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Qualche risposta a “Studies on the Sociology of Religion: Review Essays on Roberto Cipriani, The Sociology of Religion: An Historical Introduction”

Roberto Cipriani

Tre recensioni in contemporanea per un solo libro sono già un buon risultato di cui essere grati agli Editors ed agli Advisory Editors dell’International Journal of Politics, Culture and Society, che nel volume 15, numero 4, estate 2002, ha dedicato un insieme di 33 pagine (591-623) all’analisi del mio volume The Sociology of Religion: An Historical Introduction (Aldine de Gruyter, New York, 2000, pp. 278).

Si deve essere grati per almeno quattro motivi: innanzitutto si tratta di una rivista non specialistica per le tematiche di sociologia della religione e che dunque ha dovuto sottrarre spazio ad altri argomenti più specifici nell’ambito di “politics, culture and society”; in secondo luogo la scelta editoriale ha inteso favorire l’attenzione ad un contributo di un autore non statunitense; inoltre ben due Advisory Editors (Peter Kivisto e Donald A. Nielsen) si sono cimentati nella discussione sul mio libro avviata da un autore ospite (Anthony J. Blasi); infine tutti i recensori sono competenti e abbastanza noti per i loro interessi in campo socio-religioso.

Di solito la tipologia di quanti recensiscono un libro contempla varie modalità di approccio: vi è chi si limita ad una descrizione puntuale dei contenuti; vi è poi chi parla piuttosto dei suoi punti di vista (e della sua bibliografia) che non del tema affrontato nel testo recensito; altri colgono l’occasione per muovere critiche a tutto spiano, anche su dettagli minimi, obliterando il discorso sostanziale del saggio in esame; qualche altro trova invece spunti stimolanti ed aggiunge osservazioni pertinenti e costruttive, tese a migliorare il livello della comunicazione scientifica all’interno della comunità degli studiosi; altri infine non leggono l’intero volume ma appena qualche pagina, magari su un aspetto che conoscono meglio, e sulla base di una lettura piuttosto parziale giudicano tutta l’opera.

Non sta a me stabilire se ed in che misura questi cinque modelli siano stati seguiti anche nel caso della triplice recensione di The Sociology of Religion: An Historical Introduction. Ognuno rileggendo gli scritti di Blasi (2002), Kivisto (2002) e Nielsen (2002) potrà verificare se la suddetta tipologia si attagli o meno anche al nostro caso. A me corre invece l’obbligo di fornire una risposta, che spero sia soddisfacente, ai quesiti sollevati, alle riserve avanzate, a qualche rimprovero più o meno larvato.

Innanzitutto devo dire che il mio lavoro è stato preso molto sul serio, così com’è anche avvenuto per opera di William A. Mirola (2002) nella rivista Sociology of Religion (vol. 63 – no.1 – Spring 2002) che in realtà è stata più lusinghiera, salvo qualche rilievo secondario.

Ovviamente non intendo soffermarmi sugli apprezzamenti positivi, che non mancano. Preferisco replicare sugli aspetti più problematici, per ragioni legate alla necessità di un dibattito scientifico aperto e franco e per un certo piacere che si può provare in una disputa appassionata a livello intellettuale.

Per poter meglio seguire l’andamento della querelle, procedo in modo ordinato e seguendo la successione delle pagine dedicatemi da Blasi prima, Kivisto poi e Nielsen infine.


A proposito delle osservazioni di Anthony J. Blasi

Anthony J. Blasi (2002: 591-602) ha due obiezioni di fondo da muovere: la prima concerne il criterio di raggruppamento degli autori in un medesimo capitolo e la seconda è relativa all’assenza di alcune protagoniste femminili del panorama sociologico attento ai fatti religiosi.

Sul mettere insieme degli autori in un’ipotetica linea di continuità, affinità e convergenza molto ed a lungo si potrebbe discutere. Qualcuno dei colleghi da me interpellati a livello internazionale ancor prima della pubblicazione del testo mi aveva suggerito qualche spostamento significativo dall’uno all’altro capitolo. In alcuni casi ho raccolto l’input, in altri ho trovato arduo accogliere la proposta. Ad esempio uno studioso francese trovava strano che Mauss precedesse Durkheim. Ed aveva certamente buone ragioni (fra l’altro, Mauss è morto nel 1950 e Durkheim già nel 1917). Ma in verità non ho mancato di sottolineare il legame fra i due sociologi francesi, ancor prima di parlare diffusamente di Durkheim. Infatti dei legami, soprattutto scientifici, fra i due (nipote e zio) già è detto a più riprese (Cipriani 2000: 56 e 59) nel capitolo dedicato a Mauss, proprio appena prima di dedicare un’ampia trattazione a Durkheim. Ma a me premeva in primo luogo sottolineare il nesso fra l’antropologia culturale ed il pensiero maussiano. Altrimenti come capire la rivisitazione di Lévi-Strauss (Cipriani 1988) del concetto maussiano di dono?

Come accettare poi la proposta di Blasi di spostare ancora nell’ordine di presentazione autori come Lévy-Bruhl e Evans-Pritchard? L’uno attraversa due secoli (nasce nel 1857, ma le sue opere più importanti vengono pubblicate fra il 1910 ed il 1938), l’altro vive anch’egli a lungo ma le sue opere maggiori risalgono al decennio 1956-1965. Dunque entrambi sono da considerare autori contemporanei a pieno titolo. Lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per van der Leeuw, il cui testo principale è del 1933. Al limite ed a rigore di successione cronologica dei testi più significativi, Lévy-Bruhl avrebbe dovuto essere collocato insieme con Troeltsch ed Otto, ma non certo addirittura molto prima. E Evans-Pritchard avrebbe potuto essere collocato solo dopo Eliade e de Martino. Quanto a van der Leeuw, avrebbe potuto al massimo precedere questi ultimi due, ma il suo approccio è troppo particolare per poter essere accomunato a loro.

Non mi è poi chiaro quel che Blasi dice quando scrive che “De Martino was a critic of Eliade who provided historicist accounts for the emergence of magic in southern Italy” (Blasi 2002: 596). Semmai fu de Martino a far questo. E poi Blasi fraintende il pensiero di de Martino affermando che “he saw institutional religion as an attempt to de-historicize the threats that magic would otherwise address” (Blasi 2002: 596). In verità non è la religione istituzionale che destoricizza il negativo, quanto piuttosto la stessa cultura e religiosità popolare che attribuiscono a forze metafisiche l’origine ineluttabile di ogni male. E comunque de Martino non fu mai un fenomenologo, come lascia capire Blasi accomunandolo per questo ad Otto ed Eliade, la cui propensione fenomenologica è tutta da dimostrare.

Per ritornare, tuttavia, alla discussione iniziale posso concordare sul fatto che certamente ogni accorpamento ha una sua dose di arbitrarietà. Ma quando degli autori sono contemporanei fra loro come stabilire chi debba precedere e chi debba seguire? Si deve tenere conto solo della cronobiografia di ciascuno o magari della sola differenza di qualche settimana fra i giorni di nascita?

Ogni storico della sociologia della religione potrebbe stabilire una sua organizzazione dello sviluppo della disciplina per parti e capitoli, trovando difficilmente l’accordo di tutti sulle sue scelte. L’importante è che comunque le opzioni non siano del tutto arbitrarie ma dovute ad intenzioni esplicite, ragionevoli e fondate.

Riconosco che in qualche caso l’agglomerazione degli autori è un po’ forzata, come giustamente rileva Blasi per il capitolo “socioanthropological perspectives” (Cipriani 2000: 153-163) ma il fattore che accomuna gli autori trattati non è solo la lingua inglese bensì anche il loro essere degli studiosi contemporanei, a metà strada tra l’antropologia, la psicologia e la sociologia e per di più viventi (con la sola eccezione di Herberg, che comunque occupa il paragrafo iniziale).

Invero il testo in lingua inglese è un po’ diverso dall’originale in lingua italiana, soprattutto nei titoli dei capitoli. Questi ultimi sono stati decisi non dall’autore ma dalla redazione editoriale della Aldine de Gruyter di New York, probabilmente per rendere il tutto più funzionale al mercato statunitense in particolare ed anglofono in generale. Non è la prima volta che ciò avviene. Persino Thomas Luckmann (1967) non è mai riuscito ad imporre alla sua casa editrice il titolo originale in tedesco (Luckmann 1963) che suonava ben diversamente da quello che è poi divenuto celebre in lingua inglese come Invisible religion.

