resurrezione; dà la morte eppure dona la vita; è ignominia ed insieme regalità; segna una fine ed in pari tempo un inizio; è pure un omphalos, cioè punto di rottura dello spazio e del tempo; è polo del mondo (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, 13, 28) ed impronta cosmica (Gregorio di Nissa). In effetti “la croce assume i temi fondamentali della Bibbia. Essa è albero di vita (Genesi, 2, 9), Saggezza (Proverbi 3, 18), legno (quello dell’arca, delle verghe di Mosè che fecero sgorgare l’acqua, l’albero piantato sul bordo delle acque correnti, legno cui è legato il serpente di bronzo. L’albero di vita simbolizza in modo reciprocamente scambievole il legno della croce, da cui l’espressione usata dai Latini: sacramentum ligni vitae” [Chevalier, Gheerbrant 1982: 323].


Una delle trattazioni più documentate sul tema della croce è rintracciabile in Jean Hani, autore di un contributo nella raccolta di saggi curata da Julien Ries [Hani in Ries 1988: 47-65]. Il docente di Amiens così definisce la croce: “con il cerchio, il quadrato e il centro, costituisce uno dei simboli fondamentali usati dall’umanità. La croce stabilisce e determina la relazione con il centro mediante l’intersezione di due rette; genera il quadrato collegando i punti terminali degli assi con quattro rette; iscritta nel cerchio, poi, rappresenta uno dei simboli più sacri … il cristianesimo le ha attribuito una portata e una consistenza ineguagliabili”.


Tra le peculiarità della croce è il suo carattere orientativo: “la croce ha come propria funzione quella di orientare  l’uomo, e questo a due livelli. L’orientamento totale dell’uomo è dapprima un orientamento spaziale in relazione ai punti cardinali terrestri e in seguito diventa un orientamento diciamo, temporale, in relazione ai punti cardinali celesti. L’orientamento spaziale si articola secondo l’asse est-ovest, corrispondente al sorgere e al calare del sole; l’orientamento “temporale” s’articola intorno all’asse di rotazione del mondo, Nord e Sud e alto-basso, cioè intorno all’asse verticale che unisce i poli e taglia, all’orizzonte, il piano orizzontale terrestre. L’incrocio di questi due assi dà alla croce la sua terza dimensione, condizione per un orientamento totale. L’orientamento spaziale mette l’uomo in accordo con il suo ambiente vitale, la concordanza degli orientamenti spaziali e temporali lo mette in accordo con il mondo soprannaturale, trascendente: dall’ambito terrestre si passa a quest’ultimo attraverso l’asse verticale” [Hani in Ries 1988: 49-50].


Per di più “non si potrebbe esagerare l’importanza del centro nel simbolismo della croce. Il centro è il punto in cui l’asse polare si incontra con il piano orizzontale; a livello metafisico è il punto in cui il “Raggio celeste”, divino, incontra la materia prima. Da questo punto si irradia in tutte le direzioni e queste, a livello cosmico, genereranno lo spazio e gli esseri che lo abitano” [Hani in Ries 1988: 51-2]. In tale prospettiva viene portato un esempio, quello “della città romana, strutturata intorno al cardo (asse nord-sud) e al decumanus (asse est-ovest). All’inizio della fondazione troviamo un rito augurale nel corso del quale l’officiante, con questi due assi tracciati sopra il suo capo, divide lo spazio celeste per costituire un templum, in modo che la città sia in un certo modo un templum terrestre; infine, al centro, dove i due assi si intersecano, si praticava un mundus, una fossa rotonda, rappresentazione del centro celeste, germe embrionale sottile della costruzione” [Hani in Ries 1988: 52]. D’altra parte nel cristianesimo “la chiesa regolare è costruita su uno schema cruciforme che è contemporaneamente una immagine del cosmo. Il suo orientamento secondo gli assi cardinali ne fa una croce piana e la sua elevazione ne fa una croce solida, tridimensionale in cui l’asse verticale si identifica con l’Axis mundi-schema cruciforme che è anche quello del corpo umano, in questo caso il corpo di Cristo che riassume il creato” [Hani in Ries 1988: 61]. Ancor più convincente, se possibile, è l’interpretazione che Hani fornisce come conclusione del suo saggio: “fare il segno della croce su di sé significa tracciare i due assi di questa croce sui due assi omologhi della struttura corporea: l’asse verticale parte dalla testa, che corrisponde al cielo nella simbolica tradizionale, e va verso il basso del busto, tradizionalmente assimilato al quadrato, immagine della terra; in seguito, l’asse orizzontale congiunge le due spalle. Si traccia così lo schema della creazione sul proprio corpo, che di questa creazione è un riassunto in virtù della corrispondenza del microcosmo e del macrocosmo; questo segno è nello stesso tempo il “segno del Figlio dell’Uomo”. I due assi si incrociano in mezzo al petto, al livello del cuore, centro vitale dell’essere e “luogo” dell’immanenza divina nell’essere creato” [Hani in Ries 1988: 62].


In realtà, secondo quanto scrive Julien Ries [1988: 45], “lo storico delle religioni dispone di una abbondante documentazione sulla croce. Esisteva nell’antica civiltà dell’Indo, nel mondo elamita e mesopotamico, nell’area, assai vasta, delle migrazioni ariane e delle culture nate da queste migrazioni; nelle civiltà precolombiane ed amerinde, nelle culture dei popoli senza scrittura d’Asia, d’Africa e di America. Troviamo la croce nell’induismo, nel buddismo, molti secoli prima della morte di Cristo. Tale universalità mostra che siamo qui in presenza di un simbolo essenziale, primordiale nella vita dell’homo religiosus”.


Anche Georg Simmel [1993: 113-4] si è soffermato a discutere della valenza della croce ed in particolare del crocifisso. Egli ne parla nell’ambito delle sue riflessioni sull’arte religiosa, subito dopo aver analizzato la figura della Madonna con il bambino: “il Cristo crocifisso, o il Cristo deposto dalla croce, sembra non avere la forza con cui potrebbe tornare a valere come il centro animatore delle vivide passioni che lo circondano. La salma, che palesemente obbedisce al pari di ogni altro pezzo di materia alla mera forza di gravità, a cui manca la direzione dello spirito: verso l’alto, nel dominio sull’inerzia materiale, non rende visivamente comprensibile la superiorità che egli pure deve esercitare. I mezzi pittorici per il superamento di questa contraddizione somigliano a quelli usati per il problema precedente”. Qui il riferimento è ovviamente alla rappresentazione della Madonna con il bambino. Ma anche il Cristo crocifisso ha una sua centralità. Infatti “anzitutto, anche qui la nudità agisce come fattore accentuativo; quindi c’è il fatto che questo corpo è proprio l’unico immobile tra tutti gli altri che sono drammaticamente in movimento. Infine anche in questo caso è proprio il suo esserci presentato come un dato di fatto a convincerci in modo tanto pregnante della sua incredibile forza attraverso l’opposizione rispetto alla sua giustificazione visibile”. Peraltro “il fatto che, grazie a taluni fattori imponderabili, l’apparizione del Cristo possa ciò che in verità non può questa è l’espressione pittorica della profonda paradossalità del cristianesimo; il fatto che venga preteso dall’anima ciò che in realtà è impossibile, dall’essenza terrena il raggiungimento di valori trascendenti, dall’imperfezione la perfezione. Il compito è reso tanto difficile da apparire irrisolvibile. Solo nel momento in cui esso viene tuttavia risolto, almeno idealmente o nell’apparizione del “sacro”, emerge l’incommensurabile potere dell’anima. Si salta, per così dire, lo stadio della “possibilità”; rispetto al compito assoluto del cristianesimo l’anima si trova nella condizione dell’impossibilità e tuttavia anche in quella del compimento e completamento; la “mediazione” di Cristo esprime in un certo qual modo la caduta dell’istanza del “poter-fare”, subentra un termine mediano ideale al fine di rendere percepibile il fatto che l’anima qui porta a termine ciò che non può. Questo fatto fondamentale del cristianesimo, che il credo quia absurdum esprime dal lato dell’intellettualità, è ripreso dall’arte nel momento in cui essa lascia esercitare a manifestazioni provviste di un’evidente capacità di convincimento effetti che esse non sono per l’appunto palesemente in grado di esprimere”. In questo stimolante passo di Simmel occorre seguire con molta cura il percorso dell’argomentazione proposta. Innanzitutto è chiaro che il Cristo crocifisso appare di per sé abbastanza depotenziato, impossibilitato a compiere atti rilevanti per l’intero genere umano. Un Cristo morente, sofferente, o già morto sulla croce, sembra potere ben poco; il suo “poter-fare” è sostanzialmente nullo, nella condizione in cui si trova. Eppure egli diventa centro di attenzione e capace di realizzare ciò che sembra assurdo, impossibile. Il suo corpo privo di spirito animatore è rilasciato verso il basso e non riesce – si direbbe – a dominare dall’alto, a manifestare la sua superiorità. Forse anche per questo il crocifisso viene collocato solitamente in posizione elevata, quasi a fargli superare una certa inferiorità dovuta alla sua postura somatica. Ma è soprattutto la rappresentazione artistica – pittorica o scultorea che sia – che consente di alludere al superamento del gap fra impossibilità e realtà, già facendo leva sulla stessa nudità ed immobilità del crocifisso, la cui situazione è eccentrica rispetto al contesto ma proprio per questo assume un carattere di centralità. Un corpo nudo ed immobile fra altri corpi rivestiti ed in movimento (sulla tela, sullo sfondo o comunque attorno ad esso) segna lo stacco, la diversità, ma soprattutto rinvia alla sua “incredibile forza” che è in grado di trascendere l’opposto, cioè il dato di fatto del suo stato di manifesta inferiorità come soggetto in fin di vita o già spirato. Avviene così che “l’apparizione del Cristo possa ciò che essa in verità non può”. Questo paradosso favorito dalla trasfigurazione artistica corrisponde perfettamente alla medesima capacità che il cristianesimo ha di trasformare un’impossibilità di fondo (quella per l’anima di raggiungere l’irrealizzabile, per il genere umano di attingere il trascendente, per degli esseri imperfetti di divenire perfetti) in una realtà concreta, grazie alla soluzione che “almeno idealmente” o con l’“apparizione del “sacro”” fa vedere il grande potere dell’anima, la quale partendo da una situazione di incapacità giunge però al “compimento e completamento”, grazie alla “mediazione” del Cristo e di fatto a quella della rappresentazione artistica. In definitiva il cristianesimo e l’arte compiono la stessa operazione: convincono in merito alla realizzabilità di quanto a prima vista risulta impraticabile.


Di tutt’altro avviso e tenore è la reazione di Freud a fronte del crocifisso. In una sua lettera del 10 settembre 1911 a Ludwig Binswanger l’inventore della psicanalisi confessa quale sia stata l’origine dei suoi studi su temi religiosi: “la frequenza dei crocifissi campestri qui in Tirolo, dove sono più numerosi di quanto lo fossero fino a poco tempo fa i turisti, mi ha indotto a studi sulla psicologia delle religioni dei quali qualcosa vedrà forse la luce, a tempo e luogo. È certo che dopo la pubblicazione non mi permetteranno di rimettere piede nel Tirolo”. Kerény [1969: 10], nella sua “Introduzione” all’opera freudiana su Totem e tabú, non si limita a riportare questa citazione ma aggiunge che “la sua intenzione però era di giocare un tiro non soltanto agli adoratori di crocifissi, ma anche agli etnologi… Vi sono alcune cose, nell’opera di Freud, che non si spiegano se non in base a un’audacia quasi bricconesca”.


Santuari e pellegrinaggi


Julien Ries distingue varie fasi nello sviluppo delle forme di santuario. In primo luogo parla delle grotte preistoriche, fra cui quelle celebri di Lascaux del periodo magdaleniano, che presentano pitture alle pareti le quali sono delle narrazioni di miti, fondamenti connotativi del primitivo homo religiosus. La fase ulteriore concerne il periodo neolitico con le rappresentazioni della dea madre e del toro. Successivamente, fra il VII ed il V millennio avanti Cristo, compaiono i primi santuari siriaco-palestinesi con altari e culti dei morti, simboli di vita e di morte. Nel IV millennio sorgono i templi sumeri, “dimora del dio”. “Il tempio mesopotamico” in particolare “è costruito su di una terrazza circondata da un muro di clausura che delimita il territorio consacrato al dio. All’interno si trova la sala principale con la statua divina e, in un angolo la ziggurat, torre a terrazze con i piani arretrati l’uno sull’altro, che collegavano il cielo alla terra e avevano sulla sommità l’“appartamento del dio” dal quale i sacerdoti scendevano con la statua del dio al momento delle grandi feste. Davanti al “santuario” della statua del tempio si celebravano le cerimonie del culto in onore del dio: offerte quotidiane, preghiere, adorazioni, partenze di processioni” [Ries 1995: 35]. Nel III millennio cominciano le costruzioni degli edifici sacri egiziani: “i templi sono l’abitazione degli dei sulla terra e luoghi di incontro dell’uomo con il divino. Essi sono dimore del sacro, sempre ricostruite sullo stesso luogo, delimitato una prima volta e consacrato alla divinità” [Ries 1995: 36].


Ries, di solito assai acuto nelle sue analisi, non manca di sottolineare un dato di notevole rilevanza sociologica: “per l’homo religiosus, lo spazio non è omogeneo. C’è da un lato lo spazio nel quale si svolge la sua vita quotidiana con l’alternarsi delle varie attività, ma dall’altra parte c’è una realtà spaziale nella quale avviene l’incontro con il Divino: è lo spazio sacro del santuario e del tempio che noi troviamo nelle diverse religioni” [Ries 1995: 36].


A sua volta Prandi preferisce insistere su una triade di base: “la sequenza santuari, pellegrinaggi, ex-voto esprime un fenomeno ad un tempo complesso e unitario …: ogni tentativo di definire l’uno o l’altro dei tre termini conduce necessariamente a utilizzare i due rimanenti per non incorrere nel rischio di fornirne un’immagine monca o quanto meno riduttiva” [Prandi 1995: 44].


L’inizio della storia dei santuari cristiani è attribuito da Prandi alla pratica delle visite alle tombe dei protomartiri romani. “Luoghi santi per la presenza delle reliquie di coloro che testimoniarono la fede con la vita, essi divennero i punti privilegiati dove chiunque poteva porsi direttamente in comunione con una santità sigillata dal sangue sacrificale. … Essi divennero i centri di una devozione il cui raggio si andò allungando verso le zone progressivamente acquisite al cristianesimo. Si venne così definendo una reciprocità tra luoghi santi e pellegrini … Ben presto le reliquie si sarebbero moltiplicate; non solo, ma avrebbero mostrato poteri miracolosi: di qui l’inventio, in particolare a partire dal VII-VIII sec., di sempre nuovi e spesso improbabili reperti quali, ad es., i molteplici chiodi che erano serviti per la Crocifissione, le spine della corona di Cristo, i pezzetti del legno della Croce, i capelli della Madonna” [Prandi 1995: 44]. Anche al castello di Belici si parla di capelli della Madonna, ma il riferimento non è ad una reliquia ma ad una pianta che cresce in cima al monte, mentre altrove (ad Utelle, nelle alpi provenzali, presso il santuario medioevale di montagna della Madonna della Misericordia dove “quel paesaggio splendido ha da solo orientato e suscitato la costruzione degli uomini. … le Alpi formano una ghirlanda di smeraldo intenso di porpora e di diamante; il vento che soffia insistente crea un clima maestoso sul monte dei miracoli”) “nei giorni dei pellegrinaggi i bambini cercano fra le rocce, le minuscole stelle di pietra scintillante che sono il dono e la grazia della Vergine” [Oursel 1979: 40].


Ma proprio “a partire dal Seicento la mappa dei santuari in Italia si farà sempre più densa. La maggior parte sono testimoni di miracoli e dunque meta di pellegrinaggi continui o stagionali. Diventano pure luoghi di raccolta di ex voto di ogni tipo: la triade santuario-pellegrinaggio-ex voto prima evocata diventa strutturale al fenomeno devozionale dell’epoca moderna e contemporanea” [Prandi 1995: 45].


