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Chiesa e Stato in Italia, oggi

Abstract

A tre lustri di distanza dalla prima ed unica (almeno sinora) indagine completamente dedicata al fenomeno religioso in Italia, per di più sulla base di un campione realmente statisticamente rappresentativo dell’intero territorio nazionale, non è agevole rendere conto della situazione odierna relativa alla Chiesa cattolica in Italia. Sono molte le dinamiche sociologiche intervenute nel frattempo a livello sociale, politico, economico e culturale, nonché attitudinale e comportamentale, che andrebbero debitamente analizzate ed interpretate. I rapporti fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano registrano una fase di stallo. I proventi dell’otto per mille rappresentano un punto di discussione sia nei modi di acquisizione che nella distribuzione. Ma sullo sfondo restano i valori di riferimento degli italiani che permangono religiosamente orientati.

1. Premessa

A tre lustri di distanza dalla prima ed unica (almeno sinora) indagine completamente dedicata al fenomeno religioso in Italia, per di più sulla base di un campione realmente statisticamente rappresentativo dell’intero territorio nazionale[1], non è agevole rendere conto della situazione odierna relativa alla Chiesa cattolica nel nostro paese. Sono molte le dinamiche sociologiche intervenute nel frattempo a livello sociale, politico, economico e culturale, nonché attitudinale e comportamentale, che andrebbero debitamente analizzate ed interpretate[2].

2. Chiesa cattolica e Stato italiano

Un punto cruciale che condiziona il tipo di presenza del cattolicesimo in Italia è rappresentato dall’esistenza di un apposito accordo istituzionale, in forma codificata e legittimata, fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Ernesto Galli Della Loggia ha scritto in proposito che la storia dello Stato italiano «appare troppo inestricabilmente intrecciata alla vicenda del Cristianesimo e della Chiesa romana perché sia realmente plausibile immaginare un reciproco disinteresse, una reale indifferenza dell’una rispetto all’altra all’insegna dell’unilateralità»[3]. La formula pattizia risale all’epoca del fascismo, in data 11 febbraio 1929, ma è stata recepita anche nell’articolo 7 della costituzione italiana della repubblica, nata dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e ribadita successivamente con l’Accordo del 18 febbraio 1984, auspice il governo presieduto da Bettino Craxi. La legge 222 del 1985 veniva poi a dare un sostegno decisivo alla Chiesa cattolica attraverso la destinazione delle somme provenienti dall’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Nelle complesse vicende che hanno accompagnato il declino del socialismo craxiano prima e l’avvento di Berlusconi e di Forza Italia poi, in buona misura erede dei voti già democristiani, un peso rilevante ha avuto la presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, in particolare sotto la gestione ultraquindicennale (1991-2007) del cardinale Camillo Ruini, vicario del Papa per la diocesi di Roma. Quest’ultimo ha di volta in volta cercato ulteriori appoggi da parte del governo italiano su questioni di varia natura. Al termine del suo lungo mandato, la Segreteria di Stato del Vaticano ha voluto avocare a sé la competenza diretta per gli affari italiani, anche in forza delle normative vigenti che vedono come interlocutore la stessa Santa Sede e non certamente la conferenza nazionale dei vescovi.

Anche nella prospettiva affacciatasi più di recente, con l’ipotesi della costituzione di un centro partitico-politico di marca cattolica, l’influenza del Segretario di Stato vaticano non appare secondaria. Venuto meno, per molteplici ragioni, l’affiancamento rispetto alla coalizione governativa berlusconiana, si pensa ora a nuovi scenari, resi probabili da un prevedibile esaurirsi dell’esperienza in corso, per cui si immagina la possibilità di un recupero di un ruolo specifico dei cattolici in campo politico.

Alcuni eventi di questi ultimi tempi comproverebbero l’esistenza di operazioni tese a sganciarsi dal carro degli ex-vincitori per trovare invece nuove soluzioni di convenienza. Ma nell’incertezza del momento i passi sono cauti, prudenti, in attesa di sviluppi più chiari.

Nel frattempo alcuni intellettuali cattolici stanno promuovendo azioni di rivisitazione storica di alcuni fatti del passato: dalle crociate all’inquisizione, dalla rivoluzione francese al risorgimento italiano. L’obiettivo è una rivalutazione dell’azione della Chiesa e dei cattolici in generale, in relazione ad avvenimenti strategici nella storia dell’Italia cattolica.           

Si riapre a questo punto l’annosa diatriba sulla laicità dello Stato e della politica, già riemersa in modo diffuso in occasione del centenario della legge francese del 1905, che aveva portato a molti espropri di beni ecclesiastici ed all’abolizione di vari benefici a favore della Chiesa cattolica. Su questo tema ho già avuto modo di intervenire, per cui mi limito a ribadire una mia lettura della questione in termini sintetici: «la stessa religione fornisce strumenti analitici e definitori per distinguere sacro e secolare, anima e corpo, sentimento e ragione, spirituale e temporale, ragion per cui le soglie di laicizzazione sono facilmente rinvenibili e praticabili come punti-limite, per evitare invasioni di campo, colonizzazioni, espansioni indebite. Ma d’altro canto lo stato laico proprio perché tale non può negare diritto di cittadinanza alle varie esperienze religiose dei suoi cittadini. L’autonomia del soggetto non può non stare a cuore allo stato, chiamato invece ad allontanare quanto possa arrecare danno. Nessun rappresentante di uno stato democratico può negare ai cittadini-membri il diritto alla credenza (o alla non credenza) religiosa. Per non dire poi di quello che una o più religioni possono rappresentare per la storia di un paese come la Francia (od anche la Germania e l’Italia), in relazione alla conservazione dell’appartenenza territoriale e della memoria locale. All’orizzonte c’è una prospettiva che contempla non più la strumentalizzazione o la mera contrapposizione ma una possibile sinergia, nel rispetto reciproco, fra stato e religione/i»[4].

