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LA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE DI SILVANO BURGALASSI

Roberto Cipriani


Premessa


            Certamente don Silvano Burgalassi, sacerdote e sociologo, rimane una figura centrale nella storia dello sviluppo registratosi nell’ambito della sociologia della religione in Italia. Quando egli iniziò a lavorare su tematiche attinenti il fenomeno religioso la disciplina di suo interesse si chiamava ancora sociologia religiosa e come tale era insegnata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, dove peraltro tale insegnamento ha sempre avuto vita difficile per diverse e contrastanti ragioni: in primo luogo per l’ostracismo di correnti intellettuali cattoliche che non vedevano bene l’insediamento di una materia tendenzialmente critica dell’organizzazione ecclesiale cattolica. Ma forse non era questa la ragione che portava pure l’allora rettore della Cattolica, lo storico Giuseppe Lazzati, a nutrire dubbi sulla validità scientifica della disciplina (come mi diceva personalmente al termine di un incontro di sociologia della religione tenutosi presso la sua università). Non si può peraltro dimenticare che lo stesso fondatore dell’ateneo cattolico milanese, il padre Agostino Gemelli, non era apparso del tutto favorevole all’avvento della nuova scienza sociale applicata al fenomeno religioso (come manifestò esplicitamente in occasione di un congresso nazionale di sociologia religiosa, della durata di due giorni incompleti, tenutosi a Milano nel marzo 1954; piuttosto critico fu anche il cardinal Schuster, arcivescovo di Milano; cfr. in proposito La sociologie religieuse en Italie. Communication du secrétariat de la Conférence Internazionale de Sociologie Religieuse,«Social Compass», 6, 1959, 4-5, pp. 117-121).


            Ma la tenacia, la capacità e l’impegno del professor Burgalassi ebbero la meglio su resistenze ed ostacoli di ogni tipo. Riuscì infatti a consolidare la presenza di una sociologia attenta al cattolicesimo ma non aliena dal muovere obiezioni problematiche rispetto ad un’ortodossia ferreamente applicata. Il timore altrui era che la sociologia soppiantasse la teologia, che l’indagine empirica prevalesse sulla riflessione astratta, che la ricerca scientificamente neutrale mortificasse il riferimento ai valori.


La questione del rapporto fra sociologia e teologia


            Ho avuto modo di conoscere don Silvano Burgalassi sin dagli inizi della sua fase pionieristica di studioso dedicatosi alla sociologia religiosa, come si diceva allora. Lo incontrai nel 1967 a Roma a Villa Nazareth, per un’intervista sullo stato della “sociologia religiosa in Italia”, in preparazione alla stesura della mia tesi di laurea sul medesimo argomento. Nel corso dell’intervista (cfr. Alle origini della sociologia della religione in Italia. Un colloquio di Roberto Cipriani con Silvano Burgalassi, «La Critica Sociologica», 29, 1995, 113, pp. 94-108)intervenne anche Federico D’Agostino, in procinto di partire per gli Stati Uniti – su suggerimento dello stesso Burgalassi – al fine di approfondire i suoi studi a carattere sociologico.


            L’obiettivo del sociologo pisano era quello di far superare alla sociologia una condizione di tipo ancillare nei riguardi della pastorale ed a tal fine si preoccupò di “predicare” soprattutto ai pastori d’anime – in più riprese ed in ogni dove – la sociologia come scienza autonoma e tuttavia non ostile all’azione della chiesa cattolica. Il suo fu un peregrinare diuturno, quasi senza soluzione di continuità, in gran parte delle diocesi italiane.


            Più tardi, nel 1970, egli pubblicò quella che forse è la sua opera più significativa, cioè Le cristianità nascoste. Dove va la cristianità italiana?, Edizioni Dehoniane, Bologna (cfr. la mia recensione in «Sociologia», 1970, 3, pp. 181-183), in cui si preoccupava di affermare – in relazione ad alcune suggestioni a carattere operativo-pastorale – che si trattava di «talune proposte di natura pratica che non rientrano, di per sé, in una visione rigorosamente scientifica del problema» (pag. 9), ma che venivano fornite «per la personale concezione dell’autore orientata verso una conoscenza “operativa”», ragion per cui «il lettore ci scusi: nel problema da noi affrontato è in gioco qualche cosa di più che non una struttura o delle modalità di azione: è in gioco il destino dell’uomo».


            Mentre tentava dunque di liberarsi della concezione relativa ad una sociologia “ancilla theologiae”, Burgalassi pagava lo scotto del suo essere sociologo e prete allo stesso tempo. Insomma non poteva rinunciare del tutto a farsi promotore od almeno suggeritore di alcune linee-guida.


            Invero Franz-Xaver Kaufmann, poi, nel suo Teologie in soziologischer Sicht del 1973 (tradotto in Italia con il titolo Sociologia e teologia. Rapporti e conflitti, Morcelliana, Brescia 1974) invitava ad un confronto rigoroso fra le due discipline (pag. 13), osservando in pari tempo che la sociologia pastorale sembrava in effetti una sorta di «ricerca di mercato ecclesiastica» (pag. 24) e che l’orientamento era più volto a studiare le parrocchie ed i parroci e non le diocesi ed i vescovi, o la Curia romana. Intanto però «rispondere alle domande rivolte alla teologia non è compito del sociologo» (pag. 49). D’altra parte, «qualora le Chiese facessero direttamente proprie le interpretazioni date dalle scienze sociali ai fenomeni religiosi e orientassero il proprio operare – per esempio, per quanto riguarda una ‘pastorale che abbia successo’ – secondo simili interpretazioni, ci sarebbe da temere che il contenuto significativo centrale del messaggio cristiano non possa più essere in grado di svolgere una funzione auto-critica nella Chiesa» (pp. 70-71). In definitiva Kaufmann riteneva che il suo stesso contributo contenesse solo «poche affermazioni sociologiche che potrebbero essere trasformate direttamente in raccomandazioni pastorali» (pag. 183). Insomma la sociologia della religione servirebbe più a comprendere che cos’è la chiesa che non a fornire ad essa indicazioni operative, cioè prassi da seguire.


            Le precisazioni dello studioso tedesco non giungevano a caso, dopo una lunga diatriba che anche nella prestigiosa rivista Concilium, 1, 1965, 3, pag.164, aveva dato luogo a confusioni e sovrapposizioni fra sociologia pastorale, teologia pastorale come teologia pratica, proponendo di «sottoporre ad un’analisi teologico-sociologica la situazione del tempo presente».


            Nonostante la vigorosa, puntuale, convincente e documentata messa a punto di Franz-Xaver Kaufmann i contatti ed i rapporti fra sociologia e teologia rimangono scarsi e superficiali anche oggi. Non si può dunque attribuire a Burgalassi il peso del mancato incontro fra le due prospettive in Italia. Le questioni sono ben più complesse di quanto si possa immaginare e rimontano a vicissitudini storiche remote e recenti, ostative di sviluppi virtuosi delle relazioni fra sociologia e teologia. In tale impasse il sociologo pisano si è trovato di fatto ad operare fra il 1954 ed il 1967.


La fase sociografica (1954-1967)


            Sarebbe interessante dedicare un apposito studio alla fase pionieristica della sociologia della religione in Italia, per coglierne le motivazioni iniziali, le problematiche sorte in ambito ecclesiale cattolico (ma non solo), nonché per approfondire le ragioni che hanno ritardato il suo sviluppo, piuttosto tardivo rispetto ad altre dinamiche in corso durante gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, specialmente in Francia ed in Belgio. I risultati di una simile analisi costituirebbero senz’altro un valido contributo ad una sociologia della conoscenza applicata alla nascita di una nuova disciplina scientifica in un contesto particolare come quello italiano, a forte dominanza cattolica.


            A partire dal 1954, presumibilmente come precipitato immediato del convegno citato sopra tenutosi alla Cattolica di Milano, Burgalassi diede inizio ad un’intensa attività “pubblicistica” che lo vide interessarsi nello stesso anno de “Il problema delle vocazioni religiose e del clero secolare in una Diocesi Toscana” («Orientamenti Sociali», X, 14, 1954, pp. 312-316). Nell’anno successivo egli rendeva conto di “Indagini sulla frequenza delle Sante Comunioni durante l’anno liturgico” («Orientamenti Pastorali», III, 4, 1955, pp. 45-59). E l’anno dopo pubblicava in merito ad una “Indagine sociologica sulla configurazione delle parrocchie e dei comuni e loro mutui rapporti” («Orientamenti Pastorali», IV, 1, 1956, pp. 66-80) ed anche un articolo relativo ad “Un problema di vitalità religiosa: la dilazione dei battesimi” («Orientamenti Pastorali», IV, 3, 1956, pp. 74-98); forniva infine un “Esempio di indagine schematica di una zona montuosa a carattere industriale” («Lettera agli Assistenti», 8, 1956, pp. 74-98). Proseguiva con “La vocazione in rapporto all’ambiente socio-religioso” («Sociologia religiosa», I, 1, 1957, pp. 71-99), discuteva su “La sociologia e gli studiosi cattolici” («Orientamenti Sociali», 14, 1958, p. 48) e proponeva una “Classificazione e tipologia nella sociologia religiosa” («Sociologia Religiosa», 3-4, 1959, pp. 95-150). Già nel 1957 aveva tracciato “Bilancio e prospettive della sociologia religiosa italiana” (I. C. A. S., Roma, 1957, pubblicato altresì in «Orientamenti Sociali», 13, 1957, pp. 176-187).


            Com’è facile arguire, si tratta di vari tentativi, condotti a più riprese e con insistenza, al fine di far accreditare la sociologia applicata al fenomeno religioso. La lunghezza dei testi varia da articoli più brevi a saggi assai più corposi, ma l’intento rimane unico: far passare attraverso le riviste di orientamento cattolico, sia a carattere sociale che pastorale, il nuovo “credo” della sociologia religiosa, che si era anche concretizzata nella pubblicazione periodica dal medesimo nome uscita per la prima volta nel 1957, ancora prima dunque dell’anno di svolta rappresentato dal convegno bolognese del 1958, organizzato dalla Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa (fondata un decennio prima a Lovanio in Belgio).


            Più tardi l’azione intrapresa continuava attraverso ulteriori studi che conducevano dapprima alla pubblicazione di “Aspetti e tendenze sociologiche in Italia: l’Eucarestia e i fedeli” (in Il Sacramento Eucaristico. Atti della XIII settimana di Aggiornamento Pastorale, Didascaleion, Milano, 1964, pp. 275-289, pubblicato anche in «Humanitas», XIX, 1, 1964, pp. 23-37 ed in «Studi di Sociologia», II, 2, aprile-giugno 1964, pp. 147-169). Pure la prestigiosa rivista bolognese Rassegna Italiana di Sociologia dava alle stampe un intervento di Silvano Burgalassi su “La sociologia religiosa in Italia: scienza giovane o malata?” («Rassegna Italiana di Sociologia», II, 2, aprile-giugno 1964, pp. 147-169). Successivamente il sociologo pisano scriveva di “Aspetti psico-sociologici della predicazione” («Rivista di Sociologia», III, 7, 1965, pp. 51-112), come pure di “Sociologia del cattolicesimo in Italia” («Orientamenti Pastorali», 5-6, 1965, ovvero «Lettera di Sociologia Religiosa», I, 2, 1965, pp. 123-147). Sempre nel 1965 editava un volume dal titolo Elementi per un’analisi della religiosità in Toscana (il Mulino, Bologna,1965). Invece era dedicato ai giovani un altro saggio dal titolo “I giovani e l’associazionismo oggi in Italia” («Cultura e Scuola», IV, 16, 1965, pp. 9-18). Nella citata rivista «Lettera di Sociologia Religiosa», ormai consolidatasi, Burgalassi scriveva inoltre di “Religiosità e mutamento sociale in Italia” («Lettera di Sociologia Religiosa», II, 1, 1966,pp. 1-14).


La fase post-pastorale e la nascita di nuovi interessi di ricerca (1967-1983)


            Probabilmente costituiva già un punto di svolta il volume burgalassiano del 1967 intitolato Italiani in Chiesa (Morcelliana, Brescia, 1967), per quanto ancorato ad un’impostazione che ancora risentiva di un orientamento pastorale, in effetti senza molta soluzione di continuità con alcuni studi del passato. Ma qui entrava maggiormente in campo il rigore statistico, insieme con una metodologia più attenta.


            Nel 1968 si aggiungeva il testo vallecchiano su Il comportamento religioso degli Italiani (Valecchi, Firenze, 1968). Anche in questo caso pesava l’ipoteca pastoralistica largamente presente nella terza parte dell’opera.


            Un carattere intraecclesiale avevano anche i due titoli dedicati alla crisi dei preti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si trattava de Il dramma degli ex preti (Queriniana, Brescia, 1969) e di Preti in crisi? (Esperienze, Fossano, 1970), in cui a ben leggere si poteva intravedere una sensibilità straordinaria al travagliato argomento, non lontano presumibilmente dal vissuto stesso dell’autore.


            I tempi però maturavano per un superamento di considerazioni ed interferenze di tipo teologico-pastorale. Si giungeva così a quello che è forse il contributo maggiore del Nostro: Le cristianità nascoste (Dehoniane, Bologna, 1970), anche se la già citata presenza di “proposte di natura pratica” ne inficiava almeno in parte la portata scientifica.


            Faceva seguito un volumetto più breve su La chiesa italiana tra passato e futuro (Paoline, Roma, 1971), che riprendeva in carico le istanze più propriamente pastorali, anche in funzione promozionale all’interno della chiesa cattolica, quasi a voler infondere coraggio ai pastori d’anime.


            Il testo pubblicato presso le Paoline era forse l’ultimo omaggio reso da don Silvano Burgalassi alla sua chiesa cattolica ed alle istanze di natura pastorale. Da quel momento in poi i suoi interessi si allargavano a dismisura su territori vasti ed inconsueti: guardavano al futuro, al cosmo, all’universo dei simboli, ai significati della vita. Non a caso passava da una sociologia della religione ad una sociologia generale come approccio a più larga gittata ma senza interrompere del tutto la continuità con il suo passato. In fondo quel titolo de La chiesa italiana tra passato e futuro era anche a carattere autobiografico: egli si avviava a fare i conti con se stesso, con il suo ruolo di studioso, con la sua attività religiosa di sacerdote cattolico.


            Non è facile ricostruire del tutto l’impianto complessivo della sua lunga dedizione alla sociologia religiosa prima ed alla sociologia della religione dopo. Egli ha dato molto, ha aperto strade, ha “sdoganato” una disciplina destinata ad essere marginale sia a livello accademico statale che nell’ambito delle stesse università d’ispirazione religiosa cattolica. La sua difficile mediazione merita una disamina ben più attenta di quella che si possa fare un po’ rapidamente ed anche rapsodicamente in questa sede.


            Dopo una lunga gestazione egli approdava già a metà degli anni settanta del secolo passato ad una prospettiva non più limitata all’ottica religiosa ma allargata verso altri e nuovi orizzonti.


            Egli cominciava a muoversi entro un contesto più orientato da attenzioni di tipo teorico generale e storico in particolare. L’avvio dei nuovi sviluppi coincideva con il primo saggio organico sugli anziani: L’età inutile (Pacini editore, Pisa, 1975). Ma forse il vero turning point è già evidente nel titolo stesso di un suo libro successivo: Una svolta antropologica. I paradigmi religiosi nei classici della sociologia (ETS, Pisa, 1979). Ancor più esplicito era però il riferimento che si rinveniva nell’altro testo cruciale che presentava Uno spiraglio sul futuro (Giardini, Pisa, 1980), con varie interpretazioni sociologiche sul mutamento in atto nella società contemporanea.


La fase pisana (1983-2004)


            L’ultima parte dell’opera scientifica di Burgalassi cominciava nel 1983 con il saggio La piazza del Duomo di Pisa, enciclopedia teologica di pietra e orologio cosmico (Giardini, Pisa, 1983), che trovava una naturale prosecuzione nel volume Per una storia della religiosità pisana (Pacini, Pisa, 1987). Egli nutriva grande amore per la sua città di adozione, per un doppio titolo, quello di canonico della cattedrale pisana e quello di professore ordinario nell’università di Pisa. Congiungendo dunque queste due posizioni in un’unica istanza egli si volgeva a considerare aspetti poco indagati della cultura pisana e della sua complessa simbologia.


            Faceva tutto questo a partire da una sua condizione di vita sempre più dedita a riflessioni interiori ma aperte sul mondo. Non è un caso che nel torno degli ultimi ani della sua vita seguisse due filoni parimenti importanti: quello della condizione esistenziale – e dunque della condizione di solitudine dell’anziano – e quello delle tradizioni culturali del suo luogo di residenza. Ne nascono studi straordinari per la loro vastità e per la finezza dell’approccio: i due volumi su Solitudine e solitudini. Teorie e risultati statistico-sociologici (ETS, Pisa, 1992, voll. I e II) e la poderosa opera postuma sul santo patrono di Pisa, cioè San Ranieri attraverso nove secoli di storia pisana (Edizioni ETS, Pisa, 2004), finita di stampare quando egli chiudeva la sua operosa esistenza.


            Ma anche in questa ultima fase un po’ diversa del suo percorso intellettuale non aveva trascurato di coltivare i suoi studi abituali alla ricerca di un punto di convergenza, magari anche dissonante, fra teologia, pastorale e sociologia.


            Egli cercava pure in autori non abituali (per esempio nella scuola tedesca di Gehlen) alcune conferme ai suoi punti di vista o nuovi spunti per l’avvio di ulteriori percorsi investigativi ed interpretativi. In tal modo arrivava a sostenere, appunto sulla scorta di Gehlen, che “la crisi dei giorni nostri (svolta antropologica) è pessimisticamente destinata ad aggravarsi proprio perché la velocità dei cambiamenti valoriali rende impossibile ogni riferimento pratico e costante agli altri, per il venir meno delle tradizioni, delle consuetudini, dei mores e, dunque, della possibilità di offrire alle giovani generazioni modelli congrui e coerenti di socializzazione. Il fenomeno della religiosità di chiesa viene dunque spostato al più generale fenomeno dei sistemi (antropologici) di riferimento globale, cioè ai valori (cosmi sacri), risposte ineliminabili ed ineludibili di ogni essere umano, alla ricerca del proprio senso o significato del vivere e del morire” (Silvano Burgalassi, “Per una lettura storicamente adeguata dell’evoluzione della sociologia religiosa europea”, «Studi di Sociologia», XXVI, 3-4, luglio-dicembre 1988, p. 268).


            Nello stesso articolo Burgalassi metteva in evidenza carenze e problemi della sociologia religiosa: l’assenza di una “teorizzazione adeguata” (p. 261), di una posizione critica nei riguardi del “religioso ecclesiastico” (p. 262), di concetti alternativi di secolarizzazione non desunti dagli “indicatori forniti dalle istituzioni religiose” (p. 262), di una resistenza al “peso dell’ideologia istituzionale ecclesiastica” (p. 262), di indicazioni empiriche adeguate per la “costruzione di una teoria dei processi generali di identità e di socializzazione (cosmo sacro)” (p. 262). Sembrava di leggere quasi un altro autore rispetto al Burgalassi solito, piuttosto impaniato nelle questioni di natura teologico-pastorale. Qui il suo pensiero era più riflessivo, cauto, prudente sul piano scientifico. Arrivava a dire del “prendere le distanze dagli affanni che condizionavano la sociologia religiosa europea degli anni ’60, affanni dovuti in gran parte all’essere essa coltivata specialmente da ecclesiasti e, pertanto, ispirata da quei profondi travagli pastorali che poi hanno condotto le chiese protestanti  ed ortodosse ai loro sinodi e quella cattolica al grande evento del Concilio Vaticano II” (p. 263). Si potrebbe dire in proposito all’autore: de te fabula narratur. Ma il discorso qui non è più applicabile perché Burgalassi stesso lo impedisce, tutto preso com’è a stigmatizzare dottrine e prescrizioni ed in particolare, per esempio in relazione al periodo post-tridentino, che “la teologia dell’epoca e, in special modo, l’ecclesiologia avevano con molta cura teorizzato non solo l’extra ecclesiam nulla salus ma anche una politica missionaria più in sintonia con l’assunto teologico del contra gentes, che non di quello ad gentes” (p. 263). Un Burgalassi pentito dunque? Un’evoluzione del suo punto di vista è innegabile. D’altra parte non era il primo a muovere critiche al peso della chiesa cattolica ed alla sua influenza su modi e contenuti della sociologia applicata al fenomeno religioso. Pure Gabriel Le Bras, fondatore di fatto della moderna sociologia della religione (o religiosa come si diceva allora), sin dal convegno di La Tourette in Francia nel 1953 aveva notato che la Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa risultava essere troppo legata all’istituzione cattolica: in effetti era divenuta “un’organizzazione pastorale e confessionale, cioè cattolica” (Karel Dobbelaere, “Société Internationale de Sociologie des Religions”, in William H. Swatos, ed., Enciclopedia of Religion and Society, Altamira Press, Walnut Creek-London-New Delhi, 1998, p.481).


            Ma perché Burgalassi in precedenza aveva tanto agito e scritto in piena consonanza con l’istituzione cattolica? La sua risposta era già data nel 1967 nel corso di un’intervista che gli feci: “io ho ritenuto più importante, anche ai fini dell’affermazione della sociologia religiosa, fare un discorso pastorale per sensibilizzare il clero e la gerarchia su questo argomento (e forse ora stiamo raccogliendo i risultati di questo) e quindi evidentemente la sociografia ha premesso un certo tipo di discorso che forse il sociologo rifiuta ma che secondo me è stato essenziale per sgombrare il campo…” (“Alle origini della sociologia della religione in Italia. Un colloquio di Roberto Cipriani con Silvano Burgalassi”, «La Critica Sociologica», 113, primavera 1995, p. 95).


            Quella di Burgalassi è stata pure una strategia quasi da marketing: “se il clero comincia ad avere familiarità, attraverso centinaia di conferenze a carattere informativo, con una disciplina subentrata alla pastorale […] ed incomincia ad apprezzarla, se, d’altra parte, i consigli pastorali cominciano a richiedere la costituzione di centri di ricerche, ritengo che tutto ciò sia non il frutto dei volumi e degli studi (molto difficili da comprendere a pieno) dei sociologi italiani e stranieri, ma il frutto di questa divulgazione” (p.96). Del resto era da considerare debitamente il “cammino in Italia tanto difficile, più che altrove, con una gerarchia attentissima a quello che si produce in campo religioso” (p. 97).


            In verità, tuttavia, almeno all’epoca il professor Burgalassi, che insegnava nelle università pontificie, non negava una relazione solidale fra pastorale e sociologia: “io ritengo indispensabile che il sociologo della religione abbia uno stretto contatto con il tecnico, con il canonista e con l’esperto di pastorale, per due motivi, molto chiari secondo me: un primo motivo è che nessun sociologo può interessarsi della religione se non recepisce dagli esperti della religione le categorie particolari, gli assunti, secondo i quali egli poi deve utilizzare quegli elementi meta-empirici, meta-sociologici che lo guideranno nel suo lavoro. Quindi secondo me, a meno che non si sia nello stesso tempo sociologi, pastori di anime, canonisti e teologi, bisogna ricorrere all’approccio interdisciplinare con gli esperti di materie religiose, onde impostare bene il lavoro, capire con chiarezza i limiti del proprio lavoro, interpretare bene alcune manifestazioni religiose la cui interpretazione esige il ricorso al teologo per verificarne la genuinità o meno, per verificarne l’ortodossia o meno…” (p. 99). Qui è evidente uno scivolamento verso ambiti tutti interni alla legittimazione confessionale ed alle scienze ecclesiastiche. C’è però da chiedersi se l’ultimo Burgalassi avrebbe ancora sottoscritto tali affermazioni. Sembrerebbe di no, almeno stando alle prese di posizione più recenti citate sopra.


            Ovviamente il discorso burgalassiano va anche contestualizzato storicamente. Occorre cioè fare i conti con la realtà del momento in cui tali affermazioni più remote venivano fatte. Ecco infatti che cosa diceva Burgalassi stesso, per chiarire ancor meglio quale fosse il suo punto di vista: “fino al Concilio ecumenico indubbiamente la mia opera, ed anche l’opera di altri, è stata vista con qualche perplessità. Però io ho insegnato nei seminari, ho insegnato anche prima d’allora alla «Pro Deo», sono andato nelle diocesi, ma non ho mai avuto nessun richiamo, nessuno mi ha mai detto «perché hai scritto questo?» o «come mai fai questo?». Niente. Al massimo mi hanno detto «sarebbe meglio che si occupasse di altre cose», e questo come un consiglio da amici, perché la cosa era delicata. Ma mai nessuna osservazione e nessuna critica. Dopo il Concilio ecumenico i vescovi italiani si sono convinti che qualcosa bisognava fare. E vedo con piacere quanti mi chiamano a tenere conferenze per il loro clero, una cosa delicatissima. E quando si chiama a fare conferenze al clero uno che parli con molta chiarezza, come parlo io…[…]… dicendo tante cose, dicendo pane al pane, vino al vino, vuol dire che si ha una certa fiducia. Non solo, ma in genere i vescovi mi richiamano e mi fanno impostare i piani pastorali. Il che significa che hanno fiducia che questa materia possa offrire delle serietà e delle garanzie” (p. 101).


            In occasione di un workshop su “Sociologia e Teologia di fronte al futuro” tenutosi a Trento il 3 marzo 1994 presso l’Istituto Trentino di Cultura ed organizzato dal compianto don Giuseppe Capraio, anch’egli sacerdote e sociologo di ottima formazione, Silvano Burgalassi interveniva in qualità di Coordinatore della Sezione di Sociologia della Religione dell’Associazione Italiana di Sociologia. Dopo aver ricordato la figura di un altro prete e sociologo, Giancarlo Milanesi, scomparso poco prima, il Nostro prendeva posizione sul tema dell’incontro ribadendo che fosse impensabile considerare la sociologia come una scienza non applicativa, poiché essa era nata anche con finalità operative e le sue conoscenze prodotte servivano a chiarire il senso dell’agire comune ed a prendere delle decisioni più razionali. Pertanto era naturale che il confronto con altri producesse un arricchimento reciproco, soprattutto se ciò comportava anche una verifica con l’intervento di specialisti. Di conseguenza le pre-comprensioni andavano rese esplicite. Inoltre l’empatia condivisa consentiva una forma particolare di partecipazione all’evento esaminato. Per quanto però riguardava il futuro esso non era affatto prevedibile su basi statistiche.


Conclusione


            Sovente don Silvano raccontava che secondo un’antica tradizione avrebbe avuto diritto – come titolare della chiesa di san Pierino a Pisa – a due schiave musulmane, che ovviamente non ha mai avute. Ha invece avuto molti allievi, da Federico D’Agostino a Giuseppe Giordan, da Massimo Ampola a Sergio Dei, per citare qualche nome. Anche suo nipote Marco Burgalassi, ora docente di ruolo nell’università Roma Tre, ne è degno seguace, per i suoi studi di storia del pensiero sociologico e per la sua competenza nel campo delle politiche sociali.