La religiosità popolare meridionale (e non)


Si è quasi sempre associata la religiosità popolare al territorio meridionale italiano, quasi trascurando il fatto che forme similari costellano anche la realtà del resto del nostro paese. E si è anche ritenuto che la religiosità meridionale fosse una sorta di reazione alle direttive del Concilio di Trento [Avagliano: 257], quasi una modalità di recupero – da parte della popolazione – di caratteri suoi propri nell’espressività religiosa, soprattutto di tipo tradizionale. Anzi, come rileva Violi [1996: 2], è stato “considerato il tema nel quadro del rinnovamento degli studi sull’età della Controriforma” ed è stato “assunto il modello della parrocchia tridentina come il referente concettuale di una ipotesi di ricerca” collocata “sullo sfondo di riferimenti alla storia delle mentalità collettive, alla formazione del mercato e alla modernizzazione nella storia del Mezzogiorno”. In effetti ci si è occupati “del rapporto tra santuario e parrocchia” ritenendo “che la “persistenza fino ai nostri giorni” dei santuari sarebbe una “chiara indicazione della via non tridentina assunta dalla religiosità meridionale”. Tutte le classi sociali assumerebbero, pertanto, il santuario come “cosa propria e diversa dalla Chiesa organizzata””.


Indubbiamente questo carattere oppositivo-contestativo non manca nelle manifestazioni religiose popolari, ma è anche accertato il connotato della continuità fra parrocchia e santuario, tra religiosità ufficiale e religiosità popolare. Il caso del santuario di Castel Belici è emblematico in proposito: il culto del Crocifisso nasce e si sviluppa in un clima controriformistico, viene proposto in un ambito essenzialmente ecclesiale, torna ad essere ribadito attraverso forme similari nel territorio circostante, giunge fino al XX secolo ma in forme diluite, frammentate, quasi sulla soglia della scomparsa definitiva; ma proprio quando la cosiddetta chiesa ufficiale sembra abbandonare il filone di tale devozionalità popolare è lo stesso popolo che riprende possesso totale della sua espressività di fede e continua a celebrare i riti del passato, nonostante il disinteresse del clero ed anzi forse in grazia di tale situazione di “vuoto di potere gerarchico ecclesiastico” (il santuario di Belici è rimasto a lungo quasi del tutto incustodito). Di recente però le due parrocchie più vicine alla cappella del Crocifisso hanno ripreso ad averne cura, inserendo quel luogo di culto in un quadro pastorale a più ampia gittata, che non si limita alla celebrazione festiva del 3 maggio ma è preceduta da altre manifestazioni (fra cui i pellegrinaggi parrocchiali nei giorni di vigilia) ed è seguita da altri momenti rituali previsti dal calendario liturgico per commemorare la croce ed il Crocifisso (in particolare nella data del 14 settembre, giorno dedicato all’“Esaltazione” della Croce, ma anche in quella del 10 settembre, festa dell’Addolorata).  


Ha ragione Violi [1996: 21], inoltre, nel ribadire che “l’area delle influenze di ciascun santuario, non soltanto nel caso dei tradizionali luoghi sacri di confine, non coincide con i confini amministrativi delle regioni e delle province, ma è delineata da fattori religiosi e culturali diversamente diffusi sul territorio”. A Belici in effetti si è sul limitare fra le province di Palermo e Caltanissetta, ma neppure lontano da quelle di Agrigento e Catania (ed in realtà si registra la presenza di pellegrini provenienti anche da queste zone). La nostra indagine empirica mediante questionario mette chiaramente in luce il carattere diffusivo del culto del Crocifisso, fa emergere la centralità (essenzialmente regionale) del santuario beliciano, ne sottolinea il ruolo emblematico, ispiratore di altri riti, luoghi ed oggetti di culto similari.


In pari tempo viene ricordato che “il pellegrinaggio era inteso come un normale atto periodico necessario di una vita di nomadi condotta sui tratturi e sui sentieri malagevoli delle montagne, resistendo persino agli agi offerti dai progressi della nuova civiltà” [Violi 1996: 24].


Ma è soprattutto il periodo bellico che pare esaltare al massimo la funzione-chiave del santuario come punto di riferimento religioso per eccellenza, con peculiare riguardo all’immagine sacra che lo connota. Infatti “si registra, fin dal periodo iniziale della guerra, un incremento delle invocazioni individuali, per casi speciali e materiali e per l’incolumità fisica” [Violi 1996: 99]. In particolare “il riemergere dei caratteri materiali e particolaristici della pietà appare come un fenomeno di ritorno, oltre che come effetto di una secolare permanenza. … Mentre raffiora, talvolta, in contraddizione con l’immagine dominante dell’Italia cattolica, il dubbio che la vita cristiana e la civiltà siano assenti dalla stessa vita nazionale, di fronte a tanti lutti, di fronte alla probabilità espressamente prospettata di disgrazie, ferite, prigionia e morte, ciò che si ritiene essenziale è la vita eterna. Solo dall’alto può giungere l’aiuto efficace… La guerra ripropone una assoluta preminenza della visione della morte e della salvezza eterna, dei destini ultimi di chi è chiamato ad affrontarla”. Il Crocifisso di Belici è stato oggetto di grande devozione nei periodi coincidenti con lo svolgimento delle due guerre mondiali di questo secolo: la salvezza fisica o la liberazione dalla prigionia ricorrevano nelle preghiere dei soldati e dei loro familiari, come ci viene testimoniato in alcune interviste. Si faceva la promessa di un viaggio a piedi scalzi sino al santuario di Belici per ottenere salva la vita di un congiunto, del marito, di un figlio, di un fratello. E comunque si pregava intensamente per il ritorno dei prigionieri, per l’incolumità fisica dei combattenti, per la guarigione dei feriti, per la pace eterna dei morti.


Del resto il rinvio alla figura del Cristo sofferente è una costante della religiosità popolare, specie quando trova motivi di convergenza con situazioni esistenziali personali che sono drammatiche e dolorose. In proposito si possono citare numerose testimonianze. Valga per tutte, a titolo emblematico, una serie di affermazioni raccolte durante un’indagine sull’esposizione della Sindone: ““Tristezza per la sofferenza di Cristo. Come se fosse morto un fratello flagellato”. “M’è sembrato che il corpo martoriato del Cristo non fosse solo il suo, ma di ogni uomo della terra”. “Con gli ammalati ho avuto un’impressione più grande. Mi sono sentita uguagliata loro dalla sofferenza di Cristo” … “Ho chiesto a Cristo di spiegarmi il significato delle sue sofferenze…”. “Commozione. Sono rimasto colpito dal corpo con i segni delle spine, dal volto, che nonostante le sofferenze appare molto sereno e buono” [Garelli 1983: 90]. In realtà “la passione e la sofferenza di Cristo sono gli aspetti su cui ha meditato e riflettuto la maggior parte dei visitatori. Circa il 36% del campione individua infatti nel sacrificio di Cristo il messaggio più alto della Sindone, un messaggio in grado ancor oggi di interpellare l’umanità. Si riscontrano a questo livello alcuni dei contenuti specifici della tradizione religiosa cattolica, quali la funzione di redenzione della sofferenza di Cristo (il valore salvifico della sofferenza e del dolore di Cristo); la riattualizzazione della crocifissione e della passione in seguito alle colpe dei credenti e dell’umanità; l’identificazione del dolore dell’umanità con il dolore di Cristo; la scarsa capacità di sofferenza dell’uomo in rapporto a quella di Cristo; il senso del limite e della nullità dell’uomo e la confessione delle proprie colpe” [Garelli 1983: 106-7].


Sentimenti non dissimili si rinvengono nelle parole che il beato Giacomo Cusmano, sacerdote e medico siciliano, vissuto nel secolo scorso, indirizzava il 2 luglio 1877 alla sorella Vincenzina per consolarla delle sue sofferenze nel campo dell’apostolato: “guarda Gesù che pende dalla croce per la salute delle anime, senti la sete ardentissima che ha per la salute delle stesse e supera ogni ostacolo per cooperarti a salvarle. … Però se è vero ch’Egli è crocifisso da coloro che veniva a redimere, è pur troppo vero che morendo Egli vinceva la morte ed umiliato e percosso dai Suoi nemici nella Sua stessa umiliazione ne riportava vittorioso il trionfo!” [Falzone 1995: 196].


Tuttavia è anche vero che tale interpretazione del Cristo sofferente non esaurisce ogni possibilità di lettura del fenomeno devozionale relativo alla figura del redentore. Quest’ultima “investe una pluralità di rapporti, che vengono costituiti o giustificati, riscattati o convalidati in una complessa prospettiva e articolazione di significati”, come scrivono Lombardi Satriani e Meligrana [1976: 160], i quali trascrivono pure un canto popolare siciliano, basato su un dialogo fra un servo e Cristo [Lombardi Satriani, Meligrana 1976: 172]:


Un servu tempu fa, di chista piazza,


Cussì prijava a un Cristu, e cci dicìa:


– Signuri, ‘u me’ patruni mi strapazza,


Mi tratta comu un cani di la via;


Tuttu mi pigghia ccu la so’ manazza,


La vita dici ccu mancu hedi mia;


Si jò mi lagnu, chiù pejiu amminazza,


Ccu ferri mi castìia prigiunìa;


Undi jò vi preju, chista mala razza


Distruggìtila vui, Cristu, pi’ mia.


(Tempo fa un servo, di questo paese, / Così pregava un Cristo, e gli diceva: / – Signore, il mio padrone mi strapazza, / Mi tratta come un cane di strada; / Mi prende tutto con la sua manaccia, / La vita – dice – neppure è mia; / Se io mi lamento, minaccia ancor di più, / Mi condanna alla prigionia in ferri; / Per cui io vi prego, questa cattiva razza / Distruggetela voi, Cristo, per me. )


La risposta del Cristo è immediata e circostanziata:


– E tu forsi chi hai ciunchi li vrazza,


O pure l’hai ‘nchiuvati comu a mia?


Cui voli la giustizia si la fazza.


Né speri ch’àutru la fazza pri tia.


Si tui si’ omu e non si’ testa pazza,


Metti a prufittu ‘sta sintenza mia:


Iò non sarìa supra ‘sta cruciazza,


Si avissi fattu quantu dicu a tia.


(- E tu hai forse le braccia monche, / Oppure le hai inchiodate come me? / Chi vuole la giustizia se la faccia. / Né sperar che altri la faccia per te. / Se tu sei uomo e non sei un dissennato, / Trai profitto da questa mia affermazione: / Io non starei su questa crociazza, / Se avessi fatto quanto dico a te. )


Questo dialogo cantato non a caso è ambientato in Sicilia, dove – forse più che altrove – si nota una specifica dimestichezza fra la cultura popolare e la figura del Cristo crocifisso. Il colloquio è a tu per tu, quasi senza complessi di inferiorità da parte del servo (contadino?) che chiede vendetta contro la malvagità del padrone ma si sente rispondere che deve provvedere in proprio, difendendosi da solo, senza aspettare interventi dall’alto. Il tono d’insieme sembra rientrare compiutamente nel filone della religiosità popolare “come” protesta (in sostituzione di quella che è più tipicamente – e gramscianamente consapevole –  “di” protesta) [Cirese 1976: 116].


Si potrebbe anche tornare a discutere se tutta la cultura popolare, ed in particolare la religiosità, sia una modalità di protesta contro le istitituzioni dominanti. Il fatto è che molte manifestazioni sono difficilmente catalogabili entro categorie ben precise. Che senso ha definire “come” protesta la devozione verso il Crocifisso ligneo dalle braccia mobili, articolabili, scolpito dalla scuola dei Fantoni (sec. XVII) nell’area lombarda, appena qualche anno dopo la serie scultorea di frate Innocenzo da Petralia, le cui opere sono presenti sia al nord che al centro ed al sud? Le opere fantoniane e quelle innocenziane nascono certamente su committenza ecclesiastica ma vengono assorbite nell’alveo religioso-popolare ed ancor oggi sono oggetto di culto in un contesto di religione di chiesa sorretto tuttavia da un forte consenso di base. Che dire poi delle celebrazioni di teatro popolare che vedono nel nisseno la pratica della scinnenza, cioè della celebrazione drammaturgica del rito della passione e morte del Cristo in forma pubblica, profana, cioè letteralmente fuori del tempio, con larga partecipazione di fedeli in veste di organizzatori, protagonisti, spettatori? Anche in quest’ultimo caso l’immagine centrale è quella del Crocifisso, che così prosegue e prolunga nelle zone della Sicilia centrale la catena di riti devozionali dedicati alla figura del Cristo in croce. La rappresentazione drammatica della passione e morte è indicata anche con il nome di Martoriu, una vera e propria recita con numerosi attori nisseni, talora in tournée anche all’estero, com’è avvenuto nel 1995 con performances in Francia e Germania [Noto 1995: 5].


Giustamente è però da chiedersi, con Sciascia [1965: 34-5]: “ma è davvero il dramma del figlio di Dio fatto uomo che rivive, nei paesi siciliani, il Venerdì Santo? O non è invece il dramma dell’uomo, semplicemente uomo, tradito dal suo vicino, assassinato dalla legge? O, in definitiva, non è nemmeno questo, ed è soltanto il dramma di una madre, il dramma dell’Addolorata? … E parrebbe che, comunque intesa, la passione susciti nel popolo siciliano, un momento di autentico afflato religioso: ma in realtà si appartiene a una “contemplazione della morte” quale può esprimere un mondo assolutamente refrattario alla trascendenza. Se è possibile parlare di religione senza il trascendente, allora è religiosa questa “contemplazione della morte” che trova nella Pasqua la sua più acuta rappresentazione”. Non è agevole trovare prove empiriche sull’assenza della trascendenza. Ma non è neppur garantito che la contemplazione della morte espunga ogni riferimento alla dimensione metafisica. Ammesso pure che ciò sia possibile di fronte all’evento letale di una qualsiasi persona, come non immaginare neanche un barlume di trascendenza dinanzi alla morte del Cristo? La posizione di Sciascia appare qui drastica e senza alternative: ci sarebbero solo materialismo, rifiuto del misterioso, rigetto del divino. Coglie dunque nel segno Fiammetta Basile [1994: 165] quando commenta così lo scritto di Sciascia: “in realtà il senso del sacro che hanno i siciliani è irriducibile a ogni religione ufficiale: il suo nucleo è ancora sgomento, senso del dramma che incombe su tutta l’esistenza umana e che giunge al culmine al momento della morte”. Inoltre “questa fede ha accompagnato i drammi e le speranze di un popolo nel corso dei secoli, i suoi incontri con la divinità, l’accettazione della condizione umana. … Ed è, a ben guardare, una religiosità umile, modulata sui bisogni del quotidiano, nonostante le fantasie barocche di certe manifestazioni e di certi cerimoniali che, in alcuni momenti, hanno il sopravvento”.


Nel nostro caso, dunque, se è vero che il culto verso il Crocifisso di Belici nasce in piena epoca barocca tuttavia non ne restano gli orpelli, i riempimenti sproporzionati, le aggiunte posticce. La cerimonialità attuale è ridotta al minimo. Il ricco perizoma di un tempo non è più utilizzato. Non si attaccano più denari sulla statua. La modestia del tutto rispecchia in pieno la “religiosità umile” evocata sopra. Il Crocifisso è ridotto alla sua significatività essenziale.


D’altra parte la figura del Crocifisso ben si presta a fungere da simbolo sintetico ed attrattivo. Non a caso nelle zone vicine a Castel Belici, per esempio a San Cataldo, è evidente la centralità della devozione al Crocifisso: “è da sottolineare il dato della devozione cristocentrica che, del resto, risulta confermato da altri dati già noti. Si pensi agli altari, cappelle e chiese intitolate al Crocifisso e alle numerose feste celebrate in suo onore” [Bontà 1998: 28]. Ancora a proposito di San Cataldo si ricorda che “fin dai suoi inizi – il paese fu fondato nella prima metà del Seicento – la comunità si affida alla protezione del Crocifisso… Lungo il Seicento i sancataldesi assegnano nei loro testamenti legati e donazioni alla cappella del Crocifisso nella chiesa parrocchiale. Anche nella chiesa di S. Nicola da Tolentino (l’attuale Mercede), compare già nella seconda metà del Seicento l’altare dedicato al Crocifisso. Nel corso del Settecento la devozione al Crocifisso si diffonde ulteriormente. Numerose chiese si dotano di un altare o di una cappella dedicati al Crocifisso… Intorno agli stessi anni si dà avvio alla pia pratica di venerare nelle famiglie il Crocifisso detto lassa lassa la catina. … Agli inizi dell’Ottocento infine i Mercedari curano la festa dell’Invenzione della Croce e verso la metà del secolo si incomincia a portare in processione il Crocifisso di padre Pirrelli. La festa più importante dedicata al Crocifisso si celebra nella chiesa madre, la seconda domenica di ottobre e in quell’occasione – fin dal Seicento – si svolge un’importante fiera “alla quale sogliono concorrervi le città e le terre convicine”” [Bontà 1998: 28-9].