Posta una premessa formulata in tali termini c’è da chiedersi fino a che punto sia laica un’attività di lobby esercitata da gerarchie ecclesiastiche nei riguardi dello Stato ed in particolare del suo governo. E soprattutto vale la pena di domandarsi se le carenze delle formazioni partitico-politiche giustifichino l’intervento diretto di una Chiesa (cattolica e non) nelle questioni di gestione della struttura statale, nell’attività legislativa, nell’accesso alle risorse pubbliche. Se anche è reale l’incapacità delle culture politiche italiane di affrontare in modo adeguato la complessa e delicata querelle sull’autonomia dello Stato e su quella delle Chiese organizzate, che diritto ha una specifica struttura religiosa di occupare anche il ruolo che spetta di diritto e di fatto alla sua controparte statale?

Che la religione cattolica sia la religione diffusa per eccellenza in Italia è indubitabile[5] ma un conto è riferirsi a dei valori che orientino l’agire nella sfera pubblica un altro conto è l’iniziativa mirata su esponenti del governo, per ottenerne vantaggi normativi ed economici.     

Il discorso si allarga poi ad altri ambiti, per i quali si richiede un orientamento preciso ed operativo: dalla presenza del crocifisso nelle scuole al finanziamento delle scuole private, dal riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa al diniego dell’eutanasia, dal rifiuto dell’aborto all’opposizione nei riguardi dell’inseminazione artificiale e di altre sperimentazioni genetiche.

Il tutto peraltro è accompagnato da una scarsa dimestichezza del popolo cattolico con la teologia, con la dottrina sociale della Chiesa, con le problematiche scientifiche di maggio rilievo. Il che lascia ampio spazio all’agire dei vertici ecclesiastici che per un verso perdono consenso fra la base ecclesiale e per un altro verso cercano presso gli attori politici un credito che però di fatto viene usato strumentalmente in una sorta di scambio politico-elettorale: da una parte si chiede appoggio per mettere a segno qualche risultato legislativo o per ricevere qualche sovvenzione economica, dall’altra si domanda il favore di organizzazioni, strutture ed associazioni d’impronta cattolica in occasione di scadenze elettorali.

Sintomatico è il rapporto, per esempio, con il partito della Lega Padana, che ricorre a simbologie neo-pagane ma non disdegna la non belligeranza della Chiesa cattolica. Fra l’altro è da immaginare una certa pressione del partito padano per quanto concerne pure le nomine dei vescovi, che si auspicano ben legati al territorio, insomma padani in Padania. Esemplare è quanto sostiene Renzo Guolo, un sociologo che è un profondo conoscitore e dell’immigrazione islamica in Italia e della realtà leghista, in particolare di Treviso: «città di forte tradizione cattolica, dove la Dc aveva le stesse, altissime, percentuali di consenso  che oggi ha la Lega,la Chiesa è sempre stata vicina ai più deboli. Così è stato sul fronte degli immigrati e della libertà di culto per i musulmani. Scelte che hanno provocato a partire dalla metà degli anni novanta un duro scontro con la Lega. Uno scontro che ha visto il Carroccio contrapporsi ai cosiddetti “preti rossi”, un ossimoro politico che i leghisti hanno coniato per stigmatizzare i sacerdoti più impegnati su quel versante. Sacerdoti che sono stati difesi strenuamente dal loro vescovo; almeno sino a quando la Lega è diventata forza di governo nazionale e vi è stato un mutamento della guida episcopale. Si è giunti così a una sorta di tacito compromesso, ispirato alla realpolitik, che ha profondamente diviso il mondo cattolico locale. Un compromesso che sul piano nazionale vede la Chiesa guardare oggi al carroccio come a un partito affidabile sul piano dei “valori non negoziabili”, in particolare sul terreno della bioetica e della famiglia»[6].

Più problematico è il rapporto con il Partito Democratico (nato il 14 ottobre 2007), dal quale si sono staccati alcuni esponenti cattolici, fra cui la parlamentare Paola Binetti, ma che ha visto pure una cattolica, Rosy Bindi, alla sua presidenza. Il dialogo avviato in tempi ormai lontani fra Enrico Berlinguer, segretario dell’allora Partito Comunista Italiano, ed il vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi, non ha avuto sviluppi degni di nota. Politici cattolici hanno militato nei Democratici di Sinistra e nella Margherita (fino al 2007) ma per ragioni personali o per limitazioni poste dalle rispettive segreterie politiche non hanno avuto un impatto rimarchevole, almeno a livello diffuso. Così il dialogo fra mondo cattolico e sinistra politica è parso interrompersi. Si può dire, invero, che neppure tra i vertici vaticani ci sia stata una particolare attenzione, che invece non è mancata – sia pure a corrente alternata, per qualche intemperanza del premier Berlusconi – nei confronti di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi. Segnatamente negli ultimi anni ne è stato protagonista lo stesso cardinale Tarcisio Bertone, nella sua veste ufficiale di Segretario di Stato del Vaticano. Ma anche altri hanno dato man forte: si pensi a monsignor Rino Fisichella, dapprima rettore della Pontificia Università Lateranense e poi presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Ora con l’avvento di papa Francesco e la nomina di un nuovo Segretario di Stato qualcosa potrà cambiare ma, presumibilmente, non di molto.