            Silvano Burgalassi ha offerto gran parte della sua vita, per oltre cinquant’anni, allo sviluppo dell’approccio sociologico alla religione. Il suo testamento scientifico è probabilmente da considerare la prefazione al volume di Giuseppe Giordan Dall’uno al molteplice. Dispositivi di legittimazione nell’epoca del pluralismo (Libreria Stampatori, Torino, 2003), in cui riprendendo la vexata quaestio dei rapporti fra teologia sociologia il Nostro ha offerto una visione equilibrata, bilanciata tra le due discipline: “la teologia fa un discorso all’interno di un sistema di premesse che non si presta facilmente a censura o a critica. Il discorso teologico è cioè un discorso autoreferenziale, in cui la ragione c’entra, ma come instrumentum fidei. La sociologia, invece, fa i conti con la realtà empirica; essa non si pone il problema di raggiungere la verità, quanto piuttosto di descrivere con la massima precisione l’esistente. Ad esempio la sociologia, in ambito religioso, mostra la congruenza, o la non congruenza, tra certi comportamenti e l’assunzione di certe verità di fede. In questo senso la sociologia può mettere in evidenza le contraddizioni di un certo comportamento religioso, o di una certa prassi religiosa, e questo non può non far riflettere il discorso teologico” (pp. 9-10). Inoltre “teologia e sociologia necessitano dell’apporto l’una dell’altra, non per contraddirsi, ma per completarsi. Ecco allora come la relazione tra teologia e sociologia può aiutare a superare gli steccati che inevitabilmente il confronto multiculturale comporta. Senza il confronto, la teologia rischia di non discutere mai se stessa, e la sociologia rischia di appiattirsi soltanto su quello che riesce a misurare” (p. 10). Dunque la sociologia farebbe riflettere la teologia, l’aiuterebbe a mettersi in discussione. Davvero una bella rivincita, in quest’ultimo esito! Non solo la sociologia è rivalutata ma aiuta anche la teologia a fare i conti con se stessa. Dopo aver tanto dovuto subire per difendere l’autonomia della sociologia, Burgalassi alla fine ha la meglio ed offre la sua soluzione di una conoscenza scientifica non più asservita a dettami teologico-pastorali ma del tutto indipendente e capace di dire qualcosa alla stessa teologia. 

IL BAMBINO OGGI: PROFILO SOCIOLOGICO E AFFETTIVITÀ

Roberto Cipriani


Premessa


                Per ragioni non agevolmente prevedibili e comunque non auspicabili, i bambini sono tornati al centro dell’attenzione pubblica, dei mezzi di comunicazione di massa, dei giuristi, degli uomini e delle donne di chiesa e di conseguenza anche dei sociologi.


                Sinora invero questa fascia così decisiva della società, se non per altro almeno per essere parte cospicua di essa e certamente il nerbo di quella futura, non ha goduto dei favori della ricerca sociologica. Ve ne sono poche tracce e non tutte affidabili sul piano scientifico.


                Una delle componenti più deboli del sistema sociale, privata talora dei diritti fondamentali della persona umana, quella dei bambini è una condizione che non può riuscire facilmente a promuovere in proprio delle azioni efficaci di autodifesa.


                Intanto si registra però un nuovo impulso dato al rispetto verso i minori. Il che sta creando una situazione più favorevole al mondo infantile, anche se non mancano nuove forme di coercizione e persino di sfruttamento più o meno palese.


Gli effetti sociali sull’affettività del bambino


                Le nuove generazioni non possono non subire gli effetti derivanti dalle particolarità delle strutture sociali esistenti. Si tratta di una serie di condizionamenti molteplici attraverso azioni plurime che incidono pesantemente sulla socializzazione infantile ed adolescenziale.


                Tra gli altri numerosi effetti se ne possono enucleare alcuni più significativi: “l’effetto Internet”, “l’effetto televisione”, “l’effetto metropoli”, “l’effetto valori”, “l’effetto tempo”, “l’effetto spazio”. Tutti questi effetti incidono sia a livello di genitori che di bambini. A volte in modo indipendente per ciascun soggetto, a volte con andamento a catena (o a cascata) dai genitori sui figli, più raramente in senso inverso cioè dai più piccoli verso gli adulti.


                “L’effetto Internet” concerne i genitori, soprattutto i padri, che dedicano gran parte del loro tempo in casa ed in famiglia a navigare su Internet od a leggere e/o scrivere posta elettronica, magari per completare o preparare il lavoro di ufficio. La già scarsa risorsa tempo si riduce quindi ancor più a danno delle relazioni intrafamiliari. I bambini vengono infatti privati delle occasioni di scambio affettivo, di rapporto intergenerazionale. Spesso ci si riduce ad un rapido, formale saluto. Per non dire, infine, dei problemi che possono nascere da qualche inconveniente di funzionamento dell’hardware o del software in uso. Il nervosismo per un lavoro rimasto in sospeso, per una scadenza che rischia di non essere rispettata, si riverbera sul contesto familiare, rende difficile l’interazione, mette vieppiù a rischio la tenuta dei legami interpersonali.


“L’effetto televisione” non è molto diverso dal precedente, ma in questo caso le madri sono coinvolte in misura non certo trascurabile. Soprattutto se esse sono anche impegnate in attività di lavoro al di fuori dell’abitazione reputano giusto – una volta tornate a casa – potersi riposare e “distendere” con il seguire in tivù uno spettacolo od un film. E magari il programma non è quello che preferirebbe il suo bambino o la sua bambina. Naturalmente si deve pure considerare che anche i bambini hanno spesso un loro televisore in camera. Ma questo non fa che accentuare il distacco tra loro e gli adulti di riferimento. Insomma la presenza dello strumento televisivo fa segnare di per sé un punto a sfavore della crescita umana e sociale in ambito familiare. Pur senza voler demonizzare i nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia moderna è evidente che la socializzazione di un bambino non può essere totalmente affidata alla televisione. D’altra parte l’affettività ha ben altri terreni su cui possa essere coltivata, con una relazione più diretta a livello umano. Nel frattempo però l’aumento dell’offerta televisiva che non è più solo generalista (cioè con ogni genere di programmazione) ma anche tematica (solo sport, solo musica e così via) tende ad occupare ogni spazio residuo dell’universo familiare ed infantile. Se poi si aggiungono le possibilità ulteriori legate alla televisione satellitare, alla tivù a pagamento ed alle cassette in VHS si comprende bene a quale assedio massmediatico sia sottoposto il nucleo familiare. Così il televisore diventa un rifugio per bambini poco curati dai loro genitori e la pubblicità eccessiva di alcuni canali commerciali orienta pesantemente i gusti ed i desideri del bimbo consumatore. Ma soprattutto il fanciullo è costretto ad autogestire, senza alcun indirizzo preliminare, le sue opzioni a tutto campo, con accesso illimitato ad ogni tipo di immagine e di contenuto, in assenza totale di adulti.


                “L’effetto metropoli” riguarda lo stress cui vengono sottoposti i genitori che vivono in una grande città, non rientrano in famiglia per l’ora di pranzo, lavorano in posti lontano da casa, restano isolati dai loro figli per gran parte della giornata, rientrano piuttosto tardi nelle loro abitazioni e sono troppo stanchi (anche per il lungo tragitto di andata e di ritorno), per cui talora nemmeno vedono i loro figli, che sono andati a dormire o si sono recati a casa di amici. Il risultato di tutto ciò è un’evidente ghettizzazione del bambino nell’asilo o nella scuola, con pochi contatti con i genitori e con i fratelli e le sorelle. Per di più viene eliminato sempre più dall’esperienza quotidiana quel momento fondamentale che è rappresentato dalla convivialità, cioè dallo scambio di riflessioni, valutazioni e considerazioni quando si è seduti attorno ad un tavolo.


                “L’effetto valori” è forse la conseguenza più evidente di tutto questo stato di cose. Sembrano venute quasi del tutto meno le classiche agenzie di socializzazione primaria e secondaria: famiglia, scuola, chiesa, gruppo di pari età. In verità la cosiddetta crisi dei valori investe in primo luogo gli adulti stessi, che dunque in difficoltà con se stessi non riescono ad avere punti di riferimento utilizzabili in campo educativo per la trasmissione di contenuti ai propri figli e preferiscono rinunciare alla loro funzione pedagogica o limitarla all’essenziale. Lo stesso ripensamento della propria esperienza precedente di bambini sottoposti quasi sempre a ferrei insegnamenti paterni e materni conduce a soluzioni attendiste, se non proprio lassiste. Così si interrompe il flusso di continuità fra i cicli di vita. Inoltre nuovi valori si affacciano e prendono piede, entrando in conflitto con i parametri etici già noti. Aumenta perciò l’incertezza dei riferimenti morali di base. L’effetto finale è un’assenza di attività educativa mirata, per cui senza l’iniziale inculturazione in ambito familiare cominciano a prevalere i modelli in uso fra i coetanei e si fanno confronti estemporanei fra le diverse modalità di comportamento degli adulti nei riguardi dei figli.


                “L’effetto tempo” si congiunge abbastanza con quello successivo, legato allo spazio. Oggi più che nel passato il tempo è irreggimentato secondo regole numerose e rigide. Si timbra il cartellino quando si entra e si esce dal luogo di lavoro. Per spostarsi da un posto ad un altro si devono rispettare (e conoscere) gli orari di treni, aerei, autobus, tram. Gli stessi tempi di lavoro sono previsti e verificati puntualmente: vi provvede l’addetto al controllo dei tempi e metodi lavorativi. La freneticità di una sala scambi in una Borsa valori è l’indice più macroscopico della necessità di interventi rapidi e precisi: pena la perdita di enormi capitali, si deve vendere ed acquistare nel giro di qualche secondo; ogni ritardo potrebbe comportare crolli catastrofici. Come se poi non bastasse il peso del lavoro in fabbrica od in ufficio va sempre più diffondendosi la pratica del lavoro domiciliare, che certo lascia ben poco spazio di tempo per la famiglia e le sue incombenze. Si lavora a casa anche per evitare i lunghi tempi di percorrenza per raggiungere la località dove svolgere l’attività lavorativa. Molte volte l’impegno di lavoro si protrae al di là dei giorni feriali e si allarga al sabato ed alla domenica, tempi calendariali che dovrebbero invece essere esenti da prestazioni professionali o affini. Tutto questo insieme di situazioni ha dei riflessi immediati sull’esistenza del bambino, che appare ingabbiato entro ritmi che non sono suoi ma di altri: la permanenza a scuola si prolunga ben oltre il necessario, qualche volta neppure l’orario scolastico ufficiale è sufficiente, giacché lo scolaro resta sovente da solo o in compagnia di qualche bidello o suora, nel suo istituto di frequenza, in attesa dell’arrivo di un genitore puntualmente in ritardo. In tal modo il bambino viene deprivato altresì di qualcosa che gli compete, cioè un tempo adeguatamente libero dalla scuola ed in cui sia possibile esercitare al massimo la fantasia e la creatività senza sottostare a schemi preordinati come quelli scolastici. Il tempo della scoperta libera, della ricerca non debitamente finalizzata e dell’esplorazione individuale e sociale andrebbe debitamente restituito a coloro che ne sono stati espropriati.


                “L’effetto spazio” si correla, come già detto, a quello relativo al tempo. E viene subito da chiedersi quale spazio occupino i bambini nella società contemporanea. O meglio quali spazi concreti (campi di gioco, verde attrezzato, ludoteche, strutture a misura di bimbo) sono specificamente previsti nei piani urbanistici, nella programmazione comunale, provinciale, regionale e nazionale, in favore esclusivo dell’età più verde? Perché anche i piccoli, al pari dei grandi, devono pagare caro (in chiave di risorsa scarsa e difficilmente accessibile) quel poco di spazio messo a loro disposizione? Perché le stesse abitazioni sono tutte progettate a misura di adulto? Senza richiamare alla memoria i suggerimenti della Montessori e senza voler limitare il discorso all’altezza della maniglia delle porte, perché questa nostra società è pensata, organizzata e sviluppata quasi cose se i bimbi non ci fossero o avessero poca rilevanza? Sono essi forse cittadini senza diritti? Perché devono passare gran parte della loro giornata fra quattro anguste mura? Perché la conoscenza della città in cui vivono deve limitarsi ai dintorni di casa e della scuola? Soprattutto nelle metropoli non è raro il caso di ragazzi e ragazze che non hanno mai visitato il centro storico. Un’ultima non secondaria annotazione riguarda la qualità e l’entità degli spazi distinti per genere. Come nelle abitazioni gli uomini sembrano avere diritto agli ambienti migliori (lo studio, la sala hobby, ecc.) perché anche le bambine devono pagare lo scotto in quanto gli ambienti più appetibili vengono di solito riservati ai maschietti? 


Il bambino come spot


                Oggi in verità i bambini sono sotto i riflettori. Si fa un gran parlare di loro. Ma essi non sono i protagonisti. Al massimo sono i deuteroagonisti di un prodotto da pubblicizzare, di una trasmissione che li usa come specchietto per le allodole per poi far sorbire ai telespettatori decine e decine di minuti di propaganda di ogni genere (dal promo di un film o di una trasmissione futura al discorsetto ammaliatore del politico di turno). Li si fa persino discutere su temi più grandi di loro (ovvero che non fanno parte del loro mondo abituale) per suscitare – con le loro risposte ed argomentazioni – l’ilarità degli adulti ma soprattutto per fare da traino al telegiornale che segue e togliere così punti all’audience della concorrenza.


                Altre volte, anzi più spesso, i riflettori sono puntati su di loro per situazioni patologiche. Il recente incremento del dibattito sulla pedofilia ha dato adito pure a strumentalizzazioni politiche di ogni tipo, in cui però i bambini sono restati una volta di più delle vittime inconsapevoli ed innocenti.


                Da anni invece è sotto gli occhi di tutti una normalità – se possibile – ben più spaventosa: l’annientamento degli spazi orientati ad un uso peculiare da parte dei bimbi, la mancanza di proposte serie ed efficaci in campo educativo e scolastico (non a caso all’assenza dello Stato deve supplire il volontariato religioso e laico), l’orientamento di molti discorsi sull’infanzia e sull’adolescenza come se si dovesse guardare solo all’adultità dei ragazzi attuali trascurando di fatto le loro problematiche presenti, la cui soluzione – questa sì – potrebbe portare ad una diversa e migliore società futura.


                La difficoltà stessa nell’usare termini univoci in questo campo segnala una difficoltà di fondo, che però può essere risolta dalla definizione che l’ONU dà del bambino: un cittadino a pieno titolo sebbene non maggiorenne. Il limite di diciotto anni fissato per indicare la maggiore età non è casuale ed enfatizza in tal modo il riguardo che occorre avere nei confronti di chiunque non sia ancora diciottenne, quasi a dire che senza alcuna differenza di età ogni infante ed adolescente merita la medesima cura, un approccio debitamente calibrato, una prudente cautela.


                Qualche volta capita di dover sentire definire gli appartenenti ad una certa classe di età con degli appellativi che connotano subito delle caratteristiche diverse. Per esempio nella successione di tre classi di età e dunque di tre gruppi diversi di classe scolastica vengono detti “piccoli” quelli che hanno un minor numero di anni, “grandi” quelli che possono avere un’età superiore di quasi una dozzina di mesi o poco più, mentre sono detti “mezzani” coloro che si trovano nell’età intermedia. Orbene queste denominazioni possono apparire improprie ma seguono un criterio di base: i tre gruppi non sono composti da persone con le medesime problematiche; da un anno all’altro molte cose cambiano; le dinamiche di una classe non sono affatto quelle della classe che precede o dell’altra che segue. Insomma le peculiarità ci sono e vengono rispettate anche sul piano nominalistico, che di fatto riconosce e legittima le differenze esistenti.


                In definitiva se per un verso torna conveniente ricorrere ad un’unica categoria giuridica del bambino da zero a diciassette anni per un altro verso non pare utile mantenere la medesima tassonomia in chiave sociologica e psico-affettiva. Anzi si può dire che quanto più si valorizza la distinzione tanto meglio si risponde alle istanze della persona che ci è dinanzi, come individuo sociale a tutti gli effetti, bambino soggetto-oggetto di diritti.  


Le convenzioni internazionali


                Il 5 ottobre 1961 venne firmata a L’Aja la Convenzione sulla protezione dei minori. Nove anni dopo, precisamente il 28 maggio 1970 sempre a L’Aja venne redatta la Convenzione europea sul rimpatrio dei minori. Devono passare altri dieci anni prima di avere un’altra convenzione, quella sulla sottrazione dei minori, ancora a L’Aja il 25 ottobre 1980.


                La Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia fu sottoscritta il 20 novembre 1989 (e fatta propria dall’Italia solo un paio di anni dopo). Essa recita all’articolo primo che “bambino è ogni essere umano al di sotto del diciottesimo anno di età”. Ciò significa che in ogni caso il bambino resta sempre una persona, ma che ha uno statuto speciale fino a quando non abbia compiuto la maggiore età. Tale norma è posta a salvaguardia della speciale condizione di minorenne che non può e non deve lavorare prima di divenire adulto.


                Altre convenzioni sono poi seguite. Il 29 maggio 1993 ancora una volta a L’Aja si ebbe una nuova Convenzione sulla protezione dei minori, a trentadue anni dalla prima formulazione.


                Nel 1996, il 25 gennaio, giunse la Convenzione europea sui diritti dei minori, stilata a Strasburgo.


                A completamento del discorso giuridico sull’infanzia va rilevato che anche la nuova “Carta europea dei diritti fondamentali”, la cui approvazione è prevista per il dicembre del 2000, prevede – in uno dei suoi 53 articoli ed in particolare nel capitolo sull’uguaglianza, all’articolo 24 – che “i bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere” e che “essi possono esprimere la propria opinione, che viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità”. Inoltre “l’interesse del bambino deve essere considerato preminente” ed “ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo quando ciò sia contrario al suo interesse”. In forma categorica poi l’articolo 31 pone un divieto preciso: “il lavoro minorile è vietato. L’età minima per l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo”.


Il bambino assente


                Come la sociologia anche la storia ha trascurato il ruolo dei bambini nelle vicende umane del nostro universo. Di essi si parla pochissimo. Si cita qualche episodio edificante ma ben poco si ricorda e si cita quale sia stata la condizione infantile nell’Atene di Pericle, nella Roma di Augusto, nella Firenze di Lorenzo dei Medici. Persino le statistiche di demografia storica sorvolano sulle quantità di bimbi presenti in una certa epoca in un dato contesto topografico.


                In società dominate da strutture patriarcali (e da pene corporali inflitte per un nonnulla) era difficile che il ruolo di un bambino emergesse sino ad ottenere dignità di menzione storica. Se ne parla semmai – ancora una volta – per un evento drammatico, quale la presunta dedica di sacrifici umani di bimbi alla dea punica Tanit, come testimoniano in Italia ed altrove i cimiteri pieni di tophet, la tomba tipica dei bambini. Una fama altrettanto funesta ha la rupe Tarpea, dalla quale si gettavano gli individui nati con qualche deformazione.


                Non è un caso peraltro che anche nell’arte i bambini siano assenti come soggetti principali. Vi è qualche eccezione. Per esempio Goya nel secolo XIX dipinge figure di piccoli insieme con adulti od anche da soli: ma si tratta pur sempre di probabili futuri regnanti. Dunque prevale anche in questo caso l’orientamento più all’avvenire da adulti che non al presente di fanciulli.


                Secondo la tradizione cristiana vanno nel Limbo i nati morti prematuramente senza ricevere il battesimo. Questa è forse una delle poche espressioni di valorizzazione di individui che non hanno raggiunto l’età della parola e della ragione.  


                L’attuale situazione sociologica di giovani adulti che restano in famiglia fino ai trent’anni di età indurrebbe persino a ritenere praticabile un’estensione della qualifica di minorenne ben oltre i diciotto anni di età. Forse la minore età potrebbe considerarsi conclusa al momento del matrimonio. Ma questa ipotesi confliggerebbe con lo statuto di cittadino che si acquisisce quando si diventa maggiorenni. Tuttavia il problema della permanenza presso la famiglia di origine senza passare ad una famiglia di procreazione estende certi caratteri della minorità e della minore età. La questione non è affatto trascurabile. Per non dire poi di certi legami che permangono anche a matrimonio avvenuto. Si pensi a certe nuove coppie che abitano nello stesso condominio dei genitori se non proprio sullo stesso pianerottolo o nel medesimo appartamento. L’affettività in questi casi è ben più che un sentimento congiunturale.


Il bambino come obiettivo economico


                Nel passato un figlio maschio costituiva una ricchezza per la famiglia agricola perché poteva essere un sostegno in più per il futuro bilancio del nucleo. La figlia invece creava problemi perché le si doveva preparare una dote adeguata per consentirle di sposarsi. Oggi queste distinzioni non sembrano avere più molto peso. Ed in effetti l’obiettivo più diffuso è quello di una buona istruzione superiore sia per i ragazzi che per le ragazze, mirando se possibile al livello più alto, quello della laurea.


                Intanto però nuove spinte provengono dal mondo genitoriale: verso gli studi di lingue straniere, verso l’apprendimento delle procedure informatiche, verso le professioni più redditizie. Alla base di tali comportamenti sembra evidente la motivazione di natura economica, per il raggiungimento di migliori proventi.


                In questa logica della rincorsa economica si inseriscono le prime esperienze della globalizzazione più avanzata, che comprende al momento attuale la moda dei Pokémon (come nel passato c’era quella della bambola Barbie), del fast food, della macdonaldizzazione di molti ambiti dell’esperienza del bambino.


                Il problema ora non è più quello di non accettare caramelle da uno sconosciuto come si avvertiva nel passato. Oggi ben altre sono le cautele da esercitare. Tanto per cominciare appunto sul tema della sessualità occorre un’adeguata presa di posizione. Un’educazione precoce in merito non è mai uno sbaglio, specie se gli interlocutori sono i genitori, gli insegnanti, gli educatori. In mancanza di tale preparazione oculata e rispettosa saranno ben altri gli approcci ed i tentativi irriguardosi della personalità non ancora giunta alla maggiore età. Detto altrimenti un’educazione sessuale anticipata è sempre preferibile ad un’istruzione maldestra da parte di soggetti sprovveduti e magari miranti ad una strumentalizzazione più o meno celata.


                La privatizzazione del rapporto con i figli ancora bambini non deve però impedire più ampi legami con la società nel suo complesso. Il bimbo deve poter fare esperienza di ciò che lo riguarda direttamente, nella sua attività quotidiana, senza troppi slanci in avanti verso un futuro che non è detto sarà comunque di un certo ed unico tipo, quello fortemente voluto dai genitori per la loro prole.


                In pratica non appare conveniente ed utile che gli adulti ripensino di continuo alla loro infanzia e che i bambini siano sempre e solo proiettati verso la loro adultità. Giova a tutti vivere al massimo e bene il proprio presente, senza fughe in avanti (o indietro, che fa lo stesso).


                In termini di spazio poi occorre guardare sia al livello locale che a quello globale. Infatti non rientra in un’azione educativa efficace costringere l’orizzonte personale del bambino entro la sola dimensione di appartenenza. Egli, pur continuando a vivere intensamente il suo ambiente e le offerte che ne derivano, deve potersi abituare a guardare al di là del suo quadro topografico di riferimento. La sua condizione è condivisa da varie altre centinaia di milioni di bimbi nel mondo.


                In fondo il bambino finisce sovente per essere quello che gli altri vogliono che sia. Una volta che gli viene affidato un ruolo, egli si lascia prendere completamente da questo e trascura molte altre possibilità.


                D’altro canto una delle dimenticanze più frequenti ha a che vedere con le competenze che il soggetto non ancora adulto tuttavia già possiede. Tale errore di prospettiva da parte degli adulti comporta conseguenze gravissime per il minore: mancanza di autostima, venire meno della fiducia in se stesso, tendenza a rassegnarsi ad un ruolo passivo, delega ad altri di quello che egli è di solito in grado di compiere, rinunzia ad ogni progettualità immediata e successiva.


                Le attuali politiche in favore della famiglia sono tuttora carenti. A tale situazione sottosta un pregiudizo di fondo che colpisce in primo luogo il bambino: non lo si reputa dotato di volontà precise, di sentimenti consapevoli, di affetti duraturi.


                Ma forse il dato più macroscopico è che l’attaccamento degli adulti ai propri personali obiettivi non si coniuga felicemente con la crescita del loro interesse per l’infanzia e l’adolescenza.

LA REALTA’ DEGLI ADOLESCENTI OGGI: IL RUOLO DELL’APPROCCIO SOCIO-EDUCATIVO

Roberto Cipriani


Premessa


            Ormai sembra un dato scontato: si sta allungando a dismisura la durata del periodo formativo. Ciò dipende anche dalle difficoltà di trovare un’occupazione e dal ricorso prolungato all’azione protettiva della famiglia. Di conseguenza gli adolescenti hanno dinanzi a loro la prospettiva di un prosieguo della loro condizione di dipendenza, di mancanza di autonomia economica e decisionale, di rifugio protratto nell’ambito familiare ed in sostanza di legami tendenzialmente subordinati nei confronti degli adulti. Tutto questo ha luogo di fatto, ben al di là delle apparenze di svincolo realizzato e di libertà conquistata da parte degli adolescenti.


            In questa lunga fase adolescenziale, che in effetti non termina con il compimento del diciottesimo anno di età, sintomatico è il ricorso a quelli che vengono definiti macjobs, cioè “lavoretti”, piccole prestazioni come quelle appunto tipiche di un servizio in un fast food del genere MacDonald’s. Si tratta di una soluzione che offre ai giovani ed alle giovani qualche risorsa economica da utilizzare per le loro attività nel tempo libero o per acquisti legati al consumismo peculiare di tale fascia di età (abiti, oggetti alla moda, gadgets, motorini, ecc.).


            Frattanto appare evidente che le occupazioni del futuro richiederanno una qualificazione sempre maggiore, escludendo quasi del tutto attività di tipo manuale. Dunque anche per questo il percorso formativo adolescenziale e giovanile tende a proseguire, per acquisire competenze adeguate al nuovo mercato del lavoro. E comunque il titolo di scuola media superiore risulta effettivamente il livello minimo da cui si parte per poter sperare di ottenere una collocazione occupazionale almeno in parte soddisfacente. Peraltro non è difficile immaginare che gran parte della popolazione adolescenziale e giovanile andrà incontro a processi formativi ben oltre i diciotto anni di età ed in larga misura anche durante l’età adulta.


            Ciò comporta un cambiamento fondamentale delle prospettive esistenziali, giacché l’azione formativa non tende a concludersi nell’età adolescenziale ma resta appena una tappa nel lungo itinerario della cosiddetta formazione continua (o permanente) ovvero lifelong learning (apprendimento lungo la vita).


            Nondimeno il periodo adolescenziale conserva una sua centralità fondante che si basa essenzialmente su alcuni riferimenti considerati “molto importanti”, come dicono i giovani fra 15 e 24 anni intervistati nel corso della quinta indagine IARD sulla condizione giovanile in Italia (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002). Per loro la famiglia risulta al massimo dell’importanza nell’83,3% dei casi, quasi lo stesso si può dire per la serie di relazioni amicali con ragazzo/a, amici/amiche, che si attesta al 77,3%, mentre il lavoro sembra aver perso terreno in questo ultimo periodo in quanto considerato assai importante dal 59,9% degli intervistati. In pratica, la famiglia ha ancora un peso determinante, il fattore amicizia si presenta in crescita rispetto al passato e rappresenta pertanto la seconda base di supporto dell’esperienza giovanile, mentre sono in costante e significativa ripresa gli impegni a carattere sociale e religioso, insieme con l’interesse per il tempo libero. Permane l’attenzione al privato, come pure all’evasione, ma si stanno affacciando, agli inizi del nuovo millennio e del nuovo secolo, anche talune sensibilità maggiori verso la dimensione socio-collettiva. In realtà che il lavoro non rappresenti un orizzonte di immediato appeal è quasi da ritenere scontato anche perché esso non può costituire un’attrattiva a breve termine, a causa del fatto che si tratta di una risorsa scarsa, appetita da molti e già appannaggio raggiunto o traguardo maggiormente agognato dalle classi di età più adulte.