Un’ulteriore conferma della diffusività di tale simbolo-chiave della religiosità popolare meridionale in generale e centro-siciliana in particolare proviene anche dagli studi di Luigi Maria Lombardi Satriani [1982: 103]: “per quanto riguarda più specificamente la cultura folklorica del Sud d’Italia, oggetto prevalente del nostro impegno di ricerca, ricorderemo l’ampia diffusione nei paesi dei calvari, di cui abbiamo sottolineato, in altro nostro lavoro [Lombardi Satriani, Meligrana 1982], la funzione protettiva in quanto tomba simbolica di un morto paradigmatico. In questo nostro discorso il calvario ci interessa in quanto monumento che rievoca il sacrificio di Cristo, lo spargimento del suo sangue per la redenzione dell’umanità. Le scene della passione riprodotte nel calvario propongono alla pietà dei fedeli un Cristo piagato, sanguinante, crocifisso”. A Castel Belici il set dello spazio sacro presenta un continuum (che è tale anche per i pellegrini in visita) fra  Crocifisso in chiesa, calvario sulla punta estrema del colle e statua del Redentore che sovrasta da un alto piedistallo. Più di recente è stata allestita una via crucis, che completa l’itinerario legato al simbolo più significativo della cultura cristiana.


Appunto la via crucis è un elemento che risulta essere una costante in ambienti anche piuttosto diversi fra loro. Si pensi ad esempio al ruolo di tale strumento devozionale soprattutto in Val Camonica a partire dalla prima metà del Settecento, grazie all’azione dei francescani [Signorotto 1978; Ferri Piccaluga 1978; 1980]. Ma non va trascurata l’azione svolta anche dai religiosi passionisti, promulgatori di varie iniziative legate alla passione di Cristo e promotori (sin dagli inizi del XX secolo) di una rivista di spiritualità completamente dedicata, come recita il titolo, a Il Crocifisso. Il sorgere di più progetti pastorali ha talora riempito probabilmente oltre misura gli spazi di devozione. Come ha scritto Cataldo Naro [1996: 8], “forse è vero che nel passato l’attenzione credente si è concentrata, piuttosto esclusivamente, almeno in alcune correnti di spiritualità e di devozione, nella considerazione delle sofferenze di Gesù durante la sua passione”.         


La letteratura orale popolare è ricchissima di riferimenti alla passione di Cristo ed alla sua morte in croce. Vi è poi tutto un filone di poesia religiosa popolare che già Paolo Toschi [1935] aveva studiata in modo approfondito e che Giovanni Battista Bronzini (1984: 254) ha riconsiderata più di recente nel contesto della tradizione orale, scrivendo fra l’altro che “i predicatori francescani furono i  maggiori promotori di rappresentazioni della passione”, non solo attraverso le loro prediche quasi drammaturgiche ma con la presenza stessa del Crocifisso sul pulpito, quale protagonista visibile e mobile, secondo la gestualità agita dal religioso in funzione di narratore e commentatore della passione. Per la Sicilia in particolare appare meritorio il lavoro di raccolta da parte di Cusimano [1951] per il Trecento ed il Quattrocento. Ma la tradizione risale ancora indietro nel tempo con lo studio di Alfonso Prandi [1967] sui Crocifissi di Cividale. E comunque sulla passione di Gesù ancor oggi la tradizione popolare presenta contenuti originali e significativi [Tommasini 1980: 77-84].


Di tutto questo sembra non accorgersi molto il Primo Sinodo Diocesano della Diocesi di Caltanissetta [1996: 33-53] che nel suo documento su “Liturgia e pietà popolare” non affronta direttamente la questione del diffuso culto popolare verso il Crocifisso e mette l’accento piuttosto sulle prescrizioni, senza una previa e documentata analisi storico-sociologica, facendo così il paio con l’altro documento del Vicariato foraneo di San Cataldo [1996], anch’esso pregiudizialmente ben critico nei riguardi della religiosità popolare ma attento, comunque, alle devozioni locali verso il Crocifisso. Vi è poi chi ha invece un approccio più calibrato nei riguardi della pietà popolare sancataldese [Naro 1997].


L’evento rituale


Il rito è probabilmente da considerare una sorta di fatto sociale totale, segnatamente dove fa capo ad un ambito relativamente ristretto, ad un’area abbastanza definibile e limitabile, come nel caso del viaggio al santuario del Crocifisso di Belici. Il concetto di fatto sociale totale deriva da Marcel Mauss [1965: 286-8] secondo il quale è possibile guardare sociologicamente ad eventi anche minori ma ridotti solo nelle dimensioni, mentre conservano la capacità di illustrare le caratteristiche di un’intera comunità, di un gruppo umano esteso. Occorre procedere con cautela, onde evitare generalizzazioni indebite ed infondate, tuttavia si tratta di fatti sociali che alludono chiaramente alle dinamiche di maggior rilevanza ed alla complessità delle azioni sociali. Il pregio maggiore dei fatti sociali totali è di riuscire a spiegare fenomeni più articolati a livello sociale e ben al di là degli eventi considerati.


L’esperienza rituale va però considerata nelle sue diverse sfaccettature. Essa può essere ambigua, polivalente, si inserisce in un quadro specifico di cultura e produce cultura. Di recente Gianmarco Navarini [1998] ha condotto una documentata analisi sul rito come concetto sociologico, individuandone la funzione di “cemento sociale”, “costruzione della realtà”, “linguaggio terapeutico”, “luogo del potere”, giungendo anche ad una proposta di definizione: “una forma sociale di azione, dal carattere simbolico e ripetitivo, orientata alla rappresentazione di una scena in cui differenti attori, sottomessi a regole comuni, partecipano alla costruzione di una dimensione sacrale” [Navarini 1998: 22]. In questa prospettiva non è difficile collocare anche il viaggio dei pellegrini di Belici, contraddistinto da un linguaggio comunicativo, da regole esplicite o implicite e sostanziali o cerimoniali, nonché da una ripetizione periodica che dà luogo ad una sequenza pluriennale, come pure da simboli molteplici (ma con il Crocifisso come preminente) che traducono in forma culturale i bisogni umani e sono veicolo per idee e concetti. Un ultimo, fondamentale carattere concerne la “competenza di confine”, che ben si attaglia alla situazione del culto beliciano: “l’attuazione di un rituale comporta la costruzione sociale di uno spazio e traccia la presenza di un confine, ovvero di una linea di separazione tra una specifica zona e il resto del territorio. Lo studio empirico di un rituale è pertanto anche osservazione dei modi in cui i confini simbolici vengono costruiti e dei modi in cui all’interno del territorio da essi delimitato gli attori celebrano il proprio stare insieme” [Navarini 1998: 28]. Il rito comporta anche una “esperienza del margine e del confine”. In particolare trattasi di “un modo competente di organizzare l’interazione sociale con una specifica scenografia, dei confini, delle dinamiche, dei ruoli, dei tempi, degli spazi che attingono da una porzione di senso di chi vi partecipa. Ogni individuo che appartiene a un gruppo sociale è a conoscenza dei riti in uso dalla collettività ed è in grado di riconoscerli quando questi vengono messi in atto. Ciò significa che l’attore sociale che partecipa al rito è un attore competente: è in grado cioè di riconoscere la coesistenza delle caratteristiche di regolazione, di ripetizione e azione simbolica presenti nella situazione” [Navarini 1998: 29]. Infine viene ribadita “la competenza di confine, una capacità cognitiva e contingente all’azione che ci permette di distinguere la differenza tra due territori, quello rituale e quello non rituale, quello interno, simbolico-ripetitivo-regolato, e quello esterno, ordinario, strumentale o di altro tipo” [Navarini 1998: 30].


Il rito è sovente anche una festa, cioè un’interruzione del ritmo lavorativo quotidiano. “In quanto pratica istituzionalizzata fondata sulla ripetizione di certe forme stabilite di comportamento, la festa è un rito, che però può contenere al suo interno attività rituali diverse o può essere associata, in quanto momento in cui si consumano in comune cibo e bevande, ossia come banchetto o convivio, a celebrazioni di vario tipo … Inoltre le feste possono essere anche accompagnate da manifestazsioni come le danze, … le forme più o meno sfrenate di baldoria e di licenza concernenti sia l’ingestione di alimenti e di bevande che i rapporti sessuali” [Ciattini 1997: 287]. A Belici questa morfologia festiva è riscontrabile solo in parte. I comportamenti appaiono più contenuti. Tuttavia si racconta che in passato il ballo era una costante, nei momenti di veglia serale e comunque collocati in luoghi e tempi separati da quelli rituali liturgici.


Peraltro è da rilevare, insieme con la Ciattini [1997: 292], quanto le feste, “se non del tutto inventate come in molti casi, siano sempre l’espressione di una relazione attiva e selettiva nei confronti di istituzioni tradizionali o almeno percepite tali”. Ciò è apparso vero a Castel Belici soprattutto fino a qualche tempo fa. Ora il connotato di alternatività è meno rilevabile, comunque risulta meno conflittuale.


Alla base del rito si trova sovente un mito, un racconto leggendario. La “miracolosa” produzione del Crocifisso di Belici ad opera di un pastorello o la realizzazione scultorea ad opera di frate Innocenzo da Petralia hanno entrambe  qualche precedente illustre: ad esempio il Volto Santo, Crocifisso che è supposto essere stato intagliato da Nicodemo a Gerusalemme e che poi è giunto “misteriosamente” nella cattedrale di Lucca.


Singolare è poi la coincidenza di qualche particolare con la vicenda di un altro Crocifisso, anch’esso ligneo, scolpito da frate Angelo da Pietrafitta (Cosenza) nel 1694 per la chiesa di San Rocco a Matera. Il santo patrono degli appestati è molto amato dai contadini ed è celebrato, insieme con il Crocifisso, nell’ultima domenica di aprile. “La gente vi accorre, partecipa alla celebrazione, si commuove davanti a quella bella immagine del Cristo sofferente sulla croce. Non da meno come nei vecchi tempi dicevamo, giacché i materani hanno sempre attribuito a quel crocifisso un grande carisma e la elargizione di speciali grazie celesti” [Pizzilli 1995: 9]. Pure il bandito Vito Eustachio Chita, soprannominato Chitarridd, era un devoto del Crocifisso di San Rocco. Infatti il 26 aprile 1896, ultima domenica del mese, si era recato, incurante del rischio che correva, a rendere omaggio al Crocifisso e ad ascoltare messa. Scoperto, venne ucciso in un conflitto a fuoco: i carabinieri regi trovarono sul suo cappello un’immaginetta di Gesù Crocifisso, da lui acquistata poco prima. A seguito di tale episodio venne composto un canto in cui si inneggiava al “Miracolo del SS. Crocifisso”: “E di Matera il popolo sì, vive oggi beato, perché la grazia ebbesi del Santo Crocifisso quel giorno che il brigante piombò nel cupo abisso”. Al di là di qualsiasi riflessione critica sul contenuto di questo canto, sta di fatto che entrambi, bandito e popolo, denotavano un forte sentimento che li legava al Crocifisso.


Tra le celebrazioni del Crocifisso che costellano il territorio italiano alcune non rispettano le date liturgiche. Così è per esempio per il Crocifisso di Cagnano Varano in provincia di Foggia: la celebrazione ha luogo il venerdì che precede il 23 aprile, il che significa – di solito – dopo la Pasqua e comunque nel giorno della settimana che più direttamente rimanda alla passione e morte del Cristo. A Mazzarino (Caltanissetta) la festa ha luogo la prima domenica di maggio.


Rispettano invece la data del 3 maggio, come a Belici, i comuni di Pescia (Pistoia), Melilli (Siracusa), Castronuovo e Monreale in provincia di Palermo, Sutera (Caltanissetta) e Pastena (Frosinone). In quest’ultima località il rito è assai articolato: sin dal Medioevo la cittadina ha come patrona la Santa Croce. Dal 1866 si svolge la Fiera della SS. Croce, che dura tre giorni, fino al 5 maggio. Un Mastro di festa conserva a casa sua una reliquia del legno della croce di Cristo, consegnatagli dal parroco con la cerimonia dell’Abbusso, che consiste nel bussare tre volte sull’uscio del predestinato alla custodia dell’oggetto sacro. Nella vigilia della festa viene uccisa una giovenca, detta Vitella della Croce (sulla sua fronte è posta una croce), vittima sacrificale (come il Cristo) le cui carni vengono distribuite fra i cittadini. Viene pure tagliato il maggio, l’albero più alto del paese, in genere un cipresso, scelto dal Mastro di festa: la designazione avviene con un taglio a forma di croce sulla corteccia del tronco. Risulta così molto evidente il nesso fra albero della vita e croce crisitana. Dopo il taglio al grido “Viva la SS. Croce” (con il primo colpo di accetta inferto dal Mastro di festa, non prima di essersi fatto un segno di croce), l’albero è portato in processione da coppie di buoi, che si avvicendano secondo una conta a cura dei bovari stessi. In piazza poi, il medesimo albero viene utilizzato per il gioco della cuccagna. In definitiva festa della croce e calendimaggio si coniugano insieme. Lo stesso avviene presso gli etiopi copti, che celebrano al medesimo tempo, il 17 settembre, Mascal cioè il giorno della Santa Croce e la fine della stagione delle piogge cioè l’inizio della stagione secca, danzando attorno ad un rogo e partecipando poi ad un convito offerto dal capo del villaggio [Grossi 1992: 366].


C’è un altro dettaglio non trascurabile ed affine a quanto avviene (o avveniva) a Castel Belici. Ce ne parla Dante Grossi [1992: 368]: “l’accento religioso, e più propriamente di devozione alla SS. Croce, che si riscontra prevalente nelle feste del maggio pastenese, è sottolineata da un’altra suggestiva manifestazione che si svolge nella notte della vigilia della ricorrenza, cioè tra il 2 e il 3. In quella notte – come di veglia per un grande evento – le campane della chiesa suonano ad ogni scader dell’ora. In quel medesimo tempo, dal tramonto all’alba, alcuni devoti fedeli della SS. Croce si recano in pellegrinaggio sulla cima del Monte Solo ove, per l’appunto, è posta una grande croce. Questi ignoti pellegrini salgono l’erta del monte, facendosi luce con fioche lanterne ed in ordine sparso: sì che tali lucerne, alla distanza, sembrano lucciole vaganti sulle falde del monte, mentre le campane scandiscono le ore…”. Qualcosa di simile ha luogo a Pollensa, nell’isola di Maiorca: la sera del venerdì santo si sale, con torce accese, alla cappella del calvario (al cui interno è un Crocifisso del XIII secolo) lungo una ripida scalinata di 365 gradini, fiancheggiata da alti cipressi.


Ma il momento più significativo dei riti di Pastena è quello dell’Abbusso: a mezzanotte “dopo che l’orologio della piazza ha rintoccato i fatidici dodici colpi, il sacerdote si fa accosto alla porta … e bussa una prima volta, ma senza ottenere risposta. Bussa una seconda volta ed il silenzio continua a riempire l’aria d’intorno. Alla terza bussata, dall’interno si ode una voce che domanda: “Chi è?”. La risposta del sacerdote, semplice e carica di promesse, è: “La santissima Croce che viene a visitarvi!”. A questo punto è difficile frenare la commozione. Le porte della casa si spalancano, e tra lo sfolgorìo delle luci e il malcelato turbamento degli astanti, il Mastro di festa in persona, presente sull’uscio, riceve fra le braccia la santa reliquia, la bacia e la porge per il bacio devoto ai familiari” [Grossi 1992: 369].


Non lontano da Pastena e precisamente a Bassiano, in provincia di Latina, si venera un Crocifisso agonizzante scolpito nel 1673 dal laico francescano frate Vincenzo Maria Pietrosanti, autore anche di altri Crocifissi fra cui quelli di Bellegra (Roma), Ferentino (Frosinone), Nemi (Roma) – raffigurato come spirante -, Sezze (Latina) – rappresentato come morto -, Caprarola (Viterbo), Farnese (Viterbo), nonché dell’Aracoeli in Roma, dove l’artista morì nel 1694. Si racconta che scolpisse di venerdì, dopo intense preghiere e qualche mortificazione.