3. L’adesione religiosa dell’otto per mille

L’accordo stipulato nel 1984 con lo Stato italiano ha dato adito alla Chiesa cattolica di acquisire risorse importanti, specialmente grazie alla legge successiva, promulgata nel 1985, sul cosiddetto otto per mille. Tale operazione ha dato indubbiamente linfa vitale alle strutture ecclesiastiche italiane, che se ne sono giovate ampiamente, come mostrano le cifre e segnatamente l’andamento sostanzialmente costante delle entrate a loro favore.

L’entrata in vigore della normativa approvata non è stata immediata ma ha avuto inizio nel 1990, allorquando per la prima volta si sono contate le scelte operate dai contribuenti italiani tra le opzioni possibili, che elencavano, fra l’altro, sia lo Stato che la Chiesa cattolica.

L’andamento nel corso degli anni è stato altalenante, con incrementi e decrementi di volta in volta, senza che si potesse individuare una chiara linea di tendenza a lunga gittata, ma in linea di massima si è registrata una discreta tenuta dei flussi. Però fare ora delle previsioni per quanto concerne l’immediato futuro rischia di essere fallace. Giova comunque tenere presente la dinamica del numero delle firme (o, meglio, delle quote percentuali riconosciute dallo Stato) in favore della Chiesa cattolica, di anno in anno:

Tab. 1

QUOTE COMPLESSIVE* DELL’8‰ PER LA CHIESA CATTOLICA

AnnoQuote per la Chiesa cattolica % *Differenza in aumento (+) o in diminuzione (-) rispetto all’anno precedente
199076,17=
199181,43+
199284,92+
199385,76+
199483,60
199583,68+
199682,56
199781,58
199883,30+
199986,58+
200087,17+
200187,25+
200288,83+
200389,16+
200489,81+
200589,82+
200686,05

* Va considerato che l’ammontare delle somme attribuite

deriva dalle firme effettivamente apposte ma anche dalla ridistribuzione in percentuale

della quota parte non assegnata (per mancanza di firme).

Pertanto il numero reale di firme per la Chiesa cattolica

è di fatto inferiore alle percentuali indicate in tabella.

Fonte: Elaborazione su Comunicazioni dello Stato italiano alla Conferenza Episcopale Italiana

Le opzioni in forma di firma a favore della medesima Chiesa hanno segnato un costante aumento in percentuale dal 1990 al 1993 e dal 1998 al 2005, mentre riduzioni – rispetto all’anno immediatamente precedente – si sono registrate negli anni 1994, 1996 e 1997, nonché nel 2006. Se si prescinde dalle percentuali, gli anni per così dire in sofferenza, per minori entrate, sono il 1997, il 1998, il 2000, il 2004, il 2006 ed il 2009. Riesce difficile stabilire le ragioni di tali riduzioni, legate probabilmente a fattori piuttosto contingenti (per esempio, sia durante il pontificato di Giovanni Paolo II che quello di Benedetto XVI si sono registrati talora qualche calo talora qualche incremento). Forse la differenza di risultati può derivare anche dal tipo e dal contenuto della campagna pubblicitaria effettuata a livello di mezzi di comunicazione di massa oppure da eventi internazionali, nazionali e persino locali che possono aver condizionato le scelte.   

Un dato, anche se imprecisato (non si hanno informazioni chiare e puntuali al riguardo), resta comunque certo: il numero dei contribuenti che sceglie con apposita firma l’attribuzione dell’otto per mille alla Chiesa cattolica non si attesta sulle percentuali complessive fornite ufficialmente e dallo Sato italiano e dalla Chiesa cattolica. Verosimilmente si è ben al di sotto delle percentuali che danno un tasso costantemente superiore all’80%: il numero effettivo delle firme è di qualche decina di punti percentuali in meno, comunque meno della metà (per esempio nel 2004 le dichiarazioni dei redditi sono state 40.316.692, di cui 16.290.418 ovvero il 40,40% avevano una scelta valida relativa all’otto per mille ripartita tra Chiesa Cattolica, Stato, Chiesa evangelica valdese, Unione delle comunità ebraiche italiane, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia). Insomma la Chiesa cattolica in Italia non gode di consensi straripanti, come lascerebbero invece intendere le cifre messe a disposizione ed una loro ulteriore elaborazione.

Particolarmente utile è la tabella 7.1 predisposta da Cartocci[7] sulle scelte dell’otto per mille. I dati provengono da Monsignor Mauro Rivella, sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, e si riferiscono al 2004. Un’ulteriore elaborazione della tabella offre un quadro più dettagliato sulla ripartizione delle firme, anche in termini percentuali effettivi.