            Un’ulteriore conferma del ruolo della famiglia viene anche da un’altra inchiesta, quella condotta dall’Università Cattolica di Milano e dalla Fondazione Pastore (Magatti 2005) sulle persone senza diploma di scuola media superiore (che sono più del 30% della popolazione in età fra i 20 ed i 49 anni) ed in particolare su un campione di 1800 soggetti. Il 64,7% degli intervistati si dice molto d’accordo nel reputare la famiglia come luogo dove “si trasmettono e si apprendono i valori”. Il 49% esprime il massimo accordo sulla famiglia come “luogo dove si può essere se stessi” ed il 36,7% come “luogo dove si impara a discutere e a confrontarsi con gli altri”. In definitiva la famiglia resta anche oggi un caposaldo quasi insostituibile, specialmente a livello di socializzazione ai valori, di autorealizzazione e di abitudine alla discussione ed al confronto.


            Appaiono interessanti anche altre risposte fornite nel corso di un sondaggio telefonico realizzato fra il 29 novembre ed il 7 dicembre 2004 su un campione di 1600 persone dai 15 anni di età in poi: il settimo rapporto annuale “Demos-La Repubblica” (www.agcom.it), curato da Ilvo Diamanti, Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini, mostra che la maggiore fiducia della popolazione italiana va alle “Forze dell’ordine” (per il 72,7%), al “Presidente della Repubblica” (per il 68,8%), alla “Chiesa” (per il 58,1%) ed alla “Scuola”. Gli organismi religiosi e scolastici riscuotono dunque una buona dose di consensi a livello diffuso. Per quanto concerne poi il tasso di soddisfazione per i servizi prestati le scuole pubbliche arrivano al 41,8% e le scuole private al 34,6% di pareri favorevoli. Emergono peraltro evidenti domande di valori. Ma gli studenti sono i più delusi dalle istituzioni, verso le quali sono abbastanza critici perché non vedono soddisfatte le proprie richieste di rappresentanza e di cittadinanza. Sono altresì in aumento, come rilevato pure nell’indagine IARD, le istanze di partecipazione politica e sociale, per esempio attraverso l’attivismo socio-politico e quello volontaristico: il 59% dei giovani ha preso parte a manifestazioni pacifiste e quasi il 30% a proteste politiche.


            Pure la crescita di significatività dei valori è ampiamente documentata da recenti inchieste, non ultima quella su La sfida dei valori (Sciolla 2005), in cui si certifica che l’Italia insieme con gli Stati Uniti rappresenta un’eccezione nel panorama internazionale, caratterizzato invece da accentuati andamenti di secolarizzazione. Nel nostro Paese dunque è ora piuttosto contenuto il numero dei “non credenti”, passati dal 12,1% del 1981 al 10,1% del 1990, all’8,9% (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995) nel 1994 ed al 6,6% nel 1999. Sono in calo anche i “credenti non praticanti” mentre aumentano specie fra i giovani i “credenti praticanti”. Sono soprattutto le donne che si avvicinano maggiormente alla religione di chiesa: erano il 42,6% nel 1981 mentre ora sono il 51,6%. E nel contempo sono diminuite le italiane “non credenti”, passate dal 6,2% al 3,5%.


Il ruolo della vita quotidiana


            Che cosa produce tali atteggiamenti e comportamenti? Che cosa incide veramente sulle attitudini delle giovani generazioni? Forse i bei discorsi magniloquenti? Oppure l’esemplarità di vita dei genitori? O invece i contenuti di un insegnamento scolastico efficace da parte di docenti all’altezza del loro delicato compito? Probabilmente qualcosa di tutto questo ha il suo peso ma è in primo luogo il mondo della vita quotidiana che segna la vita di una persona, in particolare nei periodi iniziali della sua formazione.


            La vita quotidiana è qualcosa che pre-esiste rispetto alla nostra stessa nascita e che è già stata vissuta ed interpretata da altri, i nostri progenitori, i nostri predecessori, che l’hanno percepita e sperimentata come un mondo organizzato, a sua volta pre-definito da altri soggetti vissuti nel passato anteriore. Insomma ognuno di noi si trova di fronte a qualcosa che non ha contribuito a creare e che in qualche modo subisce suo malgrado. Si tratta di tutta una serie di elementi che rientrano nell’esperienza di ogni giorno: dal modo di salutare al modo di assumere il cibo, dalle posture tipicamente femminili o maschili alle maniere di stare a tavola, dall’uso degli spazi casalinghi alla suddivisione della giornata in sequenze pre-ordinate.


            Attraverso i modelli comportamentali in vigore nella realtà quotidiana si fanno largo ed attecchiscono forme di conoscenza che risultano e si fanno valere come socialmente approvate, cioè legittimate. Esse sono come delle ricette, delle prescrizioni, che mirano a supportare ogni membro di una società nel tentativo di definire la sua collocazione nella realtà sociale, secondo tipologie prestabilite ed in qualche misura fissate una volta per sempre.


            Nel quadro di queste dinamiche ripetute e sempre uguali a se stesse, si assiste altresì a vari tentativi di reciproca “colonizzazione” delle menti. Gli adulti provano a “colonizzare” i giovani oppure gli altri adulti. Lo stesso si verifica tra i giovani medesimi o tra i giovani che cercano di plagiare generazioni di età diversa dalla loro, si tratti di adolescenti o di adulti.


            Tali operazioni si svolgono lungo la triplice direttrice che interessa la mente come capacità di raziocinio, la cultura come insieme di valori, credenze, riti, simboli, e la società come intreccio fra individualità interagenti. Il tutto si realizza mediante l’utilizzo di concetti, di astrazioni che sono delle rappresentazioni collettive, di idee come concezioni che si costruiscono (o si trovano già costruite) sulla realtà esistente e che in pari tempo costruiscono “socialmente” la realtà, cioè ne danno una spiegazione.


            In genere si ricorre a classificazioni che hanno come modello di riferimento le istituzioni: la Chiesa come lo Stato o la Scuola. Per esempio, i simboli sono proprio delle tipificazioni che prendono spunto dalle stesse istituzioni cui fanno riferimento. Dunque le istituzioni influenzano la mente e sostengono (o meno) i ricordi oppure le dimenticanze, intervenendo in modo palesemente selettivo. Ne derivano, in definitiva, classificazioni e credenze che sono delle vere e proprie cosmologie, visioni del mondo che dicono e spiegano che cosa sia la vita, che cosa sia la morte, in che cosa identificarsi, quali criteri di giustizia e di equità seguire e così via.


La socializzazione


            L’abitudine a certi schemi mentali, a certe modalità di comportamento sempre uguali e ripetute nel tempo, si consolida sia grazie a simboli che a riti, che producono e ri-producono le relazioni sociali, quasi senza cambiamento alcuno e senza soluzione di continuità. Tale abitudine si rafforza se vi è integrazione nel gruppo di appartenenza. Ma l’integrazione è in strettissimo rapporto con la diffusione dell’informazione e della comunicazione all’interno del gruppo cui si fa riferimento.


            Solitamente la mancata contestazione dell’insegnamento da parte dei discenti sembra garantire il loro successo scolastico. C’è però da chiedersi che destino abbia in seguito, presso gli adolescenti diventati adulti, un così forte condizionamento che non lascia quasi spazio alla discussione ed all’approfondimento. Il mantenimento dell’ordine normativo non garantisce affatto l’efficacia della didattica e della socializzazione verso determinate tematiche, prime fra tutte quelle a contenuto etico e religioso.


            Sovente l’ordine è mantenuto con l’uso di categorie date per scontate e per nulla discusse ma supinamente accettate perché autoritariamente imposte. Il che è dovuto alla disparità di potere esercitato, per esempio dai genitori verso i figli, dagli insegnanti rispetto agli adolescenti. Le maggiori risorse di conoscenze nozionistiche ed erudite e di informazioni sia generali che specifiche consentono di esercitare una pressione psicologica e contestuale che sovrasta gli alunni, impossibilitati a reagire perché non dispongono di altrettante possibilità conoscitivo-informative.


            Quanto prodotto socialmente trova la sua origine anche nella struttura scolastica come pure in altre istituzioni sociali, che insieme operano nell’ambito della vita quotidiana. Quest’ultima per il suo carattere di ripetitività è quanto mai influente ma lo è soprattutto perché agisce senza che vi sia molta consapevolezza e partecipazione diretta e responsabile da parte degli attori sociali, in particolare gli adolescenti ed i giovani, che s’imbevono di contenuti e modelli quasi senza avere alcuna possibilità di scelta.


            Il vissuto quotidiano viene sperimentato con altri adolescenti e giovani, coetanei e coetanee, oppure insieme con adulti, genitori, educatori, insegnanti. Ma in entrambi i casi è strategicamente decisivo il rapporto interpersonale immediato, senza interferenze, cioè face to face, a faccia a faccia, guardandosi dunque negli occhi.


            In tale incontro fra soggetti si trasmettono gli schemi di tipificazione, di gerarchizzazione, di classificazione delle diverse forme della realtà. Ne deriva un processo di oggettivizzazione, che porta a dare come acquisito ed irrevocabile qualcosa che di per sé non avrebbe un carattere così assoluto ed immutabile. Così la realtà viene ipostatizzata, quasi imbalsamata così come essa viene conosciuta la prima volta. Da qui hanno origine valori, credenze, norme comportamentali, modi di vita, che permangono tendenzialmente come caratteri fissi per un’intera esistenza, nonostante qualche tentativo di debordare da essi. In questo campo la scuola ha un peso rilevante con la sua istituzionalizzazione e di fatto oggettivizzazione di ogni aspetto della sua intensa attività. Gli interventi didattici, rinnovati quotidianamente ed a lungo – nel corso degli anni di frequenza scolastica -, rispondono a modelli pregressi che inducono a considerare la stessa istituzione-scuola come realtà immarcescibile, oggettivizzata, insostituibile, non soggetta a grandi mutamenti. La propensione prevalente è dunque quella di conservare l’esistente, di preservare gli aspetti tradizionali. A questo provvedono dei “sacri guardiani” che presidiano le operazioni di educazione e socializzazione. Solitamente si tratta di personale di genere femminile, che soprattutto a livello di scuola secondaria ha fatto pensare ad una categoria specifica di protagonismo femminile: le famose “vestali della classe media”, così come suonava il titolo di un volume pubblicato anni fa (Barbagli, Dei 1970).


La costruzione sociale della realtà


            La realtà quale noi la conosciamo è il precipitato storico di una costruzione sociale che si tramanda di generazione in generazione. In altri termini la conoscenza è un tipico prodotto sociale che si avvale sia delle istituzioni (ovvero dei processi di istituzionalizzazione) sia delle procedure di legittimazione. Queste forme di riconoscimento e di accettazione consensuale riguardano le nuove generazioni che ricevono l’impatto dell’attività educativa e scolastica messo in atto dalle generazioni precedenti.


            Di solito tali operazioni si sviluppano mediante la sedimentazione e la trasmissione di contenuti che si stabilizzano e perpetuano grazie al linguaggio usato ed ai segni-simboli implementati. Anche il riconoscimento dei ruoli (genitore, maestro, educatore, ecc.) produce oggettivizzazioni ed abitua all’accettazione delle funzioni esercitate da altri, soprattutto dagli adulti i quali aggiungono anche l’influenza della maggiore età, per poter ottenere ulteriore credibilità (ed efficacia) nell’interazione intergenerazionale. D’altro canto l’essere adulti ed avere un ruolo legittimato istituzionalmente comportano di per sé una visibilità ed un’autorevolezza ben evidenti.


            In effetti questo tipo di soggetti rappresenta l’ordine istituzionale ed è chiamato a mediare rispetto all’insieme di conoscenze comuni. Anzi ha un compito peculiare, per il quale si specializza, acquisisce competenze e cresce in affidabilità proprio per il suo concentrarsi sui compiti di ruolo (non a caso in occasione di scadenze elettorali un politico di professione è in genere preferito ad un esponente del mondo della cultura o ad un libero professionista).


            Anche la legittimazione è una forma di oggettivizzazione, sia pure di second’ordine. Essa produce nuovi significati che vanno a completare quelli già dati dall’oggettivizzazione di prim’ordine operante a livello istituzionale. Detto completamento serve a rendere più accettabile e più plausibile l’istituzionalizzazione di primo livello.


            La legittimazione concerne essenzialmente le generazioni più giovani, che non avendo avuto alcuna parte nella precedente fase di istituzionalizzazione vengono raggiunti da procedimenti legittimatori che vogliono essere convincenti ed efficaci. In questo campo l’istituzione primaria è la scuola, che si affianca alla famiglia (la cui opera è appena un avvio rispetto all’intero processo legittimatorio, volto alla trasmissione di valori e contenuti alle nuove coorti di età). In fondo la legittimazione serve a spiegare ciò che già c’è, a giustificarlo, a renderlo appetibile.


I processi di legittimazione


            L’andamento legittimatorio segue in linea di massima quattro fasi (Berger, Luckmann 1969). La prima ha un carattere pre-teorico: si potrebbe definire una sorta di legittimazione allo stato nascente. Essa fa capo ad un livello linguistico elementare, appunto ad un vocabolario di nomi e di ruoli. Può infatti bastare il rinvio ad una funzione per far riconoscere la legittimità di esercizio di un qualche potere. In pratica i termini stessi con cui si chiamano persone ed istituzioni le legittimano nella loro collocazione sociale e nel loro diritto-dovere di assolvere compiti decisionali e gestionali.


            La seconda modalità o fase legittimatoria ha a che vedere con il grado proto-teorico, cioè di teorizzazioni semplici, non particolarmente elaborate, affidate magari ad espressioni rudimentali, per nulla circostanziate con motivazioni specifiche: sono proverbi, massime, aforismi, aneddoti, narrazioni, esempi, storie edificanti, ecc.


            Il terzo passaggio è più strettamente teorico e si avvale di teorie esplicite, dotate di una opportuna articolazione raziocinativa, con quadri di riferimento abbastanza precisi ed affermazioni ben calibrate e dotate di forte razionalità. In generale pensano a costruire siffatte teorie alcuni intellettuali che si sono specializzati nel campo, acquisendo competenze ad hoc. In questo contesto assumono rilevanza pure le azioni rituali che prevedono percorsi di tipo iniziatico per acquisire una legittimazione adeguata (si pensi ai riti di ingresso nella pubertà, in uso presso alcune culture – non solo quelle cosiddette primitive- , od alle celebrazioni riguardanti alcuni sacramenti amministrati agli adolescenti, sottoposti a lunghi periodi di preparazione). Questa fase teorica riveste una particolare delicatezza e necessita di specialisti che siano in grado di dedicarsi a tempo pieno alla loro attività di costruttori di processi legittimatori.


La dimensione simbolica


            La quarta ed ultima modalità abbraccia i cosiddetti universi simbolici, che hanno una portata ben più ampia di una semplice teoria legittimatoria. Infatti in questo caso si ha a che fare con corpi sostanziosi e complessi delle tradizioni teoriche, in grado di mettere insieme molteplici ambiti di significato. La stessa religione è un universo simbolico che giunge ad inglobare l’intero suo ordine istituzionale in una totalità simbolica concernente vari aspetti della vita umana (valori, concezioni della vita e della morte, modelli comportamentali, criteri etici, ecc.). Ogni universo simbolico ha questo di caratteristico: è una grande, unica integrazione di elementi vari. Tuttavia è da tenere presente che l’universo simbolico è anche il precipitato storico di numerose sedimentazioni conoscitive, che hanno come retroterra culturale una lunga storia. Tali sedimentazioni appaiono come un ordine di apprendimento per gli individui, ai quali spiegano quasi tutto: sia la realtà che i sogni. In tal modo l’universo simbolico mette ogni cosa al suo posto, cosicché tutto ritorna, tutto risulta organico. La stessa morte e/o quanto vi è dopo di essa sono spiegati dall’universo simbolico, come dimostra palesemente il caso dell’universo simbolico religioso. Insomma si può ritenere che l’intera storia dell’umanità appare ordinata dagli universi simbolici.


            La conservazione degli universi simbolici è poi garantita da varie organizzazioni sociali, fra cui la Chiesa, nella quale numerosi esperti (teologi, moralisti, pastoralisti, liturgisti, ecc.) sono preposti alla costruzione di teorie, che mirano a rafforzare la tradizione. Occorre nondimeno considerare che il mantenimento dello status quo è di fatto una istituzionalizzazione dell’inerzia, dell’inazione, della conservazione delle posizioni acquisite. Nulla impedisce comunque che si registrino spinte innovative, tendenti verso nuove istituzionalizzazioni, a loro volta bisognose di opportune legittimazioni per far accettare il cambiamento proposto.


            Nella misura in cui le istituzionalizzazioni vigenti non divengono problematiche e non entrano in crisi non si avranno facilmente nuove istituzionalizzazioni e nuove legittimazioni. Non è ipotizzabile che l’universo simbolico adottato da un gruppo più o meno ampio di soggetti non risponda ai loro interessi. Solo in caso contrario sorge l’istanza di cambiamento, il desiderio di innovare, di pensare ad altre istituzionalizzazioni e legittimazioni, cioè ad ulteriori e diversi processi di socializzazione per far interiorizzare la nuova costruzione sociale della realtà.


            Sempre e comunque il processo dovrà transitare attraverso la socializzazione primaria in famiglia e secondaria a scuola e nel gruppo dei pari età. Se però la prima socializzazione in ambito familiare è particolarmente incisiva perché tocca i primi cinque anni di vita dell’attore sociale e dunque una fase del tutto decisiva per gli sviluppi futuri, la seconda socializzazione attuata fondamentalmente dal sistema scolastico serve molto per far interiorizzare i vari sub-mondi già istituzionalizzati ed interviene favorendo principalmente l’acquisizione di un vocabolario legato ai ruoli esercitati nel quadro sociale di riferimento.


            Infine è da sottolineare in modo particolare che la legittimazione si fonda sul “pensare come il solito”, attraverso dunque il lasciarsi andare alla routine della vita, al tran tran della quotidianità. Proprio per questo quasi non ci si accorge neppure di subire continui processi di socializzazione, di istituzionalizzazione e di legittimazione. E dunque tutto avviene in modo abbastanza efficace, senza incontrare molte resistenze.


L’empatia con il destinatario


            L’arte dell’insegnamento, della trasmissione delle idee e della cosiddetta inculturazione (come trasferimento di contenuti da una generazione a quella successiva) è diventata quanto mai difficile da praticare. Non bastano più le semplici competenze disciplinari e neppure quelle specifiche della didattica di una particolare materia. Occorrono piuttosto vere e proprie metacompetenze in grado di far superare momenti di crisi, problemi di adattamento e di integrazione, di acculturazione (come rapporto fra culture diverse). In altre parole, per orientarsi nel caos dei sistemi educativi e delle metodiche scolastiche in conflitto fra loro, giova puntare su modelli alternativi, fra i quali – per esempio – quelli che prevedono il cooperative learning (Chiari 2003),in cui il docente non è l’unico operatore in attività ma viene affiancato anche da alcuni studenti e studentesse che aiutano gli altri compagni e compagne di classe a risolvere le questioni poste di volta in volta nel corso del programma di studio. Così si valorizzano le competenze già possedute e si sviluppano quelle in via di acquisizione. Insomma si favoriscono i numerosi sé possibili in modo tale che essi possano trovare espressione compiuta e gratificante.


            Gli adolescenti, destinatari dell’agire educativo, hanno dinanzi a loro tre prospettive diversificate: quello che possono diventare, quello che desiderano divenire, quello che temono di diventare. Una prima risposta a questi ed altri problemi-interrogativi è data dal tentativo di ricostruire le situazioni in atto, coglierne i motivi di base, le istanze di fondo. Occorre in effetti “definire le situazioni”, individuarne i contenuti principali, più significativi, onde evitare il ripetersi di situazioni asfissianti, non gradite, impopolari, non accettabili. Una delle chiavi di volta risolutrici è data dal confronto serrato tra le soluzioni possibili. Da tale approccio comparato possono scaturire percorsi imprevedibili di autonomia, libertà e sviluppo indipendente. Tali itinerari se affrontati abitualmente forniscono il know how adatto, cioè l’esperienza per poter districarsi nella congerie di fattori complessi e fuorvianti che governano la realtà sociale. L’abitudine alla complessità diventa allora un elemento di protezione contro l’insicurezza, che risulta più sostenibile in quanto considerata una costante con cui è possibile interagire, senza lasciarsi prendere dal panico e senza soccombere.


            In conclusione, l’approccio socio-educativo è destinato ad avere efficacia se l’adulto-educatore-docente si mette al fianco dell’adolescente, senza sovrastarlo dall’alto della sua autorità professionale e/o generazionale; se si abitua, con umiltà e consapevolezza profonda, a negoziare e rinegoziare con il suo interlocutore i termini della relazione; se preferisce la soluzione del concordare rispetto a quella dell’imporre senza che il più giovane partecipi alle scelte; se opta per l’innesco dei processi e non per la sola conduzione di procedure predefinite in astratto; se ha la capacità di mettersi da parte allorquando l’operazione educativa è avviata e comincia a progredire per suo conto; se risulta disponibile in caso di necessità da parte del soggetto con cui è in rapporto e se si presta alle occorrenze sopravvenute; se si rende consapevole che l’altro non è un soggetto-oggetto da plasmare; se riconosce all’altro risorse, competenze e capacità di autonomia, che vanno solo sollecitate; se fa crescere l’indipendenza del suo interlocutore; se è convinto che proprio dall’incertezza delle situazioni può nascere nelle nuove generazioni una maggiore creatività operativa.


Riferimenti bibliografici


M. Barbagli, M. Dei, Le vestali della classe media, il Mulino, Bologna, 1970.


P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969.


C. Buzzi, A. Cavalli, A. de Lillo (a cura di), Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna, 2002.


V. Cesareo, R. Cipriani, F. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995.


G. Chiari, Cooperative learning in Italian schools: learning and democracy, Università di Trento – Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Trento, 2003.


M. Magatti, “I ceti popolari in Italia tra angoscia e conservazione”, Vita e Pensiero, 1, 2005.


L. Sciolla, La sfida dei valori, il Mulino, Bologna, 2005.

L’ACQUA E LA RELIGIONE

Roberto Cipriani


Premessa


                Il rapporto tra acqua e religione è antico, ha radici profonde e si svolge lungo percorsi che appaiono caratteristici per ogni espressione religiosa. Si potrebbe giungere a dire che acqua e religione siano quasi sinonimi: entrambe provengono dal cielo; l’una e l’altra hanno a che vedere con la durata del tempo (misurato anticamente con la clessidra, κλεψύδρα ovvero κλέπτω, chiudo, ‘ύδωρ, acqua, cioè il contenitore d’acqua che scendeva lentamente attraverso una piccola apertura, assegnando così il tempo di parola ad un oratore; analogamente anche la religione contempla di fatto un limite di tempo per la vita) -; la richiesta di acqua rivolta a qualcuno è, secondo lo storico greco Erodoto, un segno manifesto di sottomissione al destinatario della domanda, parimente la religione comporta un rapporto di soggezione alla divinità; inoltre, Francesco d’Assisi scriveva “Laudato si, mi Signore, per sor Aqua, la quale è molto utile e umile e preziosa e casta”, sottolineando dunque il forte legame fra l’acqua ed il Creatore del mondo; ed infine come l’acqua va verso il mare così l’anima religiosa anela al suo Dio (Salmi 42, 2-3) e come l’acqua è necessaria per la sopravvivenza così è la religione che assicura un’esistenza al di là del ciclo terreno.


                Ma soprattutto non mancano gli usi strettamente religiosi dell’acqua in quanto componente essenziale di alcune cerimonie quali benedizioni, consacrazioni ed esorcismi, in pratica come un sacramentale, cioè affine ad un sacramento ma non istituito da Gesù bensì dalla Chiesa ed operante in base alla fede di chi lo riceve e non per virtù propria. Si comincia con l’acqua battesimale che, preparata (sia con olio catecumenale che con crisma) e benedetta nella notte della veglia pasquale, si conserva nel battistero delle chiese, ed in particolare nel fonte detto appunto battesimale, per essere usata al momento del battesimo, allorquando viene versata sul capo del neonato (ma vi è anche un rito per immersione – che ricorda la discesa di Cristo nella tomba -, ancora usato dai Testimoni di Geova come pure da esponenti di altre religioni, con un vero e proprio bagno in un corso d’acqua o nello stesso fiume Giordano in cui Giovanni il Battista battezzò Gesù Cristo); l’acqua benedetta (preparata con l’aggiunta di sale, che aiuterebbe a scacciare i demoni) serve ai fedeli cristiani per farsi il segno della croce, attingendola dall’acquasantiera (resa obbligatoria dal papa Leone IV in un sinodo alla metà del secolo IX) quando entrano in un tempio, oppure viene aspersa dal celebrante sul feretro di un defunto od anche usata per benedire oggetti, case, mezzi di locomozione, animali e persone; l’acqua santa o benedetta viene anche bevuta come auspicio taumaturgico (è questa la prassi di religiosità popolare che induce i pellegrini recatisi a Lourdes a riportare con sé dell’acquasanta da dare agli ammalati rimasti a casa, impossibilitati a recarsi nel santuario francese, dove si usa fare un’immersione in una piscina ritenuta miracolosa); infine l’acqua benedetta può avere lo scopo di purificare chi ne viene toccato (come accadeva con l’acqua lustrale degli antichi romani) oppure per liberare un luogo od una persona da una presenza od influenza malefica (come nel caso di coloro che vengono considerati in preda ai demoni). Di altro tipo e destinazione è invece la cosiddetta acqua angelica o degli angeli, che è profumata ed avrebbe potenzialità calmanti. Si conosce anche un’altra acqua detta gregoriana, in uso oltre un migliaio di anni fa mescolata con vino, cenere e sale ed adoperata per la consacrazione dei luoghi di culto.


                Una particolare benedizione dell’acqua nella festa dell’Epifania, il 6 gennaio di ogni anno, risulta presente nell’antico rito greco-alessandrino, giunto fino ai giorni nostri in alcune zone italiane (soprattutto al sud) insieme con la sua formula di epiclesi (’επίκλησις, invocazione, dal verbo ’επικαλέω, invoco) che fa memoria del battesimo di Cristo per chiedere a Dio la transustanziazione ovvero trasformazione dell’ostia e del vino in corpo e sangue di Gesù.


                L’uso dell’acquasantiera, infine, si è largamente diffuso in ogni parte del mondo cattolico. Ve ne sono esempi artistici illustri di Giovanni Pisano (in San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia) e di Gian Lorenzo Bernini (nella basilica di San Pietro a Roma), ma in alcune zone se ne trovano ai piedi delle tombe od anche in casa.


L’acqua purificatrice


                L’acqua lava, pulisce lo sporco e dunque ciò che è impuro, in particolare il peccato. In tal modo l’acqua acquista ed esercita una sua sacralità, un suo potere, soprattutto purificatore. Una volta ottenuta la purificazione, si spera in frutti migliori e quindi in risultati più positivi. Oltre la purificazione l’acqua produce effetti di fertilizzazione, chiaramente evidenti nell’azione del fiume “sacro” per gli egiziani, il Nilo. In pratica l’acqua dà la vita e contribuisce a mantenerla. Se però essa viene a mancare, come nel caso di lunghi periodi di siccità, si provvede ad organizzare cerimonie religiose (o para-religiose) per ottenere la pioggia.