In particolare per il Crocifisso di Bassiano è registrata “la tradizione che non una mano terrena ma celeste compisse la testa. Poiché avendo il pio laico Fra Vincenzo già incominciato a lavorarla, non riuscendo a portarla a perfezione, scongiurava il buon Gesù che gli avesse ispirato il più pietoso atteggiamento. E un giorno di venerdì, uscito dalla stanzetta a pregare, la trovò perfettamente compiuta” [Lambiasi 1942: 36].


La sacralizzazione del territorio


Un importante santuario del Santissimo Crocifisso si trova a Treia, in provincia di Macerata. Ma invero l’Italia intera è ricca di chiese e cappelle dedicate a questa devozione. Sergio Contini [1980. 147-62], direttore della rivista passionista Il Crocifisso, a varie riprese sin dal 1965 ha raccolto brevi monografie sui Crocifissi più noti, regione per regione. Per la Sicilia sono stati considerati quelli di Caltanissetta (detto “Signore della Città”), Gela e Mussomeli (quest’ultimo detto “della Chiesa dei Monti” ed opera di frate Umile da Petralia) in provincia di Caltanissetta, Carini e Monreale (in provincia di Palermo), Calatafimi (in provincia di Trapani), Licata e Siculiana (in provincia di Agrigento), Aidone e Nicosia (in provincia di Enna), Catania – l’uno detto “della Buona Morte” e l’altro “dei Miracoli” -, Caltagirone (in provincia di Catania) – detto “del Soccorso” -. Ma vari altri Crocifissi avrebbero meritato almeno una menzione, a partire per esempio da quelli che si venerano nella chiesa di San Girolamo a Termini Imerese (Palermo) ed in Santa Maria La Nova, cattedrale di Caltanissetta (dove oltre il Crocifisso è presente anche la singolarità di un altare con un Cristo Redentore che imbraccia una grande croce). A San Cataldo (Caltanissetta) merita di essere citato anche il dipinto de “Il Crocifisso con le Anime del Purgatorio”, opera di Carmelo Giunta che lo eseguì nel 1867 per la chiesa dell’Addolorata [Dell’Utri, D’Orto, La Mattina, Riggio 1996: 19, foto 3]. Ancora in provincia di Caltanissetta, a Mazzarino, è degno di menzione il Crocifisso detto “dell’Olmo”, cui è collegata l’omonima confraternita, nota anche come “Fratelli della bara”, già attiva nel 1693 [Ferrigno 1993: 8] ed attualmente molto numerosa giacché conta circa settecento iscritti.


Sono abbastanza cospicui gli elementi di coincidenza fra i vari culti: dal periodo di inizio delle pratiche devozionali (in particolare nel XVII secolo) ai racconti più o meno documentati sulla realizzazione delle sculture lignee, alle manifestazioni popolari che accompagnano le celebrazioni festive.


Eccezionale resta in ogni caso l’impatto delle opere realizzate da due artisti di Petralia, frate Innocenzo, al secolo Giuseppe (detto anche Vanni) Calabrisi (1591-1648) e frate Umile, al secolo Giovanni Francesco Pintorno (1600 o 1601-1639). La loro produzione è così vasta da creare problemi di catalogazione, soprattutto per quanto riguarda le attribuzioni all’uno o all’altro od a loro allievi.


Il primo ha lasciato Crocifissi a Palermo, Furnari e Sant’Angelo di Brolo in provincia di Messina, Loreto (Ancona), Assisi (Perugia), Porretta Terme (Bologna).


Il secondo si era proposto di scolpire trentatre Crocifissi [Macaluso 1992: 20; Riggio, Dell’Utri 1986], a cominciare da quello che nel 1623 o 1624 realizzò per Petralia Soprana e che ora si trova nella locale Chiesa Madre dei SS. Apostoli Pietro e Paolo. Copiosa è la sua serie di Crocifissi scolpiti per chiese della Calabria: a Cutro e Polia (Catanzaro), Bisignano (Cosenza), Cosenza – ma di quest’ultimo non si ha più notizia -. A proposito del suo Ecce Homo di Calvaruso (Messina) si narra che il capo fosse stato scolpito da mano angelica. Altri suoi Crocifissi sono a Malta (dove si trova anche un Crocifisso di frate Innocenzo), Collesano (Palermo), Messina – nella chiesa di Portosalvo -, Milazzo, Mistretta e Mojo Alcantara (Messina), Nicosia e Cerami (Enna), Salemi (Trapani), Grammichele – di incerta attribuzione – e Randazzo (Catania). A Palermo cominciò il suo ultimo Crocifisso, completato poi da frate Innocenzo, per la chiesa di Sant’Antonino [Dell’Utri 1987: 62].


A parte le opere sicuramente di frate Umile e quelle attribuibili con qualche dubbio, sono stati segnalati come da lui eseguiti i Crocifissi di Catania – nella chiesa di Santa Maria di Gesù -, Acicatena (Catania), Agrigento – nella chiesa di San Calogero -, Naro (Agrigento), Caltanissetta – nella chiesa di Santa Flavia -, Caltavuturo e Mussomeli (Caltanissetta), Enna – nella chiesa di Montesalvo -, Agira, Piazza Armerina e Pietraperzia (Enna), Gangi (Palermo), Galati Mamertino (Messina), Ferla (Siracusa), Comiso e Chiaramonte Gulfi (Ragusa).


Come si può facilmente notare, quasi non vengono lasciati spazi privi di una sacralizzazione, che in realtà raggiunge ogni angolo recondito dell’isola. Questa estensione dello spazio sacro è poi accompagnata dalla creazione di reti di santuari e culti che insistono su un medesimo contesto. Si pensi all’ambito interessato dal Crocifisso di Castel Belici: tutt’intorno sono collocati altri tredici santuari, di cui sei a Caltanissetta (Redentore, Signore della Città, Madonna della Catena – dove ogni sabato di maggio si recano dei pellegrini scalzi -, Immacolata, Madonna di Fatima, San Michele), due a Mussomeli (Madonna dei Miracoli e Madonna delle Vanelle) e gli altri a Santa Caterina Villarmosa (Madonna delle Grazie), Recattivo (Madonna di Tagliavia), San Cataldo (Madonna delle Grazie), Sutera (San Paolino) e Campofranco (San Calogero).


L’accesso allo stesso santuario di Belici avviene da più vie, sottolineando così il suo essere al centro di un sistema reticolare quale punto di convergenza da Marianopoli come da Villalba, ma pure dai comuni delle Madonie come del cosiddetto Vallone.


La delimitazione dello spazio sacro e dei suoi punti cardinali di riferimento serve pure per l’esecuzione di un canto contadino in uso per la trebbiatura con la mula (bendata e costretta a girare in cerchio):


Attenta gran mula


‘ca na purtari na bona nova.


E chi nova ed arrivintu!


Sia lodato ogni momentu


Lu Santissimu Divinisimu Sacramentu


E … la bedda Matri di Gibilmanna,


‘ca na va guardari lu cuarpu e l’arma.


E … lu Signuri di Bilìci


Iddu iè lu veru Dia ‘ca murì ‘ncruci.


Alla bedda Matri di Tagliavia


‘ca ni guarda a tia e a mia.


A Santa Lucia


‘ca ni guarda di la vista di l’uacchi.


A Santa Rusalia


‘ca na va guardari di ogni pesti e malatia.


(Attenta grande mula / che ci devi portare una buona notizia. / E che notizia è arrivata! / Sia lodato ogni momento / Il Santissimo Divinissimo Sacramento / E … la bella Madre di Gibilmanna, / che ci deve proteggere il corpo e l’anima. / E … il Signore di Belici / Egli è il vero Dio che morì in croce. / Alla bella Madre di Tagliavia / che ci protegge te e me. / A Santa Lucia / che ci protegge la vista degli occhi. / A Santa Rosalia / che ci deve proteggere da ogni peste e malattia)


Il giro della mula corrisponde in linea d’aria alle diverse dislocazioni di alcuni fra i più famosi santuari siciliani: si comincia dalla Madonna di Gibilmanna presso Cefalù in provincia di Palermo, si gira in senso orario verso il santaurio del Crocifisso di Belici, si prosegue con la Madonna di Tagliavia a Recattivo tra Resuttano e Santa Caterina Villarmosa in provincia di Caltanissetta, si va verso sud dove si trova il santuario di Santa Lucia al Sepolcro a Siracusa e si completa il giro con Palermo e la sua patrona Santa Rosalia. La sequenza non è dunque casuale e rispetta un ordine preciso. Si può facilmente desumere che questa lode contadina sia tipica della zona a nord-est di Belici. Appare significativo soprattutto il legame fra sacro e profano in un contesto che è tipicamente quotidiano e lavorativo e dunque presumibilmente distante da influenze religiose dirette. Nondimeno i numi protettori dell’attività agricola e di chi vi è coinvolto sono ben presenti, stringono il set dell’azione in un cerchio tutelare invocato con il canto e legittimato dall’adesione di fede di chi lo esegue.


Conclusione: la sacralizzazione del tempo


Non solo lo spazio viene sottoposto ad una sacralizzazione diffusa. Anche il tempo calendariale è trattato allo stesso modo. Vale in questo caso l’esempio della cantata settecentesca denominata Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca S. Giuseppi in Betlemmi. Canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru di la città di Murriali, divisi in 9 jorna, pri la nuvena di lu Santu Natali di Gesù Bambinu, oggetto di un’accurata edizione di cui sono autori Francesco Conigliaro, Anselmo Lipari e Cosimo Scordato [1987], che hanno preso molto sul serio questo Viaggiu, “figura esemplare di espressione della religiosità popolare” [Bof 1987: 5] ma anche frutto di attenta elaborazione teologica, che talora però presenta qualche imperfezione formale nelle espressioni dialettali. Il testo originale venne pubblicato a Palermo tra il 1740 ed il 1768 dalla “Stamparia di la Divina Pruvidenza pri la Eredi d’Aiccardu”.  


Il viaggio è doloroso soprattutto per Giuseppe, che Maria cerca di consolare. Ma poi alla nascita di Gesù tutto si tramuterà in gioia.


Al quinto giorno la fatica risulta già gravosa (versi 223-8):


Siguitava lu viaggiu


San Giuseppi cu Maria,


suppurtandu ogni disagiu,


ogni affannu e travirsia.


E tu ingratu e scunuscenti


Si patisci ti lamenti.


(Continuava il viaggio / San Giuseppe con Maria, / sopportando ogni disagio, / ogni affanno e traversia. / E tu ingrato e sconoscente / Se patisci ti lamenti)


Il contenuto della cantata è un invito a considerare le sofferenze del viaggio di Maria e Giuseppe per trarne ammaestramento, stimolo, a sopportare con pazienza le difficoltà della vita. Da Maria in particolare viene l’esempio (versi 241-6):


Chi viaggiu dulurusu


chi fu chistu pri Maria,


ntra l’invernu rigurusu.


‘Ntra lu friddu a la campìa!


La Signura di lu celu


Ntra lu jazzu e ntra lu jelu.


(Che viaggio doloroso / che fu questo per Maria, / nell’inverno rigido. / Nel freddo fuori di casa! / La Signora del cielo / In mezzo alla paglia ed in mezzo al gelo)


Non è qui possibile ripercorrere e commentare tutto l’itinerario proposto da Binidittu Annuleru. Si rinvia per questo al documentato saggio di Cosimo Scordato [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: 33-56, in particolare 50-6, sul Viaggiu come senso della vita, mistero pasquale, dimensione escatologica], al contributo di Francesco Conigliaro [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: in particolare 60-3] ed a quello di Anselmo Lipari [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: in particolare 95, su “Una via segnata dalla Croce”].


In sintesi si può dire con Conigliaro [Conigliaro, Lipari, Scordato 1987: 40-1] che “se il Viaggiu rispetta profondamente i motivi e i temi religiosi della sua ispirazione, ciò non toglie che attraverso il racconto si possono intravedere ambiente, scenario, abitudini, comportamenti tipicamente siciliani. … Il viaggio è lu viaggiu: esso cerca e trova cioè in Sicilia le sue possibilità di senso, mentre a sua volta l’esperienza siciliana del viaggiu cerca il suo senso compiuto in ciò che avviene nei personaggi biblici di Maria e Giuseppe”.


Dal nostro punto di vista interessano in particolar modo due elementi. In primo luogo l’idea del viaggio è un tópos già presente nella cultura popolare siciliana almeno dal secolo XVIII, se non da prima. In secondo luogo il Viaggiu esemplare di Maria e Giuseppe è condotto e narrato in relazione alla figura del messia e del redentore, di cui il Crocifisso costituisce l’elemento simbolico per eccellenza in quanto simbiosi fra vita e morte, scambio-dono fra umano e divino e tra divino ed umano, tramite di comunicazione fra terra e cielo: dalla base della croce sino alla sua sommità, attraverso l’offerta sacrificale del corpo del Cristo uomo-Dio.


Come se non bastasse quanto citato sinora, anche nelle strade cittadine o in cima a qualche altura una serie di calvari ricorda l’evento cruciale della passione e morte di Gesù. In qualche caso, come a Montedoro (Caltanissetta), il calvario è divenuto anch’esso oggetto di culto, soprattutto in occasione della Settimana Santa.


Appunto tale momento centrale dell’anno liturgico dà adito a maifestazioni incentrate sulla croce, specie il venerdì  santo (celebre è la processione dei Misteri a Trapani), allorquando il Crocifisso lascia il suo luogo abituale nel tempio ed avanza in mezzo al popolo [Canta P. 1997: 61]:


tra due ali di folla muta


nell’odore degli incensieri


in una musica drammatica


i portatori del cristo vanno


e improvvisamente


le strade non sono più strade


ma sentieri ciottolosi


che si perdono in lontananza


negli erei1 fioriti


le case non sono più case


ma rupi contorte


cinte da strane necropoli


e cristo non è più cristo


ma un vecchio contadino


portato a spalle


tra i solchi della sua terra


Nota


1 Monti della Sicilia centrale.


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COSTRUIRE LA FAMIGLIA

Roberto Cipriani


Premessa


         Il Nono Rapporto 2005 del Centro Internazionale Studi Famiglia dal titolo “Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie” affronta fra l’altro i problemi legati alla necessità di conciliare lavoro e famiglia, alle politiche dei tempi lavorativi e dei tempi familiari, alla legislazione del lavoro in rapporto al sostegno delle famiglie. Sullo sfondo di tali questioni resta punto essenziale di riferimento la figura del bambino, che merita tutta l’attenzione possibile della società ed in particolare della famiglia di appartenenza. Ma proprio la costruzione della famiglia e di un certo tipo di famiglia è alla base della socializzazione primaria e dell’attività educativa. Oggi l’operazione del costruire la famiglia trova impedimenti di varia natura. Innanzitutto sono i giovani a dover rinunciare a mettere in piedi una famiglia, angustiati come sono dai problemi dell’occupazione, della sicurezza del lavoro, della casa e della sussistenza. Ed anche quando la famiglia viene di fatto costituita è in primo luogo la donna a pagare lo scotto della rinuncia alla maternità, perché impraticabile a fronte di tutta una serie di interrogativi esistenziali: il rischio di perdita del lavoro, l’impossibilità di stare dietro agli impegni, alle necessità, ai tempi ed alle emergenze di lavoro, l’inconciliabilità dei ritmi di ufficio o fabbrica con quelli domestici, familiari e genitoriali. Alla fine il tempo a disposizione delle relazioni madre-figli, padre-figli, si riduce oltre ogni limite di accettabilità, tanto da costringere a decisioni drastiche quali l’abbandono della risorsa preziosa dell’occupazione.


         Il Nono Rapporto 2005 del CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia), di cui Pierpaolo Donati è co-autore principale con altri studiosi specialisti del settore, presenta due scenari: quello lavoristico e quello sussidiario. Il primo vede la famiglia tentare delle soluzioni di convivenza con il mercato del lavoro, attraverso facilitazioni adeguate e percorsi flessibili di cui lo Stato può essere il garante nei confronti del mercato. Il secondo considera la famiglia come un capitale sociale da valorizzare e da sostenere con misure appropriate, in grado di superare le contraddizioni ed i contrasti fra mondo familiare e mondo lavorativo, grazie anche al supporto dell’intera comunità. Insomma in un caso è lo Stato a farsi carico del problema ponendosi come mediatore rispetto al mercato del lavoro, nell’altro è l’insieme della comunità a provvedere alla risoluzione dei problemi di conflitto tra famiglia e lavoro.