Quanto alla scarsa presenza di sociologhe c’è da dire che non si tratta di omissioni volute. In primo luogo va notato che in sociologia come in altre scienze il contributo delle donne non è ancora maggioritario, per ragioni storico-culturali d’ordine generale. Ma non è questa l’unica motivazione. Nonostante le numerose letture (di riviste e volumi) e le costanti frequentazioni (anche più volte ogni anno) del contesto nordamericano non sarebbe stato facile stabilire delle priorità fra le diverse possibili “candidature” suggerite dai recensori o proponibili da me stesso in aggiunta. Quindi ho preferito non avventurarmi su un terreno che non conoscevo a sufficienza. Peraltro negli stessi manuali di sociologia della religione in circolazione negli Stati Uniti non mi pare che la sociologia femminile della religione riceva un trattamento decisamente migliore.

Blasi sostiene che io abbia ignorato qualche contestualizzazione storica già tentata in alcune pubblicazioni soprattutto degli anni più recenti, dal 1997 al 2000, in relazione alle attività della Society for the Scientific Study of Religion, della Société Internationale de Sociologie des Religions ed altre ancora. È da notare che la stesura del mio libro risale al 1995. La traduzione apparsa negli Stati Uniti nel 2000 è tratta direttamente dall’edizione italiana del 1997. Dunque va tenuto presente che non si poteva prendere in considerazione nel 1995 quel che ancora non era stato pubblicato.

Un rilievo ricorrente in Blasi ed in altri recensori – anche in Europa (Ferrarotti 1998: 171) – concerne la mancata contestualizzazione storica di alcune mie affermazioni e lo scarso approfondimento di alcuni dettagli presentati “cryptically” (Blasi 2002: 594). Il fatto è che ognuno degli autori presentati meriterebbe di per sé un’intero volume se non anche di più. Non è possibile dire tutto, spiegare tutto, motivare tutto. Occorre procedere per sintesi, anche in vista dell’uso didattico del libro, così come programmato sin dall’inizio della sua impostazione. Certo sarebbe anche stato necessario far capire che cosa intendessero per scienza gli studiosi dell’Ottocento e molte altre cose ancora. Anche a fronte di un’opera a carattere enciclopedico si potrà sempre obiettare che mancano degli elementi essenziali, delle informazioni basilari, delle specificazioni fondamentali.

Blasi ha ragione invece nell’obiettare che poco si parla delle religioni universali di Weber, in particolare di quelle indiane e cinesi. Vorrei però osservare che proprio in questi due ambiti il contributo di Weber mi pare più debole, anche per una conoscenza troppo indiretta di tali fenomenologie. Ed anzi persino il riferimento al buddismo è indebito nei titoli stessi della sua opera, perché solo poche righe sono dedicate alla complessa realtà buddista e non appaiono certo fra le più convincenti. Forse più convincenti sono le osservazioni sul giudaismo antico.

Ha ancora ragione Blasi nel rimarcare che in bibliografia sono assenti le opere di Simmel: indubbiamente è una svista editoriale, dato che nella mia curatela italiana dei suoi saggi (Simmel 1993) e nell’edizione italiana del mio testo (Cipriani 1997: 309) erano ben presenti almeno i riferimenti bibliografici alle edizioni originali di Simmel in tedesco. Purtroppo il mio volume in italiano era già pubblicato quando ho ricevuto in anteprima dal curatore stesso la bella versione inglese (Simmel 1997), uscita nel stesso anno 1997 e che ben conosco, anche per la preziosa aggiunta di un ulteriore saggio rispetto all’edizione tedesca, pure curata da Helle nel 1989; di questo itinerario dei saggi simmeliani sulla religione ero ben consapevole, non solo per la conoscenza e l’amicizia personale con Helle ma anche per aver curato io stesso l’edizione italiana dei Gesammelte Schriften zur Religionssoziologie nel 1993. Ma non si può certo sostenere che Simmel sia più un filosofo che un sociologo: centinaia di scritti suoi e su di lui stanno a dimostrare proprio il contrario. E sono fortemente convinto che Simmel sia un sociologo della religione, anzi un classico, certo sui generis ma pur sempre un gigante sulle cui spalle noi ci poggiamo (basti pensare alla sua memorabile distinzione fra religiosità e religione, per non dire della sua peculiare, ineguagliabile conoscenza dell’arte religiosa come forma straordinaria di comunicazione socialmente significativa). E da ultimo vorrei anche ricordare che Simmel concepiva esplicitamente la sua opera come un contributo alla sociologia della religione e che come tale essa era accettata anche in una prestigiosa rivista sociologica degli inizi del secolo scorso (Simmel 1905).

La riserva relativa a Simmel si allarga di fatto anche a James e Freud. A me pare che questo tipo di chiusura all’interdisciplinarietà neghi la possibilità di un confronto fra approcci diversi ma su tematiche comuni. Del resto sia per James che per Freud il nucleo essenziale del discorso resta la religione: per il primo è emblematica e fertile sul piano scientifico la dicotomia fra religione individuale e religione istituzionale, per il secondo è proprio nella religione la radice di molte psicopatologie.

Sul rapporto fra Parsons e Sorokin viene osservato da Blasi che manca “a comparison of their respective functionalist systems” (Blasi 2002: 596). Ma questo sarebbe oggetto di un’opera di sociologia generale o di teoria sociologica comparata. E comunque non è un caso che il mio capitolo su Sorokin inizi significativamente con una citazione di Parsons sul modello sorokiniano (Cipriani 2000: 120).

Non aver citato gli allievi di Parsons non è poi una semplice dimenticanza: è l’impossibilità di farlo perché la schiera è troppo grande e prenderebbe pagine e pagine (da Merton a Luhmann e non solo da Joseph P. Fitzpatrick a Joseph H. Fichter). Anzi colgo l’occasione per rispondere ad una simile critica mossami, a proposito dei seguaci di Weber, da José Casanova (altro Advisory Editor dell’International Journal of Politics, Culture and Society) in occasione della presentazione del mio libro al meeting annuale dell’Association for the Sociology of Religion (Anaheim, agosto 2001). Come rendere conto di ciò che Max Weber ha rappresentato e tuttora rappresenta per l’intera sociologia mondiale? La lista di quanti sono stati influenzati dal sociologo dell’Etica protestante rischia di confondersi con un indirizzario sociologico. In realtà nell’edizione italiana vi era stato un primo tentativo sommario che per Durkheim contemplava un elenco di quarantaquattro nomi (Cipriani 1997: 83), mentre per Weber (Cipriani 1997: 97) si era preferita una formula generica con una polarizzazione attorno a quindici nomi. Solo questi ultimi sono rimasti nell’edizione statunitense (Cipriani 2000: 76) più che altro a titolo esemplificativo. Sono stati invece quasi del tutto eliminati i nomi degli studiosi influenzati da Durkheim, ridotti a soli nove autori nel Synoptic outline. Qualche collega che aveva letto le bozze italiane del mio testo era stato piuttosto critico sulla presenza di una sfilza di nomi che nella misura in cui erano troppi nulla aggiungevano e poco facevano capire della capacità di influenza di un autore, specialmente se è un classico.

Capisco la difficoltà di uso di un testo complesso come The Sociology of Religion: An Historical Introduction, ma l’aggiunta di ulteriori elementi di rimando avrebbe ancor più appesantito il testo. Ecco perché in molti casi ho cercato di fornire sintesi, più che resoconti dettagliati. Perciò quando dico che Houtart è stato un missionario (Cipriani 2000: 151) lascio intendere che ha svolto un’azione di proselitismo, diretta soprattutto nei paesi del terzo mondo, appunto dove solitamente si recano i missionari.

A proposito di Bryan Wilson, il sociologo-recensore di Nashville trova che avrei trascurato l’opera sui movimenti religiosi innovativi contro il colonialismo. Non so a quale libro Blasi si voglia riferire e comunque non mi pare che esso abbia avuto mai una qualche particolare risonanza scientifica.