                C’è tuttavia un carattere ben peculiare dell’acqua: essa può dare la vita di grazia, non solo liberando uomini e donne – mediante il battesimo – dagli effetti del peccato originale ma anche garantendo il raggiungimento della vita eterna (anche per questo si aspergono i defunti).


                Si ritiene d’altra parte che l’acqua sorgiva sia a contatto con la divinità e mantenga perciò qualche carattere divino. A partire da questa considerazione si comprende meglio il significato di alcuni eventi che connettono direttamente acqua e religione. Forse quello di Lourdes è il caso più emblematico. La cittadina francese è ricca di sorgenti minerali ed è attraversata da un fiume sulla cui riva sorge, non lontana, la grotta di Massabielle, dove si narra sia avvenuta l’apparizione della Madonna alla quattordicenne Bernadette Soubirous. Alla fanciulla la Vergine avrebbe detto di scavare davanti alla grotta per trovare una fonte cui lavarsi ed abbeverarsi. Fu così che si venne a scoprire una sorgente, assolutamente sconosciuta prima di allora e che tuttora produce diverse decine di migliaia di litri ogni giorno. Poi si è cominciato a parlare di guarigioni “miracolose” avvenute grazie all’uso della fonte di Massabielle. I casi di presunta guarigione vengono affidati allo studio di un Bureau médical e di un Bureau d’Etudes Scientifiques, prima di essere segnalati all’autorità ecclesiastica.


                Come non ricordare che anche a Gerusalemme c’era una piscina purificatrice, detta probatica perché destinata alle pecore (προβατικός significa riguardante le pecore, πρόβατα) che venivano lavate prima di essere portate al sacrificio. Si riteneva anche che quell’acqua fosse in grado di risanare le persone inferme.


                A Vicarello, una località a nord del lago di Bracciano, c’è una sorgente di acque dette Apollinari perché sacre ad Apollo, come documenta peraltro la presenza di oggetti votivi ritrovati nel 1852 in un deposito; nella medesima zona si sono ritrovate anche varie iscrizioni dedicate alla medesima divinità. Fino al 1970 sono state pure in attività le Terme Apollinari di acque minerali bicarbonato-solfato-alcalino-terrose adatte per fanghi, bagni e cure in grotta.


                L’abitudine a collegare sorgenti e presenze sovrumane è costante nei secoli e nelle culture. La mitologia è ricca di esseri quali ninfe, naiadi, dei-fiume, che presiedono a corsi d’acqua che rendono fertili interi territori. Alcuni dei-fiume sono considerati figli di Giove o Nettuno o, in origine, di Oceano. La madre può essere anche un’oceanide. Gli dei-fiume sono in genere proteiformi perché capaci di assumere forme molteplici e cangianti, anche nel nome oltre che nella natura: Glauco, per esempio, da essere mortale diventa una divinità, assumendo il nome di Saggio del mare.


                L’acqua serve pure per attività divinatorie. Ad esempio nell’ordalía, nel cosiddetto giudizio di Dio, c’era non solo la prova del fuoco ma altresì quella dell’acqua. Com’è noto, si ricorre all’ordalía in caso di incertezza da parte dei giudici nell’emettere una sentenza. L’ordalía dell’acqua consiste, per esempio in India, nel porre immagini sacre in acqua per vedere che cosa succede di esse. In altri casi la prova è effettuata con il ricorso all’acqua bollente oppure a quella fredda. Un’ordalía dell’acqua era usata nell’antica Babilonia, ma una tradizione più cospicua era presso i popoli germanici medievali e particolarmente presso i Longobardi, che la introdussero in Italia.


L’acqua nelle religioni arcaiche


                Sebbene vi sia una certa differenza fra l’acqua di terra e quella di mare nondimeno sin dagli albori della storia dell’umanità (e forse della sua preistoria) si sono registrate interconnessioni continue, esplicitate in primo luogo dalle relazioni fra le divinità dell’uno e dell’altro ambito. Secondo la mitologia greca tutti gli dei e gli esseri umani traevano origine da Oceano, il padre, e da Teti, la madre.


                Oceano era piuttosto un fiume, prima di essere un mare, mentre Teti aveva un carattere meno definito ma di natura femminile. Dall’unione di Oceano e Teti nacquero tutti i progenitori del genere umano, fra cui Urano e Gaia (il cielo e la terra), genitori dei Titani. Oceano e Teti generarono pure le acque della terra e le sorgenti dei fiumi. Secondo un’altra variante, Cielo e Terra provenivano dalle acque primigenie poste attorno all’universo, di cui delimitavano i confini.


                Oceano generava acqua per sorgenti e fiumi grazie a percorsi sotterranei. In seguito i fiumi si gettavano nel mare e riandavano dal padre Oceano, ad est, cioè nel luogo di prima apparizione del sole e dove era collocata la fonte di Oceano. Si aveva dunque una circolarità di flusso. Ma Oceano e Teti ad un certo punto invecchiarono e non generarono più, limitandosi a presiedere l’azione purificatrice svolta dalle acque. Il sole e tutte le stelle infatti si calavano nelle acque oceaniche e ne risorgevano dopo aver goduto di un’azione rigeneratrice.


                Nel mare oceanico c’erano due isole: una destinata agli eletti, oramai salvi per l’eternità; l’altra abitata da Zeus ed Era che disponevano di una fonte di ambrosia per purificare chi la bevesse.


                Nel frattempo anche Oceano svolgeva la sua azione di catarsi, di liberazione e di rigenerazione. Egli rendeva fertili i corsi d’acqua e favoriva condizioni di abbondanza.


                Le acque che scorrevano sotto il livello superficiale finivano nello Stige, altro figlio di Oceano. Anche tali acque erano purificatrici come l’ambrosia. Sullo Stige le divinità giuravano, mettendo in causa la loro stessa origine e la possibilità di avere ancora ambrosia a loro disposizione.


                Per Esiodo, al contrario di quanto tramandato dalla prospettiva mitologica delineata sinora, non era l’acqua ma la terra a porsi come base primigenia di tutto il mondo divino ed umano. Infatti Gaia, dunque la terra, era all’inizio di ogni cosa, in quanto procreava in proprio (senza alcun ausilio di genere maschile) sia Urano, ovvero il cielo, sia Ponto, ovvero il mare che circondava la terra. Il rapporto coniugale fra gli dei non era mai ritenuto incestuoso: Ponto era divinità maschile che si univa a Gaia, sua progenitrice, la quale a sua volta si accoppiava con Urano, suo figlio. Ma la stirpe procreata dalla prima coppia era particolarmente numerosa e di carattere divino primario, mentre i figlie le figlie della seconda unione erano pochi e considerati esseri divini minori. Anche dopo l’esito della battaglia detta Titanomachia, conclusasi con i Titani precipitati nel Tartaro, Oceano continuava a dominare le acque attorno alla terra.


                Tra i figli del mare, Ponto, c’erano Ceto e Forcide, che era simile a Nereo, figlio di Oceano e perciò suo fratello. Nereo abitava il mare, ne conosceva gli strati più profondi ed aveva sposato una figlia di Oceano, chiamata Doride. I loro figli somigliavano molto a quelli di Oceano, per cui spesso si confondeva fra oceanidi e nereidi, divinità femminili connesse alla vita acquatica e solite apparire durante le tempeste, o nelle risacche e nelle onde che si infrangevano sul bagnasciuga.


                Il dio per eccellenza delle acque era tuttavia Poseidone, dio dai molti poteri su ogni genere di acque. Egli era un cronide e dunque nipote di Urano e figlio di Crono. Pur nato da Gaia, la terra, Poseidone restava comunque una divinità marina. Dopo la Titanomachia, Poseidone ottenne il dominio sul mare, Zeus sul cielo ed Ade sugli inferi; tutto il resto apparteneva in comune ai tre. Nondimeno sia Poseidone che Ade erano soggetti a Zeus, che presiedeva l’Olimpo.


                Restava dunque a Poseidone la supremazia sul mare, simbolizzata dal tridente che egli brandiva. Il dio abitava, insieme con la compagna Nereide, un grande edificio in fondo al mare, dove riceveva accoglienze regali dagli esseri marini. Ma sovente egli mostrava la sua ira e scuoteva le acque marine, procurando naufragi e facendo sorgere dal mare mostri orrendi (in particolare dalle fattezze di tori), che naviganti e pescatori cercavano di evitare ingraziandosi il dio. Poseidone era anche vendicativo, come dimostrava facendo sgorgare acqua salata dall’Acropoli ateniese. Ma egli poteva far zampillare anche acque di ottima qualità (come Mosè che potè far scaturire acqua dalla roccia), percuotendo la terra con il tridente e creando terremoti. I cavalli che discendevano da lui (e secondo una tradizione turca il mare era madre del cavallo) avevano la proprietà di far scaturire acqua sorgiva, con il semplice tocco del loro zoccolo. Pure la facoltà opposta era attribuita a Poseidone: quella di rendere arida una fonte già copiosa. Egli aveva generato altresì il gigante Polifemo, che venne poi accecato da Ulisse. Infine conviene ricordare che tutti i mari erano collegati fra loro e ricevevano acqua da Oceano


                Proteo era il Vecchio del mare, allo stesso titolo di Nereo, Forcide ed altri ancora. Di tanto in tanto egli giungeva sulle rive cambiando di aspetto, dunque mettendo in evidenza – in tal maniera – di possedere il carattere fluido dell’acqua. Ma non vi era certezza assoluta sul fatto che Oceano fosse un dio-fiume e Proteo un dio-mare.


                Sovente una divinità non era facilmente riconoscibile perché assumeva nomi diversi, come del resto le acque cui era collegata. La figlia di Cadmo, chiamata Ino, era finita in mare ed era divenuta una nereide di nome Leucotea. Qualcosa di simile era capitato a Glauco, essere dapprima mortale ma poi divinizzato ed indicato come Saggio del mare.


                La stessa concezione del Caos originario, da cui successivamente si sarebbero sviluppate la terra e l’acqua, dava l’idea di un grande abisso sconfinato ed incommensurabile, appunto χάος, ovvero baratro, proveniente dal verbo χάσκω oppure χαίνω, cioè mi apro (una voragine sotto i piedi).


L’acqua come genitrice e rigeneratrice


                L’acqua è vita, purificazione, rigenerazione. Da qui nascono molteplici possibilità di sviluppo. L’immersione nell’acqua è un ritorno alle origini, con un esito che genera forza e purezza. Le potenzialità dell’acqua sono ampie ed innovatrici. La Pizia, sacerdotessa di Apollo a Delfi, beveva alla sorgente Castalia per poterne trarre ispirazione prima dei suoi vaticini. Ed i pellegrini che si recavano al santuario di Delfi dovevano fare un bagno purificatore nella medesima fonte, come condizione previa per poter consultare l’oracolo.


                L’acqua è forma essenziale, creatrice di vita sia materiale che spirituale. Essa può tendere verso il basso o muoversi orizzontalmente. Ai primordi non vi erano confini per le acque sulla cui superficie era stato covato l’Uovo del mondo. L’acqua era stata dapprima caos e poi si era divisa in acque superiori ed acque inferiori (chiuse in un tempio dedicato al re dei Nâga), corrispondenti alla divisione per generi, maschile e femminile. Ne è simbolo la spirale doppia. L’acqua è dunque possanza universale. Essa stessa è soffio vitale: secondo la Genesi biblica, il soffio divino si muoveva sulle acque. Nella tradizione ebraica l’acqua è stata alla base della creazione, per cui la lettera M indica l’acqua come matrice ed ha un connotato ierofanico, è cioè manifestazione del sacro.


                Jahvè dà l’acqua alla terra per renderla fertile e creare le condizioni necessarie alla vita. Ma c’è anche un’altra acqua, quella metaforica della saggezza che alberga nel cuore dei sapienti, le cui parole hanno la forza dirompente di un torrente. La stessa Torà, cioè la dottrina religiosa contenuta nel Pentateuco biblico (GenesiEsodoLeviticoNumeriDeuteronomio), è fonte di saggezza. Lo Spirito Santo delle religioni cristiane dona l’acqua della saggezza, cioè la vita spirituale, e lava le anime: lo dice chiaramente Gesù nel Vangelo di Giovanni al capitolo 4, versetto 14 (“l’acqua che gli darò diventerà in lui sorgente di acqua, zampillante fino alla vita eterna”). Cristo stesso è fonte di vita. Sant’Attanasio (Ad Serapionem119) sintetizza il tutto con una bella formula: il Padre è la sorgente, il Figlio il fiume, noi beviamo lo Spirito”. Così facendo si entra nella vita eterna. L’acqua dunque salva, lavando dai peccati. Essa è grazia divina.


                L’acqua dà fecondità ed ha un potere medicamentale. Essa serve anche a moderare la forza del vino.


                Presso i taoisti cinesi operano tuttora dei maestri dell’acqua consacrata. Presso gli induisti, per l’inizio del nuovo anno si benedicono statue e persone con l’acqua benedetta, che è simbolo della virtù suprema, ha a che vedere con la saggezza ed è libera di seguire l’andamento del terreno. Nella cultura tibetana l’acqua rimanda ai voti espressi da coloro che intraprendono la vita monastica.


                Nell’ambito di sistemi contrapposti, l’acqua è il contrario del fuoco ma talora è connessa ad esso ed in particolare alla folgore. Infatti essa può purificare proprio come il fuoco.


                Non sempre, tuttavia, l’acqua simboleggia la vita, giacché richiama pure la condizione della morte. Infatti si discende nell’acqua come morti perché gravati dei peccati, tuttavia se ne riemerge vivi, sanati, purificati. Inoltre lo scatenamento delle acque è foriero di grandi catastrofi e dunque di morte, come nel caso del diluvio universale, che però colpì i peccatori e salvò i giusti. Un altro collegamento con la morte si ritrova nell’usanza celtica di porre sulla porta di casa di una persona defunta un contenitore d’acqua lustrale, con cui tutti coloro che si recavano a portare le loro condoglianze si aspergevano, al momento di uscire dalla magione in lutto.


                Nel Corano (14, 32 2, 164) si parla dell’acqua inviata dal cielo per far maturare i frutti e garantire la sopravvivenza del genere umano. L’acqua è poi fondamentale per il musulmano che deve fare le sue abluzioni prima della preghiera.


                Infine l’acqua che scende dal cielo ha un carattere maschile, quella che si trova sulla terra ha invece una connotazione femminile.


Il kumbh mela


                C’è una festa nel mondo induista che certamente rappresenta al massimo grado il legame tra l’acqua e la religione. Si tratta del festival induista detto della brocca, ovvero kumbh (brocca) mela (festa).Esso ha luogo nel Sangam, cioè alla confluenza fra il fiume Gange ed il fiume Yamuna. Il rito è dodecennale. Secondo la narrazione mitologica contenuta nei Purana, antichi testi induisti, ai primordi del mondo gli dei ed i demoni fecero ribollire le acque oceaniche per ottenere il nettare di vita eterna. Dalle acque ribollenti emerse una brocca con il prezioso liquido. I demoni presero la brocca ma lo spirito Jayanta riuscì ad impossessarsene a sua volta e la portò in cielo, sennonché durante il trasporto quattro gocce del nettare caddero sulla terra, dando origine a quattro città: Hardwar, Allahabad (l’antica Prayaga, ovvero confluenza), Nasik e Ujjain. Il viaggio verso il cielo durò dodici giorni e perciò ogni dodici anni, a turno in ognuna delle quattro città, si svolge il festival della brocca (dunque il kumbh mela ha luogo ogni tre anni in una delle quattro città). La giornata più importante di tutta la celebrazione è quella della luna nuova, allorquando si celebra il grande bagno rituale dei milioni di pellegrini recatisi al Sangam per liberarsi del ciclo di vita e morte, mediante l’immersione. Le coppie di coniugi fanno il bagno insieme. Ma i primi ad entrare in acqua sono gli asceti Nâga, che fanno il cosiddetto bagno reale, Shahi snan. Anche in giorni diversi dalla festa, ogni sera un bramino compie il rito del fuoco, che consiste nel roteare verso l’altro tre candelabri accesi (cioè i fiumi sacri Gange, Yamuna e l’invisibile Sarasvati) per richiamare l’attenzione delle divinità: il fuoco unisce così uomini e dei. Infine le fiammelle, messe in appositi contenitori, vengono lasciate galleggiare sul fiume, per andare verso il mare, dunque verso l’incommensurabile dello spazio (e del tempo). Un’ultima non secondaria considerazione va fatta: il Gange ha un carattere femminile. Infatti è detto Ganga. Lo stesso dicasi per il fiume Yamuna. Entrambe le dee-fiume sorreggono una brocca od anfora d’acqua: la dea Ganga con la mano sinistra e la dea Yamuna con la mano destra, in modo tale che le due figure poste l’una di fronte all’altra appaiano unite simbolicamente proprio dal contenitore d’acqua, testimonianza eloquente del grande culto che gli indiani e gli induisti riservano ai fiumi sacri per il loro potere purificatore e fecondante.


                Di rilevante interesse è un’antica relazione, Datang xiyu ji di Xuanzang, un pellegrino cinese che visitò l’India nel VII secolo dopo Cristo, all’epoca dei grandi T’ang: “Alla confluenza dei due fiumi, ogni giorno ci sono molte centinaia di persone che si bagnano e muoiono. La gente di questo paese ritiene che chiunque desideri rinascere in cielo debba digiunare fino ad un chicco di riso e poi annegare nelle acque. Bagnandosi in queste acque la contaminazione del peccato è lavata via e distrutta; pertanto molti arrivano da varie contrade e da regioni lontane e qui si fermano. Per sette giorni si astengono dal cibo e dopo finiscono la loro vita”.


Le valenze simboliche e religiose


                Non è raro che il pellegrinaggio comporti l’attraversamento di un corso d’acqua, specialmente in prossimità del luogo di arrivo. Orbene il fiume (od anche un semplice torrente) evoca immagini e significati che si legano strettamente a quelli del viaggio. Lo scorrere dell’acqua indica che tutto passa (appunto il “tutto scorre”, il tutto procede di antica memoria filosofica, dal presocratico Eraclito in poi) e che tutto si trasforma, mutando attraverso le forme assunte di volta in volta. Le onde, i cicli, si susseguono senza soluzione di continuità, dando luogo ad innovazioni senza sosta, irrorando vaste aree e rendendole fertili, dunque capaci di produrre frutti essenziali per la vita, rinnovando la natura e la capacità produttiva dei terreni. Ma la corrente d’acqua non s’arresta mai e tutto travolge e supera, dando l’idea del transeunte, del passaggio che dura poco più di un attimo. Platone del resto già esprimeva bene questo concetto nel Cratilo 402 a quando ricordava, con accenti eraclitei, che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Dunque l’acqua che scorre dà l’idea di ciò che passa, cambia, muore. Del resto la vita stessa di una persona ha una durata minima, rispetto allo scorrere dei secoli e dei millenni. Un viaggio, un pellegrinaggio, per quanto lungo è appena un momento nel corso di un’esistenza o semmai dura non più di qualche giorno od uno solo, nell’ampio arco di un intero anno.


                In molti casi si ricorre all’uso di vasti accampamenti, di estese tendopoli, con problemiigienico‑sanitarifacilmente immaginabili. Fra l’altro uno degli inconvenienti più spesso lamentati dai pellegrini islamici che si recano alla Mecca è lamancanza o comunque la scarsezza di acqua (è sintomatico che i proprietari degli alloggi ricevanoinizialmente solo lametà della sommapattuita per l’ospitalità, mentre l’altra metà resta adisposizione dei pellegrini sino alla finedel soggiorno,perché in caso di insufficienteprovvista di acqua essihanno il diritto di spenderetale somma appunto per l’acquisto dell’acqua, senza dovere più nulla ai locatori). Fra le diverse azioni prescritte nel pellegrinaggio alla Mecca, il pellegrino musulmano deve fare il Sa’y, cioè correre fra le colline di al‑Safa e al‑Marwa, dove Hagar cercò acqua per suo figlio, andando disperata avanti e indietro fra le due alture per sette volte, finché non apparve l’angelo Gabriele a far sgorgare acqua dal suolo. In ricordo del fatto prodigioso anche i pellegrini corrono per sette volte fra le due colline.


                L’attraversamento di un corso d’acqua segna anche il limite fra due territori differenziati: tra il profano ed il sacro, tra la morte e la vita. La traversata (o il superamento, eventualmente mediante un ponte) collega la realtà fisica a quella metafisica, la dimensione empirica a quella onirica, il desiderio alla sua realizzazione, l’al di qua con l’al di là. Presso i greci il passaggio di un fiume era accompagnato da riti propiziatori, in omaggio alla divinità fluviale, cui si offrivano anche dei sacrifici animali; inoltre, prima di attraversare, la preghiera ed il lavarsi le mani nello stesso fiume erano considerati atti dovuti.


                L’acqua infatti in quanto purificatrice pone il soggetto nella condizione migliore per accedere allo spazio del sacro, allo “stato di grazia” (è appena il caso di ricordare che Giovanni Battista battezzò il Cristo con l’acqua e nell’acqua del fiume Giordano). Nell’antica Cina i promessi sposi usavano attraversare un fiume nell’equinozio di primavera (momento di transizione calendariale e stagionale) come modalità purificatrice e propiziatoria in vista della fertilità matrimoniale.


                Un contenitore abituale di acqua è il pozzo, il cui carattere sacro è dato dalla sintesi fra cielo, terra, inferi. L’acqua offerta ad un nomade (e chiesta pregando) è simbolo che procura gioia, perché evita la morte per sete e dunque è come una manna. Lo stesso Mosè ebbe a fermarsi presso un pozzo, quello di Getro, riconoscendolo in tal modo come un centro spirituale, sia pure di livello minore; esso, come tutte le fonti, permetteva la nascita dell’amore mediante l’avvio di storie di innamoramento.


                Ogni viaggio o pellegrinaggio dipende dalla disponibilità di acqua, solitamente reperibile in un luogo di pace come l’oasi. Il pozzo è una sorta di microcosmo, che permette altresì la comunicazione con i defunti. Il suo misterioso contesto non ne indebolisce il carattere di crocevia. Va considerato che, a parte la collocazione verticale dell’imboccatura, il pozzo è anche una caverna, di cui condivide molti aspetti sul piano di una lettura metaforica.


                La terra degli israeliani e dei palestinesi è costellata da corsi d’acqua. A Gerusalemme è disponibile l’acqua preziosa di Siloe. All’ospite si offre acqua fresca e si lavano i piedi in segno di buona accoglienza. Lo stesso Jahvè è considerato in Osea 6, 3 come una benefica pioggia, sia invernale che primaverile. E l’uomo giusto è come un albero piantato lungo le rive di corsi d’acqua (Numeri 24,6).


                Non è raro altresì che un fiume scorra ai piedi di una montagna dove si trova un santuario. In tal modo la pregnanza del significato simbolico è enfatizzata al massimo. Come nel caso di Delfi, nell’antica Grecia, ogni santuario ha di solito una sua fonte, un pozzo d’acqua, una sorgente.


         Da un ombelico primordiale sarebbe nato il mondo. E dall’ombelico di Visnù, secondo un’antica tradizione induista, ebbe origine il fiore di loto che schiudendosi costituì la prima comparsa della vita. Il centro del loto era occupato dal monte Meru, asse del mondo. Fiore puro ed incontaminato, il loto è anche simbolo di una capacità di resistenza persino in acque torbide, dunque è un chiaro segno dell’inattaccabilità del bene da parte del male. Infine non è da trascurare il nesso precipuo fra il loto-ombelico e l’acqua, linfa di vita e contenitore di vita (nel grembo materno).      Vi è poi il legame con la croce. Infatti “la croce assume i temi fondamentali della Bibbia. Essa è albero di vita (Genesi 2, 9), saggezza (Proverbi 3, 18), legno (quello dell’arca, quello delle verghe di Mosè che fecero sgorgare l’acqua, quello cui è legato il serpente di bronzo). L’albero di vita simbolizza in modo reciprocamente scambievole il legno della croce, da cui l’espressione usata dai Latini: sacramentum ligni vitae” (Chevalier, Gheerbrant 1982: 323).


         Inoltre è significativo che nel proemio del Purgatorio ricorra la metafora del viaggio e più specificamente della navigazione, della “navicella dell’ingegno” del poeta che si lascia alle spalle un “mare crudele” e si appresta a percorrere “miglior acque”; tale metafora è ripresa all’inizio del canto II del Paradiso, dove il poeta ammonisce i lettori che hanno seguito il suo “legno” “in piccioletta barca” a non discostarsi dalla scia della sua nave. “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse” può dire con fierezza Dante, protagonista di un’impresa audace, simile a quella degli Argonauti, richiamata nei vv. 16-18 del medesimo canto, o all’ultimo viaggio di Ulisse, celebrato nel canto XXVI dell’Inferno, e però non un “folle volo”, perché intrapreso alla luce della fede” (Rigobello 1997: 21-2).


Conclusione


                La letteratura sulle divinità dell’acqua è ampia ed approfondita, comprende studi sull’Africa e sull’Asia, sull’Australia e sull’intero continente settentrionale, centrale e meridionale dell’America, nonché su realtà “minori” come quelle dei nomadi e degli Yoruba nigeriani.


                Com’è noto più di due terzi del corpo umano è composto di acqua, cioè di un terzo di ossigeno e di due terzi di idrogeno. Non meraviglia dunque la rilevanza attribuita all’acqua in tutte le dimensioni esistenziali, che peraltro hanno nella religione una componente significativa. Soprattutto viene enfatizzato, come si è già detto, il carattere fertilizzante dell’acqua, creatrice di vita. Essa permette anche la transizione dal profano al sacro, il che ha luogo appunto “passando le acque”, cioè andando dal fisico al metafisico, dalla terra al cielo. Anche i pagani aspergevano di acqua lustrale i loro defunti al momento dei funerali. Del resto lo stesso ciclo calendariale annuale è un susseguirsi di cicli legati all’acqua: “primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera”, come suona il titolo di un affascinante film, tutto incentrato sull’acqua e sulle sue varianti da neve a pioggia, da flusso che inonda a flusso che si ritira.


                Ma forse uno dei luoghi più intriganti sul rapporto fra acqua e religione si trova in Grecia, nei pressi di Preveza, in Epiro, e precisamente nel Νεκρομαντείο (da νεκρóς, morto, e μαντεία, oracolo), dove è stato ritrovato (nel periodo 1958-1977) un santuario in cui aveva luogo la comunicazione fra vivi e defunti. Il Νεκρομαντείο è antichissimo ed è collocato sulla riva nord del fiume Acheronte, presso le rovine di un monastero del XVIII secolo dedicato a San Giovanni Battista (dunque anche quest’ultimo particolare del santo titolare del tempio cristiano non è affatto casuale e sembra sottolineare chiaramente il nesso con il valore simbolico dell’acqua). Il punto centrale del Νεκρομαντείο è costituito da un’aula sacra la cui volta ha quindici archi: è questo il palazzo di Ade (ovvero Plutone) e Persefone, in cui le ombre dei morti apparivano per comunicare con quanti si recavano a consultare l’oracolo. L’intero complesso risale alla fine del IV secolo avanti Cristo od agli inizi del III secolo. Lungo le spesse mura della sala principale esiste una sorta di passaggio segreto che rendeva possibile al sacerdote vaticinante di muoversi inosservato. Inoltre i pellegrini erano sottoposti ad una dieta di fagioli e lupini che creava le condizioni ideali per la comunicazione con i defunti. Prima di accedere alla zona principale del santuario i visitatori dovevano provvedere alle operazioni di purificazione in un’apposita sala dedicata allo scopo. All’esterno del santuario sono visibili enormi anfore che presumibilmente contenevano l’acqua lustrale da servire per le abluzioni purificatrici. A fianco del Νεκρομαντείο scorre il fiume Acheronte, su cui secondo la mitologia greca Hermes traghettava i morti per farli giungere alle porte dell’Ade, cioè degli inferi, la cui entrata corrisponderebbe appunto al Νεκρομαντείο. Infatti per gli antichi le grotte, le gole profonde, le aperture nel terreno, le fenditure, erano da considerare delle zone di accesso all’al di là. C’era la credenza che i morti, privati del corpo e divenuti ombre, avessero raggiunto l’immortalità e potessero predire il futuro a coloro che avessero seguito talune prescrizioni (alimentazione particolare, sacrifici, lavacri ed altro ancora). Nel Νεκρομαντείο apposite sale più piccole servivano per l’incubazione, cioè la preparazione lenta, meticolosa e ritualizzata per predisporsi ad un’azione sacra come quella dell’interrogare i defunti (anche Ulisse lo aveva fatto, come si legge nell’Odissea). Infine è da notare che l’Acheronte ha una parte sotterranea del suo corso che poi sfocia nella palude detta Acherusia, giusto dove si collocava l’ingresso agli inferi (Odissea X, 513). Per questo presso i Latini il nome Acheronte era sinonimo del regno ultraterreno.