Dalla socializzazione primaria alla socializzazione secondaria


         La famiglia appare come un’istituzione continuamente in crisi, per diversi motivi: di lavoro, di natura economica, di conflittualità interpersonale, di affettività, di coniugalità, o di altra origine piuttosto incerta ed indecifrabile. Di tutto ciò risentono le generazioni più giovani: da quella infantile a quella adolescenziale, cioè nel periodo più delicato dell’esistenza allorquando comincia ad avere luogo l’inserimento nella società adulta. Proprio in questa lunga fase si è alla ricerca di una qualche sicurezza che abbia un carattere sia fisico che psicologico, quasi anticipando il momento successivo del reperimento di un posto di lavoro, a sua volta fonte di preoccupazioni a più livelli.


         L’ingresso in società con il passaggio all’adultità è pur sempre un evento tendenzialmente traumatico, da assorbire lentamente, con gradualità, dopo tutta una serie di esperienze negative e di desideri insoddisfatti che mettono alla prova le creature più giovani. Di fronte a situazioni irresolubili l’individuo non ancora del tutto socializzato può avere reazioni tra le più diverse: dal mettersi sotto accusa per la propria incapacità fino al rivolgere pesanti rimproveri alla famiglia di appartenenza, dal dubitare della società nel suo complesso sino al rinunciare ad ogni forma fiduciaria nei confronti di singoli individui. Sovente l’esito finale è quello di un adattamento forzato, di un ripiegamento su se stessi, di un’indifferenza nei riguardi dei problemi societari, di un auto-annientamento in forme solipsistiche auto-emarginanti.


         La persona ragazzo/ragazza si trova in balía tra la sua famiglia di origine e la comunità di appartenenza. Una sorta di bombardamento ha luogo nei suoi confronti, con la proposta sovente contrapposta di valori, di principi, di orientamenti, di modelli comportamentali. Le sue esplorazioni sono perciò lente, talora imprudenti, talora coraggiose, improvvise. Il suo processo di integrazione avanza per gradi, attraverso un “addomesticamento” mirato all’acquisizione dei sistemi di vita dominanti e delle prassi più diffuse.


         La socializzazione primaria avviene soprattutto (se non proprio esclusivamente) in famiglia, dunque da genitori a figli e figlie. I rapporti che la caratterizzano hanno un valore in sé, sono dati per scontati, appaiono di natura essenzialmente affettiva e personale ed approdano a relazioni quasi sempre solidaristiche e comprensive, cioè generose ed accoglienti.


         La socializzazione secondaria si sviluppa quasi sempre al di fuori della famiglia, per raggiungere alcuni scopi predeterminati, fissati consapevolmente dai soggetti interessati. Il tutto avviene mediante rapporti interpersonali indefiniti, impersonali e strumentali e perciò abbastanza concorrenziali e selettivi. Il che rappresenta una chiara contraddizione con la precedente socializzazione primaria.


         Quando chi non è ancora adulto affronta la problematica dell’interazione sociale tende ad entrare in angoscia, perché non conosce e non è in grado di prevedere ciò che gli sta per succedere. Grazie all’avanzamento della socializzazione secondaria si riesce tuttavia ad eludere più facilmente i problemi che emergono di volta in volta.


         Nell’ambito della socializzazione secondaria istituzioni formali come la famiglia ed informali come la moda del momento sfociano in un unico andamento che conduce ad una sempre maggiore integrazione dell’individuo nella società.


         La natura delle istituzioni di socializzazione primaria (che, secondo alcuni, comprenderebbero – oltre la famiglia – anche la scuola e la chiesa) è tale che esse non possono essere considerate strumentali, utilitaristiche: gli stretti legami con le specifiche istituzioni lo impediscono. Invece nelle modalità di socializzazione secondaria appare più evidente la natura strumentale delle forme e dei rapporti di fatto.


Le dinamiche familiari


         La prima e fondamentale forma associativa resta la famiglia. Pertanto è su quest’ultima che si concentrano le potenzialità socializzatrici ed educative. Ovviamente i contenuti e l’incidenza dell’azione di avvio all’integrazione sociale variano sensibilmente da famiglia a famiglia, da classe sociale a classe sociale: un conto è l’agire di una famiglia operaia, un altro è quello di un nucleo familiare appartenente alla classe media oppure alla borghesia medio-alta. Gli esiti delle diverse azioni risultano evidenti dagli atteggiamenti e dai comportamenti che assumono poi in concreto ragazze e ragazzi.


         In questo quadro d’insieme la presenza del matrimonio monogamico sembra favorire dinamiche più stabili ed anche più prevedibili, in pratica senza particolari sussulti (salvo alcune eccezioni particolari). La saldezza e la costanza dei rapporti intrafamiliari assicura sviluppi più regolari ed orientabili da parte degli adulti. La permanenza poi in un medesimo ambiente non fa altro che facilitare la continuità e l’efficacia dell’azione socializzatrice.


         Ben diversa sarebbe la situazione di famiglie a tempo determinato, o di matrimoni ad experimentum cioè a titolo di prova, con legami precari, provvisori, non destinati – per definizione – a saldarsi in via definitiva.


         Sia le culture esogamiche, nelle quali la propensione è di cercare moglie (o marito) al di fuori della propria comunità, sia le culture endogamiche, in cui la ricerca del coniuge si muove entro il cerchio stesso del grande gruppo sociale di appartenenza, producono effetti similari per quanto concerne l’educazione dei figli ed il loro adattamento alla società adulta.


         Anche la familia romana dell’epoca classica aveva caratteri specifici, a mezza strada fra una dimensione interna ed una esterna, quest’ultima ancora più accentuata che non nella famiglia greca della classicità. In effetti “a partire dalla civiltà greca, e poi in quella romana, la famiglia viene intesa come un aggregato naturale che coincide con la ‘casa’ (oikìa) quale doppia unione, di un uomo e una donna (con i loro figli) e tra padrone e schiavo (‘domestici’, da domus = casa, o ‘famigli’, da famuli = servi). La famiglia viene così caratterizzata come ‘la comunità costituita secondo natura per la vita di ogni giorno’ (Aristotele), come la sfera privata per eccellenza. Essa è la cellula del villaggio (o gens o tribù), il quale è retto dal più anziano dei capifamiglia; a loro volta, più villaggi, unendosi insieme, formano la città (polis). Le differenze fra la Grecia classica e Roma non sono di poco conto: nella prima la famiglia è sfera ‘privata’ (di minor valore) più di quanto non lo sia nella seconda; la cultura romana presenta una maggiore pubblicizzazione della famiglia (della famiglia Cicerone dice che è seminarium rei publicae). Ma in entrambi i casi l’autorità è patriarcale e la discendenza patrilineare (a differenza di altre popolazioni, per esempio italiche, che erano ad autorità patriarcale e discendenza patrilineare, e di cui tuttora persiste il ricordo nella sub-cultura della Grande Madre meridionale)” (Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, pag.13).


         Già nel Terzo Rapporto del CISF sulla famiglia era emersa la centralità della famiglia sia in relazione alla natura degli affetti interpersonali sia in rapporto con la dimensione societaria e comunitaria. Il fatto è che lo Stato e la società non sostengono la famiglia, non offrono servizi socio-sanitari, non consentono agevolazioni fiscali adeguate. Insomma è come se la famiglia non avesse funzioni sociali significative, non svolgesse compiti di mediazione sociale, non fosse degna di alcuna cittadinanza sociale, non potesse godere di diritti specifici (pure già presenti nel diritto romano di molti secoli fa).


         La realtà attuale ha visto sorgere nuove e promettenti iniziative che hanno a che vedere con i tentativi di superare i contrasti fra Stato e mercato mediante l’intervento del cosiddetto terzo settore (in cui la presenza cattolica non è secondaria). Le stesse famiglie si sono spesso associate territorialmente per affrontare problemi comuni e suggerire soluzioni convincenti ed efficaci. A fronte di uno Stato incapace di gestire tutto e talora troppo sensibile ed attento a sovvenzionare frange minoritarie e clientelistiche, il movimento del volontariato ha cominciato a dire parole nuove, a superare il negativismo ad ogni costo e l’immobilismo costante.


         Non è un caso che proprio il volontariato stia supportando soprattutto le famiglie, nella convinzione che un ambiente familiare preparato ed efficiente sia in grado di garantire l’accesso dei fanciulli e delle fanciulle all’esterno del nido domestico, rassicurando i più impacciati per ragioni di età, fornendo riferimenti di valore, di stile di vita, di modalità comportamentale. Si evita così il rattrappirsi delle speranze e si entra maggiormente in sintonia con il presente delle cose.


         Le famiglie riescono a dotare i più piccoli di speranze per la vita, di progetti per l’avvenire, di obiettivi da raggiungere. L’aiuto genitoriale è fondamentale in questa fase. Qui la famiglia costruisce le basi delle nuove famiglie, trasmettendo i contenuti educativi di base. In fondo ogni familiare diventa un esperto, un competente, che pur nell’asimmetria dei rapporti (da adulto ad infante o adolescente) diviene indispensabile per promuovere atteggiamenti e comportamenti che non sono affatto negoziabili: comprensione, generosità, altruismo.


La costruzione della famiglia


         Oggi più che mai la famiglia rischia di essere decostruita dalle difficoltà che insorgono nel mantenere insieme esigenze di lavoro e necessità domestiche. La sinergia tra famiglia e lavoro appare irrealizzabile. In effetti non c’è una vera e propria politica sociale per la qualità dei tempi lavorativi e di quelli familiari, in quanto è difficile mettere d’accordo gli uni con gli altri (e neppure l’organizzazione stessa della vita quotidiana lo consente).


         D’altro canto non è immaginabile che si possa fare a meno del lavoro, giacché in questo caso l’esito avrebbe conseguenze del tutto contrarie ad ogni ipotesi costruttiva della famiglia: chi è senza lavoro non si propone a cuor leggero di imbarcarsi nell’avventura familiare e tanto meno arriva a pensare di mettere al mondo figli. Così la famiglia non ha più spazio, il tasso demografico decresce, la società non si rinnova.


         La situazione più difficile è però quella della donna sola, magari non sposata o separata o divorziata o rimasta vedova, che è indotta a rinunciare alla maternità per ragioni contingenti e non certo solo a causa del lavoro. Vengono dunque meno le condizioni minimali per la costruzione di nuove famiglie.


         Nei casi in cui si riesce comunque a creare una famiglia è da considerare che ai fini di una crescita del senso di appartenenza ad essa diventano fondamentali i riti di passaggio, nella misura in cui vengano celebrati e solennizzati anche con cerimonie a carattere religioso che ne sottolineino il carattere fondante, altamente emblematico, ricco di significati vitali. In fondo è in queste occasioni che gli adulti “scoprono” l’infanzia, si rendono maggiormente conto del ruolo che attende le future generazioni, si chinano a guardare verso il mondo dei minori, evitando – per quanto possibile – ambiguità e fraintendimenti. In proposito è illuminante ed ammaestrativo il caso esemplare proposto da Jean-Paul Sartre, che nel suo L’idiota della famiglia ci presenta una situazione (non infrequente) di un ragazzo del tutto incompreso dai suoi familiari ma poi capace di muoversi ai livelli più alti in campo letterario, come appunto Gustave Flaubert.


         La famiglia peraltro se dipende dalla negoziazione fra mercato e lavoro rischia di rimanere schiacciata, debole com’è a fronte di impellenze di maggior peso. Solo un’azione di sussidiarietà comunitaria e societaria permette di valorizzare rapporti e ritmi lavorativi e familiari sino al punto da ottenere soluzioni soddisfacenti, grazie ad attori sociali impegnati e fattivi, magari legati in rete fra loro e capaci di incrementare al massimo il capitale sociale rappresentato dall’istituzione familiare.


La famiglia oggi


         Oggi la famiglia coniugale pare perdere importanza a favore di altre situazioni che sono unioni di fatto, oppure nuclei monopersonali (con un solo individuo), od ancora monogenitoriali (solo il padre o solo la madre, con figli), od invece ricostituiti dopo precedenti esperienze familiari di diverso tipo (di fatto, coniugale, monopersonale, monogenitoriale) per cui prevale la dimensione affettiva rispetto a quella della consanguineità.


         Più complessa ed articolata è la fenomenologia che riguarda un territorio molto ampio come quello cinese, dove si riscontrano famiglie estese e molteplici (ma invero tali caratteristiche stanno venendo sempre meno, anche come conseguenza della riduzione del tasso di fecondità, per imposizione governativa).


         Ben diversa è la condizione prevalente nel continente africano, dove non si registrano differenze peculiari rispetto al passato, giacché la famiglia coniugale è la modalità più presente, insieme con un alto tasso di fecondità che raggiunge la media di 6,2 figli per ogni donna. Il che è agevolato pure dalla poliginia (ovvero poligamia), che vede un uomo avere più donne.


         Indubbiamente, con l’introduzione della legge che consente, in vari Paesi, il divorzio, sono aumentate le famiglie ricostituite, nelle quali cioè uno dei due coniugi contrae un secondo matrimonio (si tratta di circa il 50% dei casi negli Stati Uniti; in Italia non si è giunti a tali livelli ma occorrerà verificare in futuro se ed in che misura un simile andamento prenderà piede anche da noi).


         Sovente il ricorso alla ricostituzione di una famiglia non deriva dalla morte di un coniuge bensì da altre ragioni e decisioni. I dati empirici mettono in evidenza che in linea di massima il secondo matrimonio tende ad essere più fragile del precedente, giacché presenta incertezza, ambiguità, indefinitezza. Incidono su tali difficoltà motivi vari: non si condivide la medesima abitazione, i cognomi dei membri della famiglia non sono i medesimi, non vi è consanguineità fra i componenti del nucleo, i modelli educativi sono diversi, la socializzazione ricevuta è differenziata sino ad apparire contrastante e conflittuale. I processi di legittimazione e di istituzionalizzazione familiare sono controversi e disomogenei, tanto da rischiare di divenire problematici al punto da sfociare in incomprensioni, mancanza di dialogo e rotture irreparabili. Per non dire degli scontri intergenerazionali, interculturali ed interconfessionali. Soprattutto tra i figli nati da matrimoni diversi scaturiscono divergenze di opinioni e comportamenti che producono esiti deleteri per il mantenimento dell’equilibrio intrafamiliare, già messo a dura prova per la sua stessa origine e composizione.


         In Italia, negli ultimi decenni la famiglia ha goduto di una maggiore stabilità nel periodo dal 1946 al 1965 ma in seguito l’andamento è stato altalenante, con perdite e recuperi in successione irregolare. Non si sono tuttavia avuti eventi eclatanti come quelli tipici degli Stati Uniti d’America che nel 1955 vedevano la durata media della famiglia attestarsi intorno ai 31 anni e poi negli anni Settanta presentavano un numero di matrimoni finiti con un divorzio superiore a quelli terminati per ragioni dei vedovanza di uno dei due coniugi.


         L’instabilità matrimoniale è pure da attribuirsi al venire meno dei vincoli di natura economica e patrimoniale, all’avanzare del processo di secolarizzazione delle società occidentali, al cospicuo ingresso delle donne nel mondo del lavoro (in precedenza tendenzialmente escluso dalle loro prospettive esistenziali ed occupazionali).


         Diversa è la situazione del mondo arabo, dove la formula del ripudio era ed è agevole in quanto è sufficiente proclamare per tre volte dinanzi a due testimoni la frase “io divorzio da te” per essere legittimati a contrarre nuovi legami. Dunque il ricorso al divorzio permane una prerogativa tipicamente maschile.


         In Europa peraltro il tasso dei divorzi è in aumento ed ha luogo in un quarto dei casi entro il quinto anno dalla celebrazione delle nozze.


         Non è poi trascurabile il dato che concerne l’immigrazione dai Paesi extraeuropei verso l’Europa: la catena familiare e parentale è certamente il fattore di maggior peso perché è in tal modo che hanno luogo scambi, forme di sostegno, azioni di protezione, iniziative di risposta ai bisogni primari della popolazione immigrata. Ogni scelta è informata soprattutto alle esigenze di carattere familiare: alloggio, alimentazione, divisione delle spese e delle risorse.