Tab. 2

FIRME E SCELTE VALIDE DELL’OTTO PER MILLE NEL 2004

DestinatarioDichiarazioni I.R.PE.F. presentateFirme considerate come scelte valide% delle firme considerate come scelte valide  sul totale delle dichiarazioni presentate% delle quote assegnate sul totale dell’otto per mille
Chiesa Cattolica 14.628.79536,28,446889,8
Stato 1.254.3623,11,12517,7
Chiesa evangelica valdese 228.066  0,57,56831,4
Unione delle comunità ebraiche italiane 65.1620,16,16240,4
Chiesa evangelica luterana in Italia 48.8710,12,12170,3
Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno 32.5810,08,08120,2
Assemblee di Dio in Italia 32.5810,08,08120,2
Totale40.316.96216.290.418 (16.480.730*)40,4100,0

* comprese 190.312 scelte non valide

In conclusione la maggioranza dei contribuenti italiani non ha preso affatto in considerazione la possibilità di scelta offerta con l’otto per mille ma in pratica ha favorito sensibilmente i destinatari cui non avrebbe voluto assegnare alcuna somma: sono 23.836.232 i soggetti che non hanno fatto alcuna opzione sull’otto per mille e costituiscono più della metà (59,12%) dei dichiaranti l’imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.Pe.F.). .

Semmai è da tenere presente anche quanto ha sostenuto Giancarlo Zizola, commentando il lavoro di Cartocci: «la Chiesa che affiora da questi grafici è una grande e gloriosa istituzione fortemente stanca e assopita sulla propria potenza burocratica, ma che è coinvolta suo malgrado in un processo di mutazione storica dovuta più ancora ai cambiamenti sociologici e culturali che ai problemi interni dell’istituzione»[8].       

4. Conclusione

Sulla scorta di una pluridecennale esperienza di portata nient’affatto secondaria, è possibile tracciare qualche linea guida di analisi globale della situazione attuale della Chiesa cattolica in Italia.

Innanzitutto va detto che si tratta di una struttura primaria, a livello di radicamento sul territorio, di capacità organizzativa spesso a costo zero o quasi, di forza d’impatto nelle azioni educative, formative e socializzatrici, di ramificazione in vari campi dell’intervento sociale, di patrimonio personale, culturale e sociale, di tradizioni, norme comportamentali, valori diffusi e modelli dell’agire individuale e collettivo, di know how nella carità, nell’assistenza, nella cura, nella protezione, nonché di mobilitazione delle masse su obiettivi strategici. Tutto ciò non risulta immediatamente evidente ma alla prova dei fatti si riconoscono conseguenze ed origini.

Rispetto al passato, sono numerosi i laici (cioè i soggetti non istituzionalmente organici e schierati) in grado di dire la propria, di prendere la parola, di assumersi la responsabilità – soprattutto pubblica – su questioni delicate ed incerte.

Sempre più soggetti laici subentrano in ruoli che in passato erano esclusivi del clero. E lo fanno con competenza ed autonomia di giudizio e di azione. Hanno avuto modo di capire forme e contenuti delle attività pastorali e socio-religiose e dunque intervengono a ragion veduta, riuscendo a far giungere il messaggio religioso persino in comparti un tempo lontani e refrattari.

Si tratta di un movimento, quello laicale, ancora minoritario, marginale ed emarginato, ma si notano i prodromi di sviluppi significativi, a mano a mano che vengono occupate e mantenute le posizioni in cui si fanno le scelte decisive.     

La crisi delle vocazioni ecclesiastiche non consente al vecchio establishment di tutto preordinare, gestire, sovrintendere e condizionare. Le aree operative sono numerose e talora inarrivabili da parte dei ministri del culto cattolico che dunque si devono affidare al supporto dei laici.

Anche la preparazione teologica dei laici è in crescita. Alcuni di loro hanno metodi e strumenti tali da renderli indipendenti dal ricorso alla consulenza degli ecclesiastici ed anzi tali da metterli pure a confronto diretto, paritario, senza timori reverenziali e con ricchezza di argomenti e prove (specialmente testuali, tratte dai libri sacri). Ciò potrà produrre tra non molto una teologia cattolica laica ben più attrezzata scientificamente e più capace nella dialettica argomentativa.

La stessa crisi delle vocazioni al sacerdozio, riscontrabile non sempre e non dappertutto, non impedisce di far uso di selezioni più attente per quanto concerne i candidati all’esercizio del ministero religioso. Le sfide del mondo moderno e post-moderno richiedono qualità adeguate per affrontare temi e problemi quasi sempre ostici, difficili da capire, condizionati da approcci globali che fanno smarrire il senso dell’appartenenza ad una terra, ad un luogo, ad una collettività. In prospettiva dunque si potrebbe avere un clero meno numeroso, ma più qualificato, più abituato allo studio ed all’approfondimento.

Se la duplice sfida del laicato e del clero avrà risvolti almeno in parte positivi è immaginabile che il ruolo della Chiesa cattolica in Italia non subirà molti contraccolpi nell’immediato futuro.


Roberto Cipriani, Università Roma Tre, Dipartimento di Scienze della Formazione (insegnamento di Sociologia), via Milazzo 11b, 00185 Roma, rciprian@uniroma3.it

[1] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, Milano, Mondadori, 1995.  

[2] Un utile contributo alla comprensione di quanto è avvenuto nel corso dell’ultimo quindicennio proviene anche dalla storia delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, tracciata da Carlo Felice Casula, il quale – attraverso approfondite interviste a tre presidenti nazionali delle ACLI succedutisi nel periodo in considerazione – fa intravedere quasi in filigrana quella che è l’atmosfera sociale di una serie di anni piuttosto intensi per lo sviluppo economico e culturale del paese, in una chiave che congiunge insieme varie storie: quelle dei partiti e dei sindacati ma anche quelle delle istituzioni civili e religiose: cfr. Carlo Felice Casula, Le ACLI una bella storia italiana, Roma, Anicia, 2008.