Riferimenti bibliografici


Rudhardt J. (1989), “Acqua. Divinità delle acque nella mitologia greca”, in Bonnefoy Y. (1989), Dizionario delle mitologie e delle religioni. Le divinità, l’immaginario, i riti, il mondo antico, le civiltà orientali, le società arcaiche, vol. primo A-E, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, pp. 1-9; ed. or., Dictionnaire des Mythologies, Paris, Flammarion, 1981.


Chevalier J., A. Gheerbrant (1982), Dictionnaire des symboles. Mythes, rêves, coutumes, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, Paris, Robert Laffont/Jupiter, pp. 374-382.


Rigobello G. (1997), “Ulissidi, cavalieri erranti, viandanti, pellegrini e stranieri”, in AA. VV., Stranieri e pellegrini, Roma, Meic.

IL METODO BIOGRAFICO ED IL FLAUBERT

Roberto Cipriani


Già da sola la prefazione di Sartre a L’Idiot de la famille hal’allure di un trattato di sociologia qualitativa, tanto è densa di premesse teoriche e metodologiche, di questioni scientifiche postulate, di intenzioni empiriche esplicitate. Sembra proprio di avere a che fare con un sociologo di formazione, tanto sono ben presenti in lui le problematiche principali dell’approccio sociologico.


Innanzitutto è evidente la sua consapevolezza metodologica, sin dall’inizio, quando esordisce rinviando, non a caso, al suo precedente lavoro Questions de méthode e domandandosi che cosa si possa sapere di un uomo (ma lo stesso potrebbe dirsi, ovviamente, anche di una donna). Egli, in modo immediatamente conseguente, passa ad esemplificare scegliendo il suo case study: lo scrittore Flaubert. Ma questi non è un contemporaneo di Sartre: non può essere intervistato. Vi è dunque la necessità di ricorrere ad altri documenti, quelli storici su Flaubert e quelli che il romanziere stesso ha lasciato come sua documentazione storica e dunque i suoi stessi scritti. Ma la vera sfida è un’altra: è possibile fare un’opera di generalizzazione a partire da un caso singolo? L’attività tipicamente scientifica della induzione cioè del passaggio dal singolare all’universale consente, in linea di principio, di assolutizzare ciò che è semplicemente relativo. Ma è poi possibile legittimare del tutto tale processo? Chi e che cosa autorizzano uno studioso a seguire un simile procedura ed a farne una proposta plausibile? E non sarebbe forse possibile fare altrettanto con l’andamento inverso, con la deduzione dal generale al particolare? E che dire della suggestione di Peirce (1888) sull’abduzione, cioè della soluzione intermedia, forse un po’ strabica, del guardare contemporaneamente all’induzione ed alla deduzione?


Sartre sembra aver scelto, almeno inizialmente, la strada dell’induzione dal singolare all’universale, ma quanto egli scrive poco oltre, nella medesima pagina di préface, fa ricredere su questo tipo di opzione, perché il suo “universel singulier” è poi di fatto ribaltato, perché egli parla di “universel par l’universalité singulière de l’histoire humaine, singulier par la singularité universalisante de ses projets, il réclame d’être étudié simultanément par les deux bouts”. Ancora, Sartre completa la sua dichiarazione di intenti precisando che occorrerà trovare un metodo appropriato, quello di fatto applicato nella sua biografia flaubertiana.


Opportunamente il filosofo dell’esistenzialismo tiene a distinguere fra dati di fatto inequivocabili, come ad esempio una data di nascita registrata all’anagrafe, e dati da interpretare, partendo da informazioni fornite dal soggetto stesso. L’interpretazione tuttavia può aver luogo – sostiene inoltre Sartre – solo dopo aver stabilito se la persona in questione, Gustave Flaubert, sia veritiera nel momento/documento preso in considerazione. Ma d’altro canto, anche una sua eventuale insincerità può essere soggetta ad una esegesi fondata ed accurata. Né va trascurata la possibilità di un’alternanza, imprevedibile, fra momenti di franchezza ed altri meno rispondenti al vero, sia come narrazione di eventi, sia come sentimento provato dal soggetto. Però proprio tale alternanza costituisce, comunque, la base essenziale di un discorso complessivo del soggetto a proposito di se stesso e del ricercatore–analista a proposito del suo caso di studio.


La propensione di Sartre è piuttosto per la raccolta di ogni genere di dato. L’ampiezza stessa della sua trattazione prova quanta acribia sia stata profusa nella disamina di ciò che ha portato Flaubert alla sua nevrosi.


Qui però l’ambito dello studio critico si limita, per ovvie ragioni, alla sola prima parte, quella definita “costitutiva” da Sartre medesimo (pag. 648), che parla di Flaubert per il periodo che va dalla nascita (nel 1821) sino a quando ha invece inizio la “personnalisation”. Vale la pena di notare che lo spunto di partenza, anzi la motivazione fondante dell’interesse sartriano per Flaubert, proviene da una lettura della Correspondance del romanziere autore di Madame Bovary. Quindi il tutto nasce appunto da uno strumento classico dell’indagine sociologica: l’analisi dei documenti personali (lettere, diari, autobiografie, appunti, note, ecc.). Si è dunque perfettamente in linea con l’origine e lo sviluppo classici della metodologia sociologica di stampo qualitativo in generale e biografico in particolare, che ha avuto in Thomas e Znaniecki il suo incipit straordinario e fondativo, con la poderosa opera in cinque volumi su Il contadino polacco in America e in Europa. Invero quel che più intriga l’esistenzialismo sartriano è il nesso tra Flaubert e la sua Madame. Insomma perché Gustave ha scritto quell’opera e perché l’ha scritta in quel modo? Che c’è di Flaubert in Bovary? Sartre assume quasi il ruolo di uno psicanalista, che scava nelle opere giovanili e nella corrispondenza epistolare flaubertiana. L’operazione non appare scorretta, neppure deontologicamente, perché, come sottolinea lo stesso Sartre, in fondo è Flaubert medesimo che si offre come soggetto da studiare, grazie alle numerose testimonianze che ha lasciato di sé. Quasi in linea con il provvedimento indiziario proposto dallo storico italiano Carlo Ginzburg, Sartre coglie un dettaglio, un indizio nella “mélancolie native” di Flaubert, nella sua “plaie profonde toujours cachée”. Ecco dunque le origini primigenie da approfondire, la “protohistoire” che va conosciuta. E non si può non partire dall’infanzia. Ancora una volta, come ha sostenuto Piaget, si dimostra che i primi anni di vita sono decisivi per l’esistenza di ogni essere umano. È lì che si ha – per dirla con Peter Berger e Thomas Luckmann – la basilare costruzione sociale della realtà, la creazione della visione del mondo, della Weltanschauung che connota poi tutta un’esistenza.


Si tratta di un’esistenza, quella di Flaubert, indagata da Sartre in ogni suo aspetto, ma continuamente in relazione con l’ambiente familiare, dapprima il padre, poi la madre, in seguito il fratello maggiore, per poi riprendere il discorso nel rapporto fra padre e figli. Il tutto è attraversato da quel metodo regressivo–progressivo che è peculiare dell’analisi sartriana. Basta leggere le prime pagine de L’Idiot de la famille per rendersi subito conto del proposito di Sartre: scoprire come mai il grande letterato autore di Madame Bovary fosse stato tacciato di idiozia sin dai primi anni di vita. Il suo metodo, per risalire alle origini della mistificazione che ha colpito Gustave, è puntiglioso, quasi poliziesco, ma coglie nel segno, scopre contraddizioni, confronta i dati incontrovertibili, soprattutto date ed età. Ne risulta, dopo appena quattro pagine, un quadro abbastanza chiaro, inequivocabile: forzature, interessi personali, stigmatizzazioni indebite e falsità evidenti hanno creato l’immagine dell’idiota di famiglia, il quale però è divenuto poi un Idiota con la lettera iniziale maiuscola, dunque meritevole del massimo rispetto anche attraverso quella forma grafica, la scrittura, che proprio il piccolo Gustave sembrava rifiutare di apprendere, salvo poi mostrarsi un quasi letterato, in uno scritto risalente al periodo in cui aveva solo nove anni di età.


Appunto sul tema dell’imparare a leggere, l’indagine sartriana appare incomparabilmente attenta, incapace di lasciarsi sfuggire alcun particolare per quanto minimo. Egli ricostruisce sapientemente le circostanze, le ragioni, le intenzioni, che hanno portato Caroline Commanville a descrivere Gustave Flaubert come incapace di saper leggere (e scrivere, presumibilmente).


Innanzitutto Sartre osserva, giustamente, che nulla si sa di difficoltà da parte del piccolo Gustave, né nel camminare, né nel parlare, o meglio nell’apprendere l’una e/o l’altra cosa. La testimonianza di Madame Caroline si sofferma invece sulla sola alfabetizzazione e per di più a confronto tra Gustave ed una sorella più piccola (ma troppo piccola per poter imparare a dodici o tredici mesi, dunque quand’era ancora in culla). Insomma la descrizione della Commanville è palesemente artefatta, non corrispondente al vero. Il suo scopo è di esaltare sua madre, la sorellina di Gustave capace di apprendere la lettura “en se jouantcome osserva ironicamente Sartre. Viene poi richiamata la lettera indirizzata da Gustave a Ernest Chevalier il 31 dicembre 1830, per dimostrare che ad appena nove anni il biografato era già capace di cogliere la differenza fra lo scrivere come semplice atto di giustapporre lettere dell’alfabeto e lo scrivere come composizione, atto ben più consapevole e complesso. Pertanto il racconto della Commanville si mostra del tutto inverosimile.


Questa ricostruzione sartriana così minuziosa è un prologo efficace quanto un’ouverture verdiana, che racchiude in pochi attimi, in tocchi rapidi, tutto il pathos di una azione drammatica, di una narrazione tragica, di uno sviluppo ancora di là a venire.


Ma c’è qui, in queste pagine iniziali de l’Idiot de la famille, già una prima prova di regressione–progressione, della metodica di Sartre cioè, tutta tesa alla ricostruzione per poi giungere a delineare in progress un quadro più verosimile, meno approssimativo, più fondato empiricamente, con un’operazione quindi tipicamente sociologica.


Pure sociologica e storica insieme è la prospettiva utilizzata ampiamente per introdurre la figura del padre del piccolo Gustave, cioè Achille-Cléophas, chirurgo e scienziato, anticlericale, liberale al tempo della Restaurazione, simpatizzante dei repubblicani, persino indagato sotto la monarchia, ritornata al potere dopo il periodo napoleonico. Tutte queste precisazioni accompagnano una contestualizzazione che l’autore conduce con ricchezza di riferimenti e con rinvii puntuali e documentati.


In verità Jean-Paul dedica molta più cura ai singoli personaggi della famiglia Flaubert. La sua disamina è una continua operazione chirurgica sui soggetti trattati, in particolare Achille-Cléophas Flaubert e Achille Flaubert suo figlio, entrambi chirurghi.


È appena il caso di notare che quando più avanti Sartre parla del “regard chirurgical du médecin philosophe” (pag. 406) riferito a Gustave che si fa saltare la testa, in qualche modo allude a se stesso. Ma certamente l’acme è raggiunta nella delineazione dei rapporti tra padre e figli, che occupano ben  duecentosettantadue pagine della prima parte dell’opera.


In questo voluminoso frame viene applicata al meglio la soluzione sartriana della analyse régressive”, cioè del cammino alla rovescia, teso ad interpretare il presente alla luce dell’avvenire. Flaubert medesimo offre il destro per un andamento esegetico di questo genere: egli percepisce la sua vita come un andamento proteso verso la totalizzazione (pag. 182). In lui c’è una sorta di “antériorité prophétique” che presenta, già nelle opere giovanili, gli stessi temi che caratterizzano la produzione successiva: “noia, dolore, cattiveria, risentimento, misantropia, vecchiaia, morte”. Ma in realtà ciascuno di questi temi è adattato alla situazione data, che è sempre “antérieure à  elle même”, anticipo del futuro, quasi una premonizione. Non a caso Flaubert, per esempio, si sentiva già vecchio “fossile”, ad appena ventisette–ventotto anni (pag. 183).


L’analisi regressiva è utilizzata in forma ancora più esplicita, se possibile, nei personaggi di Madame Bovary.


Non meraviglia dunque il collegamento autoevidente fra il dottor Lariviére, medico di prestigio non dotato di bontà ma di “débonnaireté”, ed il padre stesso di Flaubert, anch’egli medico. In effetti, in tal modo Gustave ha voluto dipingere (come dice letteralmente Sartre, a pag. 455) lo stesso suo padre Achille-Cléophas. Ma non è solo Larivriére il singolare che rappresenta l’universale medico. Con lui ci sono altri: Canivet, Bovary, Homais (pag. 473), che ammazzano, lasciano morire, fuggono dinanzi alla malattia. Ed il Flaubert padre non è fuori della lista, anzi vi rientra appieno: questa è palesemente l’intenzione di Gustave.


L’intenzione di Sartre è perfettamente in linea con quella di Flaubert, che, scrivendo da quindicenne ad Ernest (pag. 489) non certo casualmente faceva quasi un tutt’uno fra analisi psicologica e dissezione chirurgica. Detto altrimenti la stessa operazione sartriana condotta ne L’Idiote de la famille è “l’application  <<au coeur humain>> de la méthode analytique” ed è pure “ni plus ni moins qu’une intervention chirurgicale” nonché, in modo quanto mai esplicito ed allusivo, “une action réelle dont le modèle est donné par le regard glacial du médecin-chef entrant dans l’âme de son fils et la travaillant au scalpel ”. Dunque tutti i conti tornano: in pratica Flaubert padre seziona il figlio con gli occhi, Flaubert figlio disseziona il padre con i suoi scritti e Jean-Paul Sartre, filosofo–chirurgo, completa l’opera andando più a fondo di entrambi, con la sua ottica regressiva–progressiva. Ben più modestamente, anche il presente tentativo è sulla medesima lunghezza d’onda. In fondo la regressione– progressione pare funzionare ancora una volta, per di più con una proprietà transizionale che investe dapprima Flaubert padre e Flaubert figlio e poi Sartre e chi utilizza qui l’approccio sociologico, per risalire ai contenuti del rapporto singolare–universale insito embleticamente nella diade Flaubert–Sartre.

RELIGIONE DIFFUSA, FAMIGLIA, CHIESA E SOCIALIZZAZIONE

Roberto Cipriani


Premessa


Quando si discute sulle possibili definizioni della religione si distingue in linea di massima fra un approccio sostantivo ed un approccio funzionale. Sarebbe sostantivo quello di Durkheim (1912) che parla di “credenze e pratiche” come base costitutiva della “comunità morale” detta “chiesa”, sarebbe funzionale quello di Luckmann (1967) che si riferisce agli “universi simbolici” come “sistemi di significato socialmente oggettivati”, attraverso “processi sociali” – considerati “fondamentalmente religiosi” – “che conducono alla formazione dell’Io” ed alla “trascendenza della natura biologica”.


                Ma a ben scavare nei testi durkheimiani ed in quelli luckmanniani ci si accorge che Durkheim è anche attento alla funzione (la religione serve per la solidarietà) e che Luckmann non bada solo alla funzione (la religione è una concezione del mondo costituita da contenuti specifici).


                Dunque già coloro che vengono citati come campioni esemplari dell’una o dell’altra prospettiva definitoria in realtà poi risultano più possibilisti, aperti verso soluzioni meno rigide, polivalenti. Insomma contenuti e funzioni non sono separabili ed anzi vanno considerati come un unicum, il che consente l’implementazione di percorsi analitici ed interpretativi ben più complessi ed articolati.


                Si potrebbe partire, per esempio, dall’idea che il riferimento metaempirico nell’attribuzione di significato all’esistenza umana sia un carattere peculiare della religione, ma in pari tempo è opportuno lasciare un varco aperto anche a soluzioni che non contemplino un esplicito rinvio alla dimensione della non verificabilità empirica e della impraticabilità dell’esperienza diretta. Insomma il riferimento metaempirico avrebbe solo un carattere meramente orientativo, “sensibilizzante” per dirla con Blumer (1954). “In tal modo non si ha un contrasto fra livello trascendente e livello reale. In sostanza è come se da due diversi punti di vista si guardasse ad un medesimo oggetto: l’innervamento di una presenza non umana nella realtà ed il radicamento di un significato esplicativo all’interno della stessa realtà. L’una delle due visioni non esclude l’altra, non vi si oppone, anzi vi può essere talora una convergenza che approdi al medesimo risultato: la comprensione-spiegazione della vita in chiave religiosa” (Cipriani 1997: 15).


Religione diffusa e valori


                Indubbiamente la presenza di valori è una costante sia delle religioni storiche, più radicate a livello culturale, sia dei nuovi movimenti religiosi, ancora in fase di crescita ed assestamento. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.


                Ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.


Detto altrimenti, ogni celebrazione di un rito svolge funzioni molteplici, ma soprattutto mette a fuoco l’insieme di valori che una certa religione promuove e diffonde (specialmente a livello familiare) attraverso i suoi membri, i quali più partecipano più si convincono della loro scelta come giusta.


Quest’ultimo effetto è di tale pregnanza che permane, seppur indebolito, anche in assenza di una successiva, ulteriore partecipazione continua. Dunque l’esperienza della pratica (e della credenza) religiosa induce di per sé un habitus ideale e valoriale che tende a persistere ben al di là di una religiosità visibile. Infatti anche chi non è più praticante e magari è anche sempre meno credente conserva una sorta di imprinting, non facilmente cancellabile, che lo vede come membro disaffezionato ma con legami ancora significativi con l’ex gruppo di riferimento.


Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare, particolarmente incisiva) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei peer groups). La lezione berger-luckmanniana (1966) in proposito rimane magistrale: in effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.


Ora però, invece di differenziare al massimo fra una religiosità tradizionale, legata alle strutture di chiesa ed abbastanza visibile nelle sue forme, da una parte ed una religiosità più individualizzata, privatizzata e dunque meno visibile, dall’altra, può essere più opportuno giocare su una disarticolazione interna alla fenomenologia religiosa in chiave di dinamiche più stratificate, dalle sfaccettature molteplici. In pratica non è detto che vi siano solo una religione di chiesa ed una religione invisibile alla Luckmann (1967), è ipotizzabile piuttosto un’altra soluzione che preveda categorie intermedie più o meno vicine ai due poli definiti in termini di visibilità/invisibilità.


Una prima interpretazione post-luckmanniana venne formulata nel 1983 ed applicata alla situazione italiana in occasione della Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione, tenutasi al Bedford College di Londra (Cipriani 1984: 32).


Il punto di partenza era rappresentato dall’influenza della religione cattolica sulla politica in Italia. Si trattava di un indicatore casuale ma rivelatosi assai illuminante in seguito, anche perché sempre più è stato possibile verificare che una simile influenza riguardava e riguarda ambiti ben più ampi. Anzi, oggi dopo più di un ventennio è dato constatare che il peso della religione si è ridotto nei riguardi delle decisioni di natura partitica e governativa ma è rimasto piuttosto saldo nei confronti della società in genere, grazie in particolare all’azione familiare. Nel contempo si è attenuato lo spirito antistituzionale, visto che la chiesa cattolica – secondo quanto mostrano in continuazione diverse indagini sul campo – è l’istituzione meno osteggiata dai cittadini italiani (Sciolla 2005), i quali peraltro le assegnano quote non trascurabili delle loro imposte (il cosiddetto “otto per mille”).


Venuta meno l’incidenza preponderante del cattolicesimo ufficiale non si sono sostituite ad esso altre confessioni religiose. Semmai solo l’ebraismo è riuscito in qualche occasione particolare ad ottenere rispetto per le proprie scadenze festive e per le proprie consuetudini. Del tutto trascurabile appare la capacità degli islamici, dei “Testimoni di Geova” e di altri di farsi ascoltare a livello politico.


Invece è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale attraverso la socializzazione familiare. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, dopo essere partiti dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, siamo poi approdati ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica in ambito familiare.


Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa nostra convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis). Peraltro la sua diversificazione rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico. Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale e familiare della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente e quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali. In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di modelli familiari e di chiesa ben attrezzati da tempo e particolarmente capaci di far ricorso ad un loro know how abbastanza efficace. Di tale efficacia la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto anche da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche. Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.


Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa. Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra (Cipriani 1997). Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei princìpi laici però vagamente ispirati od ispirabili a modelli ortoreligiosi. Sembra dunque che la religione diffusa sia destinata a restare inerte in balìa di altre confessioni. Ma il suo richiamo maggiore è nei confronti della socializzazione familiare pregressa.


                A dire il vero sino alla fine degli anni ’80 non si disponeva ancora di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative sul piano statistico in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori (Cipriani 1992) alla grande indagine nazionale su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), a quella più recente a carattere internazionale con una comparazione a livello europeo (Garelli, Guizzardi, Pace 2003) su Religious and moral pluralism.


                Soprattutto nel corso degli ultimi due decenni si è constatato che le relazioni fra chiesa cattolica e stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella più recente sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova della capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane. Una volta regolate – in forma solenne il 18 febbraio 1984 e poi con una legge il 20 maggio 1985 – le questioni maggiori sul piano diplomatico, mediante il rinnovo del Concordato del 1929 fra stato italiano e gerarchia vaticana, la cosiddetta “questione cattolica” sembra aver perduto mordente ed interesse. Anche il movimento definito come contestazione cattolica ha da molto tempo tirato i remi in barca e sembra ridursi ora a qualche sporadico tentativo di dissenso rispetto all’establishment.


                In qualche misura proprio la religione diffusa rappresenta anche una sorta di sostituto funzionale della divergenza dalla struttura ecclesiastica. Tale differenziazione si manifesta attraverso altri modi di credere e praticare, sebbene la base di fondo rimanga cattolica grazie alla socializzazione primaria intrafamiliare.


                Il nucleo essenziale della religione diffusa è rinvenibile proprio in questo insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo, non interviene direttamente ma in modo mediato, cioè grazie alla sua precedente azione socializzatrice. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento. Appunto questo consente una collaborazione fra stato italiano e chiesa cattolica senza grandi turbative e con un’intesa anche formale e legittimata che dura ormai da più di settanta anni.


                Come sottolineavano Calvaruso ed Abbruzzese (1985: 79), la religione diffusa appare quale antidoto al processo di secolarizzazione, di cui però è in pari tempo un’espressione significativa come presa di distanza dalla religione di chiesa (Calvaruso e Abbruzzese 1985: 80). Un esempio peculiare è fornito pure dai dati generali di un’indagine socio-religiosa condotta nella Sicilia centrale oltre un decennio fa (Cipriani 1992):


                Religione di chiesa acritica                                               101 (14,0%)


                Religione di chiesa critica                                                 261 (36,3%)


                Religione critica come divergenza                     79 (11,0%)


                Religione diffusa come condizione                                 190 (26,4%)


                Religione critica come allontanamento            47   (6,5%)


                Non religione                                                                        41   (5,8%)


                TOTALE                                                                            719 (100%)


                Sulla base di questi risultati abbiamo più volte sostenuto che la religione dei valori abbraccia le categorie centrali della tabella presentata sopra. In particolare l’ambito ascrivibile alla religione dei valori andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata con il nome di religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Risulterebbe così ben più ampio il quadro della religiosità non istituzionale, fondata su valori condivisi e rappresentati essenzialmente dalle scelte operate (fino ad un massimo di quattro risposte) dagli intervistati in termini di principi-guida della loro vita, a partire dall’educazione essenzialmente familiare (e familistica) ricevuta fino all’età di diciotto anni:


                Valori particolaristici


                               Attaccamento alla famiglia                                450 (62,6%)


                               Amore per i figli                                                  232 (32,3%)


                               Buon uso del denaro                                           69 (  9,6%)


                               Fare da soli                                                            66   (9,2%)


                               Guadagnare molto                                                32   (4,5%)


                Valori universalistici


                               Onestà, serietà                                                    532 (74,0%)


                               Fede in Dio                                                          386 (53,7%)


                               Rispetto degli altri                                              213 (29,6%)


                               Aver la coscienza a posto                                 131 (18,2%)


                               Attaccamento al lavoro                                     120 (16,7%)


                               Amicizia, solidarietà                                           105 (14,6%)


                               Accontentarsi del poco                                       99 (13,8%)


                               Generosità, carità                                                  96 (13,4%)


                Come è facile desumere dalle percentuali fatte segnare dai diversi elementi valoriali è plausibile sostenere che non solo siamo di fronte ad una vera e propria religione dei valori, cioè basata su valori largamente condivisi – perché diffusi grazie alla socializzazione soprattutto primaria/familiare e poi secondaria -, ma gli stessi valori possono essere considerati di per se stessi quasi una sorta di religione con venature laiche, profane, secolari. In definitiva si è passati da una religione di chiesa dominante ad una religione diffusa maggioritaria e quindi ad una religione articolata attraverso valori: la conclusione è che la religione può essere definita una modalità di trasmissione e diffusione dei valori, anzi che essa svolge peculiarmente tale compito funzionale e lo svolge in modo efficace.


Si risolve così anche la diatriba fra definizioni sostantive e definizioni funzionali: in chiave sostantiva gli elementi costituenti di una religione sono i valori che essa insegna e propala, mentre in chiave funzionale il compito della religione – specialmente quando essa appare come prevalente in un dato quadro storico-geografico – è quello di offrire punti nevralgici di aggancio per la vita comunitaria, per l’agire sociale, per le scelte “razionali” da compiere sulla scorta di linee-guida acquisite e da porre in essere nella vita quotidiana e nelle scelte esistenziali fondamentali. 


Il caso di Roma


                Emblematico è il caso di Roma, chiamata città sacra per eccellenza eppure fortemente secolarizzata. La capitale mondiale del cattolicesimo, luogo di convergenza universale per milioni di pellegrini in occasione del giubileo del 2000, presentava livelli piuttosto bassi di pratica religiosa: quella dichiarata come regolare, cioè una volta per settimana, era del 23,3% (Cipriani 1997) mentre il 22,1% non andava mai a messa; ma era consistente il tasso di coloro che pregavano, in quanto si trattava del 71,5% degli intervistati, i quali si dedicavano alla preghiera magari anche solo qualche volta in un anno (14,9%) o ben più spesso, come faceva il 32%, cioè una o più volte ogni giorno. Dunque si registrava nel contempo uno scarso attaccamento alla pratica ma altresì un ampio interesse per la preghiera.