         Di solito la famiglia nucleare (padre, madre e figli) mantiene contatti e relazioni con le due famiglie di origine, cioè dei nonni (ovvero dei genitori rispettivamente del padre e della madre), in modo da utilizzare al meglio la rete delle conoscenze, il sistema delle segnalazioni (e raccomandazioni), l’insieme degli aiuti psico-affettivi e dei sostegni finanziari, l’offerta di regali e servizi (talora parte non trascurabile di un budget familiare: si pensi all’assistenza prestata gratuitamente nei confronti dei più piccoli o alla serie di piccoli e grandi doni che talora sovvengono ad una necessità impellente). Se poi la residenza delle famiglie di origine non dista molto da quella del nucleo familiare di procreazione, insomma se nonni, figlie e nipoti si vedono quasi quotidianamente, allora il quadro di interscambi è talmente cospicuo che quasi non c’è soluzione di continuità tra una famiglia e l’altra e tra una generazione e le altre.


         In verità delle relazioni di tipo parentale (con cugini e procugini, zii e prozii, nipoti e pronipoti e così via) sono soprattutto le donne ad interessarsi, quasi per tacita divisione dei compiti. Infatti ad esse tocca solitamente provvedere ad organizzare incontri e cene, gite e feste, celebrazioni e ricorrenze, scambi di donativi e cortesie reciproche. Il tutto, del resto, può anche inserirsi in una logica a larga portata, che si connette a questioni economiche, professionali, lavorative e promozionali. Però vi sono differenze sostanziali a livello di classi sociali. Se nelle classi medio-alte i genitori sono più propensi a fornire un aiuto diretto ai figli (per esempio assicurando loro l’ereditarietà di una posizione privilegiata o la successione nella proprietà di un’azienda o di beni immobili), nel caso invece delle alle altre classi si interviene a favori dei minori e dei più giovani garantendo più che altro servizi utili, a vario titolo.


         Infine “perché lo Stato non aiuta le famiglie nelle quali le madri, all’arrivo del figlio, lasciano il lavoro per far crescere il figlio? Quando il lavoro in famiglia sarà considerato anche un lavoro come un altro?”. Questi due interrogativi sono giunti su un foglietto allo scrivente, al termine del suo intervento qui trascritto. Gli interrogativi posti sono largamente condivisibili. Troveranno soddisfazione solo quando la cultura legata alla famiglia ridurrà la componente economicistica ad una semplice variabile dipendente e non la considererà più del tutto indipendente, come lo è ora, visto che gran parte della nostra esistenza è costretta a legarsi ad esigenze di natura economica: occupazione, salario, tempi lavorativi. Ed intanto i tempi familiari continuano a non essere soppesati come meriterebbero.


BIBLIOGRAFIA


Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998.


Gabriella Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, Vita e Pensiero, Milano, 2005.

IL CONTRIBUTO DI S. S. ACQUAVIVA ALLA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

Roberto Cipriani


 1. Premessa


            Sabino Acquaviva si avvicina alla soglia degli ottant’anni con una vivacità intellettuale ed una vigoria fisica che paiono immarcescibili, quasi senza soluzione di continuità nel tempo, sin da quando agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso lo incontrai per la prima volta attraverso la lettura della sua opera più nota, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale (Acquaviva 1961) – segnalatami dagli antropologi Armando Catemario, Gualtiero Harrison e Matilde Callari Galli durante un seminario all’Università di Roma -; poi di persona per collaborare con lui, dal 1970, ad una ricerca sulla secolarizzazione in Veneto ed Abruzzo e Molise (Cipriani 1978), con la partecipazione di Antonio Grumelli, Giuseppe Bolino ed Eide Spedicato, per l’Università di Chieti, ed Italo de Sandre, Gustavo Guizzardi, Mario Santuccio e Renzo Scortegagna, per l’Università di Padova, con la preziosa consulenza di Rocco Caporale, Thomas Luckmann e Bryan Wilson; infine, ancora presso l’Università di Padova, in occasione di un concorso, la cui commissione era presieduta da Acquaviva ed in cui conseguii l’idoneità di assistente ordinario.


            Il libro sulla scomparsa del sacro divenne subito non solo un best seller ma anche un classico, insomma un punto di riferimento essenziale per ogni studio sociologico sul fenomeno religioso (e non solo in Italia). Ancora oggi vi si fa riferimento. Anzi l’espressione “eclissi del sacro” è entrata a far parte del linguaggio comune (come dimostra facilmente qualunque tipo di ricerca su Internet). E l’impact index del volume, nelle sue diverse edizioni, supera ormai le mille citazioni. Ne avevo contate 989 agli inizi del 2003.


            Nel panorama italiano alcuni dati quantitativi sui riferimenti ai sociologi italiani contemporanei lo fanno annoverare fra i tre più importanti. Del resto sin dagli inizi Acquaviva si era mostrato prolifico in fatto di pubblicazioni, tanto che Gabriel Le Bras nella sua presentazione a L’eclissi apprezzava il fatto che in un solo lustro il sociologo italiano della religione avesse già pubblicato 2 libri e 15 articoli e lo definiva senza mezzi termini filosofo e matematico, metodologo e tecnico, il cui “merito principale … è di rompere le barriere delle discipline”, combinando insieme protostoria, psicanalisi, statistica, filosofia, psicologia e storia (Acquaviva 1971a, 10).


 2. Le dinamiche de L’eclissi


             A seguito del successo della sua opera Acquaviva ebbe modo di entrare in contatto con studiosi di spicco nel campo delle scienze sociali della religione e con le sedi accademiche più prestigiose a livello internazionale: con Mircea Eliade che lo aveva invitato ad insegnare a Chicago (Fiocco 1998, 165-166), con François Houtart a Bruxelles, con Bryan Wilson ad Oxford (dove fu Visiting Fellow, nel 1975 e nel 1976, presso l’All Souls College), ma anche con Aix-en-Provence, Dublino, Bonn, Madrid, Oslo, Berlino, Zurigo.


            Tali contatti sono stati utilissimi e si sono aggiunti alla frequentazione acquaviviana del professor Agostino Faggiotto (1951-52) – uno studioso specialista del fenomeno religioso e docente a Padova nel corso di perfezionamento in Storia delle religioni (Acquaviva 1971, 247) – e della fornitissima biblioteca dell’abbazia di Praglia, a pochi chilometri da Padova. Ancora una volta dunque una biblioteca a carattere religioso, come nel caso di Franco Ferrarotti (Cipriani, Macioti 1988, 15), rappresenta un importante punto di partenza per l’approfondimento di conoscenze a valenza sociologica.


            Ma non si comprende sino in fondo il carattere dello studioso e della sua opera se prima non ci si rende conto che per Acquaviva, in realtà nient’affatto uno scientista, l’esperienza condotta (e da condurre ancora) è in primo luogo più umana che scientifica. Altrimenti non si capirebbero i suoi disparati interessi che vanno sino al cimento letterario del romanzo, alla condivisione quasi della causa corsa (Acquaviva 1987) – raro oggetto di studi sociologici italiani -, all’impegno personale e socio-politico in senso lato (oltre che scientifico) profuso nel cercare di capire gli eventi della contestazione studentesca. Egli corse peraltro grossi rischi a livello istituzionale come preside di facoltà ed a livello individuale come persona a contatto diretto con i gruppi estremisti. Non mancò peraltro chi ebbe a nutrire gravi, ma infondati sospetti (nella ricerca del “grande vecchio” ispiratore di azioni rivoluzionarie) su sue possibili connivenze, persino presumibili in base al possesso da parte sua di documenti prodotti dai contestatori e da lui raccolti per ragioni di studio. Ma in modo rocambolesco (grazie ad un giaccone dalle ampie tasche) e tipicamente acquaviviano, durante un periodo di occupazione dell’Università di Padova da parte della sinistra extraparlamentare, egli riuscì ad evitare ogni sgradita conseguenza per la sua coraggiosa presenza nella sede accademica, dove si recava anche per condurre attività empirica campo.


            Un ulteriore elemento che aiuta a capire meglio la personalità dell’intellettuale Acquaviva è la sua modalità di scrittura sociologica, non aliena da ripensamenti, autocritiche, aggiustamenti di tiro, chiarimenti successivi. Già nella seconda edizione della sua opera maggiore (Acquaviva 1966) compaiono importanti modifiche rispetto alla prima versione (Acquaviva 1961). E comunque il suo discutere sul sacro non è mai un’operazione conclusa. La sua è una riflessione aperta, mai definitiva. Anzi traspare in lui la consapevolezza che il tema è di tale portata da non potersi esaurire nell’arco di una sola vita, per quanto intensamente vissuta fra ricerche, elaborazioni statistiche ed analisi.


            Il sociologo dell’Università di Padova ha una straordinaria conoscenza della letteratura del settore, prende in esame numerose indagini, utilizza una grande varietà di dati, mette in campo una ricca documentazione di tabelle, percentuali ed incroci. Fa citazioni per nulla casuali, risale a studi locali ma significativi, come nel caso di un’indagine di Jacques Verscheure (dal 1969 al 1985 segretario generale della Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa) sulla diocesi di Lilla in Francia, i cui risultati appaiono nel 1951 sulla rivista Lumen vitae (Acquaviva 1971, 119). Poderosa è la mole di riferimenti statistici sulla religiosità nei vari paesi del mondo, ivi compresi quelli arabi per i quali cita l’opera di Jacques Berque, pubblicata nel 1960 presso Seuil a Parigi col titolo Les Arabes d’hier à demain (Acquaviva 1971, 143). E non trascura neanche le tesi di laurea, come nel caso di Paolo de Sandre, laureatosi a Ca’ Foscari a Venezia nel 1963, con un lavoro sul metodo statistico socio-religioso (Acquaviva 1971, 147).


            Nell’opera su L’eclissi si possono pure rintracciare prodromi che verranno sviluppati solo successivamente. Si veda, ad esempio, il dotto rinvio ad Andrea Vesalio ed al suo De Humani corporis fabrica, pubblicato a Basilea nel 1543 (Acquavia 1971, 172). Una citazione del genere non può non essere collegata allo studio posteriore dal titolo In principio era il corpo (Acquaviva 1978).


            Acquaviva non manca peraltro di rifarsi anche ad un suo diretto antagonista accademico, Silvano Burgalassi, altro pioniere della sociologia della religione in Italia. Anzi lo cita esplicitamente: “il Burgalassi, che ha una buona conoscenza delle vicende della pratica religiosa della Toscana, sembra concordare grosso modo con le nostre ipotesi circa una flessione ritardata nel tempo nella pratica religiosa” (Acquaviva 1971, 196).


            Ma quello che impressiona positivamente il lettore – soprattutto quello odierno che a distanza di tempo riesce a valutare il peso, la coerenza e la felice scelta delle citazioni e dei risultati d’indagine – è la grande mole di informazioni che Acquaviva riesce a raccogliere in tempi non facili (senza Internet) e su paesi ancora poco inclini a svolgere studi socio-religiosi, ricavandone suggestioni analitico-interpretative di prim’ordine, nonostante l’utilizzo di dati parziali e di seconda mano. Lo studioso contemporaneo apprezza soprattutto un aspetto: l’autore aggiunge ad ogni capitolo del suo libro numerosissime note, talora più di cento o quasi duecento, che costituiscono ancora oggi una formidabile banca dati per le comparazioni con ricerche successive. Tali note facevano parte di una stesura precedente, poco apprezzata da qualche studioso, forse incapace di apprezzarne il valore di studi approfonditi e meticolosi condotti a largo raggio in ogni possibile direzione: la loro parvenza di raccolta erudita e pedante è tale solo per chi non conosca bene il terreno delle ricerche sociologichesulla religione alla fine degli anni cinquanta del XX secolo.


            In Acquaviva la ricca cultura di base emerge anche da dotte epigrafi, come quella in greco – tratta da Eraclito – premessa al capitolo primo (Acquaviva 1971, 25) e quella, più che pertinente, presa da Spoon River di Edgar Lee Masters e preposta al capitolo quarto (Acquaviva 1971, 251).


            Le sue conclusioni, almeno nelle edizioni successive alla prima, sono quanto mai caute. Infatti egli aggiunge qualche interrogativo in più. Parla piuttosto di “ipotesi per una conclusione” (Acquaviva 1971, 251) e dice, a proposito dell’eclissi del sacro, che “si tratterebbe di un occultamento, e non di una crisi o di una fine” (Acquaviva 1971, 283). Soprattutto c’è “l’impossibilità di fare previsioni sicure circa il futuro sviluppo della religiosità” (Acquaviva 1971, 300).


            Nello scrivere la voce su Sabino Acquaviva nell’Encyclopedia of Religion and Society, curata da William H. Swatos per i tipi di Altamira Press nel 1998, sottolineavo debitamente – a pagina 3 – che l’ipotesi dell’eclissi del sacro era precedente di almeno un quinquennio rispetto all’idea di Harvey Cox sulla città secolare, comparsa nel 1965 in un volume dell’editore Macmillan. Ma dicevo anche che nel corso degli anni la realtà di fatto aveva indebolito la prospettiva proposta da Acquaviva, il quale tuttavia nel frattempo aveva attenuato il senso della sua lettura sociologica, sino a giungere ad un uso più limitato dell’idea di eclissi, circoscritta entro i limiti definiti solo dalla fine di un uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989, 11). Insomma più che di fronte ad un processo di secolarizzazione da intendere come fine del sacro l’eclissi era da leggere come una demagizzazione, neologismo coniato appunto da Acquaviva per spiegare il suo punto di vista aggiornato.


            Vale però la pena di ricordare la singolare circostanza che contribuì, almeno in parte, a fare del libro sull’eclissi del sacro un testo di largo successo. Fu una recensione piuttosto dura e poco circostanziata pubblicata su L’Osservatore Romano del 22 aprile 1961 a firma di S. M., cioè Serafino Maierotto (Acquaviva, Guizzardi 1971, 117-119), uno studioso di buona levatura ma certamente poco esperto di sociologia e soprattutto non propenso a distinguere fra dato scientifico ed implicazioni confessionali. Insomma l’attacco del giornale vaticano all’opera di Acquaviva ebbe l’effetto perverso di accrescere la curiosità sui contenuti del libro, che in molti corsero ad acquistare, soprattutto in ambiente cattolico, per potere conoscere quanto di sconvolgente avesse detto il sociologo dell’Università di Padova.


            Gli anni sessanta e settanta del secolo scorso trovano Acquaviva impegnato su più fronti: in campo associativo-scientifico è eletto presidente della Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa, dal 1969 al 1971; in campo editoriale vede la traduzione – in tedesco nel 1964, in francese nel 1967, in spagnolo nel 1972 ed in inglese nel 1979 – della sua opera principale sull’eclissi del sacro ed inoltre raccoglie e pubblica in volume numerosi interventi – fra gli altri, di Carlo Falconi, Paolo Brezzi, Vincenzo Tomeo, Jean Chelini, Gabriel Le Bras, Franco Demarchi, François-André Isambert, Henri Desroche, Franco Crespi, Jean-Pierre Deconchy, Emile Pin, Giuseppe De Rosa, Silvano Burgalassi, Gian Enrico Rusconi – relativi al dibattito suscitato dalle sue ipotesi (Acquaviva, Guizzardi 1971) e vari saggi di eminenti autori (fra cui Robert N. Bellah, Bryan R. Wilson, Peter L. Berger, Thomas Luckmann, David Martin, Dietrich Bonhoeffer, Harvey Cox, John A. T. Robinson, William Hamilton, Giulio Girardi, Edward Schillebeecks) sul tema della secolarizzazione (Acquaviva, Guizzardi 1979); in campo convegnistico organizza a Venezia nell’estate del 1979, presso la Fondazione Cini all’Isola di San Giorgio, la quindicesima Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa, sul tema “Religione e Politica”, riscuotendo vivi apprezzamenti per la straordinaria riuscita dell’incontro, sia in relazione al numero dei partecipanti sia in considerazione della qualità del dibattito scientifico svoltosi (con ampia eco sulla stampa quotidiana italiana, poco adusa in precedenza ad affrontare argomenti socio-religiosi). Si tratta di un periodo fecondo che promuove la nascita di una sorta di scuola patavina di sociologia della religione, con Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (poi divenuto presidente della Società Internazionale di Sociologia della Religione, dal 2003) ed Italo de Sandre dapprima e poi Renato Stella, Stefano Allievi, Renzo Guolo.