Così come non mi pare siano da rilevare come fattori decisivi, ai fini dell’approccio sociologico alla religione, l’esperienza politica ed il carisma intellettuale di Franco Ferrarotti in Italia.

I miei colleghi italiani Macioti e Tomasi, ma anche altri, non sono inseriti nel novero degli autori esaminati perché deliberatamente, come enunciato esplicitamente nell’edizione italiana (Cipriani 1997: 287-288), ho lasciato ad ulteriori, futuri approcci un esame ad hoc, che non fosse condizionato da un mio coinvolgimento troppo soggettivo e basato sull’andamento dei miei rapporti interpersonali con ciascun collega.

Italiani a parte, è evidente che la lista degli esclusi potrebbe continuare ancora a lungo, sia per uomini che per donne. Ma ripeto, ancora una volta, che il mio obiettivo non era una sorta di enciclopedia. E del resto, se anche l’avessi compilata, indubbiamente ci sarebbe sempre stato qualcuno a lamentare non solo le assenze di Richardson e Robbins, Bastide e Métraux, Paul Douglas e Fichter ma pure di tantissimi altri.

Quanto ai nomi al femminile indicati da Blasi, io stesso ne avre altri da aggiungere: Helen Rose Ebaugh, Grace Davie, Nancy Ammerman, Barbara Hargrove e non solo.

Sulle proposte relative a Jane Harrison ed Elizabeth Nottingham confesso di non aver trovato sinora molte tracce della loro peculiare influenza.

Sono d’accordo che una maggiore contestualizzazione avrebbe giovato al testo, piuttosto centrato sulle opere degli autori e persino troppo sintetico sulle biografie dei singoli studiosi. Una trattazione più dettagliata avrebbe però nuociuto all’economia complessiva del testo, già di per sé abbastanza articolato. Ed in proposito l’esempio di Lambert, Michelat e Pierre (1997), citato da Blasi (2002: 600), è giunto solo qualche anno dopo il compimento del mio excursus

Da ultimo voglio ringraziare Anthony Blasi per il suo cortese sollecito a proseguire la storia appena cominciata.


In merito alle critiche di Peter Kivisto

Dei tre recensori il più agguerrito è segnatamente Peter Kivisto (2002: 603-611), che partendo dalla sua vasta ed articolata conoscenza della bio-bibliografia di Max Weber prepara un vero e colpo di teatro per giungere a scoprire una menda nella presentazione da me curata del pensiero weberiano.

Dunque io ho scritto che Weber partecipò nel 1893 al “first Parliament of the World’s Religions” (Cipriani 2000: 82). Ebbene ammetto subito che questo è stato un mio errore, ma spiego anche in quali circostanze esso è nato. Giusto nel 1993, a cento anni dal celebre incontro di Chicago, organizzai a Roma un convegno internazionale a carattere interdisciplinare e multitematico (ovvero con un approccio attento alle religioni universali, weberiane e non). Ebbene in quella occasione uno dei relatori principali, che comunque continuo a stimare, esordì nel suo paper con una “rivelazione”: esattamente cento anni prima il grande Max Weber aveva partecipato ad una convention simile alla nostra ma con un taglio più confessionale che scientifico. Qualche mese dopo quella affermazione pubblica mi accingevo a scrivere il capitolo del mio libro (Cipriani 2000: 82-84) cui Peter Kivisto fa riferimento. E malauguratamente tenni conto di quanto era stato detto in modo così solenne da non farmi avere alcun dubbio in proposito, tanto che non provvidi ad una verifica documentata (sapevo bene che il 1893 era l’anno delle nozze di Weber con Marianne ma supposi che la partecipazione all’incontro chicagoano potesse coincidere con una sorta di viaggio di nozze). Quando finalmente riuscii a pubblicare anche gli atti del convegno internazionale Religions sans frontières? (Cipriani 1994) mi accorsi che il collega il quale con tanto sussiego aveva proclamato la presenza di Weber a Chicago nel 1893 nulla aveva messo per iscritto a tal proposito nel suo paper pubblicato. Non diedi particolare importanza alla questione ed ora sono grato a Peter Kivisto per aver sciolto il mio dubbio (en passant, prima d’ora nessun altro collega mi aveva segnalato l’errore). Dunque tengo conto della precisazione per le prossime edizioni del testo (in cinese, spagnolo e francese). E tuttavia non posso non sottolineare che si tratta di un particolare minore, che a mio modesto avviso non inficia la sostanza della mia illustrazione dell’opera weberiana. In fondo de minimis non curat praetor (gli aspetti minori non decidono del giudizio globale).

Ma Kivisto non è d’accordo neanche sull’impostazione complessiva del libro. Mi pare di capire che egli avrebbe preferito, com’è d’uso nella letteratura statunitense di testi introduttivi alla sociologia della religione, un’organizzazione per argomenti più che per singoli autori. Non contesto questa preferenza, ma trovo, per esperienza didattica e scientifica, che in tal modo l’apporto del singolo studioso venga a perdersi, diventando irriconoscibile o quasi nella miriade di riferimenti, rinvii, comparazioni. In pratica secondo me è più utile capire che cosa ha veramente detto Durkheim sulla magia nell’ambito del suo pensiero complessivo invece di collocarlo insieme con molti altri (Malinowski, Mauss, Frazer, ecc.) sotto la medesima rubrica del magico. Insomma da specialista di studi biografici ed autobiografici sono troppo convinto dell’unitarietà (e/o contraddittorietà) del pensare individuale da svilirlo in pezzi e residui sparsi su diversi fronti. In ogni caso la contestualizzazione corre il rischio di una collocazione forzata di autori ed opere entro correnti non sempre ben delineabili e delineate, per non dire poi di certi percorsi tortuosi che vedono questo o quell’autore trasmigrare da un fronte all’altro, da una prospettiva teorico-metodologica ad una diversa. Tanto vale avere almeno un quadro, un profilo preciso del singolo studioso e della sua produzione.

Un altro punto di discussione è la doppia entrata di influenze ricevute e di influenze esercitate da ogni autore. Ribadisco ancora che soprattutto dei grandi nomi ogni esercizio di elencazione a monte ed a valle risulterà piuttosto precario e parziale. Così è di Tocqueville, ma anche di Marx. Se per caso poi provo a fare almeno un esempio dell’influenza di Marx e cito il ruolo esercitato da Otto Maduro (con la sua produzione in lingua spagnola, ben nota in America Latina e non lontana da legami con la Teologia della Liberazione) subito mi si rimprovera di aver dimenticato Desroche e magari anche Bauman, aggiungo io stesso. Insomma nel gioco di “chi c’è e chi non c’è” si sono sbizzarriti in molti e per secoli, fosse a proposito di un libro o di un convegno, di una ricerca o di un dizionario, di una rivista o di un riconoscimento pubblico. Insomma il fatto che nel “Synoptic outline” su Comte (come su altri ancora) non risulti alcun nome di autore che lo influenza o che è stato da lui influenzato non significa affatto che manchino del tutto degli inputs e degli outputs. Per dirla in termini più espliciti e spero definitivi: non è immaginabile che io pensi avere un Gabriel Le Bras influenzato quattro sociologi e che invece Weber sia rimasto un illustre sconosciuto, senza seguito e senza riprese del suo pensiero. Non credo peraltro che un qualsisasi studente universitario non colga da solo quale e quanto peso abbia avuto ed abbia ancora il sociologo di Heidelberg per la nostra disciplina.

Coglie nel segno Kivisto quando vede nella mia presentazione degli autori una propensione alla descrizione più che alla valutazione critica. Ritengo in effetti che il mio testo abbia un carattere introduttivo, conoscitivo a livello iniziale di primo approccio. Per la parte critica ci sono ben altre sedi nelle quali ho avuto modo di sottoporre Bellah e Luckmann, Acquaviva e Martin ed altri ancora a rilievi di dissenso, che tuttavia in modo soft non mancano neppure in The Sociology of Religion: An Historical Introduction.