[3] Ernesto Galli Della Loggia, Quando il papa non fu più prigioniero, «Il Corriere della Sera», 6 febbraio 2009.

[4] Roberto Cipriani, Laicità e religione nella sfera pubblica, «Rivista lasalliana», 77, 1, gennaio-marzo, 2010, pp. 439-463, in particolare pp. 24-25.

[5] Cfr. Roberto Cipriani, La religione diffusa. Teoria e prassi, Roma, Borla, 1988.

[6] Rosy Bindi, Renzo Guolo e Gian Enrico Rusconi in dialogo con Giancarlo Bosetti, La conversione della Lega, «Reset», Maggio/Giugno 2011, pp. 83-88, in particolare pp. 87-88.

[7] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, Bologna, il Mulino, 2011, p. 118.

[8] Giancarlo Zizola, Benvenuto nel Paese che ha smarrito la fede “tradizionale”, «la Repubblica», 7 luglio 2011, p. 35.

Ardigò sociologo tra laburismo ed umanismo

Premessa

Achille Ardigò era nato il primo giorno di marzo dell’anno ventunesimo del secolo ventesimo, dunque in una data che si potrebbe dire tutta “trinitaria” perché racchiusa nei soli primi tre numeri, l’uno (del giorno e dell’ultima cifra dell’anno), il due (della decina dell’anno e della prima cifra del secolo) ed il tre (del mese). Questo, a ben pensarci, potrebbe sembrare un segno quasi provvidenziale, specialmente se riferito ad un credente radicale e pasionario della fede cristiana come lui. Gli aspetti cabalistici premonitori e confermativi non si limitano però a questo. Anche la data (10.09.08) ed il luogo della sua morte (la casa di cura “Toniolo” a Bologna) hanno qualcosa di singolare, quasi a voler sottolineare il carattere fuori dell’ordinario del soggetto in questione: i numeri relativi al decimo giorno del nono mese dell’ottavo anno del nuovo secolo e del nuovo millennio hanno un carattere dapprima discendente (dal 10 all’8) e poi ascendente (dall’unità, alle decine, alle centinaia, alle migliaia), insomma quasi una metafora della morte e rinascita-resurrezione, abbastanza in linea con la profonda confessionalità del personaggio; inoltre la sede del suo decesso è in una casa di cura intitolata proprio al nome di un sociologo, Toniolo, da lui tanto amato e studiato sin dal “periodo clandestino”[1], soprattutto attraverso il Trattato di economia sociale, finito di pubblicare nel 1921 (guarda caso nello stesso anno della nascita di Ardigò, per cui non si può non pensare ad una sorta di apertura e chiusura del cerchio che sembra partire appunto dall’opera di Toniolo e concludersi in una clinica bolognese intitolata con il cognome medesimo del sociologo).

In altri termini nel vissuto e nel profilo ardigoano sono chiaramente delineati, magari pure attraverso segnali indiziari reconditi, esoterici, i caratteri di un suo “mondo vitale” (Lebenswelt) non disgiunto altresì da un’esperienza vitale (Lebenserfahrung),quotidiana ed allo stesso tempo metaquotidiana, umana e metafisica (non a caso egli amava citare il kantiano “cielo sopra di me”), che in definitiva appare anche quale testimonianza dell’esperienza vissuta (Erlebnisbericht).

Il laburista cattolico ed il sociologo umanista

Alberto Papuzzi nel ricordare la figura di Ardigò su La Stampa[2]dice che “la sua visione è stata considerata una sorta di laburismo di sponda cattolica”. L’accostamento al laburismo, invero, non trova riscontri in altri interventi della pubblicistica commemorativa del settembre 2008 né in riflessioni più calibrate e motivate, succedutesi in tempi più recenti, sulla figura e l’opera del sociologo bolognese, padre e maestro della sociologia d’impronta cattolica, ora più nota e divulgata come “sociologia per la persona”.

Indubbiamente però vi è del vero nell’ipotesi definitoria di Papuzzi, tenuto conto soprattutto dell’afflato con cui il Nostro si è dedicato alle questioni del welfare state, dei servizi sociali, delle problematiche sanitarie, dell’intervento dello stato a favore delle classi sociali più disagiate, seguendo una linea di pensiero che secondo gli schemi dell’ormai obsoleta tradizione correntistica democristiana si sarebbe definita morotea, anche in considerazione della frequentazione ardigoana di Aldo Moro.

Ma è nello stesso ambiente di matrice ecclesiale che aveva avuto luogo la formazione iniziale, giovanile e di giovane adulto di Achille Ardigò, portaordini partigiano, militante politico, intellettuale della sinistra democratico-cristiana. La sua filiazione culturale e religiosa è da legare anche, ma non solo, all’“umanesimo integrale” di Jacques Maritain. Qualcuno sostiene invece che sia piuttosto Mounier all’origine di quello che si può etichettare probabilmente piuttosto come umanismo, quasi con un legame carsico, neppure esplicitato, con la sociologia umanistica statunitense di William Thomas, già autore, con il polacco Znaniecki, di quella che è ritenuta un’opera fondamentale del pensiero sociologico: lo studio su Il contadino polacco in Europa e in America.