            In realtà i suoi allievi non appaiono del tutto corrivi con il suo pensiero, tanto che lo stesso Acquaviva nota già a proposito di Guizzardi che “la sua analisi critica è sviluppata in modo indipendente” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 8). Ulteriori differenziazioni si registreranno nel corso degli anni anche da parte degli altri discepoli.


            Invero non è facile seguire Acquaviva nelle sue evoluzioni sociologiche all’interno di un medesimo approccio oppure nei suoi diversi percorsi investigativi. Dalla lettura stessa dei suoi testi si evince un andamento sinusoidale che lo porta a fare affermazioni e poi quasi nello stesso contesto a negarle. In fondo egli si ritrova nelle stesse condizioni che in qualche modo rimprovera ai suoi critici, come nel caso emblematico del passo che segue: “In una prima fase le argomentazioni del libro che tentavano di “misurare” la crisi della pratica religiosa e l’eclissi del sacro, e mi rendo ben conto in che maniera discutibile, lacunosa, ed imprecisa, furono semplicemente negate e rifiutate. Si trattava della prima fase critica, quella del non è vero. In una seconda fase, a partire dagli anni sessanta, di fronte all’evidenza, si comincerà a sostenere che, sì, è vero, ma non conta. Ambedue le maniere di argomentare spesso salvavano, non tanto la realtà dell’esperienza religiosa, quanto la sicurezza e la stabilità psicologica di chi aveva bisogno, piuttosto che di una prospettiva autenticamente religiosa, di salvaguardare la stabilità emotiva, che normalmente deve molto ad una prospettiva religiosa” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 17-18). Ancor più illuminante, se possibile, è l’annotazione a pie’ di pagina che segue: “A onor del vero, anche se psicologicamente così motivati, i nuovi atteggiamenti culturali e ideologici hanno finito per arricchire il patrimonio interpretativo della fenomenologia religiosa e della sua dinamica. In particolare, la polemica che ha accompagnato il libro ha arricchito la mia stessa prospettiva consentendomi di esprimere dei giudizi diversi e variamente più ricchi rispetto a quelli del 1959/61. Nelle prossime pagine cercherò dunque di fare il punto della situazione, vedendo come e secondo quale linea di più efficace argomentazione il discorso sull’Eclissi del sacro nella civiltà industriale può essere rifatto, arricchito dalle polemiche di questi anni e focalizzato su una più attenta analisi di una società e ad una cultura che tanto sono mutate in solo due lustri. È sempre una crisi quella che ci sta dinanzi, ma una crisi nuova che, nel mio ottimismo di fondo, mi ostino a chiamare eclissi” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 18).


            Sagacemente Acquaviva attribuisce i suoi nuovi sviluppi agli stimoli provenienti dalle critiche ricevute, che gli consentono di chiarire la sua proposta ma di fatto anche di raddrizzare la rotta delle sue “navigazioni” sociologiche. Ed in fondo egli stesso rigetta le obiezioni altrui, non tenendone conto nella sostanza, anche se appare grato, almeno in partenza, ai suoi detrattori. Infatti egli prende nuova lena, non si abbatte affatto, torna a ribadire le sue tesi, magari le rafforza nei punti di approdo e comunque è indotto a “rifare” continuamente il suo discorso, senza mutarlo negli esiti, pur smorzando il peso di qualche affermazione e pur aggiungendo qualche aggettivo e qualche avverbio piuttosto probabilistici e meno assoluti. Ecco perché, alla fine, non può esimersi dal ribadire che “in una parola, le tesi essenziali dell’«Eclissi del sacro nella civiltà industriale» ritornano, nelle mutate condizioni, arricchite e non negate dalla nuova situazione, nella quale la crisi è chiarita nei suoi significati e nelle sue dimensioni, mentre anche il peso e le possibilità di una religiosità diversa nei suoi contenuti psicologici e culturali sono posti in nuova e chiara luce” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 53).


            Convinto com’è del suo modo di analizzare la realtà religiosa, Acquaviva concede ben poco ai suoi contraddittori ed anzi arriva persino a bollare come ideologica (Acquaviva, Stella 1989) la costruzione sociologica messa in atto da altri studiosi impegnati nel sostenere la sussistenza del fenomeno secolarizzatore. In tal modo sembra quasi sottovalutare il suo personale e non trascurabile contributo al sorgere della medesima ideologia della secolarizzazione, in Italia come altrove. Appena una traccia di dubbio affiora allorquando afferma: “so che, probabilmente, il mio discorso non ha soddisfatto nessuno” (Acquaviva, Milanesi, Grumelli, Miano, De Rosa 1971, 28).


            Acquaviva si mette dunque in questione con le parole sopra citate. In proposito ritrovo ora alcune riflessioni da me scritte qualche anno dopo e rimaste quasi certamente inedite: “La sociologia italiana della religione in quest’ultimo decennio è stata in buona misura sollecitata (e condizionata) dall’opera di Sabino S. Acquaviva L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, la cui prima edizione risale al 1961. Il volume ha suscitato in più occasioni consensi e dissensi anche violenti, questi ultimi invero più numerosi ed in genere fautori – a prescindere dalle intenzioni dei recensori – di una più ampia diffusione e lettura del testo, a tal punto che non si è molto lontani dal vero se si attribuisce una buona dose del successo del libro alla stroncatura che ne fece Serafino Maierotto su L’Osservatore Romano. A riprova dell’intensità e della vivacità del dibattito apertosi intorno al volume c’è l’antologia dal titolo Religione e irreligione nell’età postindustriale, pubblicata, nel 1971, dallo stesso Acquaviva e da Gustavo Guizzardi che hanno raccolto i testi degli interventi più significativi sulla questione. Ora la trilogia si conclude con il volume antologico, ancora a cura di Acquaviva e Guizzardi, su La secolarizzazione. In quest’ultima occasione L’Osservatore Romano è stato più benevolo nei riguardi di Acquaviva: vero è che l’estensore dell’articolo sul quotidiano ufficiale della chiesa cattolica è stavolta ben più qualificato sul piano sociologico, ma Gianfranco Morra non sembra molto avvertito dell’iter attraverso il quale il sociologo patavino è giunto alle conclusioni più recenti. Infatti se nel 1961 Acquaviva parlava di una “lunga notte” in cui non c’era molto posto per il sacro, nel 1966 (seconda edizione italiana de L’eclissi) egli rivedeva tale conclusione rendendola più problematica e meno assertoria. Nell’introdurre poi la successiva antologia-dibattito dal titolo Religione e irreligione nell’età postindustriale il sociologo patavino sostiene la comparsa di un nuovo modo di intendere Dio “insieme ad una religione secolarizzata e quindi depurata dell’uso magico del sacro” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 53). Ma l’esito finale di questo itinerario è proprio nel saggio che introduce l’antologia sulla secolarizzazione. A proposito dell’analisi di questo fenomeno Acquaviva parla di confusione e mistificazione ed accusa esplicitamente Luckmann, l’autore de La religione invisibile, di voler offrire una prospettiva laica della trascendenza recuperando dunque dal di fuori, per così dire, una concezione tipicamente religiosa. Di rimando l’autore de L’eclissi ribadisce ulteriormente che la religione risponde ad alcuni bisogni biopsichici che nella fattispecie la teologia-sociologia della secolarizzazione avrebbe riformulato in termini religiosi, non tanto per rispettare le richieste di persone alla ricerca del soprannaturale quanto piuttosto per gratificare uomini di chiesa e teologi desiderosi di vedere comunque il “religioso” ancora operante nel quadro sociale. Non si può non essere d’accordo con questa riflessione se si considera la figura emblematica di Peter L. Berger, autore di The Sacred Canopy (Berger 1967), un teologo che si camuffa da sociologo. Ma quando Acquaviva rileva che il clero fa della politica quasi un sostituto funzionale di un Dio che non rassicura più, quando rileva che i teorici della secolarizzazione polemizzano contro la chiesa per togliere spazio all’anticlericalismo, quando rileva che il concetto di popolo di Dio è affine ad alcuni postulati del marxismo, quando rileva gli esiti dei gruppi del dissenso (recupero nella chiesa o esodo extrareligioso), è sempre legittimo il dubbio della possibilità di un ribaltamento del discorso. Ed allora l’accusa al clero politicizzato nonché all’anticlericalismo ed al marxismo è ipotizzabile come un invito non ad una fuga in avanti – come lascerebbe intendere la sottolineatura della postindustrializzazione – ma ad un ritorno al passato, cioè un rifiuto delle tesi di marca protestante solo perché non cattoliche, un disgusto per qualunque analisi condita di “salsa” marxista, una predilezione per la teologia non sociologica (che sia elitistica, non comunicabile, rigorosa nel linguaggio, intrappolata nella teoresi, lontana dalla prassi, alienata ed alienante), un rispetto dogmatico del credo fideistico avallato dall’infallibilità pontificia, la conservazione di un impegno religioso non ben definito e quindi tendenzialmente tradizionale”.


            Queste mie osservazioni che risalgono ad oltre due decenni fa risentono evidentemente della situazione contingente e del dibattito socio-culturale in corso in quel torno di tempo, tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta. Qualche espressione ha un carattere un po’ tranchant e forse andrebbe ora resa più dubitativa, anche alla luce degli sviluppi successivi. Rimane chiaro tuttavia che le tesi di Acquaviva, Luckmann e Berger non sono componibili insieme, giacché ognuna di esse rappresenta una visione peculiare della fenomenologia religiosa. Se però si vuole cogliere qualche indizio che anticipi alcune caratteristiche dell’itinerario acquaviviano negli anni posteriori almeno due segnali predittivi possono essere colti in modo preciso: innanzitutto il riferimento alla religione “depurata dell’uso magico del sacro” e pertanto secolarizzata, in crisi, in eclissi solo per tale specifico aspetto, come verrà precisato più tardi da Acquaviva stesso (Acquaviva, Stella 1989, 11); in secondo luogo l’enfatizzazione degli aspetti biopsichici che ritorneranno in modo esplicito a costituire la base di un discorso più articolato ed aggiornato (Acquaviva, Stella 1989, 18-33), dopo il bagno socio-biologico alla fine degli anni settanta. In Acquaviva la svolta successiva, a carattere appunto socio-biologico, ha inizio durante il suo soggiorno oxfordiano, quando scopre l’opera di Wilson, non Bryan (che lo aveva invitato all’All Souls College) ma Edward O. (1975).


 3. Dopo L’eclissi


            Un dato empirico risulta oggi certo: l’ipotizzata eclissi del sacro non ha avuto luogo nei termini e nei tempi ipotizzati. Al contrario nuove e più diffuse fenomenologie sacrali hanno attraversato la realtà contemporanea, sino a condizionare andamenti politici e culturali di forte impatto. Tanto è avvenuto all’interno della contestazione universitaria e studentesca italiana, come delineato da Acquaviva ne Il seme religioso della rivolta (Acquaviva 1979b) ed in Sinfonia in rosso 1977-1980 (Acquaviva 1988, 1989). Il primo testo è un volumetto a tesi discorsive (ve ne sono ben 60, a carattere soprattutto socio-psicologico ed indirizzate a non specialisti). In esso si rilevano sprazzi e spunti di ordinaria natura autoriflessiva, con accenti talora poetici che si richiamano al migliore Pasolini il quale lamentava la scomparsa delle lucciole “nei primi Anni Sessanta” (Acquaviva 1979b, 15). La metafora delle lucciole è immediatamente spiegata al lettore con la seguente considerazione: “A cavallo degli Anni Sessanta è accaduto qualcosa di irreparabile: la caduta della fede in certi valori e una profonda radicale trasformazione di altri” (Acquaviva 1979b, 16). Segue poi una constatazione intrisa di forte realismo: “Della morte, specialmente, si tace: non esiste. Nell’inefficienza o addirittura nell’assenza degli strumenti tradizionali di rassicurazione, nei quali si crede meno, o poco, o nulla, non rimane che una difesa: la rimozione di un problema che crea angoscia” (Acquaviva 1979b, 16): in fondo è la stessa angoscia che connota le ultime pagine del pluripremiato romanzo acquaviviano La ragazza del ghetto (Acquaviva 1996, 1998), ambientato a Venezia nel 1576, durante la pestilenza e con la lunga, minuziosa e coinvolgente descrizione conclusiva (quasi un esorcismo liberatorio) di una morte per annegamento.


            Ma, invero, il fulcro del discorso sulle origini religiose della rivolta prende quota a partire da un dato di fatto: “Dopo il riflusso della contestazione, la bonaccia della lotta di classe” (Acquaviva 1979b, 17). In definitiva si assiste come impotenti a “la trasformazione di questa società in un mondo infimo borghese” (Acquaviva 1979b, 19). L’autore oltre che pessimista appare quindi sconsolato. Il suo intento di fondo rimane tuttavia il voler mostrare come “l’uso magico del sacro, spesso legato alla religione popolare e pagana che – in ambito cattolico – ci sta alle spalle, si stempera al decadere delle indulgenze, dell’uso dei santuari e dei santi, dell’immagine mitica del miracolo come artefice potenziale delle grandi svolte della nostra vita” (Acquaviva 1979b, 33). Anche questo passaggio, come altri citati sopra, anticipa un più dettagliato percorso relativo alla rivisitazione dell’eclissi del sacro in chiave di “demagizzazione”, un neologismo inventato da Acquaviva per designare proprio la fine dell’uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989, 11). Un simile avvio della trattazione non deve però ingannare, perché il sociologo patavino, quasi folletto dispettoso, curioso ed intelligente (e forse perciò raramente pentito) è sempre come in agguato, pronto a scagliare le frecce dal suo arco di analista speculativo della società. Del resto sono probabilmente anche le sue caratteristiche somatiche che lo aiutano – si direbbe – nello svolgimento di un simile compito di “Bastian contrario”, di scienziato sociale controcorrente, di enfant prodige ma pure irrequieto nel suo divagare per terreni non frequentati dai suoi colleghi sociologi. Ecco dunque affacciarsi un punto di vista eterodosso: “L’esistenza del Vaticano è paradossalmente elemento di più rapida trasformazione a causa della presenza in esso di elementi stranieri e quindi di una cultura internazionale che finisce per accelerare la crisi del cattolicesimo italiano” (Acquaviva 1979b, 74). Forse ancora più imprevedibile – ma non dal suo punto di vista e per chi lo conosce bene – è l’espressione seguente: “la religione sembra veramente destinata a passare dal sociale allo psicologico. Cioè il discorso religioso, abbandonando connotazioni legate alla vita comunitaria, politica, economica, viene assumendo caratteristiche psicologiche e individuali, perché questo è il “prodotto” religioso richiesto dal mercato” (Acquaviva 1979b, 114). Così di aforisma in aforisma si dipana un tessuto che rivela trama ed ordito di un disegno a lungo perseguito e che vede più concrete realizzazioni nelle opere successive.


            Specialmente in Eros, morte ed esperienza religiosa (Acquaviva 1990), che ha visto due edizioni nel giro di pochi mesi fra giugno e novembre 1990, il filo rosso della trattazione segue un tracciato più rigoroso, confortato da “brevi dialoghi o più meditate discussioni” (Acquaviva 1990, VII) con colleghi (fra gli altri, anche con chi scrive). Il volume è diviso in tre “libri”: il primo sui bisogni in relazione all’esperienza religiosa, il secondo più prettamente storico e concernente bisogni, eros, morte e religione ed il terzo relativo alla crisi religiosa contemporanea. Di particolare interesse, per la sua sintetica esemplarità è il paragrafo 3b del libro III, che presenta un modello sistemico delle relazioni fra bisogni, esperienza religiosa e società, riprendendo i numerosi fattori già delineati ne L’eclissi del sacro (Acquaviva 1981). Ma c’è da interrogarsi sulla correttezza terminologica e metodologica di Acquaviva nel momento in cui egli propone di verificare se è possibile falsificare il modello sistemico proposto. In realtà si può obiettargli che solo le ipotesi sono falsificabili, non il modello (Acquaviva 1990, 230).


            C’è poi da prendere atto che la sua base resta pur sempre psicologizzante. Il termine di riferimento principale sembra essere quello assai pertinente di William James, che definiva la religione come “massa di sentimenti trasmessi per suggestione e di atti appresi per imitazione” (James 1945, 5, citato da Acquaviva 1990, 5). Il testo di Acquaviva procede per piccoli, brevi approcci, sempre pertinenti e documentati. In effetti più si legge più si apprezza questo volume che non a caso ha riscosso un ampio successo di pubblico. Un appunto però si deve muovere all’autore: non può tirare l’acqua al suo mulino sino ad assimilare quasi del tutto le posizioni di Peter L. Berger alle sue, scrivendo (Acquaviva 1990, 38) che “la mia tesi non si discosta molto da quella di Berger che, appunto e sostanzialmente, riprende in parte alcune mie argomentazioni”. Le differenze fra i due sono marcate. E non giova a nessuno dei due appiattirsi sull’altro. Troppo distanti sono le ottiche di partenza, le esperienze di ricerca, la formazione di base, le propensioni di fondo.