Un cenno a parte merita la mancata inclusione di Werner Stark. Ne conosco l’opera sin dal 1967, allorquando preparavo la mia tesi di laurea in sociologia. Ed in effetti ne redassi una scheda sommaria nel volume Sociologia del fenomeno religioso (Ferrarotti, Cipriani 1974: 209). Non ho difficoltà a motivare la sua non inclusione: per il semplice fatto che la sua produzione non mi è mai parsa particolarmente significativa, il suo impact factor è del tutto trascurabile, il suo contributo teorico è poco utilizzato ma, soprattutto, la sua opera è attraversata da molte venature confessionali, dovute forse al fatto di essere Stark un convertito al cattolicesimo.

Conosco altrettanto bene i contributi di Steve Bruce (forse un po’ discontinuo, con qualche tendenza all’autoemarginazione), un po’ meno quelli di R. Stephen Warner. Mi riprometto di prenderli in maggiore considerazione al più presto.

Non condivido affatto il giudizio liquidatorio su Luhmann. Io stesso non sono mai stato simpatetico con lui, ma l’ho invitato ed incontrato più volte, ho avuto anche qualche contrasto in merito alla sua visione cibernetica della realtà umana, ma il fatto che egli non abbia avuto grande influenza nell'”English-speaking world” non fa testo. In Europa il suo pensiero, anche socio-religioso, è ben presente anche se criticato a più riprese.

Kivisto è un lettore assai attento ed acuto, giacché nota una svista editoriale a proposito proprio di Luhmann. Il sociologo dell’Augustana College dice che non riesce a comprendere l’ultima parte di una frase relativa al pensiero luhmanniano (Cipriani 2000: 228). Purtroppo mentre nella versione italiana (Cipriani 1997: 278) il riferimento è ad una lettura di Enzo Pace, nella versione inglese è stato posto un punto lì dove andavano invece due punti. Dunque il pensiero riferito non è di Luhmann ma di Pace. Del resto subito dopo ho citato un’espressione di Luhmann che contraddice in pieno il punto di vista di Pace.

In merito a Guy Swanson è necessaria qualche precisazione. Che fosse piuttosto marginale nell’accademia e nel dibattito mi è stato riferito da qualche collega statunitense. Qualcuno ha anche aggiunto, a mo’ di prova, che al funerale di Swanson c’era poca gente (ovviamente ho dato scarso peso a tale informazione: Mozart docet; se dovessimo misurare la sua fama dal numero dei partecipanti alle sue esequie ci sbaglieremmo di molto). Ed invece ho voluto appositamente recuperare il suo contributo e la sua originalità scientifica. Quanto alla preziosa “voce” di Lechner su Swanson (1998: 503) ricordo una volta di più che non ne potevo tenere conto in quanto la mia stesura risale al 1995.

Un’ultima osservazione, di cui ringrazio Kivisto, riguarda il titolo “the universe of religions” (Cipriani 2000: 84). So bene che più accuratamente occorreva dire religioni universali. Invece il titolo dato non corrisponde ai contenuti reali.

Rivendico tuttavia la legittimità di proporre agli studiosi ed agli studenti di sociologia della religione una visione meno arroccata disciplinarmente. Sono profondamente convinto che James non è tout court un sociologo della religione, come non lo è Freud e neppure questo o quell’esponente della Scuola di Francoforte. Ma la mia lettura della realtà sociale mi porta ad aprire e non a chiudere le porte del confronto fra discipline e correnti scientifiche. Questo non solo dico ma anche faccio. Non a caso ho curato in Italia, nella collana di sociologia della religione che co-dirigo per la casa editrice Borla, la traduzione dei saggi di Simmel sulla religione (Simmel 1993) e, in un altro volume, quelli dei francofortesi (Cipriani 1986); inoltre sto seguendo con particolare interesse una ripresa degli studi su William James (Costa 2002), non a caso tradotto in Italia sin dal 1904, cioè appena due anni dopo l’edizione statunitense di Varieties of Religious Experience, la cui nuova edizione italiana (James 1998) è stata voluta dal sociologo Carlo Prandi per la collana di “Scienze delle religioni” da lui co-diretta.

Un’ultima riflessione: il mio tentativo di gettare un ponte fra le due sponde scientifiche dell’Atlantico può essere ed è di fatto ancora incerto e bisognoso di ulteriori, decisivi apporti. Spero che questo dibattito avvii una migliore conoscenza reciproca a tutto vantaggio dell’intera comunità scientifica, senza ricorrere a marchi e stigmi dall’una o dall’altra parte.


Sui rilievi di Donald A. Nielsen

Obiettivo principale di Donald A. Nielsen (2002: 613-623) sembra quello di mettere in campo una sociologa della religione ante litteram, Jane Ellen Harrison, autrice di un saggio sulla religione greca agli inizi del ‘900 (Harrison 1903) cui seguirono altri studi sulle origini sociali di quella religione nonché sull’arte ed il rituale e, in chiave più strettamente sociologica, uno breve scritto di tre pagine come recensione delle Forme elementari della vita religiosa di Emile Durkheim. Se si eccettua qualche pubblicazione piuttosto specialistica, non trovo molte tracce di questa studiosa, che manca tra gli autori da me analizzati. Sarà pure una mia lacuna ma evidentemente sono in buona compagnia se anche in altre sedi Donald A. Nielsen non fa che insistere sulla necessità di recuperare la memoria di Jane Ellen Harrison. Faccio ammenda ed anche in questo caso sono grato per la segnalazione, che mi consente di conoscere qualcosa di nuovo.

Se però l’invito di Nielsen è stato circostanziato e preciso sulla studiosa a lui cara quando però egli lascia intendere che varrebbe la pena di presentare anche gli studiosi non occidentali non fa alcun nome e resta dunque nel generico (Nielsen 2002: 615). Da parte mia sarei ben lieto di andare oltre le due sponde dell’Atlantico ma per il momento le informazioni a mia disposizione sono insufficienti, rese difficili da ottenere anche per ragioni di barriere linguistiche. D’altro canto agli inizi del terzo millennio forse le tecnologie telematiche abbatteranno ancor più le distanze e ci consentiranno di interloquire direttamente e più spesso con Asia, Africa ed America Latina, meglio di quanto abbiano potuto fare in modo approssimativo nel passato autori quali Durkheim e Weber, mai recatisi né in Australia né in altre zone dell’oriente.

Per quanto concerne invece la presenza femminile, da me limitata a sole quattro studiose (Douglas, Hervieu-Léger, Voyé, Barker), mi domando se abbia una particolare rilevanza scientifica il fatto che nessuna di esse sia una sociologa del feminist camp (Nielsen 2002: 616). Ma poi che cosa vuol dire in ambito sociologico evidenziare l’appartenenza ad uno schieramento di militanza sociale, di genere per di più? Del resto se avessi avuto la possibilità di conoscere meglio la produzione di alcune sociologhe del feminist camp avrei ben potuto discernere fra dato plausibile e carica ideologica. E tuttavia lo schieramento socio-politico di genere non mi avrebbe certo impedito di discutere l’opera e l’apporto di studiose militanti.

Lo stesso discorso può valere per la richiesta che viene da Nielsen (2002: 617-618) di volgere l’attenzione a Jane Ellen Harrison. Vorrei però sommessamente notare che neppure in trattazioni a carattere enciclopedico sulle scienze della religione, pubblicate proprio negli Stati Uniti, compare la sociologa classica della religione rievocata ed invocata da Nielsen. Anche in questo caso – lo ripeto – farò il possibile per ampliare le mie conoscenze, evidentemente ancora limitate.

Sono molto d’accordo, comunque, con Nielsen (2002: 619), quando egli rileva che Durkheim usa di fatto sia una definzione sostanziale sia un approccio funzionale alla religione. Infatti lo dico anch’io in modo molto esplicito (Cipriani 2000: 3): “Durkheim also seems to conceive of a possibly more functional sort of religion”. E, guarda caso, Nielsen cita in proposito la medesima pagina di Durkheim (1995: 44) alla quale io stesso già rinviavo!

Probabilmente con David A. Nielsen sono molto più in sintonia di quanto appaia dalla sua recensione, che peraltro non presenta in cauda venenum, il veleno alla fine, ma anzi coglie nel segno, comprendendo in pieno il significato del mio lavoro ed aprendo ulteriori prospettive, per le quali ringrazio molto cordialmente lui come pure, a diverso titolo, Blasi e Kivisto.