                Tutto ciò significa che la ritualità non è tutto nella religione e che anzi il legame più frequente con la divinità passa attraverso l’orazione, cioè un colloquio diretto, a livello interpersonale. Si potrebbe a tal proposito sostenere che mentre la pratica della messa festiva è più legata ad una religione di chiesa quella del ricorso alla preghiera ha un carattere più spontaneo, libero, sottratto al controllo sociale, ma comunque indicatore, rivelatore di una credenza, di un legame, di una sensibilità a livello religioso.


                In pratica, se Roma non appariva certo una città di tanti praticanti non lo era neppure di molti atei, agnostici o indifferenti sul piano religioso (va tuttavia tenuto presente che il 21,3% dei soggetti intervistati – il tasso più alto in assoluto di tutto il paese – non mostrava alcun segnale di religiosità). La capitale italiana presentava, accentuate, alcune caratteristiche rilevate nel campione nazionale della ricerca svolta nel 1994-95 sulla religiosità in Italia: per esempio, in un anno appena il 7,6% aveva partecipato a pellegrinaggi ed il 13,6% aveva fatto o soddisfatto un voto.


                In definitiva la religiosità dei romani sembrava bifronte: per un verso si mostrava come pervasa da una crisi drammatica, per un altro appariva anche piuttosto vitale (sebbene a debita distanza dalle consuetudini della chiesa ufficiale). Il futuro religioso della città eterna sembrava destinato a procedere lungo queste due direttrici in apparenza divergenti ma anche tendenzialmente parallele.


                Lo stesso può dirsi in linea di massima per l’Italia, sia pure con qualche differenza sostanziale: la religione di maggioranza si innervava nella coscienza individuale guidata dalla legge di Dio secondo il 40,4% degli intervistati su un campione ponderato di 4500 individui (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 180), nella sola coscienza individuale per il 36% dell’universo campionato ed esclusivamente nella legge di Dio per il 22,1%. Sul piano dei valori vissuti con soddisfazione si trovava al primo posto la famiglia su cui contare (nel 73% del campione), seguita dal lavorare con onestà ed impegno (secondo il 68% degli intervistati), dall’avere amici (per il 38% degli interrogati in proposito), dall’avere un buon rapporto affettivo (nel 35% dei casi), dall’essere sicuri del posto di lavoro (a detta del 34% dell’universo d’indagine). Più contenuti apparivano il dedicarsi agli altri (25%) e l’impegnarsi per modificare la società (22%).


                Il quadro complessivo che ne risultava era variegato ma consolidava l’immagine di una religiosità diffusa nonostante fosse frattalica, frastagliata, con profili eterogenei. Secondo gli esiti della cluster analysis erano classificabili come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.


                Nel dettaglio l’articolazione della religiosità italiana mostrava la seguente tipologia:


                1) Religione di chiesa orientata (eterodiretta)                  9,4%


                2) Religione di chiesa riflessiva (autodiretta) 22,6%


                               Totale della religione di chiesa (1+2)          32,0%


                3) Religione modale (diffusa) primaria                            16,5%


                4) Religione modale (diffusa) intermedia                        21,6%


                5) Religione modale (diffusa) perimetrale                       21,0%


                                Totale della religione modale


                             o diffusa (3+4+5)                                         59,1%


                               Totale della religione continua


                            (1+2+3+4+5)                                       91,1%


                6) Non religione                                                                    8,9%


                               Totale generale (1+2+3+4+5+6)             100,0%


                Come si vede dalla consistenza percentuale delle sei classi attitudinali e comportamentali, la religione in senso lato (sia di chiesa che modale o diffusa) era largamente preponderante ed era ovviamente quasi tutta di matrice cattolica. Percentualmente era minoritaria la religione di chiesa e maggioritaria quella diffusa (chiamata modale perché statisticamente era in pratica la moda, cioè il carattere al quale corrispondeva la massima frequenza). Ma tra minoranza e maggioranza non c’era frattura, anzi spesso era difficile stabilire il discrimine fra l’una e l’altra, in particolare poi fra religione di chiesa riflessiva (più autonoma, più individualizzata, meno propensa ad accogliere le direttive del magistero ufficiale ecclesiastico) e religione modale o diffusa primaria (più diversificata rispetto all’appartenenza di chiesa). Infatti religione di chiesa e religione modale o diffusa erano in stretta relazione fra loro, anzi la seconda scaturiva dalla prima, per cui si poteva parlare di una vera e propria religione continua che concerneva il 91,1% degli intervistati, senza soluzioni, senza interruzioni del discorso religioso e dei suoi contenuti, specialmente in campo valoriale.


                Ancora più convincente, se possibile, è quanto emerso di recente dalla già citata indagine comparata europea su Religious and moral pluralism, che in Italia ha visto impegnate le università di Torino, Padova, Trieste, Bologna e Roma. Il campionamento italiano è stato messo a punto dalla Doxa ed ha riguardato 2149 interviste (1032 maschi e 1117 femmine, a partire dai diciottenni ed oltre), realizzate per 742 casi in comuni capoluoghi e per altri 1407 in centri non capoluoghi.


                Il 97,5% si è dichiarato cattolico, il 31,2% si è detto molto vicino alla chiesa ed il 45,5% si è proclamato vicino ad essa. Il 51,1% ha ricordato che all’età di dodici anni andava in chiesa almeno una volta per settimana, ma c’è pure il 21,7% che ha parlato di più di una volta per settimana ed il 6,7% di una partecipazione quotidiana alle funzioni religiose.


                Conferme significative sul gradimento della religione provengono dalla valutazione se essa sia più o meno importante rispetto a venti anni prima: il 29,6% ha sostenuto che essa è ugualmente importante, il 22,2% che lo è un po’ di più, mentre il 12,8% ha ritenuto che lo è molto di più.


                Quanto poi al rapporto fra educazione e religione, è dato per scontato un nesso assai stretto soprattutto se si tien conto che il 35,9% degli intervistati appare molto influenzato dall’educazione ricevuta, soprattuto a livello familiare.


                Va poi considerato che ben l’81,2% dell’universo indagato ha ammesso esplicitamente di appartenere ad una chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa.


                Infine l’86,4% ha detto di dedicarsi alla preghiera, sia pure con diversificazioni sia quantitative (una o più volte) che temporali (ogni giorno o durante l’anno).


                In definitiva sembrano abbastanza provate due caratteristiche:


1)       i contenuti essenziali della religione e dell’educazione familiare sono i valori, ancor più dei riti e delle credenze;


2)       la funzione della religione risulta essere proprio la diffusione dei valori (cui non è certo estranea la matrice familiare).


Pertanto la famiglia e la religione possono essere intese sostanzialmente come agenti diffusori di valori.


Conclusione


                 Il concetto di religione diffusa in oltre un ventennio è stato più volte adoperato per sperimentarne l’efficacia euristica. A partire da un’originaria applicabilità al caso italiano si è passati anche a proporlo in altri contesti in cui fossero caratteristiche la centralità e la numerosità di una specifica confessione religiosa. I risultati probanti non mancano. Ma forse l’esito più significativo è la verifica della centralità dei valori come base portante di ogni espressione religiosa. Al di là della partecipazione socializzante e consolatoria alle cerimonie ed al di là della credenza-fiducia in qualcosa che, in termini sociologici, sfugge ad ogni analisi empirica, proprio i valori sembrano fungere da chiave di volta dell’impianto religioso.


Riferimenti bibliografici


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Cipriani, R. (a cura di), La religiosità a Roma, Bulzoni, Roma, 1997.


Durkheim, E., Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris, 1912; Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton Italiana, Roma, 1973.


Garelli, F., Guizzardi, G., Pace, E. (a cura di), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, il Mulino, Bologna, 2003.


Luckmann, T., The invisible religion. The transformation of symbols in industrial society, Macmillan, New York, 1967; La religione invisibile, il Mulino, Bologna, 1969.


Sciolla, L., La sfida dei valori, il Mulino, Bologna, 2005.

CATHOLIC JUBILEE AS GLOBALIZATION

Roberto Cipriani


ABSTRACT


IIS CONFERENCE (7-12 JULY 2004) – SESSIONS on RELIGION AND GLOBALIZATION (Session 3, Global and peripheral cases).


The Jubilee of the year 2000 can be considered a “total social event”, in Marcel Mauss terms. It has been studied by sociologists working in seven Italian universities. Before this research no complete sociological study has been done on the Jubilee event. The definition of “total social event” involves many methods of research, leading to explore and to analyse multiple aspects. But the most important survey has been done on the pilgrims coming from many countries to participate in Jubilee. The sample has been multi-ethnic, concerning people from 18 to 75 old, women (58,1%) and men (41,9%), lodging in hotels (4 stars, 3 stars, 1-2 stars) and religious residences or day-trippers. People interviewed are 2023: 396 Italian speaking, 138 English speaking, 102 French speaking, 103 German speaking, 40 Portuguese speaking, 157 Spanish speaking, 46 Japanese speaking, 41 Polish speaking. Main results of this study are the following: the international participation has been large and mixed; it has been a relevant phenomenon of religious tourism, to say a spiritual experience in a socio-cultural and aesthetic context; to travel and to pray together has been a key-feature of Jubilee pilgrimage; a spirit of joy has characterized the Jubilee pilgrims, much more than a spirit of penance; the Jubilee of the year 2000 has been a global event of popular religiosity; the year 2000 pilgrims are learned persons; the official contents of Jubilee program aren’t well known (indulgence, penance, pardon for the sins, life revision); to see the Pope hasn’t been the most important reason to visit Rome in the year 2000; national and linguistic differences influence the Jubilee perception; the Jubilee pilgrims are regular in their religious practice, but not in behavior and attitude; during the Jubilee of the year 2000 the prayer has been a common and well diffused religious experience; the celebration of Gay Pride in Rome has been controversial in pilgrims evaluation; Rome has been very attractive because of churches, monuments and museums; Saint Peter’s basilica and holy door have been the most visited places.

SULLA RELIGIONE DIFFUSA (intervista)

Roberto Cipriani


Intervista a Roberto Cipriani (Università di Roma Tre)


D: Quale potrebbe essere la definizione di “religione diffusa oggi”? Secondo quali parametri si può riconoscere come religione e non come un fenomeno sociologico parallelo, o di relazione, al cattolicesimo? SEcondo quali caratteristiche un soggetto può essere inscritto nel perimentro della religione diffusa?


R: La religione diffusa di oggi non è molto diversa da quella di ieri. Anzi proprio la sua persistenza ne costituisce una caratteristica peculiare. Se qualcosa è cambiato ciò è avvenuto a livello secondario, in aspetti di dettaglio e non di sostanza. Dunque la religione diffusa continua ad essere il risultato di una vasta azione di socializzazione religiosa che pervade anche tuttora la realtà italiana e non solo. Come spiegare altrimenti la tenuta massmediatica di un personaggio come il papa? Il carattere di religione resta perché nasce comunque dalla religione, è intrisa fortemente di religione e non è certo un fenomeno anticattolico, come del resto non è antireligioso neppure negli altri contesti in cui una religione è dominante e diventa diffusa, nel caso dell’islam o dell’induismo, dello scintoismo o del buddismo. Solitamente l’appartenente alla religione diffusa è poco praticante e poco attento agli insegnamenti direttamente legati a conseguenze pratiche immediate più che ad orientamenti di massima.


D: Considerando la relazione tra etica protestante e capitalismo analizzata da Weber, sarebbe ipotizzabile, oggi, piuttosto un legame tra una serie di valori diffusi in (e da) tutte le religioni bibliche (e non solo pensando all’evoluzione dei paesi asiatici) e l’ambito lavorativo professionale degli individui? Come sarebbe altrimenti giustificabile l’evoluzione del capitalismo in ogni parte del mondo o quasi?


R: L’etica di tipo protestante non sembra avere caratteri di universalità o comunque di dominanza. D’altra parte i valori diffusi più o meno legati alla religione sono poco attinenti alla dimensione dell’impegno forte in campo lavorativo. Anzi sembra piuttosto di poter sostenere il contrario. Per questo l’etica protestante non è la matrice del capitalismo, che quindi si espande ben al di là dei contesti territoriali tipicamente contraddistinti dalla presenza protestante.


D: Pensano ai discorsi impregnati di religione fatti in passato dai presidenti degli USA, i quali però non facevano riferimento ad una religione specifica (la religione civile descritta da R. Bellah) com’è possibile parlare di religione diffusa nei deiscorsi dei politici italiani quando fanno riferimento esclusivamente al cattolicesimo, sia per chi si schiera a favore sia per chi si allontana dalla morale cristiana? Che rapporto ci può essere tra civic religion americana e religione diffusa in Italia?


R: Appunto la presenza del riferimento al cattolicesimo, rintracciabile nei discorsi dei politici italiani, è la riprova dell’esistenza di una particolare religione diffusa, quella d’impronta cattolica, il cui peso non sfugge certo a quanti sono alla ricerca di leve potenti per accrescere il loro consenso politico-elettorale. Tra la religione civile (non civic) americana e quella diffusa italiana non c’è alcun rapporto diretto, nemmeno in termini metaforici.


D: Che ruolo ha la religione diffusa in questo periodo in cui il ritorno aklla religione di chiesa da parte dei politici è evidente? L’utilizzo di tamatiche e termini biblici nei discorsi politici potrebbe influenzare sia i credenti sia coloro che sono pèiù vicini alla religione diffusa o dei valori?


R:  La religione diffusa può essere soggetta a strumentalizzazioni facili giacché il richiamo a valori religiosi ha sempre un suo fascino, un suo appeal. Più che di termini biblici alcuni politici fanno uso di richiami semplici, usuali: Padre Pio come il papa, una Madonna protettrice di un luogo o un santo ritenuto grande taumaturgo. Del resto non è facile distinguere fra religione diffusa e religione dei valori: la prima è inclusa nella seconda, che abbraccia un più largo settore della popolazione caratterizzata da diversi livelli di credenza. Le contingenze politiche e soprattutto i risultati elettorali non si spiegano solo con gli appoggi confessionali o con i rinvii a tematiche religiose: molti e complessi fattori interferiscono, al di là delle apparenze e dei pronunciamenti religiosi ufficiali e/o privati.

THE UNIVERSITIES’ VIEW OF PROFESSIONAL DEVELOPMENT

Roberto Cipriani

Every action regarding professional development in human resources can not do without considering the perceptions of both the direct receivers, that is, those employed by the banks, and the indirect receivers, who are by no means less important to the entire banking system, that is their clients.


            It is said that the problem these days is that of governing knowledge and for this reason knowledge managers are well received. When dealing with the topic of knowledge we cannot merely limit the discussion to just how innovative methodologies might be in the areas of training, nor motivation, incentives, the acquisition of skills, organizational exchanges or the acquisition of best practices.


            There is yet further, more detailed work to be conducted: that of the developing the human factor. This is not intended in the traditional sense of marketing but of understanding, sharing experiences, teamwork analysis, as well as the synergy towards common objectives consisting of accurate intersubjective communication and competency.


            By the same measure that we understand people and their needs, it becomes easier to perceive such needs, emotions and expectations. Undoubtedly, however, all kinds of ‘noise’ interfere with effective interindividual exchanges. This kind of interference is now constant and widely acknowledged and with which it is now necessary to get accustomed to whether it be information deliberately let out, mere gossip, inside information or inside trading, or even established and/or plausible information.


            Complexities seem more and more a sign of modern times and so a common thread of sorts with no solution in sight. We deal with this state of affairs on a daily basis reason for which we need to be adequately prepared by implementing an approach which is by no means superficial, but on the contrary careful, well researched and consistent; one which is scientifically oriented and sensitive to the human dimension and therefore also to an ethical one.


            A sign of this is sent through the mass media, via which a significant amount of the public’s attitudes and beliefs are conveyed. And it is exactly by these means of communication that unequivocal indications of the public’s preferences are made clear; a public which no longer allows itself to be enticed by just any message whatsoever, but a public which is more prone to follow that which in some measure represents certain values. For instance, this occurs with issues of great importance such as the longing for peace, the propensity to manage one’s resources in a careful, balanced way – this includes one’s financial resources (how else could the success of the so-called ethical banks be explained?); the amount of attention paid to humanitarian problems (as is evidenced by the considerable developments of voluntary aid organizations); the propensity for reflection within a context of existential experiences (as, for instance, is evident in the popularity amongst both audiences and critics in films dealing with issues bearing particular social importance).


            An initial consideration can now be made from all this: knowledge can not consist of a simple technical, merely instrumental, and entirely profit oriented act. What springs, rather imperiously, from this is the urge to assume responsibility of one’s behavior and relationships with other subjects, especially with those who are reference points, as a raison d’être, of one’s profession and life in general.


            In order to accomplish this and more, it becomes impelling to organize large-scale projects which ought not be instituted for the short-term as these lead to fleeting results, but projects which extend towards long-term goals, towards loyal relationships which many advocate simply for profit when instead they should be considered as the expected result of proper a rapport, able to overcome any eventual market or financial difficulties.


Rather than taking clients away from others it would be better to consider treating well those one already has, given that they not only guarantee stability but become in turn promoters of the  positive image of the financial institution’s to which they refer and express their satisfaction of the treatment provided. Everyone deserves to be dealt with the same amount care, regardless of how much capital is at one’s disposal, particularly because a correct and stable relationship offers  the client reassurance who then will avoid making drastic decisions which may lead to reneging of agreements and fall outs. In short, it is unlikely that an amicable disposition leads to a lack of trust and a distancing between parties. Reciprocal trust therefore becomes the key to success and is sustained thanks to the ongoing assurance that there are a guarantee and protection as though the other party represented no less an extension of himself and his own interests.


            These days there is more and more talk of ‘freedom of knowledge, criteria of merit, and professional development’. In today’s knowledge society where a knowledge management culture is spreading, even to private industry, knowledge training becomes of increasing strategic importance: training in knowledge tailored to meet specific objectives for the development of democracy and freedom and which reaches beyond a national to an international context and which is directed towards consolidating a utopian push (mobilizing and ennobling) towards the realization of a solid international knowledge society.


            It is perhaps for this reason that in Europe, and in other countries, we are witnessing an intense struggle to have a firm grip both socially and politically on the control of knowledge.


            And in the end, what is the game at hand? German sociologist, Nico Stehr, author of Wissenspolitik. Die Űberwachung des Wissens (Frankfurt, Suhrkamp, 2003), maintains that what requires analysis are the reasons for which institutions are aiming to control new scientific knowledge. It is no longer an issue of establishing the role of knowledge in society, that is knowledge-based power, by which experts, intellectuals and the cognitive elites progress in their careers. Nor is it about paying attention exclusively to the production of knowledge. Instead, what is required is to look specifically at ways knowledge is used, that is, its widespread use and, particularly, the way it is used for specific purposes.


            At last, it seems that the time has come to consider as a primary task the interest in knowledge politics, and regard it as a new field of knowledge and science as well as a new area of training.


            At this point, new means of cognitive action and deployment could be called upon (which, for instance, in France, Germany, and now even in Italy, are beginning to resurface after a period of quasi-hibernation), with the aim of understanding what the effects on social relations of these new forms of knowledge are and, mostly, to estimate the magnitude of current efforts to control their impact.


            With such promises, knowledge politics is undoubtedly destined to gain ground in the near future, especially with reference to the relationships between science and society, research and society, universities and society, and the banking world and society. A distinction between science and knowledge may be made, but the result of their combined impact on training and development may be too weighty. For this reason, even prior to finally and blatantly realizing what the outcomes are, it would be useful to undertake a suitable training program beforehand.


            Whilst also being in line with European directives, it is necessary to increase collaboration between universities and banks in order to create a move towards knowledge, innovation and creation, that is, a general move towards the transferring and the distribution of knowledge.


            From the point of view of competitiveness it would be timely that university knowledge draw near to that of companies, banks, and society. The principal means of transmitting university knowledge directly to the outside world are in fact tied to the suitability of scientific competency and the creation of new training proposals useful to the social system. In reality, though, universities do not make their research nor their scientific resources easily accessible and by so doing do not make the most of the fruits of their work while attempting to establish cooperation with the world of work and industry (including banks).


            From Eurostat’s “Statistics on Innovation in Europe”, results indicate that the main sources of innovation in the business sector stem not from universities nor from scientific research applied to training. In fact the more innovative companies take their inputs from universities (or from the non-profit private sector) but only very limitedly, well under 5% of all cases.


            Such a waste of resources should therefore be avoided, favoring scientific and formative knowledge by means of effectively promoting the relationship between universities and industry in order to make the very most of such knowledge in the field or training.


            Barriers still exist and yet the factors which create obstacles need to be identified in order for them to be removed and thus create opportunities for cooperation, increase the number of places of exchange and production of knowledge, as is the case of this conference on the European Bank Training Network.


            Probative results should be expected when committing research and training to university departments as they provide adequate theoretical, methodological and technical know-how in the field of training. Above all, for instance, university faculties and departments of education are specially appointed for the further study of these areas and where academic developments are presumably up-to-date.


            There is yet a problem in need of solving. Not by chance, let us choose the example of company training in the field of banking. In the university environment it is not a simple task to locate specialized competence aimed specifically at in the banking industry. Not even in degree courses in banking science is the subject content suitable to qualify graduates adequately in methodology and content. It is therefore evident that only increased exchanges and familiarity between the universities and banks can give way to a series of ongoing cooperation, exchanges of information, procedural assessment and the evaluation of outcomes.


            Physico-geographic proximity is not considered in today’s globalized society as being advantageous. If it is true that many important universities are located in the same areas in which the main banking institutes operate, it is also true that these days it is possible to make agreements and fruitful alliances even between subjects who are geographically very distant from each other. Apart from the potential advantages offered by telematics, and thus distance learning, in many cases it is possible to apply synergies irrespective of whether there be direct contiguity between universities and banking institutions. As a matter of fact, this creates advantages in that there is competitiveness in the standards of the training on offer and this is not necessarily linked to the proximity of university campuses to banks offering training.


            The better universities have certainly more of advantages in that they pass directly and immediately from the acquisition of advanced knowledge to its application in concrete areas of formative action.


            There is nonetheless a question of primary relevance in the scenario described thus far: the presence of a sort of two-way diffidence between the two: the university and banking worlds. But it would be suitable here to outline a basic framework in order to put the matter in perspective. It is necessary therefore to further elaborate and comprehend the value of knowledge and therefore that of the reciprocal knowledge between universities and banks.


            In sociological terms, knowledge is undoubtedly the foundation of the way we think, of our modes of behavior and, ultimately, behind our every decision. If the mechanisms behind the social construction of knowledge are not clear, the risk is to operate haphazardly, achieve undesired results, and waste human and financial resources. Useful reading in this area might be Peter Berger and Thomas Luckmann’s Social Construction of Reality (Doubleday, Garden City; il Mulino, Bologna; Méridiens-Klincksieck, Paris).


On the other hand, it should be considered that knowledge undergoes a process of continual diversification and specialization. Therefore, it seems evident that training in the area of banking requires to be tailor-made. From this, moreover, it has become clear that universities need to revert to an interdisciplinary and socio-economic approach, oriented towards both professional and sustainable development, risk management and trust management. These then are the new challenges which universities and the banking world have to face: to reorganize knowledge well beyond the framework they are used to rather than being inner-oriented.


            With such a perspective, barriers between fundamental and applied research should be surmounted, incorporating, where possible, basic and applied scientific research in order to put forth proposals intended to convert knowledge into practical content, and strategies which can be implemented in various areas of training.


            Once universities gain credibility and attract the attention of the banks’ training structure, the latter can make more use of what the university has to offer. The target remains that of a just balance between profit oriented need, scientific moral requirements, independence in research, and the objectives and content of training schemes.


            The learning experience which last throughout the length of human subjects’ existence, nowadays considered fundamental and obligatory in many places and with a certain recurrence, allows for experimentation and openness between universities and banks, science and knowledge, and research and training. In short, universities can not only open themselves up to carrying out training courses in the field of banking, but can also allow for bank personnel to be engaged within universities to carry out training initiatives shared by other social interlocutors. In this way the prospected opening of universities to the outside world (and vice-versa) can occur in a just way, with the improvement of services on both sides, the differentiation of training on offer, and the efficient interaction between the various users-receivers of training services, all leading to an increase in the socio-cultural debate between universities and banks.


            One of the primary issues of this debate is defined by the nature, the commissioning, the use, the outcome and efficiency of training courses and of every other training or quasi-training activity.


            Obviously an initial distinction is evident when it is the banking institution that puts forth a proposal for training. The bank usually calls upon a restricted group selected by the management, with the principal objective of bettering operational and financial productivity for the institutions which operate in the area. The case is quite different when training programs are the result of contractual requirements and/or requested by union groups. These are generally directed more to inform the participant about issues of both a social and professional nature. In both cases, the assumption is that professional development is not taken for granted or progresses by itself independently of the individual’s own volition. The bank employee’s status guarantees nothing in these cases. Each advancement, each innovation is the clear outcome of an explicit desire to be kept up-to-date, the need for specialization, and adaptation.


            Moreover, it is quite uncommon for a bank employee’s duties be mere repetitive routines. Even when everything appears to be in the norm, there can be hints of novelty in the everyday proceeding: whether it means signing a check, a commission, a consignment receipt, or creating an account, or whether it be dealing with foreign exchange rates which vary from day to day. In fact, as is well known, it is this sort of inurement to repeated actions which often leads to error and therefore to paying assiduous attention to detail. The specialized work behind each counter and each series of transactions (whether it be in the shares or exchanges section) require detailed knowledge in a very specific area but even in this case nothing can be taken for granted given that new experiences are many and unexpected. Constant variations which have no solution lead to regular need for training courses but such consent requires periodic evaluation, in that when the need for such courses is requested by the parties concerned interest is naturally more noticeable and participation levels higher.


If, on the other hand, it is the employer that makes the request for a training program, then there is no shortage of resistance unless this does not entail financial gain or promotion within the bank’s hierarchy. Not only does the percentage of registrations vary for both kinds of programs but also the level of absenteeism once the courses have formed. There is also the peculiar phenomenon of the low number of female attendance of such courses, irrespective of the female to male ratio employed by the banking institutions. As it stands, there are fewer women employed by the banks, and there are even less when it comes to women participating in training sessions.


            Research results have demonstrated that the level of participation in training courses is directly proportional to the level reached in one’s profession, the position held in the bank’s management echelons, to the progress achieved in one’s career based on criteria of merit and age (and time employed in the institution).


            It appears, however, that the overall opinion is less positive for training proposed by union groups and tends to be more favorable for those courses put forward by a bank’s management. Training arranged solely by banking institutions therefore appears to be more qualified and qualifying perhaps due to the high standard of preparation and the choice of trainers and methodology used.


            There is no doubt that, at the same time, the objectives of training programs offered by banking institutions lead to economic expansion and aim at privileging those consensual subjects who fall in line with the same politico-economic tendencies as the bank’s. These subjects are therefore  more facile and identify themselves well with the bank – the so-called “right kind of people for the job”. Participation to those courses organized by union groups is motivated, on the other hand, by a greater need to know one’s rights and the necessity to gather when their stance is in opposition to the bank’s.


            There is, finally, a strong desire for professional development which union groups cannot cater to (because of their propensity not to approach certain issues): it is this very sector that is worth considering very strongly.


            To conclude with, a slightly utopian provocation, though undoubtedly not unfounded nor out of place: how long before a training (and really informative) program is aimed not only at bank personnel but also to its clientele? The banks themselves are to gain, especially in terms of loyalty, an asset so precious that no advertising campaign, no matter how costly, could ever guarantee.