Il cosiddetto laburismo di Ardigò si è tradotto essenzialmente in un servizio all’interesse pubblico, con la ricerca di soluzioni nuove, aggiornate, adatte alle esigenze segnatamente del settore sanitario. Non a caso in una sua lettera del 1997 così mi scriveva: “Grazie per l’augurio: ‘non dà… molti segni di stanchezza’. Purtroppo consumato dal mio impegno nella sanità, avrei tanto desiderio di una qualche rimpatriata con lei e altri cari amici”. Da oltre tre anni, esattamente dal 1994, Achille Ardigò era Commissario Straordinario degli Istituti Ortopedici Rizzoli di Bologna, dove stava cercando di portare cambiamenti sostanziali, organizzativi e tecnologici, sempre in un’ottica rispettosa del paziente e con l’obiettivo di rendere l’azione pubblica più efficiente e soprattutto più sensibile alle istanze dei sofferenti.

Egli operava con una straordinaria lucidità e con una forte consapevolezza delle problematiche lavorative e sindacali insite in una grande struttura ospedaliera. In fondo era la medesima lucidità cartesiana con cui affrontava i temi sociologici più ardui, parlando “a maglie strette”, cioè fitte, ricche di concetti. Il suo ricorso a “sintesi fulminanti” ne faceva un interlocutore ostico perché preparato, difficilmente superabile sul piano dell’elaborazione teorica, ben memore delle battaglie ideologiche e contenutistiche già affrontate nell’ambito della Federazione Universitaria Cattolica Italiana e nel Movimento Laureati di Azione Cattolica, attraverso le pagine della rivista Cronache Sociali come pure sui temi cari al dossettismo.

Già nel 1961, in pieno convegno democristiano a San Pellegrino, egli aveva segnalato ed enfatizzato l’apertura a sinistra ed il messaggio derivante dalla Mater et Magistra di Giovanni XXIII. Del resto era reduce dall’esperienza amministrativa bolognese con Dossetti dal 1956 – anno del celebre Libro bianco su Bologna – sino al 1961.

In seguito sempre più si andava manifestando una vena mistica, che avrebbe portato Dossetti al monachesimo ed Ardigò ad un ancor più intenso coinvolgimento nel campo del sociale e della professionalità sociologica accademica e scientifica. Divenuto poi primo presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, Ardigò aveva come sua fonte d’ispirazione san Giovanni della Croce e per questo soleva ripetere di sé e dei suoi più affezionati allievi e colleghi: “noi mistici”. Tuttavia la prospettiva mistica non impediva ad Ardigò una partecipazione all’agone politico, dapprima sostenendo e poi criticando Cofferati come sindaco della sua città.

Per Ardigò, inoltre, la teoria del soggetto era anche di fatto un approccio rispettoso del soggetto ovvero della persona. Non a caso gli era cara la figura di Edith Stein, insieme con il suo concetto di empatia, intesa come condivisione e compartecipazione totale. Sul piano metodologico poi non disdegnava misurarsi con l’ambivalenza, con l’ambiguità delle tecniche e delle misurazioni.

In campo religioso, il suo umanismo lo portava ad essere strenuo difensore dei documenti e dei messaggi dottrinali e pastorali prodotti dal Concilio Ecumenico Vaticano II ed insieme sostenitore del grande evento della rivelazione divina nel cristianesimo. Da quest’ultimo egli derivava il suo misticismo praticato con fede granitica.

Lo stesso vissuto personale di Ardigò ha lasciato il segno, non diversamente da quanto è avvenuto per Aldo Moro, suo principale referente politico e partitico ed ora intestatario dell’università barese in cui aveva insegnato: ad Ardigò è stato infine intitolato il “suo” Dipartimento di Sociologia nell’università bolognese.

Il suo laburismo, per restare nella scia della suggestione di Papuzzi, era comunque inteso e propsto come un’alternativa al marxismo e soprattutto al craxismo, nei suoi anni di maggior vigore e presenza. Nel contempo, invero, Ardigò non risparmiava neppure alcuni uomini di Chiesa, di cui non condivideva l’impostazione, si chiamassero Ratzinger o Caffarra, Biffi o Ruini.

In campo ecclesiale come nel settore della tecnologia, infatti, egli guardava piuttosto al futuro e non certo al passato. Per questo portava i sociologi italiani a visitare la neonata Technopolis, voluta dal professor Dioguardi non lontana da Bari, ed incitava i suoi collaboratori degli Istituti Rizzoli di Bologna a guardare all’innovazione, al telesoccorso, alla medicina telematica. Ardigò peraltro è notoriamente legato alla nascita del CUP 2000, il Centro Unificato di Prenotazione sanitaria, che oggi annovera servizi quali il medico-on-line.

Proteso a voler cambiare il mondo che lo circondava, Achille Ardigò poco si curava degli aspetti economici. Dimenticava persino i rimborsi-spese che gli erano dovuti a seguito dei numerosi viaggi per conferenze in varie sedi lontane da Bologna. Non si è certo arricchito, pur avendo gestito ingenti somme. Del resto viveva in un condominio fuori dal centro storico bolognese. Nel suo appartamento, l’unica concessione ad una certa vistosità era concentrata in qualche mattonella in maiolica dipinta (a mo’ di tappetino d’ingresso); raccontava: “l’ho fatta fare quando ho vinto il concorso da ordinario”.

Aveva dato tanto alla sua città, ma Bologna non gli è stata molto grata o almeno non fino al punto che il suo sociologo più noto meritava. Ardigò aveva seguito passo dopo passo le vicende bolognesi del PCI e del PD, della Chiesa diocesana e dell’università statale, assumendo sovente ruoli chiave nella strategia cittadina.