*Department of Sciences of Education, Rome Three University, via Castro Pretorio 20, 00185 Roma, Italy. E-mail: rciprian@uniroma3.it


REFERENCES

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DALLA RELIGIONE DIFFUSA ALLA RELIGIONE COME DIFFUSIONE DI VALORI: IL CASO ITALIA

Premessa

Si discute spesso sulle possibili definizioni della religione: in linea di massima si distingue fra un approccio sostantivo ed un approccio funzionale. Sarebbe sostantivo quello di Durkheim (1912) che parla di “credenze e pratiche” come base costitutiva della “comunità morale” detta “chiesa”, sarebbe funzionale quello di Luckmann (1967) che si riferisce agli “universi simbolici” come “sistemi di significato socialmente oggettivati”, attraverso “processi sociali” – considerati “fondamentalmente religiosi” – “che conducono alla formazione dell’Io” ed alla “trascendenza della natura biologica”.

Ma a ben scavare nei testi durkheimiani ed in quelli luckmanniani ci si accorge che Durkheim è anche attento alla funzione (la religione serve per la solidarietà) e che Luckmann non bada solo alla funzione (la religione è una concezione del mondo costituita da contenuti specifici).

Dunque già coloro che vengono citati come campioni esemplari dell’una o dell’altra prospettiva definitoria in realtà poi risultano più possibilisti, aperti verso soluzioni meno rigide, polivalenti. Insomma contenuti e funzioni non sono separabili ed anzi vanno considerati come un unicum, il che consente l’implementazione di percorsi analitici ed interpretativi ben più complessi ed articolati.

Si potrebbe partire, per esempio, dall’idea che il riferimento metaempirico nell’attribuzione di significato all’esistenza umana sia un carattere peculiare della religione, ma in pari tempo è opportuno lasciare un varco aperto anche a soluzioni che non contemplino un esplicito rinvio alla dimensione della non verificabilità empirica e della impraticabilità dell’esperienza diretta. Insomma il riferimento metaempirico avrebbe solo un carattere meramente orientativo, “sensibilizzante” per dirla con Blumer (1954). “In tal modo non si ha un contrasto fra livello trascendente e livello reale. In sostanza è come se da due diversi punti di vista si guardasse ad un medesimo oggetto: l’innervamento di una presenza non umana nella realtà ed il radicamento di un significato esplicativo all’interno della stessa realtà. L’una delle due visioni non esclude l’altra, non vi si oppone, anzi vi può essere talora una convergenza che approdi al medesimo risultato: la comprensione-spiegazione della vita in chiave religiosa” (Cipriani 1997: 15).


Dalla religione diffusa alla religione dei valori

Indubbiamente la presenza di valori è una costante sia delle religioni storiche, più radicate a livello culturale, sia dei nuovi movimenti religiosi, ancora in fase di crescita ed assestamento. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.

Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.

Detto altrimenti, ogni celebrazione di un rito svolge funzioni molteplici, ma soprattutto mette a fuoco l’insieme di valori che una certa religione promuove e diffonde attraverso i suoi membri, i quali più partecipano più si convincono della loro scelta come giusta.

Quest’ultimo effetto è di tale pregnanza che permane, seppur indebolito, anche in assenza di una successiva, ulteriore partecipazione continua. Dunque l’esperienza della pratica (e della credenza) religiosa induce di per sé un habitus ideale e valoriale che tende a persistere ben al di là di una religiosità visibile. Infatti anche chi non è più praticante e magari è anche sempre meno credente conserva una sorta di imprinting, non facilmente cancellabile, che lo vede come membro disaffezionato ma con legami ancora significativi con l’ex gruppo di riferimento.

Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (eesenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei peer groups). La lezione berger-luckmanniana (1966) in proposito rimane magistrale: in effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.

Ora però, invece di differenziare al massimo fra una religiosità tradizionale, legata alle strutture di chiesa ed abbastanza visibile nelle sue forme, da una parte ed una religiosità più individualizzata, privatizzata e dunque meno visibile, dall’altra, può essere più opportuno giocare su una disarticolazione interna alla fenomenologia religiosa in chiave di dinamiche più stratificate, dalle sfaccettature molteplici. In pratica non è detto che vi siano solo una religione di chiesa ed una religione invisibile alla Luckmann (1967), è ipotizzabile piuttosto un’altra soluzione che preveda categorie intermedie più o meno vicine ai due poli definiti in termini di visibilità/invisibilità.

Una prima interpretazione post-luckmanniana venne formulata nel 1983 ed applicata alla situazione italiana in occasione della Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione, tenutasi al Bedford College di Londra (Cipriani 1984: 32).

Il punto di partenza era rappresentato dall’influenza della religione cattolica sulla politica in Italia. Si trattava di un indicatore casuale ma rivelatosi assai illuminante in seguito, anche perché sempre più è stato possibile verificare che una simile influenza riguardava e riguarda ambiti ben più ampi della politica. Anzi, oggi dopo quasi un ventennio è dato constatare che il peso della religione si è ridotto nei riguardi delle decisioni di natura partitica e governativa ma è rimasto piuttosto saldo nei confronti della società in genere. Nel contempo si è attenuato lo spirito antistituzionale, visto che la chiesa cattolica è l’istituzione meno osteggiata dai cittadini italiani, che peraltro le assegnano quote non trascurabili delle loro tasse (il cosiddetto “otto per mille”).

Venuta meno l’incidenza preponderante del cattolicesimo ufficiale non si sono sostituite ad esso altre confessioni religiose. Semmai solo l’ebraismo è riuscito in qualche occasione particolare ad ottenere rispetto per le proprie scadenze festive e per le proprie consuetudini. Del tutto trascurabile appare la capacità degli islamici, dei “Testimoni di Geova” e di altri di farsi ascoltare a livello politico.

Invece è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, dopo essere partiti dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, siamo poi approdati ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.

Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa nostra convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis). Peraltro la sua diversificazione rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico. Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali. In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how abbastanza efficace. Di tale efficacia la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche. Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.

Anche la religione diffusa rischia di essere classificata come una “religione invisibile” sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una “semiappartenenza” o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi).

Si potrebbe persino parlare di religione diffusa come effetto perverso del sistema religioso dominante, che genera dunque ciò che è altro da sé, sebbene in continuità con se stesso. La maggiore libertà nel porsi al di fuori della chiesa consente spazi di azione altrimenti impediti. Insomma non vi è né netta opposizione ma neppure una netta adesione della religione diffusa alla religione di chiesa.

Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa. Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra – come risulta da un’indagine svolta a Rona tra il 1994 ed il 1995 (Cipriani 1997) -. Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei principii laici però vagamente ispirati od ispirabili a modelli ortoreligiosi. Sembra dunque che la religione diffusa sia destinata a restare inerte in balia di altre confessioni. Ma il suo richiamo maggiore è nei confronti della socializzazione pregressa.

Una decina di anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa religione diffusa (Cipriani 1989: 24). Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti della religione diffusa anche l’approccio sociologico si modifica, mette a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scava più a fondo nella realtà e cerca verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.

A dire il vero fino a quel momento, alla fine degli anni ’80, non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative sul piano statistico in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori (Cipriani 1992) alla grande indagine nazionale su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), a quella recentissima a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism, ancora in via di pubblicazione.

Soprattutto nel corso di quest’ultimo decennio si è constatato che le relazioni fra chiesa cattolica e stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova della capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane. Una volta regolate – in forma solenne il 18 febbraio 1984 e poi con una legge il 20 maggio 1985 – le questioni maggiori sul piano diplomatico, mediante il rinnovo del Concordato del 1929 fra stato italiano e gerarchia vaticana, la cosiddetta “questione cattolica” sembra aver perduto mordente ed interesse. Anche il movimento definito come contestazione cattolica ha da tempo tirato i remi in barca e sembra ridursi ora a qualche sporadico tentativo di dissenso rispetto all’establishment, a meno che l’occasione dell’Anno Santo del 2000 non offra nuove occasioni di ripresa in chiave critica, prendendo spunto dagli eventi giubilari.

In qualche misura proprio la religione diffusa rappresenta anche una sorta di sostituto funzionale della divergenza dalla struttura ecclesiastica. Tale differenziazione si manifesta attraverso altri modi di credere e praticare, sebbene la base di fondo rimanga cattolica grazie alla socializzazione primaria.