RELIGION AS DIFFUSION OF VALUES. “DIFFUSED RELIGION” IN THE CONTEXT OF A DOMINANT RELIGIOUS INSTITUTION: THE ITALIAN CASE

Roberto Cipriani

Introduction

There has been much discussion of possible definitions of religion. Generally a distinction is made between a substantive and a functional approach. The substantive approach may be exemplified by Durkheim (1995) when he speaks of “beliefs and practices” as the ground of the “moral community” called a “church”. Luckmann (1967) is said to demonstrate the functional approach when he refers to “symbolic universes” as “socially objectified systems of meaning” by way of “social processes” considered as “fundamentally religious”, “which lead to the formation of the Ego” and the “transcendence of biological nature”.

However, when we make a thorough exploration of Durkheim’s and Luckmann’s writings, we observe that Durkheim is also alive to function (religion helps solidarity), and that Luckmann is not only concerned with function (religion is a conception of the world made up of specific contents). Thus in reality those quoted as exemplary champions of one ore other perspective emerge as more possibilistic and open to less rigid, more polyvalent formulations. In short, contents and functions are inseparable, and should rather be considered as a unique whole which permits realizing much more complex and interconnected analytical and interpretative procedures.

For example, we might start from the idea that the meta-empirical referent in attributing meaning to human existence is a particular characteristic of religion. At the same time, however, it is sensible to leave an opening also for responses which do not envisage an explicit referral to the dimension of the empirical non verifiability and the inaccessibility of direct experience. Thus, a meta-empirical referent would possess a merely indicative character, or, in Blumer’s (1954) term that of “sensitizing”. “In this way there is no conflict between the transcendent level and that of the real. It is rather as though we were to look at the same object from two different viewpoints; the canalizing of a non-human presence within reality. One vision does not exclude the other. They are not in opposition and indeed at times they may converge on the same conclusion – the understanding-explanation of life in a religious key” (Cipriani 1997. 15).


From diffused religion to religion of values

Certainly, the presence of values is a constant both in the historic religions, more deeply rooted at the cultural level, and in the new religious movements still in a phase of growth and re-composition. These values represent idealistic motives, key concepts, basic ideas, parameters of reference and ideological inclinations which watch over the personal and interpersonal actions of individuals and make them reasonable, socially relevant and sociologically classifiable.

Every religious experience involves dedication to a cause, and ideal, with a socio-individual involvement which is more or less marked according to individuals’ intentions, utility (also in “rational choice” terms), their life history, opportunities offered, their encounters and the challenges faced. To say one belongs to a particular religion means essentially to share its general principles, basic choices and ritual procedures. The latter allow membership to become visible, permit encounters with co-religionists, legitimation of executive roles (real, not merely symbolic, power), reinforcement of belonging, and deepening of value-based motivations.

In other words, every performance of a ritual has multiple functions, but above all focuses the total values promoted and diffused by a particular religion through its members: the more these participate, the more they become convinced their choice was right.

The latter effect is so portentous that it remains in a weakened condition even without further continuing participation. Thus, the experience of religious practice (and belief) forms of its own accord an ideal, value-laden habitus which tends to persist far beyond visible religiosity. Indeed the person who no longer practices religion and is maybe ever less a believer retains a kind of imprinting which cannot easily be erased, and which presents him as a disaffected member but with continuing meaningful links with the former reference group.

Undoubtedly much is owed to primary (essentially family) socialization rather than to secondary (school and friendship within peer groups). The Berger and Luckmann (1966) lesson in this regard remains authoritative: in fact, the social construction of reality is the basis from which the value system branches out, a circuitry which directs social action and rests on an objectified and historicized world-view which is thus endowed with a religious character it is hard to lose. The ultimate meaning of life itself is clearly written therein and orientates attitudes and behaviors.

However, it may now be more convenient to aim at disarticulating religious phenomenology from within, following a reading with more stratified dynamics and multiple facetting. This is an alternative to distinguishing to the utmost between traditional religiosity linked to church structures and quite visible in its forms on the one hand, and a more individualized, privatized and thus less visible religiosity on the other. In practice it is not clear there is only church religion and invisible religion à la Luckmann (1967). Rather, we may propose another hypothetical solution which envisages intermediate categories more or less close to the two extremes defined in terms of visibility and invisibility.

An initial post-Luckmann interpretation was articulated in 1983 and applied to the Italian situation during the International Conference of Sociology of Religion (held at Bedford College, London): “beside the interests and pressures coming from ecclesiastical sources, are there any other premises or factors which can explain religious bearing on Italian politics? In particular, it is important to verify first of all how the institution fares under the pressure of an extended “religious field” containing varied and attractive options, including anti-institutional purposes. Secondly, we must ask ourselves whether in practice religious influence in political choices concerns only Catholicism (or Christianity) or any religious expression in general. Thirdly, we must see whether the country’s history or its national culture mark the existence of fixed elements, bearing common values leading (directly or indirectly, in specific or vague ways) to a widespread model of religious socialization (based prevalently on patters of Catholic reference)” (Cipriani 1984: 32).

The starting point was thus represented by the influence of the Catholic religion on politics in Italy. This was a fortuitous indicator which showed itself later to be very illuminating, also because it became increasingly possible to show that suchlike influence involved, and involves, circles much wider than politics. Indeed, after nearly twenty years it can be asserted today that the weight of religion in matters regarding decisions of a party and government nature has been reduced but it has remained quite solid as regards society in general. Meanwhile the anti-institutional spirit has lessened, given that the Catholic church is the institution least contested by Italian citizens, who moreover assign it a noteworthy portion of their taxes (the so called “eight per thousand”).

While the preponderant influence of official Catholicism has waned, other religious confessions have not replaced it. Only Judaism has managed on a few special occasions to have its celebrations and customs recognized. The ability of Moslems, Jehovah’s Witnesses and others to gain a hearing at political level is negligible.

On the other hand, the connection between Catholic religious values and values diffused in the social environment has been amply demonstrated. In many instances the two are superimposed on one another, if not wholly identical. In fact, having started from the concept of “diffused religion” referring mainly to links with the political dimension, we then arrived at a conception of religion in Italy as a web of value elements directly derived from the baggage of Catholic socialization.

Before going further, however, we should clarify what is originally intended to investigate in our research. “The leading concept, in this research, is that of “diffused religion”. The term “diffused” is to be understood in at least a double sense. First of all, it is diffused in that it comprises vast sections of the Italian population and goes beyond the simple limits of church religion; sometimes in fact it is in open contrast with church religion on religious motivation (cf. the internal dissension within Catholicism on occasion of the referendum on divorce and abortion). Besides, it has become widespread, since it has been shown to be a historical and cultural result of the almost bi-millennial presence of the Catholic institution in Italy and of its socializing and legitimizing action. The premises for the present “diffused religion” have been laid down in the course of centuries. In reality, it is both diffused in and diffused by. As a final outcome, it is also diffused for; given that – apart from the intents of so-called church religion – we can remark the spread of other creeds (the easy proselytism of other Christian churches, of the “Jehovah’s Witnesses”, of “sects” of oriental origin etc…), as well as the trend towards ethical and/or political choices (an eventual conflict – far form disproving this hypothesis – confirms, from the outset, the existence of a religious basis, be it weak or latent). In brief terms, it is licit to think of religion as being “diffused” through the acceptance of other individual or group religious experience, and also because it represents a parameter which can be referred to with regard to moral and/or political choices (Cipriani 1984: 32).

First of all, it is still valid to claim that diffused religion concerns broad strata of the Italian population. More than one study has established this conviction over time, and it has been enriched gradually by new variations on the theme, without distortion. In itself church religion too should also be basic to the origin of diffused religion itself. However, for reasons of exposition and to avoid misunderstandings it is preferable to regard it as a category by itself , to be deconstructed if required on the basis of attitudinal and behavioral differences of the subjects interviewed (usually grouped together according to stratification derived from cluster analysis). Moreover as regard diffused religion’s diversification as compared to institutional Catholic religion, this should be stressed from a sociological point of view so as to determine the differences between orthodox and heterodox modes in relation to the official Catholic model. However, the most relevant aspect is still the strong historico-geographical – and thus cultural – rootedness of the religion most practiced in Italy. It is precisely the strength of tradition, the practice of habit, the family and community involvement which make membership of the prevalent religion compelling and almost insurmountable. Where socialization does not arrive within the family home, pastoral and evangelizing activity carried out in a capillary way in the area by priests and their lay parish workers moves in. In fact, Catholicism is diffused in every part of the country by means of a church structure well-equipped over time and particularly able to draw on its quite effective know-how. The best proof of this effectiveness is provided by the easy proselytism effected by other religious groups and movements which have disembarked in Italy, particularly the Christian ones, though not only these. Another piece of evidence can be found in ethical and, especially in the past, political inclinations. These characteristics of diffused religion make it a non-autocratic experience, open to other options, careless of the theologico-doctrinal boundaries between manifold confessional memberships. The subjects of diffused religion are little inclined to join battle in the name of their ideal referents – but nor do they contest others over viewpoints that cannot always be shared.

“What “diffused religion” consists of can be understood even by means of its peculiarities. In a broad sense, its presence is clearly visible in forms which are not as evident as church religion, but which are not totally invalidated. This visibility may appear somehow intermittent” (Cipriani 1984: 32). Thus diffused religion also runs the risk of being classified as an “invisible religion” sui generis, though in reality it manifests that peculiarity of partly relating to church religion by way of participation in liturgical practices and religious rites, and partly to a “semi-membership” or even non-membership (in its most peripheral forms, almost bordering on total absence of socio-religious indicators).

“It is easy to presume that the widespread model of “diffused religion” is different from that of its source of origin, that is, this widespread religious dimension ends up by differing from the system it derives from (the institution). In this way, however, it reaches degrees of freedom which the concentrated and centralized pattern of church religion would not favor” (Cipriani 1984: 32). We might even speak of diffused religion as a perverse effect of the dominant religious system which thus generates what is different from itself, even though in continuity with it. The greater freedom in putting ourselves outside the church permits spaces for action otherwise prohibited. In short, there is no clear opposition, nor yet a clear linkage of diffused religion to church religion.

“The fragmentation of the areas of diffusion and distribution cannot, however, cover all existing spheres; all aspects are not equally widespread and reach vague, undefined limits which empirically are difficult to define. This diffusiveness broadens foreseeably into complex and multiple options (especially political options: from extreme right to extreme left). Meanwhile, original religious contents diminish and lose their intensity, they disperse, they mingle, they are integrated in new syntheses. Consequently, this expansion also causes a certain lack of positive reactions with respect to the center of propulsion, either because of increased separateness or because of a weakening of the basic ideological nucleus. It is thus a “passive” religion which may become active again in specific circumstances. Rather than the dynamics of accelerated religious transformation, this provokes a certain stagnation. Even within the prevailing passivity, the underlying echo remains persistent and pervasive, it penetrates large groups of persons. At this stage “diffused religion” appears rather under false pretences: as a feeling, a sensation which “contaminates” both the religious and political fields. Thus re-emerges the link with processes of socialization. It remains, however, to be seen if the future generations will maintain such a religious form which becomes more and more socially diluted to the extent of losing all influence on politics” (Cipriani 1984: 32-3). Despite its pervasion, diffused religion is not present in every case and every context. Indeed, it cannot easily be catalogued using homogeneous indicators. Usually, cluster analysis outlines three levels of diffused religion: the first seems closest to church religion, the second departs partially from it, and the third is situated on the margins of the continuum between church religion and diffused religion. If we look particularly at political placement, the whole ideological-party spectrum has its followers distributed among the three large areas of diffused religion. The member of these classes of diffused religion prefers solutions running from the right to the extreme left, thus excluding the extreme right, as is shown by a study carried out in Rome in 1994-5 (Cipriani 1997). At the level of values, the area of strictly religious values seems to be narrowing, but there is an increase in the area of lay principles – lay but vaguely inspired by, or capable of drawing inspiration from, orthodox religious models. It thus seems that diffused religion is destined to remain inert, at the mercy of other confessions, though its greatest attraction lies in relation to ongoing socialization.

The problem of change within diffused religion itself had already been posed some years ago. In fact, “even for someone who has always kept his sociological interest in current events alive, it is not easy to disentangle the guiding threads of the social, political, and religious dynamics which have characterized Italy in the last two decades. The fact is that one finds oneself in the present situation almost naturally, as though it had been expected, without even letting questions, doubts, or scientific curiosity about what has been happening to more than 50 million citizens, from the mid-1960s to the threshold of the 1990s, break the surface” (Cipriani 1989: 24). The fact is that while the contents of diffused religion change almost imperceptibly, the sociological approach also mutates, hones its instruments of empirical research, digs deeper into reality and searches for verifications and falsifications of its guiding hypotheses.

Truth to tell, until the end of the 1980s, strangely enough there were no scientific results available providing adequate reliability as products of serious, thorough and really representative studies at that statistical level in relation to the whole of Italy. It was thus in the wake of the questions raised by theorizing about diffused religion that a fruitful season of field research began – from the Sicilian study on “the religion of values” (Cipriani 1992) to the major national research on “religiosity in Italy” (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995) and the most recent one, on an international level and with a comparison between Europe and the United States on “religious and moral pluralism”, still awaiting publication.

Especially during the last decade it has been argued that relations between Catholic church and the Italian state, though not wholly disappeared as a strategic point for examining the inter-institutional political-religious link based on citizens’ interest in problems of a legislative kind, are no longer a key test of the ability of the dominant religion to influence Italian political affairs. For the past, consider the diatribes of the ’70s and ’80s on divorce and abortion, not comparable to the current one on financing Catholic schools. Once the major questions on the diplomatic plane had been regulated solemnly on February 18, 1984 and by law on 20 May, 1985, which renewed the Concordat of 1929 between Italian state and the Vatican hierarchy, the “Catholic question” so-called seems to have lost its bite and its interest. The movement defined as Catholic contestation has also long ago shipped its oars and seems reduced now to a sporadic attempt at dissent as regards the Establishment – unless the Holy Year of 2000 provides new possibilities for a recovery of a critical kind, taking its lead from the jubilee program.

To some extent it is diffused religion itself which also represents a kind of functional substitute for divergence from the ecclesiastical structure. This differentiation appears through other ways of believing and practicing, even though the real base remains Catholic thanks to primary socialization in the initial phases of life. It should thus be stressed that ” “diffused religion” refers to the characteristic conduct of believers who have received at least a Catholic education and who relate to it in a general sense. In fact, it refers to citizens who appear to be less than completely obedient to the directives of the Catholic hierarchy but who, on the other hand, refuse to reject completely certain basic principles which form part of the set of values promoted by Catholicism” (Cipriani 1989: 28).

The essential core of diffused religion is to be found precisely in this set of values which are the basis for the sharing of outlook and practices which bring together Catholics and non-Catholics, believers and non-believers, on the same terrain of social action. In fact through this cultural mediation of shared values there runs a large part of decisions for enactment by social subjects. The ecclesiastical Establishment stays in the background, not intervening directly but in a mediated way, thanks, that is, to its prior socializing activity. There is no longer, if ever there was, a close adherence to orthodoxy and orthopractice as taught by the Catholic church, although the essential parameter remains Catholicism as the ideology determining perspective. It is precisely this which permits collaboration between the Italian state and the Catholic church without major disturbance and indeed with a formal, legitimated agreement which has now lasted over seventy years.

As Calvaruso and Abbruzzese (1985: 79) emphasize, “diffused religiosity then becomes the dominant religious dimension for all those who, immersed in the secular reality of contemporary society, though not managing to accept these dimensions of the sacred cosmos which are more remote and provocative compared with the rational vision of the world, do not thereby abandon their need for meaningfulness. In the immanent dimension of individual everyday existence, diffused religiosity, rather than bearing witness to the presence of a process of laicization in a religiously oriented society, seems to enhance the permanence of the sacred in the secularized society”. Thus diffused religion appears as an antidote to the process of secularization of which at the same time it is an expression which is meaningful as a taking of distance from church religion. In fact “diffused religiosity is located in an intermediate area between a secular society in crisis and a resumption of the ecclesiastical administration of the sacred. It remains too “lay” to accept the more specific elements of church doctrine and too much in need of meaning to survive in an epoch which is “without God and without prophets”” (Calvaruso e Abbruzzese 1985: 80).

In particular “the variables in “diffused religion” are, by contrast, more changeable according to the syntheses which it produces from time to time. They are achieved on levels determined by the dialectic between the basic values of primary and secondary legitimation and the “different” ones which appear on the horizon in the long confrontation with other ideological perspectives. The “new” value is internalized but almost never taken up in a wholly pure form or according to a formula that could totally replace the previous perspective. The new way of seeing reality, the different Weltanschauung, is, however, the result of the collision-encounter between what already exists and what is still in the process of becoming” (Cipriani 1989: 29).

Diffused religion is thus quite dynamic in itself as regards its development despite the constancy of the chief frame of reference. However, “diffused religion lacks the kind of clear-cut characteristics which would be visible in, for example, church attendance, but it works through long-range conditioning, which is due, above all, to mass religious socialization, and to which there is a corresponding kind of “mass loyalty” of a new type” (Cipriani 1989: 46). However, we can discover these links between the social and the religious, between implementation in the everyday and the context of origin by way of certain value indicators.

A particular example of this is provided by “a piece of empirical research conducted in Sicily by means of questionnairing a group of people selected by statistical sampling. The results were compiled from the completed questionnaires of 719 subjects, and the objective was to illuminate the concept of “diffused religion” as observed in the presence of common social values which tend to unify behavior and attitude deriving from both the religious and lay perspectives. Cluster analysis was used to identify six different groupings: religious (church) acritical; religious (church) critical; religious (diverging from the church) critical; religious (diffused) as a condition; religious (critical and distancing self from the church); and not religious. The starting point for the research is the hypothesis that Catholicism (as the dominant religion) pervades many sectors of social life and maintains its influence over common values, despite the effect of increased distance between people and institutionalized religion. This appears to refute the theory of secularization” (Cipriani 1993: 91).

Here are the general data from the study (Cipriani 1992):


Religious (church) acritical 101 (14.0%)

Religious (church) critical 261 (36.3%)

Religious (diverging from the church) critical 79 (11.0%)

Religious (diffused) as a condition 190 (26.4%)

Religious (distancing self from church) critical 47 ( 6.5%)

Non religious 41 ( 5.8%)

Total 719 (100%)


On the basis of these results, we have argued that religion of values embraces the central categories of the above table. In particular the area that can be ascribed to the religion of values runs from the category defined as religious (church) critical to that described as religious (distancing self from church) critical, and thus includes both a part of church religion (the less indulgent part) and the whole gamut of diffused religion, along with all forms of critical religion. Thus the framework of non-institutional religion appears much broader, being based on shared values which are represented essentially by choices acted upon (to a maximum of four responses) by those interviewed in terms of guiding principles of their life, commencing with education received up to eighteen:


Particularistic values

Attachment to the family 450 (62.6%)

Love of one’s children 232 (32.3%)

Good use of money 69 ( 9.6%)

Managing by oneself 66 ( 9.2%)

Earning a lot 32 ( 4.5%)


Universal values

Honesty, probity 532 (74.0%)

Faith in God 386 (53.7%)

Respect for others 213 (29.6%)

Having a clear conscience 131 (18.2%)

Attachment to work 120 (16.7%)

Friendship, solidarity 105 (14.6%)

Being content with little 99 (13.8%)

Generosity, charity 96 (13.4%)


As can easily be deduced from these percentages reflecting different value elements, it is reasonable to maintain that we are faced not only with a religion based on values largely shared since they have been diffused chiefly through primary and, later, secondary socialization, but these very values can be seen in themselves as a kind of religion. This religion has lay, profane, secular threads.

In essence, we have gone from a dominant church religion to a majoritarian diffused religion, and then to a religion compounded of values. As we shall attempt to show later, the conclusion is that religion can be defined as a mode of transmission and diffusion of values; indeed, that it performs especially this functional task and does so efficiently.

Thus we resolve the polemic between substantive and functional definitions. In the substantive sense the constituent elements of a religion are the values it teaches and propagates, whilst in the functional sense the task of religion, especially when it appears prevalently in a particular historico-geographical framework, is that of providing key linkage points for community life, social action, and the “rational choices” to be made in the light of established guidelines, and to be brought to life in everyday life and basic existential choices.


Content and function of religion

Our reading of the Italian situation is largely applicable to those social realities where a specific religious confession is conspicuously present and active in the area, with a hegemonic position. “In fact, religion, which never really stopped playing its part in society, has reappeared beneath the surface of secularization. Even if we admit that there has been a significant occlusion, this has only involved secondary, external and formal aspects, especially at the level of ritual. The decline in participation at official, preordained services has not thus meant the end of every resort to the sacred. The trajectory of religiosity is not set towards definitive extinction. Simultaneously, secular impulses seem also to have exhausted their impetus. Their efficacy now affects only the less fundamental aspects of belief, which tends to remain in essence more or less stable. Between religiosity and secularization there seems to reign almost a tacit compromise. They are reinforced and weaken virtually in unison. Aspects steeped in religion continue (or return) to manifest themselves in secular reality, whilst in the reality of the church and of religious culture we see a progressive surrender to demands that are less orthodox from the viewpoint of the official model” (Cipriani 1994: 277).

The case of Rome, described as the Holy City par excellence even though it is heavily secularized, is emblematic. The world capital of Catholicism, the meeting-place of universal import for millions of pilgrims in the jubilee year, 2000, manifests rather low levels of religious practice. That which is described as regular, once a week, stands at 23.3% (Cipriani 1997), whilst 22.1% never go to mass. Yet the number who pray is significant – 71.5% of those interviewed who turn to prayer maybe only a few times a year (14.9%) or much more often, like the 32% who do so once or more times every day. This means that there is at once slight attachment to practice but equally a broad interest in prayer, and so religion lies not wholly in rituality. Rather, the most frequent link with divinity runs through prayer, a direct conversation, as at the interpersonal level. In this regard we might argue that whereas practice of the festal mass is more linked to church religion, that of recourse to prayer maybe has a more spontaneous character, free and removed from social control but nonetheless an index which reveals a belief, a tie, a sensitivity at the religious level. In practice, if Rome is not by any means a city of many practitioners, neither is it one with many atheists, agnostics or religious indifferent people (however, it should be noted that 21.3% of those interviewed – the highest number in the whole of the country – show no sign of religiosity at all). The capital of Italy manifests in a heightened manner some of the characteristics revealed in the 1994-5 study on “religiosity in Italy” through a national sample. For example, in a year a more 7.6% had taken part in pilgrimages and 13.6% had made or satisfied a vow. Essentially, the Romans’ religion is two-sided: on the one hand it appears imbued with a dramatic crisis, on the other it seems quite lively (though at a due distance from the habits of the official church). The religious future of the city seems destined to proceed along these two parts, divergent but tendentially parallel.

The same may be said in general for Italy, though with certain essential differences. “A double religion is the result: a majority and a minority religion, explicable also in terms of the historic presence of the Catholic church in Italy in the past century and especially since the Second World War. The Italian minority religion is for those who identify with the church quite closely and also involve themselves significantly in religious practices. The majority religion, on the contrary, lacks these characteristics” (Cipriani: 1994: 281). This majority religion is rooted in the individual conscience, guided by the law of God, according to 40.4% of those interviewed in a systematic sample of 4500 (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 180), in individual conscience alone in 36% of those sampled, and exclusively in the law of God for 22.1%. On the level of values lived with satisfaction, we find first the family that can be depended upon (73% of the sample), followed by working honestly and with commitment (68%), having friends (38%). A smaller response was obtained as regards devotion to others (25%) and commitment to changing society (22%).

The overall picture is a varied one, but it confirms the image of religiosity diffused but fractal, tattered, with heterogeneous outlines. According to the results of the cluster analysis, 32% of the sample could be classified as belonging to church religion, 59.1% to diffused or modal religion, and 8.9% to non-religion.

In detail, the proportions of Italian religiosity demonstrate the following typology:



1) Oriented church religion (hetero-directed) 9.4%

2) Reflexive church religion (self-directed) 22.6%

Church religion total (1+2) 32.0%



3) Modal primary (diffused) religion 16.5%

4) Modal intermediary (diffused) religion 21.6%

5) Modal perimetric (diffused) religion 21.0%

Diffused or modal religion total (3+4+5) 59.1%

Continuing religion total (1+2+3+4+5) 91.1%


6) Non religion 8.9%

Overall total (1+2+3+4+5+6) 100.0%


As can be seen from the percentage of the six attitudinal and behavioral classes, religion in the broad sense (church or diffuse/modal) is broadly preponderant and clearly almost all of Catholic imprint. Church religion is in a minority percentage-wise, and diffused religion (called modal as statistically it is in practice the mode, the characteristic with the greatest frequency) is the majority. But between minority and majority there is no break and indeed it is often hard to establish the distinction between one and the other, especially between reflexive church religion (more autonomous and individualized, less inclined to accept the directives of official ecclesiastical teaching), and primary diffused or modal religion (more diversified as regards church membership). In fact, church and diffused or modal religion are in a close relation with one another, the second arising from the first, whereby one can speak of a genuine religious continuum which involves 91.1% of those interviewed, without breaks or interruptions in the religious argument and its content, especially in the field of values.

Even more convincing, if that is possible, is what emerges from the more recent (March-April 1999) international comparative study on Europe and the United States on “religious and moral pluralism”, involving in Italy the universities of Turin, Padua, Trieste, Bologna and Rome. The Italian sampling was carried out by Doxa and involved 2149 interviews (1032 males and 1117 females from 18 and upwards), carried out in 742 cases in provincial capital cities and in 1407 in non-capital centers. 97.5% said they were Catholic; 31.2% said they were very close to the church and 45.5% close to it. 51.1% remembered at 12 years old they went to church at least once a week, but 21.7% spoke of more than once a week, and 6.7% of daily participation in religious functions.

Significant confirmation of the satisfaction with religion comes from the judgement of whether it was more or less important, 22.2% a little more, and 12.8% much more.

As for the relation between education and religion, a very close link is taken for granted especially if we bear in mind that 35.9% seemed much influenced by the education they received.

It should also be noted that 81.2% of those surveyed explicitly owned to belonging to a church, confession, group or religious community.

Finally, 86.4% said they used prayer, though with differences both quantitative (once or more) and temporal (daily or during the year).

The characteristics seem definitely established:

1) the essential content of religion is values, much more than rituals and beliefs;

2) the function of religion appears to be that of diffusing values.

Thus religion can be understood as basically an agent for diffusing values.


Conclusion

The concept of diffused religion over fifteen years has often been employed to test its heuristic efficacy. Starting from an initial applicability to the Italian case, it is possible to move on to presenting it also in other contexts in which the centrality and size of a specific religious confession are characteristic.

However, the most significant result is the demonstration of the centrality of values as the base of every religious expression. Beyond the socializing, consoling participation in ceremonies and belief-faith in something which in sociological terms escapes any empirical analysis, it is perhaps values which serve as the master key of the religious system.

The Italian philosopher Giambattista Vico (1983: 600) was thus correct when about three centuries ago he wrote that “religions are the only means by which men can understand virtuous behavior and practice it”.


References

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LA RELIGIONE COME DIFFUSIONE DI VALORI.


di Roberto Cipriani (Università di Roma Tre)


Premessa


                  Si discute spesso sulle possibili definizioni della religione: in linea di massima si distingue fra un approccio sostantivo ed un approccio funzionale. Sarebbe sostantivo quello di Durkheim (1995) che parla di “credenze e pratiche” come base costitutiva della “comunità morale” detta “chiesa”, sarebbe funzionale quello di Luckmann (1967) che si riferisce agli “universi simbolici” come “sistemi di significato socialmente oggettivati”, attraverso “processi sociali” – considerati “fondamentalmente religiosi” – “che conducono alla formazione dell’Io” ed alla “trascendenza della natura biologica”.