Il suo volto, la sua statura e la sua voce di “eterno bambino” lo rendevano ben percepibile in qualunque consesso. Era stato un resistente al fascismo ma anche al dottrinarismo ecclesiale, un uomo di Chiesa ma altresì di partito, un promotore dell’agire sociale ma pure della mistica.

Inventore e propagatore della sociologia sanitaria in Italia, aveva fatto di Bologna un centro di eccellenza con la sua Scuola di sociologia sanitaria, alimentata anche dall’esperienza che aveva condotto alla creazione del Servizio Sanitario Nazionale, del Comitato di Difesa del Malato, della rivista Salute e società.                 

Conclusione

Si potrebbe definire Ardigò un manager della solidarietà, in cui confluiscono l’orientamento laburista (ma forse il termine non è del tutto adeguato) e la cura per la persona. La sua cultura classica di base (era laureato in lettere) lo metteva in condizione di avere e di promuovere un rapporto empatico con le persone e con le cose (tecnologia compresa). Era costantemente all’avanguardia: nel campo dell’informatica aveva capito anzitempo l’importanza di Java e già da tempi remoti era abituato a mandare fax via computer (come può ben testimoniare qualche allievo o collega). Ma soprattutto va sottolineata la sua tempra morale, che non scadeva a facile moralismo. Il suo era un atteggiamento di fondo, avverso al malaffare e contrario agli esibizionismi volgari, ma in grado di gestire questioni etiche complicate (ivi comprese quelle relative al divorzio ed all’aborto, con prese di posizione che non gli hanno certo giovato nel mondo cattolico).

La sua grande passione di studioso e di credente militante ne faceva un profeta non utopico ma realizzatore. Rifuggiva dal vuoto astrattismo teorico e pensava alla concretezza della realtà, dell’operare, dell’intervento sul territorio e nel campo della politica. Per questo teneva tanto ai suoi mondi vitali, di derivazione husserliana, nei quali profondeva il suo rigore e la sua sincera e convinta adesione di cristiano, non timoroso, non asettico, ma capace di affrontare l’avventura del nuovo, del diverso, dei “segni dei tempi” da cogliere.

A Bologna – non va dimenticato – aveva confronti difficili da affrontare: con il comunismo e con gli intellettuali del gruppo de Il Mulino, con la sua Chiesa diocesana e con la corporazione accademica. Non sempre è stato capito, ma questo ai profeti capita.

Ai suoi compagni di cordata in campo religioso ricordava sovente la necessità di un esercizio adeguato della laicità e del ruolo dei laici e congiuntamente lamentava che si attribuisse uno spazio eccessivo alla compagine degli “atei devoti”. Ovviamente le sue esternazioni comportavano conseguenze. Infatti se nel 2004 aveva partecipato alle “Settimane Sociali” dei cattolici tenute a Bologna sul tema dei poteri, successivamente si è trovato a dover dire: “sono anni che non vengo più invitato ai convegni cattolici”. Eppure Ardigò era stato un protagonista di primo piano di quel mondo. Con Scoppola e Gorrieri era stato nella “Lega Democratica” nel 1975. Aveva promosso la presenza cattolica nel cosiddetto terzo settore, nel volontariato. Aveva creduto nell’esperienza politica detta dell’Asinello. Aveva fiducia in Arturo Parisi, anch’egli sociologo, cattolico e bolognese come lui e molto vicino a Romano Prodi.

Ardigò con il suo “ragionar parlando” ha fatto tutto il possibile per far crescere in ogni ambito la partecipazione dal basso, la consultazione permanente della base, il riformismo derivante dal coinvolgimento pieno dei cittadini. Non a caso concludeva nel 1999 un suo articolo sulla rivista Coscienza (n. 6, p. 36) scrivendo “cominciamo a parlarne tra noi, che ve ne pare, amici di Coscienza?”. Si discuteva del passaggio del millennio, nei cui riguardi diceva di viverlo “con il solito relax, non privo di noia” (p. 35), il che faceva il paio con la “stanchezza con cui, persino nella Chiesa, reagiamo alla tumultuosità dei disordinati cambiamenti e innovazioni e non solo dei disastri che rendono il mondo sempre meno leggibile”. E qui veniva poi fuori a chiare lettere il tema dell’umanismo: “la Chiesa è contaminata, aggiungo io, dalla caduta della cultura umanistica” (Ivi). Nondimeno la speranza restava e prefigurava “che il mondo possa diventare come villaggio globale. Un villaggio che potrebbe anche essere aperto all’ecumenismo e come tale foriero di vita spirituale”.

Achille Ardigò conosceva bene anche le dinamiche dell’informazione globalizzata ed avvertiva la necessità di contrastare il centralismo burocratico per ridare invece libertà alle scelte personali. E dunque immaginava una net devolution “dedicata” fra l’altro al governo della salute pubblica, anche per evitare (insieme con Rifkin) che la tecnologia divorasse i valori: “dobbiamo misurarci con le nuove tecnologie affrontando sperimentazioni di prassi che combinino in ambivalenza nuove tecnologie ed esercizio della coscienza morale, personale ed interpersonale, verso valori di equità, di umanizzazione e di capacità di empowerment della persona umana sulle strutture” (Coscienza, 6, 2000, p. 5).   

Bibliografia

C. Cipolla, S. Porcu (a cura di) (1997), La sociologia di Achille Ardigò, Milano, Franco Angeli.


[1] Ne parla espressamente Giovanni Pellicciari, intervistato da Andrea Bassi e Tommaso Cavallaro. Cfr. A. Bassi, T. Cavallaro (a cura di), Traccia per un percorso biografico di Achille Ardigò, in C. Cipolla, S. Porcu (a cura di), La sociologia di Achille Ardigò, p. 377.