Il nucleo essenziale della religione diffusa è rinvenibile proprio in questo insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo, non interviene direttamente ma in modo mediato, cioè grazie alla sua precedente azione socializzatrice. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento. Appunto questo consente una collaborazione fra stato italiano e chiesa cattolica senza grandi turbative e con un’intesa anche formale e legittimata che dura ormai da più di settanta anni.

Come sottolineano Calvaruso ed Abbruzzese (1985: 79), la religione diffusa appare come un antidoto al processo di secolarizzazione, di cui però è in pari tempo un’espressione significativa come presa di distanza dalla religione di chiesa (Calvaruso e Abbruzzese 1985: 80). Un esempio peculiare è fornito pure dai dati generali di un’indagine socio-religiosa condotta nella Sicilia centrale (Cipriani 1992):


Religione di chiesa acritica 101 (14,0%)

Religione di chiesa critica 261 (36,3%)

Religione critica come divergenza 79 (11,0%)

Religione diffusa come condizione 190 (26,4%)

Religione critica come allontanamento 47 (6,5%)

Non religione 41 (5,8%)

TOTALE 719 (100%)


Sulla base di questi risultati abbiamo sostenuto che la religione dei valori abbraccia le categorie centrali della tabella presentata sopra. In particolare l’ambito ascrivibile alla religione dei valori andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata come religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Risulterebbe così ben più ampio il quadro della religiosità non istituzionale, fondata su valori condivisi e rappresentati essenzialmente dalle scelte operate (fino ad un massimo di quattro risposte) dagli intervistati in termini di principi-guida della loro vita, a partire dall’educazione ricevuta fino all’età di diciotto anni:


Valori particolaristici

Attaccamento alla famiglia 450 (62,6%)

Amore per i figli 232 (32,3%)

Buon uso del denaro 69 ( 9,6%)

Fare da soli 66 (9,2%)

Guadagnare molto 32 (4,5%)


Valori universalistici

Onestà, serietà 532 (74,0%)

Fede in Dio 386 (53,7%)

Rispetto degli altri 213 (29,6%)

Aver la coscienza a posto 131 (18,2%)

Attaccamento al lavoro 120 (16,7%)

Amicizia, solidarietà 105 (14,6%)

Accontentarsi del poco 99 (13,8%)

Generosità, carità 96 (13,4%)


Come è facile desumere dalle percentuali fatte segnare dai diversi elementi valoriali è plausibile sostenere che non solo siamo di fronte ad una vera e propria religione dei valori, cioè basata su valori largamente condivisi – perché diffusi grazie alla socializzazione soprattutto primaria e poi secondaria -, ma gli stessi valori possono essere considerati di per se stessi quasi una sorta di religione con venature laiche, profane, secolari. In definitiva, come si cercherà di sostenere in seguito, si è passati da una religione di chiesa dominante ad una religione diffusa maggioritaria e quindi ad una religione articolata attraverso valori: la conclusione è che la religione può essere definita una modalità di trasmissione e diffusione dei valori, anzi che essa svolge peculiarmente tale compito funzionale e lo svolge in modo efficace.

Si risolve così anche la diatriba fra definizioni sostantive e definizioni funzionali: in chiave sostantiva gli elementi costituenti di una religione sono i valori che essa insegna e propala, mentre in chiave funzionale il compito della religione – specialmente quando essa appare come prevalente in un dato quadro storico-geografico – è quello di offrire punti nevralgici di aggancio per la vita comunitaria, per l’agire sociale, per le scelte “razionali” da compiere sulla scorta di linee-guida acquisite e da porre in essere nella vita quotidiana e nelle scelte esistenziali fondamentali.


Il caso di Roma

Emblematico è il caso di Roma, chiamata città sacra per eccellenza eppure fortemente secolarizzata. La capitale mondiale del cattolicesimo, luogo di convergenza universale per milioni di pellegrini in occasione del giubileo del 2000, presenta livelli piuttosto bassi di pratica religiosa: quella dichiarata come regolare, cioè una volta per settimana, è del 23,3% (Cipriani 1997) mentre il 22,1% non va mai a messa; ma è consistente il tasso di coloro che pregano, in quanto si tratta del 71,5% degli intervistati, i quali si dedicano alla preghiera magari anche solo qualche volta in un anno (14,9%) o ben più spesso, come fa il 32%, cioè una o più volte ogni giorno. Dunque si registra nel contempo uno scarso attaccamento alla pratica ma altresì un ampio interesse per la preghiera. Ciò significa che la ritualità non è tutto nella religione e che anzi il legame più frequente con la divinità passa attraverso l’orazione, cioè un colloquio diretto, come a livello interpersonale. Si potrebbe a tal proposito sostenere che mentre la pratica della messa festiva è più legata ad una religione di chiesa quella del ricorso alla preghiera ha un carattere forse più spontaneo, libero, sottratto al controllo sociale, ma comunque indicatore, rivelatore di una credenza, di un legame, di una sensibilità a livello religioso. In pratica, se Roma non è certo una città di tanti praticanti non lo è neppure di molti atei, agnostici o indifferenti sul piano religioso (va tuttavia tenuto presente che il 21,3% dei soggetti intervistati – il tasso più alto in assoluto di tutto il paese – non mostra alcun segnale di religiosità). La capitale italiana presenta, accentuate, alcune caratteristiche rilevate nel campione nazionale della ricerca svolta nel 1994-95 sulla religiosità in Italia: per esempio, in un anno appena il 7,6% ha partecipato a pellegrinaggi ed il 13,6% ha fatto o soddisfatto un voto. In definitiva la religiosità dei romani è bifronte: per un verso si mostra come pervasa da una crisi drammatica, per un altro appare anche piuttosto vitale (sebbene a debita distanza dalle consuetudini della chiesa ufficiale). Il futuro religioso della città eterna sembra destinato a procedere lungo queste due direttrici divergenti ma anche tendenzialmente parallele.

Lo stesso può dirsi in linea di massima per l’Italia, sia pure con qualche differenza sostanziale: la religione di maggioranza si innerva nella coscienza individuale guidata dalla legge di Dio secondo il 40,4% degli intervistati su un campione ponderato di 4500 individui (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 180), nella sola coscienza individuale per il 36% dell’universo campionato ed esclusivamente nella legge di Dio per il 22,1%. Sul piano dei valori vissuti con soddisfazione si trova al primo posto la famiglia su cui contare (nel 73% del campione), seguita dal lavorare con onestà ed impegno (secondo il 68% degli intervistati), dall’avere amici (per il 38% degli interrogati in proposito), dall’avere un buon rapporto affettivo (nel 35% dei casi), dall’essere sicuri del posto di lavoro (a detta del 34% dell’universo d’indagine). Più contenuti appaiono il dedicarsi agli altri (25%) e l’impegnarsi per modificare la società (22%).

Il quadro complessivo che ne risulta è variegato ma consolida l’immagine di una religiosità diffusa nonostante sia frattalica, frastagliata, con profili eterogenei. Secondo gli esiti della cluster analysis sarebbero classificabili come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.

Nel dettaglio l’articolazione della religiosità italiana mostra la seguente tipologia:



1) Religione di chiesa orientata (eterodiretta) 9,4%

2) Religione di chiesa riflessiva (autodiretta) 22,6%

Totale della religione di chiesa (1+2) 32,0%



3) Religione modale (diffusa) primaria 16,5%

4) Religione modale (diffusa) intermedia 21,6%

5) Religione modale (diffusa) perimetrale 21,0%

Totale della religione modale

o diffusa (3+4+5) 59,1%

Totale della religione continua

(1+2+3+4+5) 91,1%


6) Non religione 8,9%

Totale generale (1+2+3+4+5+6) 100,0%


Come si vede dalla consistenza percentuale delle sei classi attitudinali e comportamentali, la religione in senso lato (sia di chiesa che modale o diffusa) è largamente preponderante ed è ovviamente quasi tutta di matrice cattolica. Percentualmente è minoritaria la religione di chiesa e maggioritaria quella diffusa (chiamata modale perché statisticamente è in pratica la moda, cioè il carattere al quale corrisponde la massima frequenza). Ma tra minoranza e maggioranza non c’è frattura, anzi spesso è difficile stabilire il discrimine fra l’una e l’altra, in particolare poi fra religione di chiesa riflessiva (più autonoma, più individualizzata, meno propensa ad accogliere le direttive del magistero ufficiale ecclesiastico) e religione modale o diffusa primaria (più diversificata rispetto all’appartenenza di chiesa). Infatti religione di chiesa e religione modale o diffusa sono in stretta relazione fra loro, anzi la seconda scaturisce dalla prima, per cui si può parlare di una vera e propria religione continua che concerne il 91,1% degli intervistati, senza soluzioni, senza interruzioni del discorso religioso e dei suoi contenuti, specialmente in campo valoriale.