            Infine, non può sfuggire al lettore attento delle opere di Acquaviva il significato allusivo dell’epigrafe preposta al libro II, che riporta un brano del Cantico dei cantici e sembra quasi rinviare al lavoro di dodici anni prima dal titolo In principio era il corpo (Acquaviva 1978). D’altra parte tutto il volume è intriso di rinvii dotti alla patrologia come alla storia.


            Sull’opera di Acquaviva Eros, morte ed esperienza religiosa si è espresso con grande acutezza ancora una volta Gianfranco Morra, in una recensione pubblicata su Il Messaggero Veneto del 28 febbraio 1991, a pagina 7: “Egli è, anzitutto, uno scienziato sociale, che sa usare metodologie critiche ed evitare ogni semplificazione. Il problema della causa e dell’origine non lo interessa, così come non interessa in genere la scienza sociale. Egli, con sottile sensibilità, analizza dei rapporti, definisce delle funzioni, formula e rafforza (non mai verifica) delle ipotesi, sempre pronto (e forse desideroso) di gettarle via per trovarne delle altre”. Questo articolo-recensione, almeno per quanto qui riportato, sembra riferirsi direttamente alla prima sezione del libro III, dove si parla, in particolare nel titolo, di “Verifica su basi empiriche e sperimentali dell’ipotesi sopra formulata” e poi alla seconda sezione del medesimo libro il cui punto 3 si intitola “Verifica dell’ipotesi formulata: il declino della religione e dell’esperienza religiosa”. Con queste dizioni sembra quasi contraddetta la lettura suggerita da Morra, ma in realtà Acquaviva stesso spiega che è ben disposto a vedere vanificare i suoi tentativi scientifici: “mi auguro che il ragionamento fatto fin qui (sostenuto dalle “pezze” d’appoggio esposte nei diversi capitoli) possa essere veramente ridotto allo schema che segue, e che si tratti insieme di uno schema che, chi vuole, può tentare di falsificare: in caso contrario si tratterebbe di un lavoro inutile. Se nessuno riuscirà in questo intento, penserò che avrò fatto un’operazione utile per la conoscenza, se invece qualcuno riuscirà – come è probabile – a falsificarlo, penserò che, almeno, avrò lavorato in termini accettabili appunto perché sarà stato possibile dimostrare che avevo torto” (Acquaviva 1990, 230-231). Si può anche legittimamente sospettare che tutto ciò non sia altro che un artificio retorico, giacché Acquaviva sarebbe perfettamente convinto dell’affidabilità della sua proposta. Così non è, invece, perché effettivamente l’autore non muove da posizioni preconcette, da pregiudizi ideologici, né appare spinto da particolari interessi confessionali o meno. Dunque è da credergli quando egli si dice disposto a vedere crollare la modalità sistemica rappresentata dal suo modellino grafico dei rapporti tra esperienza religiosa, religione, eros e morte. In definitiva Morra vede giusto quando non attribuisce ad Acquaviva intenzioni meno che scientifiche e metodologicamente corrette. Infatti il sociologo de L’eclissi sottolinea con forza: “chi tenterà di dimostrare che il mio modello è falso dovrà farlo entro le regole del gioco, senza introdurre nel discorso elementi di Sozialphilosophie, che esulano dalla metodologia empirico-sperimentale cui faccio riferimento” (Acquaviva 1990, 231).


            Qualche esemplificazione riportata nel medesimo testo laterziano del 1990 non pare appropriata: come applicare alle relazioni fra soggetti umani quanto detto a proposito del circuito di silicio? Come accettare, senza opporre resistenza alcuna, qualche passaggio di tipo luhmanniano, con tentazioni cibernetiche assai lontane dal reale comportamento degli esseri umani? Nondimeno è degna di nota la riserva mentale in merito al futuro: “non so che cosa ci attende negli anni a venire” (Acquaviva 1990, 238). Ed intanto “passerà molto tempo prima che il nuovo prenda forma” (Acquaviva 1990, 238); insomma nulla è predeterminabile ed i processi in atto sono lenti ma forieri di innovazioni. L’opera è completata infine da una vasta bibliografia con oltre mille titoli (Acquaviva 1990, 248-286).


            Nel volumetto dal titolo Progettare la felicità c’è un passo (Acquaviva 1994b, 38) che è quanto mai chiaro in merito all’evoluzione del pensiero di Acquaviva: “Per anni ho sostenuto, in parte con ragione, che la religione è in crisi, anche se, studiando e analizzando quanto accade con tecniche più raffinate, scopriamo che la religiosità è più diffusa di quanto sembra, ma spesso assume forme diverse. Tanto è vero che alla domanda classica «Lei ha mai vissuto l’esperienza di una potenza che la trascenda, la chiami Dio o no?», le risposte dovrebbero essere: sì, per chi crede, no, per chi non crede. Invece, abbiamo una elevata percentuale di non credenti, di agnostici e persino di atei, che risponde affermativamente”. In tal modo Acquaviva riconosce esplicitamente che ha avuto ragione solo in parte, perché di fatto la religione è tuttora attiva e canalizzata un po’ ovunque.


            Per lui il progetto della felicità è essenzialmente una questione politica e dunque anche personale e sociale allo stesso tempo. Ecco perché ha molto gradito che la versione tedesca del suo testo suoni nel titolo come Das Glück ein politisches Project, cioè la felicità come progetto politico. Egli pensa all’utopia come progetto sperimentabile, dunque alla felicità come esperienza praticabile al di là delle incognite che la vita riserva e dei travagli che l’esistenza comporta: “l’utopia (come progetto ideale di perfezione umana e sociale) è ineliminabile, è il costante prodotto di aspirazioni umane, anche se la sua presenza in una civiltà come la nostra non può che trasformarsi in un progetto da sperimentare” (Acquaviva 1994b, 43).


            C’è da chiedersi in proposito se la ricerca della felicità non sostituisca la religione o non sia invece soddisfatta (od anche sublimata) dalla religione. In concreto Acquaviva, alla maniera di Madison – citato in epigrafe (Acquaviva 1994b, 3) -, pensa in generale alla felicità della gente. Il libretto (tale solo per il formato ed il numero di pagine) “non vuole essere un libro nel senso classico del termine” (Acquaviva 1994b, XI) giacché, “nel suo discutere di felicità, potrà apparire troppo superficiale o troppo astruso, troppo breve o troppo lungo, eccessivamente a destra o a sinistra, troppo o troppo poco postmarxista o liberalcapitalista, neomarxista o veteromarxista, anti o filomarxista. Troppo disimpegnato dalle ideologie, dai partiti, dalle maniere tradizionali di pensare il futuro. Troppo o poco attento alle sofferenze individuali, lontano dai problemi del Terzo Mondo, noioso o costruito soltanto per interessare, esageratamente concettoso o privo di concetti, pesante o leggero” (Acquaviva 1994b, XI).


            Questo andamento per esclusioni di ogni soluzione contrapposta è un po’ un Leitmotiv dell’autore, che tenta sempre di disintossicarsi, cioè liberarsi da ogni cappa ideologica, da tutte le teorizzazioni coartanti, da qualunque peso esterno rispetto al tentativo di pensare con la sua testa per dire qualcosa di originale, anche se poi deve pagarne lo scotto, provando “rabbia” per la sua “impotenza politica e intellettuale” (Acquaviva 1994b, XII). Ritorna dunque e si conferma la logica stessa de L’eclissi, cioè un pensiero fuori del seminato noto e scontato, che vorrebbe non perdersi “nel mondo dell’ipse dixit, delle citazioni quasi umanistiche e nei dettagli” (Acquaviva 1994b, 9).


            Per Acquaviva “la felicità (o serenità) per l’umanità del nuovo millennio” (Acquaviva 1994b, 10) non si basa sulle commozioni delle rievocazioni e degli inni (Acquaviva 1994b, XII) ma sulla soddisfazione dei bisogni, organizzati dalla politica e sublimati nell’idea di un “Dio che mi ama” se non sono soddisfatti nel “mercato delle interazioni” della società. La realtà del resto offre solo pochi frammenti di felicità: c’è pure la paura di procreare.


            La spiegazione di tale situazione è data dal fatto che “la maniera di essere religiosi sta subendo una grande trasformazione: si passa (almeno in parte) da una religione dell’istituzione ad una dell’esperienza che diventa un fatto intimo, nascosto, personale, anche se questo non significa la scomparsa delle Chiese” (Acquaviva 1994b, 38). Sembra quasi di rileggere a più di novanta anni di distanza le pagine di William James (1902) che distingueva fra religione istituzionale e religione personale. Ma soprattutto conta la parte finale della citazione, dove si riconosce esplicitamente che le forme istituzionalizzate della religione sono ancora operanti (rivedendo così qualche previsione precedente in merito). In fondo esisterebbe una “duttilità religiosa della società” (Acquaviva 1994b, 40).


            Il testo acquaviviano prosegue stabilendo una connessione fra la trasformazione della religiosità e la ricerca della felicità: “nelle pieghe di questi mutamenti s’annidano l’angoscia di molti e la loro incapacità di dare un significato alla vita. Questo perché una religione così personale è più fragile, più facilmente cancellata dal processo di secolarizzazione. Se la cultura frantuma istituzioni religiose, dogmi e liturgie, rimane la tendenza, che è nella memoria della specie, a sublimare religiosamente i bisogni insoddisfatti rispondendo al desiderio frustato di vivere in eterno, di amare ed essere amati, di possedere una spiegazione sintetica e globale dell’esistenza e dell’universo” (Acquaviva 1994b, 38-39).


            Si riaffaccia qui la prospettiva socio-biologica che s’innerva, a partire dalla “memoria della specie”, sui bisogni di eternità, di amore e di significato dell’esistenza, da cui nascerebbe la sublimazione religiosa come risposta all’insoddisfazione dei bisogni stessi. Ed intanto la cultura avrebbe frantumato le istituzioni religiose, quelle medesime di cui alla pagina precedente Acquaviva ha negato la scomparsa. In pratica si ha ancora una volta un andamento a curva sinusoide, con un massimo di negazione inerente la dimensione religiosa seguito da un massimo di recupero, con un carattere periodico o quasi e tuttavia – è bene sottolinearlo – continuamente in progress, con qualche variazione non trascurabile (come per esempio il ripensamento che approda alla “demagizzazione” quale spiegazione aggiornata de L’eclissi).


            Si è già detto del carattere politico del progetto sulla felicità. La conferma viene pure da una citazione tratta da un saggio di Romano Prodi, arruolato da Acquaviva a sostegno della tesi secondo cui “la maniera di interagire degli umani è già scritta (almeno in parte) nel loro biogramma, cioè nella memoria della specie” (Acquaviva 1994b, 44); infatti secondo Prodi (1989, 97) “il punto focale […] è la costituzione specie-specifica dell’uomo: essa è provvista di una sua coerente ed indubitabile unità”. L’autore di quest’ultima citazione però non è collocabile tanto facilmente nella schiera dei socio-biologi, giacché la sua affermazione rinvia solo ad una generica unità dell’organismo umano, che non presuppone affatto un’opzione affine a quella di Acquaviva o di Edward O. Wilson.


            Potrebbe a questo punto valere la pena di citare lo stesso Acquaviva, che all’inizio del suo testo ha scritto dei “soloni delle scienze umane” che “pontificano”: “si limitano ad utilizzare un gergo sociologico che nasconde la realtà dietro una cortina fumogena. Spesso riescono a scrivere interi libri senza l’ombra di una dimostrazione di quanto affermano, se si prescinde dalla citazione di qualche anemica ricerca o di qualche studioso che, con la sua autorità, dovrebbe sostenere le loro tesi più strampalate” (Acquaviva 1994b, 6). Si potrebbe chiedere all’autore: de te fabula narratur? Ma soprattutto come conciliare il tutto con il successivo attacco critico all’ipse dixit (Acquaviva 1994b, 9)? Fino a che punto, in definitiva, Sabino Acquaviva è esentabile da qualche obiezione da lui stesso mossa ad altri?


            Nondimeno alcune sue osservazioni colgono nel segno: quando se la prende con l’anticonformismo dei rivoluzionari “impenitenti” (Acquaviva 1994b, 10), il conformismo dell’anticonformismo della “sinistra paludata” (Acquaviva 1994b, 10-11) e l’anticonformismo anticonformista dei “cattolici complessati dal marxismo” (Acquaviva 1994b, 11). Lo stesso dicasi per il fallimento di un socialismo astratto (Acquaviva 1994b, 17-22) ed incapace di comprensione (Acquaviva 1994b, 22-24).


            Che cosa rimane, per Acquaviva, dopo tutto ciò? Ecco la sua risposta: le questioni legate agli elementi fondamentali dell’amore, della vita, della morte, della violenza, del mondo e del futuro. Non a caso sono gli aspetti che attraversano il romanzo La ragazza del ghetto (Acquaviva 1996, 1998), di cui è protagonista il personaggio di Alvise, nel quale non è difficile ravvisare le stesse problematiche esistenziali vissute e discusse da Sabino Samele Acquaviva.


            Il tema della felicità è ripreso anche da Paola Maria Fiocco (1998) nella sua intervista ad Acquaviva, il quale così si esprime rispondendo ad una domanda sulla sua credenza personale: “In un certo senso credo a tutto, ho fiducia in tutti, e quindi ho la pace di chi crede, mentre non credendo a nulla si ha l’angoscia di chi non crede. Inoltre, chi è quasi panteista come me ha la possibilità di dare significato a tutto nell’universo, mentre se uno non crede a nulla ha la larghissima probabilità di non dare alcun significato a nulla” (Fiocco 1998, 110). Inoltre “la religione è soprattutto esperienza. In questo senso sì, in questo senso penso il Creatore, o meglio lo vivo” (Fiocco 1998, 121). Del resto “un’umanità senza Dio sarebbe ancor più infelice di adesso. Lo è già, perché peggiorare la situazione?” (Fiocco 1998, 174).


            In definitiva Acquaviva non sembrerebbe del tutto alieno dall’essere egli stesso coinvolto nell’esperienza della religiosità, ovviamente a suo modo. Ma dal punto di vista teorico e sociologico egli pare condividere l’impostazione di Bochenski (1968) che vede un intreccio fra sacro e secolare, fra passato, presente e futuro, raffigurando il tutto con l’intersezione di due cerchi fra loro. Tale schematizzazione grafica è tenuta presente soprattutto nel volume dal titolo Fine di un’ideologia: la secolarizzazione (Acquaviva, Stella 1989) e richiama da vicino lo schema di Victor Turner (1969), che interpone un interstizio, una liminalità fra struttura ed antistruttura. Nell’approccio di Acquaviva il sacro rappresenterebbe la struttura e dunque il passato, invece il limen sarebbe costituito dalla situazione presente nell’oggi, cioè da in intreccio fra sacro e secolare, tra passato e futuro; infine l’antistruttura sarebbe connotata dal secolare e dal futuro. Insomma la diatriba resta ancora aperta, però non si può negare, dopo tutto questo excursus, che L’eclissi è sacra ed Acquaviva è il suo profeta.


 4. Conclusione


            Acquaviva, come forse si sarà intuito da quanto detto sinora, è uno degli autori che ho letto con maggiore assiduità e con più attenta acribia. Il che non significa affatto che ne condivida i punti di vista e le escursioni in avanti o a latere. Detto altrimenti, c’è una sorta di Odi et amo di reminiscenza catulliana (dal carme 85) che caratterizza il mio approccio alla sua produzione sociologica. Ne apprezzo e ne difendo la libera espressione ma non posso allinearmi sulle sue conclusioni ed interpretazioni, poiché non condivido molto del suo pensiero. Eppure l’ho letto e riletto, gli ho “fatto le pulci” per conto mio e per conto terzi. Anche in questa occasione gli sto dicendo la mia. Perché insisto? Almeno per ora può bastare così. Ma non nego che mi piacerebbe ritornare ancora a discutere su lui e con lui: ad multos annos!


 Riferimenti bibliografici


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