                Ma a ben scavare nei testi durkheimiani ed in quelli luckmanniani ci si accorge che Durkheim è anche attento alla funzione (la religione serve per la solidarietà) e che Luckmann non bada solo alla funzione (la religione è una concezione del mondo costituita da contenuti specifici).


                Dunque già coloro che vengono citati come campioni esemplari dell’una o dell’altra prospettiva definitoria in realtà poi risultano più possibilisti, aperti verso soluzioni meno rigide, polivalenti. Insomma contenuti e funzioni non sono separabili ed anzi vanno considerati come un unicum, il che consente l’implementazione di percorsi analitici ed interpretativi ben più complessi ed articolati.


                Si potrebbe partire, per esempio, dall’idea che il riferimento metaempirico nell’attribuzione di significato all’esistenza umana sia un carattere peculiare della religione, ma in pari tempo è opportuno lasciare un varco aperto anche a soluzioni che non contemplino un esplicito rinvio alla dimensione della non verificabilità empirica e della impraticabilità dell’esperienza diretta. Insomma il riferimento metaempirico avrebbe solo un carattere meramente orientativo, “sensibilizzante” per dirla con Blumer (1954). “In tal modo non si ha un contrasto fra livello trascendente e livello reale. In sostanza è come se da due diversi punti di vista si guardasse ad un medesimo oggetto: l’innervamento di una presenza non umana nella realtà ed il radicamento di un significato esplicativo all’interno della stessa realtà. L’una delle due visioni non esclude l’altra, non vi si oppone, anzi vi può essere talora una convergenza che approdi al medesimo risultato: la comprensione-spiegazione della vita in chiave religiosa” (Cipriani 1997: 15).


Dalla religione diffusa alla religione dei valori


                Indubbiamente la presenza di valori è una costante sia delle religioni storiche, più radicate a livello culturale, sia dei nuovi movimenti religiosi, ancora in fase di crescita ed assestamento. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.


                Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.


Detto altrimenti, ogni celebrazione di un rito svolge funzioni molteplici, ma soprattutto mette a fuoco l’insieme di valori che una certa religione promuove e diffonde attraverso i suoi membri, i quali più partecipano più si convincono della loro scelta come giusta.


Quest’ultimo effetto è di tale pregnanza che permane, seppur indebolito, anche in assenza di una successiva, ulteriore partecipazione continua. Dunque l’esperienza della pratica (e della credenza) religiosa induce di per sé un habitus ideale e valoriale che tende a persistere ben al di là di una religiosità visibile. Infatti anche chi non è più praticante e magari è anche sempre meno credente conserva una sorta di imprinting, non facilmente cancellabile, che lo vede come membro disaffezionato ma con legami ancora significativi con l’ex gruppo di riferimento.


Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (eesenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei peer groups). La lezione berger-luckmanniana (1966) in proposito rimane magistrale: in effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.


Ora però, invece di differenziare al massimo fra una religiosità tradizionale, legata alle strutture di chiesa ed abbastanza visibile nelle sue forme, da una parte ed una religiosità più individualizzata, privatizzata e dunque meno visibile, dall’altra, può essere più opportuno giocare su una disarticolazione interna alla fenomenologia religiosa in chiave di dinamiche più stratificate, dalle sfaccettature molteplici. In pratica non è detto che vi siano solo una religione di chiesa ed una religione invisibile alla Luckmann (1967), è ipotizzabile piuttosto un’altra soluzione che preveda categorie intermedie più o meno vicine ai due poli definiti in termini di visibilità/invisibilità.


Una prima interpretazione post-luckmanniana venne formulata nel 1983 ed applicata alla situazione italiana in occasione della Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione (tenutasi al Bedford College di Londra): “beside the interests and pressures coming from ecclesiastical sources, are there any other premises or factors which can explain religious bearing on Italian politics? In particular, it is important to verify first of all how the institution fares under the pressure of an extended “religious field” containing varied and attractive options, including anti-institutional purposes. Secondly, we must ask ourselves whether in practice religious influence in political choices concerns only Catholicism (or Christianity) or any religious expression in general. Thirdly, we must see whether the country’s history or its national culture mark the existence of fixed elements, bearing common values leading (directly or indirectly, in specific or vague ways) to a widespread model of religious socialization (based prevalently on patters of Catholic reference)” (Cipriani 1984: 32).


Il punto di partenza era dunque rappresentato dall’influenza della religione cattolica sulla politica in Italia. Si trattava di un indicatore casuale ma rivelatosi assai illuminante in seguito, anche perché sempre più è stato possibile verificare che una simile influenza riguardava e riguarda ambiti ben più ampi della politica. Anzi, oggi dopo quasi un ventennio è dato constatare che il peso della religione si è ridotto nei riguardi delle decisioni di natura partitica e governativa ma è rimasto piuttosto saldo nei confronti della società in genere. Nel contempo si è attenuato lo spirito antistituzionale, visto che la chiesa cattolica è l’istituzione meno osteggiata dai cittadini italiani, che peraltro le assegnano quote non trascurabili della loro tasse (il cosiddetto “otto per mille”).


Venuta meno l’incidenza preponderante del cattolicesimo ufficiale non si sono sostituite ad esso altre confessioni religiose. Semmai solo l’ebraismo è riuscito in qualche occasione particolare ad ottenere rispetto per le proprie scadenze festive e per le proprie consuetudini. Del tutto trascurabile appare la capacità degli islamici, dei “Testimoni di Geova” e di altri di farsi ascoltare a livello politico.


Invece è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, dopo essere partiti dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, siamo poi approdati ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.


Prima però di procedere oltre, conviene chiarire meglio che cosa si intendeva perseguire originariamente nel nostro studio. “The leading concept, in this research, is that of “diffused religion”. The term “diffused” is to be understood in at least a double sense. First of all, it is diffused in that it comprises vast sections of the Italian population and goes beyond the simple limits of church religion; sometimes in fact it is in open contrast with church religion on religious motivation (cf. the internal dissension within Catholicism on occasion of the referendum on divorce and abortion). Besides, it has become widespread, since it has been shown to be a historical and cultural result of the almost bi-millenial presence of the Catholic institution in Italy and of its socializing and legitimizing action. The premises for the present “diffused religion” have been laid down in the course of centuries. In reality, it is both diffused in and diffused by. As a final outcome, it is also diffused for; given that – apart from the intents of so-called church religion – we can remark the spread of other creeds (the easy proselytism of other Christian churches, of the “Jehovah’s Witnesses”, of “sects” of oriental origin etc…), as well as the trend towards ethical and/or political choices (an eventual conflict – far form disproving this hypothesis – confirms, from the outset, the existence of a religious basis, be it weak or latent). In brief terms, it is licit to think of religion as being “diffused” through the acceptance of other individual or group religious experience, and also because it represents a parameter which can be referred to with regard to moral and/or political choices (Cipriani 1984: 32).


Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa nostra convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis). Peraltro la sua diversificazione rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico. Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali. In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how abbastanza efficace. Di tale efficacia la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche. Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.    


“What “diffused religion” consists of can be understood even by means of its peculiarities. In a broad sense, its presence is clearly visible in forms which are not as evident as church religion, but which are not totally invalidated. This visibility may appear somehow intermittent” (Cipriani 1984: 32). Dunque anche la religione diffusa rischia di essere classificata come una “religione invisibile” sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una “semiappartenenza” o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi).


“It is easy to presume that the widespread model of “diffused religion” is different from that of its source of origin, that is, this widespread religious dimension ends up by differing from the system it derives from (the institution). In this way, however, it reaches degrees of freedom which the concentrated and centralized pattern of church religion would not favour” (Cipriani 1984: 32). Si potrebbe persino parlare di religione diffusa come effetto perverso del sistema religioso dominante, che genera dunque ciò che è altro da sé, sebbene in continuità con se stesso. La maggiore libertà nel porsi al di fuori della chiesa consente spazi di azione altrimenti impediti. Insomma non vi è né netta opposizione ma neppure una netta adesione della religione diffusa alla religione di chiesa.


“The fragmentation of the areas of diffusion and distribution cannot, however, cover all existing spheres; all aspects are not equally widespread and reach vague, undefined limits which empirically are difficult to define. This diffusiveness broadens foreseeably into complex and multiple options (especially political options: from extreme right to extreme left). Meanwhile, original religious contents diminish and lose their intensity, they disperse, they mingle, they are integrated in new syntheses. Consequently, this expansion also causes a certain lack of positive reactions with respect to the centre of propulsion, either because of increased separateness or because of a weakening of the basic ideological nucleus. It is thus a “passive” religion which may become active again in specific circumstances. Rather than the dynamics of accelerated religious transformation, this provokes a certain stagnation. Even within the prevailing passivity, the underlying echo remains persistent and pervasive, it penetrates large groups of persons. At this stage “diffused religion” appears rather under false pretencies: as a feeling, a sensation which “contaminates” both the religious and political fields. Thus re-emerges the link with processes of socialization. It remains, however, to be seen if the future generations will maintain such a religious form which becomes more and more socially diluted to the extent of losing all influence on politics” (Cipriani 1984: 32-3). Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa. Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra – come risulta da un’indagine svolta a Rona tra il 1994 ed il 1995 (Cipriani 1997) -. Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei principii laici ma vagamente ispirati od ispirabili a modelli ortoreligiosi. Sembra dunque che la religione diffusa sia destinata a restare inerte in balia di altre confessioni. Ma il suo richiamo maggiore è nei confronti della socializzazione pregressa.  


                Una decina di anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa religione diffusa. In effetti “even for someone who has always kept his sociological interest in current events alive, it is not easy to disentangle the guiding threads of the social, political, and religious dynamics which have characterized Italy in the last two decades. The fact is that one finds oneself in the present situation almost naturally, as though it had been expected, without even letting questions, doubts, or scientific curiosity about what has been happening to more than 50 million citizens, from the mid-1960s to the treshold of the 1990s, break the surface” (Cipriani 1989: 24). Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti della religione diffusa anche l’approccio sociologico si modifica, mette a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scava più a fondo nella realtà e cerca verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.


                A dire il vero fino a quel momento, alla fine degli anni ’80, non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative sul piano statistico in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori (Cipriani 1992) alla grande indagine nazionale su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), a quella recentissima a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism, ancora in via di pubblicazione.


                Soprattutto nel corso di quest’ultimo decennio si è constatato che le relazioni fra chiesa cattolica e stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova della capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane. Una volta regolate – in forma solenne il 18 febbraio 1984 e poi con una legge il 20 maggio 1985 – le questioni maggiori sul piano diplomatico, mediante il rinnovo del Concordato del 1929 fra stato italiano e gerarchia vaticana, la cosiddetta “questione cattolica” sembra aver perduto mordente ed interesse. Anche il movimento definito come contestazione cattolica ha da tempo tirato i remi in barca e sembra ridursi ora a qualche sporadico tentativo di dissenso rispetto all’establishment, a meno che l’occasione dell’Anno Santo del 2000 non offra nuove occasioni di ripresa in chiave critica, prendendo spunto dagli eventi giubilari.


                In qualche misura proprio la religione diffusa rappresenta anche una sorta di sostituto funzionale della divergenza dalla struttura ecclesiastica. Tale differenziazione si manifesta attraverso altri modi di credere e praticare, anche se la base di fondo rimane cattolica grazie alla socializzazione primaria nelle fasi iniziali dell’esistenza. Va perciò ribadito che “ “diffused religion” refers to the characteristic conduct of believers who have received at least a Catholic education and who relate to it in a general sense. In fact, it refers to citizens who appear to be less than completely obedient to the directives of the Catholic hierarchy but who, on the other hand, refuse to reject completely certain basic principles which form part of the set of values promoted by Catholicism” (Cipriani 1989: 28).   


                Il nucleo essenziale della religione diffusa è rinvenibile proprio in questo insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’ agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo, non interviene direttamente ma in modo mediato, cioè grazie alla sua precedente azione socializzatrice. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento. Appunto questo consente una collaborazione fra stato italiano e chiesa cattolica senza grandi turbative e con un’intesa anche formale e legittimata che dura ormai da più di settanta anni.


                Come sottolineano Calvaruso ed Abbruzzese (1985: 79), “diffused religiosity then becomes the dominant religious dimension for all those who, immersed in the secular reality of contemporary society, though not mananging to accept these dimensions of the sacred cosmos which are more remote and provocative compared with the rational vision of the world, do not thereby abandon their need for meaningfullness. In the immanent dimension of individual everyday existence, diffused religiosity, rather than bearing witness to the presence of a process of laicization in a religiously oriented society, seems to enhance the permanence of the sacred in the secularized society”. Dunque la religione diffusa appare come un antidoto al processo di secolarizzazione, di cui però è in pari tempo un’espressione significativa come presa di distanza dalla religione di chiesa. Infatti “diffused religiosity is located in an intermediate area between a secular society in crisis and a resumption of the ecclesiastical  administration of the sacred. It remains too “lay” to accept the more specific elements of church doctrine and too much in need of meaning to survive in an epoch which is “without God and without prophets”” (Calvaruso e Abbruzzese 1985: 80).


                In particolare “the variables in “diffused religion” are, by contrast, more changeable according to the syntheses which it produces from time to time. They are achieved on levels determined by the dialectic between the basic values of primary and secondary legitimation and the “different” ones which appear on the horizon in the long confrontation with other ideological perspectives. The “new” value is internalized but almost never taken up in a wholly pure form or according to a formula that could totally replace the previous perspective. The new way of seeing reality, the different Weltanschauung, is, however, the result of the collision-encounter between what already exists and what is still in the process of becoming” (Cipriani 1989: 29).


                Dunque la religione diffusa è di per sé abbastanza dinamica nei suoi sviluppi nonostante la costante del quadro principale di riferimento. Tuttavia “diffused religion lachs the kind of clear-cut characteristics which would be visible in, for example, church attendance, but it works through long-range conditioning, which is due, above all, to mass religious socialization, and to which there is a corresponding kind of “mass loyalty” of a new type” (Cipriani 1989: 46). Però è possibile mediante alcuni indicatori valoriali scoprire questi legami tra il sociale ed il religioso, tra l’implementazione nel quotidiano ed il contesto di provenienza.


Un esempio peculiare è fornito da “a piece of empirical research conducted in Sicily by means of questionnairing a group of people selected by statistical sampling. The results were compiled from the completed questionnaires of 719 subjects, and the objective was to illuminate the concept of “diffused religion” as observed in the presence of common social values which tend to unify behaviour and attitude deriving from both the religious and lay perspectives. Cluster analysis was used to identify six different groupings: religious (church) acritical; religious (church) critical; religious (diverging from the church) critical; religious (diffused) as a condition; religious (critical and distancing self from the church); and not religious. The starting point for the research is the hypothesis that Catholicism (as the dominant religion) pervades many sectors of social life and maintains its influence over common values, despite the effect of increased distance between people and institutionalized religion. This appears to refute the theory of secularization” (Cipriani 1993: 91).


                Ed ecco i dati generali dell’indagine (Cipriani 1992):


                Religious (church) acritical                                               101 (14,0%)


                Religious (church) critical                                                 261 (36,3%)


                Religious (diverging from the church) critical                     79 (11,0%)


                Religious (diffused) as a condition                                     190 (26,4%)


                Religious (distancing self from church) critical                     47 (  6,5%)


                Non religious                                                                        41 (  5,8%)


                TOTAL                                                                                719 (100%)


                Sulla base di questi risultati abbiamo sostenuto che la religione dei valori abbraccia le categorie centrali della tabella presentata sopra. In particolare l’ambito ascrivibile alla religione dei valori andrebbe dalla categoria definita come religious (church) critical a quella indicata come religious (distancing self from church) critical, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Risulterebbe così ben più ampio il quadro della religiosità non istituzionale, fondata su valori condivisi e rappresentati essenzialmente dalle scelte operate (fino ad un massimo di quattro risposte) dagli intervistati in termini di principi-guida della loro vita, a partire dall’educazione ricevuta fino all’età di diciotto anni:


                Valori particolaristici


                               Attaccamento alla famiglia                                450 (62,6%)


                               Amore per i figli                                                  232 (32,3%)


                               Buon uso del denaro                                           69 (  9,6%)


                               Fare da soli                                                            66 (  9,2%)


                               Guadagnare molto                                                32 (  4,5%)


                Valori universalistici


                               Onestà, serietà                                                    532 (74,0%)


                               Fede in Dio                                                          386 (53,7%)


                               Rispetto degli altri                                              213 (29,6%)


                               Aver la coscienza a posto                                 131 (18,2%)


                               Attaccamento al lavoro                                     120 (16,7%)


                               Amicizia, solidarietà                                           105 (14,6%)


                               Accontentarsi del poco                                       99 (13,8%)


                               Generosità, carità                                                  96 (13,4%)


                Come è facile desumere dalle percentuali fatte segnare dai diversi elementi valoriali è plausibile sostenere che non solo siamo di fronte ad una vera e propria religione dei valori, cioè basata su valori largamente condivisi – perché diffusi grazie alla socializzazione soprattutto primaria e poi secondaria -, ma gli stessi valori possono essere considerati di per se stessi quasi una sorta di religione con venature laiche, profane, secolari. In definitiva, come si cercherà di sostenere in seguito, si è passati da una religione di chiesa dominante ad una religione diffusa maggioritaria e quindi ad una religione articolata attraverso valori: la conclusione è che la religione può essere definita una modalità di trasmissione e diffusione dei valori, anzi che essa svolge peculiarmente tale compito funzionale e lo svolge in modo efficace.


Si risolve così anche la diatriba fra definizioni sostantive e definizioni funzionali: in chiave sostantiva gli elementi costituenti di una religione sono i valori che essa insegna e propala, mentre in chiave funzionale il compito della religione – specialmente quando essa appare come prevalente in un dato quadro storico-geografico – è quello di offrire punti nevralgici di aggancio per la vita comunitaria, per l’agire sociale, per le scelte “razionali” da compiere sulla scorta di linee-guida acquisite e da porre in essere nella vita quotidiana e nelle scelte esistenziali fondamentali. 


Contenuti e funzione della religione


                La nostra lettura della situazione italiana è applicabile in buona misura a quelle realtà sociali in cui una specifica confessione religiosa è cospicuamente presente ed attiva sul territorio, in posizione egemone. “In fact, religion, which never really stopped playing its part in society, has reappeared beneath the surface of secularization. Even if we admit that there has been a significant occlusion, this has only involved secondary, external and formal aspects, especially at the level of ritual. The decline in participation at official, preordained services has not thus meant the end of every resort to the sacred. The trajectory of religiosity is not set towards definitive extinction. Simultaneously, secular impulses seem also to have exhausted their impetus. Their efficacy now affects only  the less fundamental aspects of belief, which tends to remain in essence more or less stable. Between religiosity and secularization there seems to reign almost a tacit compromise. They are reinforced and weaken virtually in unison. Aspects steeped in religion continue (or return) to manifest themselves in secular reality, whilst in the reality of the church and of religious culture we see a progressive surrender to demands that are less orthodox from the viewpoint of the official model” (Cipriani 1994: 277).


                Emblematico è il caso di Roma, chiamata città sacra per eccellenza eppure fortemente secolarizzata. La capitale mondiale del cattolicesimo, luogo di convergenza universale per milioni di pellegrini in occasione del giubileo del 2000, presenta livelli piuttosto bassi di pratica religiosa: quella dichiarata come regolare, cioè una volta per settimana, è del 23,3% (Cipriani 1997) mentre il 22,1% non va mai a messa; ma è consistente il tasso di coloro che pregano, in quanto si tratta del 71,5% degli intervistati, i quali si dedicano alla preghiera magari anche solo qualche volta in un anno (14,9%) o ben più spesso, come fa il 32%, cioè una o più volte ogni giorno. Dunque si registra nel contempo uno scarso attaccamento alla pratica ma altresì un ampio interesse per la preghiera. Ciò significa che la ritualità non è tutto nella religione e che anzi il legame più frequente con la divinità passa attraverso l’orazione, cioè un colloquio diretto, come a livello interpersonale. Si potrebbe a tal proposito sostenere che mentre la pratica della messa festiva è più legata ad una religione di chiesa quella del ricorso alla preghiera ha un carattere forse più spontaneo, libero, sottratto al controllo sociale, ma comunque indicatore, rivelatore di una credenza, di un legame, di una sensibilità a livello religioso. In pratica, se Roma non è certo una città di tanti praticanti non lo è neppure di molti atei, agnostici o indifferenti sul piano religioso (va tuttavia tenuto presente che il 21,3% dei soggetti intervistati – il tasso più alto in assoluto di tutto il paese – non mostra alcun segnale di religiosità). La capitale italiana presenta, accentuate, alcune caratteristiche rilevate nel campione nazionale della ricerca svolta nel 1994-95 sulla religiosità in Italia: per esempio, in un anno appena il 7,6% ha partecipato a pellegrinaggi ed il 13,6% ha fatto o soddisfatto un voto. In definitiva la religiosità dei romani è bifronte: per un verso si mostra come pervasa da una crisi drammatica, per un altro appare anche piuttosto vitale (sebbene a debita distanza dalle consuetudini della chiesa ufficiale). Il futuro religioso della città eterna sembra destinato a procedere lungo queste due direttrici divergenti ma anche tendenzialmente parallele.


                Lo stesso può dirsi in linea di massima per l’Italia, sia pure con qualche differenza sostanziale. “A double religion is the result: a majority and a minority religion, explicable also in terms of the historic presence of the Catholic Church in Italy in the past century and especially since the Second World War. The Italian minority religion is for those who identify with the church quite closely and also involve themselves significantly in religious practices. The majority religion, on the contrary, lacks there characteristics” (Cipriani: 1994: 281). Tale religione di maggioranza si innerva nella coscienza individuale guidata dalla legge di Dio secondo il 40,4% degli intervistati su un campione ponderato di 4500 individui (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 180), nella sola coscienza individuale per il 36% dell’universo campionato ed esclusivamente nella legge di Dio per il 22,1%. Sul piano dei valori vissuti con soddisfazione si trova al primo posto la famiglia su cui contare (nel 73% del campione), seguita dal lavorare con onestà ed impegno (secondo il 68% degli intervistati), dall’avere amici (per il 38% degli interrogati in proposito), dall’avere un buon rapporto affettivo (nel 35% dei casi), dall’essere sicuri del posto di lavoro (a detta del 34% dell’universo d’indagine). Più contenuti appaiono il dedicarsi agli altri (25%) e l’impegnarsi per modificare la società (22%).


                Il quadro complessivo che ne risulta è variegato ma consolida l’immagine di una religiosità diffusa ma frattalica, frastagliata, con profili eterogenei. Secondo gli esiti della cluster analysis sarebbero classificabili come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.


                Nel dettaglio l’articolazione della religiosità italiana mostra la seguente tipologia:


                1) Religione di chiesa orientata (eterodiretta)                                 9,4%


                2) Religione di chiesa riflessiva (autodiretta)                                   22,6%


                               Totale della religione di chiesa (1+2)                         32,0%


                3) Religione modale (diffusa) primaria                                            16,5%


                4) Religione modale (diffusa) intermedia                                        21,6%


                5) Religione modale (diffusa) perimetrale                                       21,0%


                                Totale della religione modale o diffusa (3+4+5)      59,1%


                               Totale della religione continua (1+2+3+4+5)         91,1%


                6) Non religione                                                                            8,9%


                               Totale generale (1+2+3+4+5+6)                            100,0%


                Come si vede dalla consistenza percentuale delle sei classi attitudinali e comportamentali, la religione in senso lato (sia di chiesa che modale o diffusa) è largamente preponderante ed è ovviamente quasi tutta di matrice cattolica. Percentualmente è minoritaria la religione di chiesa e maggioritaria quella diffusa (chiamata modale perché statisticamente è in pratica la moda, cioè il carattere al quale corrisponde la massima frequenza). Ma tra minoranza e maggioranza non c’è frattura, anzi spesso è difficile stabilire il discrimine fra l’una e l’altra, in particolare poi fra religione di chiesa riflessiva (più autonoma, più individualizzata, meno propensa ad accogliere le direttive del magistero ufficiale ecclesiastico) e religione modale o diffusa primaria (più diversificata rispetto all’appartenenza di chiesa). Infatti religione di chiesa e religione modale o diffusa sono in stretta relazione fra loro, anzi la seconda scaturisce dalla prima, per cui si può parlare di una vera e propria religione continua che concerne il 91,1% degli intervistati, senza soluzioni, senza interruzioni del discorso religioso e dei suoi contenuti, specialmente in campo valoriale. 


                Ancora più convincente, se possibile, è quanto emerge dalla più recente (marzo-aprile 1999) indagine internazionale comparata fra Europa e Stati Uniti su “Religious and moral pluralism”, che in Italia ha visto impegnate le università di Torino, Padova, Trieste, Bologna e Roma. Il campionamento italiano è stato messo a punto dalla Doxa ed ha riguardato 2149 interviste (1032 maschi e 1117 femmine, a partire dai diciottenni ed oltre), realizzate in 742 casi in comuni capoluoghi ed in 1407 in centri non capoluoghi.


                Il 97,5% si è dichiarato cattolico; il 31,2% si e detto molto vicino alla chiesa; il 45,5% si è proclamato vicino ad essa. Il 51,1% ha ricordato che all’età di dodici anni andava in chiesa almeno una volta per settimana, ma c’è pure il 21,7% che ha parlato di più di una volta per settimana ed il 6,7% di una partecipazione quotidiana alle funzioni religiose.


                Conferme significative sul gradimento della religione provengono dalla valutazione se essa sia più o meno importante rispetto a venti anni prima: il 29,6% ha sostenuto che essa è ugualmente importante, il 22,2% che lo sia un po’ di più, mentre il 12,8% ha ritenuto che lo sia molto di più.


                Quanto poi al rapporto fra educazione e religione, è dato per scontato un nesso assai stretto soprattutto se si tien conto che il 35,9% degli intervistati appare molto influenzato dall’educazione ricevuta.


                Va poi considerato che ben l’81,2% dell’universo indagato ha ammesso esplicitamente di appartenere ad una chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa.


                Infine l’86,4% ha detto di dedicarsi alla preghiera, sia pure con diversificazioni sia quantitative (una o più volte) che temporali (ogni giorno o durante l’anno). 


                In definitiva sembrano abbastanza provate due caratteristiche:


1)       i contenuti essenziali della religione sono i valori, ancor più dei riti e delle credenze;


2)       la funzione della religione risulta essere proprio la diffusione dei valori.


Pertanto la religione può essere intesa sostanzialmente come agente diffusore di valori.


Conclusione


                 Il concetto di religione diffusa in oltre un quindicennio è stato più volte adoperato per sperimentarne l’efficacia euristica. A partire da un’originaria applicabilità al caso italiano si è passato anche a proporlo in altri contesti in cui fossero caratteristiche la centralità e la numerosità di una specifica confessione religiosa. I risultati probanti non mancano. Ma forse l’esito più significativo è la verifica della centralità dei valori come base portante di ogni espressione religiosa. Al di là della partecipazione socializzante e consolatoria alle cerimonie e della credenza-fiducia in qualcosa che, in termini sociologici, sfugge ad ogni analisi empirica, sono forse i valori a fungere da chiave di volta dell’impianto religioso.


Aveva dunque ragione il filosofo italiano Giambattista Vico (1983: 600) quando circa tre secoli fa scriveva che “religions are the only means by which men can understand virtuous behavior and practice it”.


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