Ancora più convincente, se possibile, è quanto emerge dalla più recente (marzo-aprile 1999) indagine internazionale comparata fra Europa e Stati Uniti su “Religious and moral pluralism”, che in Italia ha visto impegnate le università di Torino, Padova, Trieste, Bologna e Roma. Il campionamento italiano è stato messo a punto dalla Doxa ed ha riguardato 2149 interviste (1032 maschi e 1117 femmine, a partire dai diciottenni ed oltre), realizzate per 742 casi in comuni capoluoghi e per altri 1407 in centri non capoluoghi.

Il 97,5% si è dichiarato cattolico; il 31,2% si è detto molto vicino alla chiesa; il 45,5% si è proclamato vicino ad essa. Il 51,1% ha ricordato che all’età di dodici anni andava in chiesa almeno una volta per settimana, ma c’è pure il 21,7% che ha parlato di più di una volta per settimana ed il 6,7% di una partecipazione quotidiana alle funzioni religiose.

Conferme significative sul gradimento della religione provengono dalla valutazione se essa sia più o meno importante rispetto a venti anni prima: il 29,6% ha sostenuto che essa è ugualmente importante, il 22,2% che lo è un po’ di più, mentre il 12,8% ha ritenuto che lo è molto di più.

Quanto poi al rapporto fra educazione e religione, è dato per scontato un nesso assai stretto soprattutto se si tien conto che il 35,9% degli intervistati appare molto influenzato dall’educazione ricevuta.

Va poi considerato che ben l’81,2% dell’universo indagato ha ammesso esplicitamente di appartenere ad una chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa.

Infine l’86,4% ha detto di dedicarsi alla preghiera, sia pure con diversificazioni sia quantitative (una o più volte) che temporali (ogni giorno o durante l’anno).

In definitiva sembrano abbastanza provate due caratteristiche:

1) i contenuti essenziali della religione sono i valori, ancor più dei riti e delle credenze;

2) la funzione della religione risulta essere proprio la diffusione dei valori.

Pertanto la religione può essere intesa sostanzialmente come agente diffusore di valori.


Conclusione

Il concetto di religione diffusa in oltre un quindicennio è stato più volte adoperato per sperimentarne l’efficacia euristica. A partire da un’originaria applicabilità al caso italiano si è passato anche a proporlo in altri contesti in cui fossero caratteristiche la centralità e la numerosità di una specifica confessione religiosa. I risultati probanti non mancano. Ma forse l’esito più significativo è la verifica della centralità dei valori come base portante di ogni espressione religiosa. Al di là della partecipazione socializzante e consolatoria alle cerimonie e della credenza-fiducia in qualcosa che, in termini sociologici, sfugge ad ogni analisi empirica, sono forse i valori a fungere da chiave di volta dell’impianto religioso.

Aveva dunque ragione il filosofo italiano Giambattista Vico (1983: 600) quando circa tre secoli fa scriveva: “le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente muovono gli uomini ad operarle”.




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Credere nei nuovi movimenti religiosi?

Il fatto nuovo di questa fine di millennio non è certo il timore di tipo apocalittico relativo alla fine del mondo ma più semplicemente la diffusione di movimenti e culti religiosi mai affacciatisi in precedenza né in Italia né in Europa.

Come si sa, la paura del nuovo si lega alla difficoltà di riuscire a trattare con ciò che non è abituale e non rientra nei nostri schemi soliti. Di fronte ad una situazione inusitata il nostro bagaglio di esperienze non ci ha ancora abituati a rispondere in modo consono ed efficace. Tutto ciò che non appartiene alla nostra cultura ed alla nostra prospettiva ideologica, culturale e religiosa ci incute un senso di insicurezza, che sfocia in atteggiamenti e comportamenti di rifiuto (se non di aggressione) nei confronti dell’altro, del diverso, dell’estraneo, dello straniero.

Cullati come siamo dalla tranquillità del “pensare come il solito” e dell’agire di conseguenza, tendiamo a respingere qualsiasi ipotesi di epoché, di sospensione del nostro giudizio in attesa di una conoscenza più approfondita. E dunque torna più comodo evitare ogni travaglio ed ogni problematicità, preferendo ricorrere ai luoghi comuni, al sentito dire, ad informazioni sommarie e superficiali. In campo religioso, poi, l’informazione frettolosa e “sparata” – modalità tipica della nostra contemporaneità – appare sin troppo corriva con le nostre attese di fondo e con i pregiudizi più ricorrenti.

Anche un sociologo diligente ed imparziale può lasciarsi andare a sottovalutazioni, momentaneamente gratificanti ma alla lunga fallaci e fuorvianti se non proprio mistificanti. Proprio questo è avvenuto in occasione della comparsa – all’orizzonte dapprima e poi sul nostro stesso territorio – di nuove fenomenologie religiose e parareligiose così numerose e diversificate che qualsiasi tentativo di elencazione e catalogazione rischia di restare partigiano, disomogeneo, comunque ben al di sotto della realtà empiricamente verificabile.

I motivi dell’attuale attenzione rivolta ai nuovi movimenti religiosi (d’ora in poi: NMR) sono assai diversi. Qualcuno è partito da posizioni di avversità totale per poi approdare ad una straordinaria dimestichezza in termini di esperienza ed informazione: è il caso del torinese Massimo Introvigne, fondatore – insieme con l’arcivescovo di Foggia e Bovino, monsignor Giuseppe Casale – del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni) di Torino. Qualche altro ha intrapreso lo studio dei NMR creandosi un suo terreno di competenza specifica in campo sociologico: così è per Maria Immacolata Macioti, docente di Istituzioni di Sociologia nonché di Sociologia della Religione nell’Università di Roma “La Sapienza”. Altri ancora si sono mossi e/o sono stati mossi da un’ottica forse pastorale e scientifica al medesimo tempo: a tal proposito può valere l’esempio di don Luigi Berzano, parroco piemontese e docente di Sociologia della Religione nell’Università di Torino.

Va poi segnalato che, oltre il CESNUR, opera un altro organismo con dichiarati intenti difensivi secondo la prospettiva del cattolicesimo; si tratta del Gruppo di Ricerca e di Informazione sulle Sette (G.R.I.S.), con sede a Bologna, dove viene pubblicata una rivista, Sette e Religioni, trimestrale, che al suo esordio, nel gennaio del 1991, ha presentato un editoriale del cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale “il cristiano è oggi stretto come da un duplice assedio: da un alto un laicismo aggressivo che penetra efficacemente nelle strutture costruite dagli uomini e tenta di creare una cultura dell’oblio di Dio; dall’altro le sètte e i movimenti religiosi alternativi che offrono risposte facili e comode a un bisogno di religiosità “usa e getta”, in perfetta sintonia con il consumismo del nostro tempo”.

Non è facile, quindi, in questo proliferare di iniziative di studio e ricerca trovare il giusto equilibrio del distacco scientifico dall’universo studiato e dell’atteggiamento neutrale a livello ideologico. Il che costa fatica e richiede una vigilanza costante. I cedimenti sono possibili. I giudizi di valore, manifesti o latenti, sono sempre in agguato.

Tuttavia occorre riconoscere che a differenza del passato vi è oggi una tendenza più protesa verso la conoscenza scientifica che non verso una lotta di natura religiosa. Basti pensare all’iperproduttività di Massimo Introvigne, certamente fra i massimi esperti a livello mondiale nel campo dei NMR. Non solo egli pubblica in proprio, come autore e curatore di opere, in Italia ed all’estero ma dirige anche una preziosa collana, “Religioni e Movimenti”, edita dalla Elle Di Ci di Leumann (Torino). A tutt’oggi (ottobre 1998) questa serie conta già tredici titoli ed annuncia altri undici testi. Dagli argomenti affrontati si ha una prima lista di nuovi movimenti religiosi (e dei singoli specialisti): Il Tempio Solare (Jean-François Mayer), La Chiesa dell’Unificazione del reverendo Moon (Massimo Introvigne), I Bambini di Dio e The Family (J. Gordon Melton), Damanhur (Luigi Berzano), Scientology (J. Gordon Melton), Soka Gakkai (Karel Dobbelaere), Christian Science (Régis Dericquebourg), il movimento di Rajneesh (Judith Coney), i raeliani (Susan Palmer), gli Hare Krishna (Eugenio Fizzotti) ed altri ancora.

Una miriade di nomi e forme caratterizza questa nuova fenomenologia di fine millennio. Non è però una novità assoluta. Anche in altre epoche storiche si sono registrate emergenze simili di gruppi, correnti, filoni, tendenze varie, con scissioni da religioni istituzionalizzate o con effervescenze del tutto autonome. Ma ciò che risulta singolare è la presenza dei NMR in aree tradizionalmente orientate verso la religione cattolica dominante.

Roma è costellata da molte di queste nuove esperienze. Torino è stata oggetto di accorta, meticolosa analisi da parte di Luigi Berzano nel suo volume Forme del pluralismo religioso (Il Segnalibro Editore, Torino, 1997, pp. 298), che individua cinquanta gruppi di origine giudaico-cristiana (fra cui si annoverano avventisti, pentecostali, valdesi, ortodossi, ebrei, testimoni di Geova ma anche la Chiesa Apostolica, la Chiesa Filadelfia, la Christian Science, i Templari e così via), quaranta formazioni di origine orientale (dall’Ananda Marga alla Sukyo Mahikari, senza trascurare islamici e Bahà’Ì, Zen e Yoga, Sai Baba e Hare Krishna), ventuno raggruppamenti innovativi occidentali (ivi compresi Scientology, Chiesa dell’Unificazione, Rosacrociani), undici gruppi della New Age (tra di essi sono elencati quelli che praticano medicine tradizionali o che si ispirano alla Fonte Acquariana oppure che pensano al Mondo delle Idee od infine che praticano la naturopatia applicata).

In questo insieme apparentemente disordinato ma abbastanza rigido nelle appartenenze interne, non è condivisibile – a nostro avviso – l’idea di un impoverimento dei culti, perché essa appare dettata in prevalenza da una visione etnocentrica, eurocentrica e cattolicocentrica. Né si può parlare di “degrado delle concezioni religiose, che da una visione generale ed impegnativa della vita divengono – o possono divenire in molti casi – facili e superficiali credenze adatte a singole e specifiche situazioni ambientali e personali”. Il successo dei NMR non è certo casuale e provvisorio.

In Italia fino a non molti anni fa non si era, invero, abituati alla presenza di movimenti e gruppi religiosi che non fossero quelli dell’area cristiana ed occidentale. Vari tentativi di proselitismo a largo raggio avevano caratterizzato e caratterizzano tuttora i testimoni di Geova e, in misura minore, i mormoni. La novità è ora costituita da proposte, formule ed esperienze che sono talmente diverse da sfuggire quasi del tutto anche ad esperti del settore religioso, se non vengono condotte indagini ad hoc volte ad accertare le modalità e la consistenza dei NMR.

Al momento non sono numerose le ricerche italiane sui NMR. Oltre quanto già citato sopra, sono da ricordare fra i primi – in ordine cronologico – gli studi di Maria I. Macioti su Teoria e tecnica della pace interiore. Saggio sulla Meditazione Trascendentale (Liguori, Napoli, 1980), la curatela – da parte della medesima autrice – del volume su I nuovi culti. Movimenti religiosi e legittimazione (Ianua, Roma, 1987), il saggio di Aldo Natale Terrin su Nuove religioni. Alla ricerca della terra promessa (Morcelliana, Brescia, 1985).

Suggestioni per approfondimenti in questi medesimi ambiti sono venute anche da studiosi stranieri, opportunamente e tempestivamente tradotti in Italia. Ci si può riferire in particolare a due autorità a livello internazionale in merito ai NMR: a James A. Beckford, curatore di Nuove forme del sacro. Movimenti religiosi e mutamento sociale (il Mulino, Bologna, 1990) ed a Eileen Barker, autrice de I nuovi movimenti religiosi. Un’introduzione pratica (Mondadori, Milano, 1992).

Pur in presenza, almeno in qualche caso, di una miriade di informazioni e di dati empirici, non è però scontato il quadro dei criteri che presiedono alla qualificazione di un movimento come religione. Emblematico è il caso di Scientology, la quale di recente è stata riconosciuta in Italia come religione che “si prefigge scopi idealistici e di natura spirituale”, così come recita ufficialmente un decreto del nostro Ministero delle Finanze.

Un riconoscimento giuridico di Scientology è in atto negli Stati Uniti ormai da tempo. Ma in Francia, Germania e Grecia il movimento dei dianetici (come vengono definiti gli scientologi) non ha ottenuto la medesima legittimazione, anzi si sono registrati atti in senso del tutto contrario.

Del resto anche in Italia la questione è stata controversa: dapprima la Corte d’Appello di Milano aveva condannato due volte alcuni membri di Scientology, poi la Cassazione aveva annullato le sentenze richiamandosi anche all’assenza di una precisa definizione giuridica di che cosa sia una confessione religiosa. La Corte Costituzionale dal canto suo è intervenuta riconoscendo la necessità di stabilire dei criteri per l’ammissibilità dello status di religione: l’esistenza di uno statuto, la communis opinio sul movimento in questione, la presenza di altre eventuali legittimazioni precedenti. Ma non è stato escluso che vi possano essere altri requisiti.

La questione non concerne solo gli aspetti relativi meramente all’ordine pubblico ed alla liceità delle azioni volte alla raccolta di aderenti ma essenzialmente la possibilità di godere della condizione di religione a tutti gli effetti e dunque di poter accedere alle agevolazioni di legge per quanto riguarda la tenuta di libri contabili vidimati e per godere della normativa sugli enti non commerciali. Quest’ultima è stata introdotta dal decreto legislativo n. 460/1997, che modifica l’articolo 111 del T. U. I. R. n. 917/1986. Si tratta di escludere il carattere commerciale delle attività rese da associazioni (fra cui quelle religiose) segnatamente nell’ambito degli scopi istituzionali e nei riguardi di membri, iscritti e partecipanti, anche dietro pagamento di corrispettivi.

Insomma ed in concreto le associazioni riconosciute come religiose o collegate specificamente ad una religione possono, per esempio, cedere a terzi le pubblicazioni date in prevalenza ai loro associati ed organizzare viaggi e soggiorni, senza che tali attività siano considerate di tipo commerciale. Inoltre “le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo”. In definitiva il riconoscimento di associazione a carattere religioso comporta notevoli vantaggi economici, evita pesanti multe per l’evasione dei tributi e previene ingiunzioni di pagamento che possano provenire da parte del Ministero delle Finanze.

Per esempio, di recente le due chiese di Scientology attive a Padova ed a Verona hanno avuto ragione nella loro vertenza con lo Stato italiano ed hanno ottenuto l’annullamento delle decisioni che imponevano loro il pagamento di sanzioni per centinaia di milioni.

D’altro canto, indubbiamente le associazioni riconosciute nell’ambito delle confessioni religiose con cui lo Stato ha stipulato patti, concordati od intese sono già agevolate ai fini degli ulteriori riconoscimenti come enti non commerciali.

La strada dei NMR è invece più irta di difficoltà, ma il caso di Scientology, come si è visto, sembra ormai avviato verso una soluzione pattizia a livello statale e tale che ne riconosca i diritti.

Risolta la questione degli scientologi, altre situazioni però stanno sorgendo e creando ulteriori dilemmi in merito alla loro plausibilità sul piano religioso. Non tutti i nuovi movimenti in atto sono credibili: questa è l’ipotesi sociologica di partenza. C’è dunque bisogno di adeguate, approfondite e rigorose ricerche che contribuiscano ad analizzare – in modo avalutativo – status e ruolo dei NMR.