[2] A. Papuzzi, Ardigò il laburista cattolico, «La Stampa», 11.09.2008, p. 36.

L’appartenenza ad un’associazione religiosa

Prof. R. Cipriani – Ottavia, 22.X.’95
C’è una la tendenza ad organizzare anche un’Associazione che si dice laica secondo uno schema tipico di una Congregazione religiosa. Se volete, la mia osservazione critica nei riguardi dell’attuale Statuto è che ricalca troppo da vicino quella che è una struttura tipica di un Istituto religioso. Lo dico qui come l’ho detto, giusto una settimana fa, ad Assisi, alla Pro Civitate Christiana, la famosa Cittadella. Anche lì quella che è una Associazione tipicamente laica ha un’impronta che è quella di una organizzazione di Istituto religioso con i soliti passaggi che un po’ mettono in evidenza la fase di preparazione, cioè il noviziato, che qui poi è presentato in altra forma: i sei mesi iniziali, poi i due anni e poi l’ingresso nell’Associazione. Lì ad Assisi ci sono i soci e i volontari. I soci sono quelli più interni, i volontari sono quelli più esterni. Ma prima di diventare socio si è pre-socio e prima di diventare volontario si è pre-volontario. Quindi come vedete lo schema: noviziato-voti è ripetuto all’interno, in qualche modo, di una Associazione. Il che se testimonia del rigore e della serietà dell’organizzazione, deve, però, anche far pensare alla necessità propria da parte dei laici e delle laiche di essere i protagonisti e le protagoniste di questa realtà associativa, in modo tale che essa sia, come lo Statuto recita, una associazione laica.
Vorrei partire da un dato che è il risultato di una ricerca finalmente la prima ricerca in Italia sulla religiosità. Ed è una ricerca che abbiamo appena terminata. Uscirà il mese prossimo, esattamente fra un mese: il 21 di novembre, martedì, il giorno dopo l’inizio del Convegno CEI a Palermo e sarà pubblicata da Mondadori.
La ricerca avrà come titolo La religiosità in Italia. Era un mio sogno poter fare, finalmente la prima ricerca sulla religiosità in Italia, ci siamo riusciti con un campione veramente rappresentativo della realtà italiana. Pensate che sono quasi 200 città che sono state interessate a questa indagine e abbiamo raccolto tra campione nazionale e approfondimenti locali oltre 7000 questionari Se pensate che di solito il Censis, il Labus, la Doxa e tante altre organizzazioni che si interessano di dati statistici ritengono che con meno di 1000 casi sono in grado di presentare l’Italia, capite di quale portata sia la nostra ricerca.
Quanto ho detto mi serve solo per anticipare un dato che scaturisce da questa indagine. Tra di noi ricercatori che abbiamo partecipato a questa ricerca abbiamo assunto l’impegno di non comunicare i dati in anticipo.
Prendo un solo dato che è quello dell’appartenenza alle Associazioni religiose cattoliche. Vediamo un attimo in Italia che tipo di adesione vi è, anche per capire: voi come vi collocate in questa realtà. Chi siamo? Su quali altre forze possiamo in
qualche modo contare e che hanno, più o meno, i nostri stessi obiettivi?
La domanda relativa all’adesione all’iscrizione, all’appartenenza ad associazioni di carattere religioso prevedeva una risposta plurima, cioè uno poteva dire di appartenere ad un’associazione parrocchiale, ad una associazione nazionale, ad un’associazione religiosa atipica o ad un gruppo sportivo; vi erano varie possibilità di risposte e quindi le percentuali che adesso vi fornisco non sono cumulabili fra di loro. Cioé può darsi che chi appartiene ad un certo gruppo, appartenga anche ad un altro gruppo. Fermiamoci su quello che è a mio avviso il dato più significativo.
Ebbene, in Italia l’8,8% della popolazione appartiene ad un gruppo religioso; quasi una persona su dieci in qualche modo fa capo ad un associazionismo a carattere religioso, cioé le cui finalità sono tipicamente, principalmente religiose. Questo è un dato importante perché testimonia come ancora nel nostro Paese l’associazionismo religioso abbia un certo impatto e del resto anche la vostra presenza in questa sede ne è una prova. Dal nulla nasce già la vostra Associazione.
Dunque l’8,8% appartiene a gruppi religiosamente orientati: gruppi della Bibbia, gruppi di Azione Cattolica, Scout, gruppi tipicamente parrocchiali, per esempio per la catechesi. E pensate che quello che si ritiene essere la forma di associazionismo più diffusa è appena di poco superiore in termini quantitativi. Qual è l’associazionismo più diffuso? E’ quello a carattere ricreativo sportivo. Ebbene in tutta Italia è del 9,7%. Quindi l’associazionismo religioso è quasi sul livello dell’associazionismo ricreativo sportivo.
Dunque, possiamo dire che nonostante le crisi, le defezioni, le difficoltà, ancora c’è una tenuta della forma associativa a carattere religioso.
Aggiungiamo qualche altro dato all’interno di questo discorso. Per esempio la differenza tra associazioni a carattere nazionale, pensate all’Azione Cattolica che è tipica; associazioni a carattere parrocchiale, associazioni di altro genere, magari di tipo misto o di tipo specifico, molto peculiare.
Qual è il problema chiave dell’associazionismo? E’ la partecipazione: la presenza, l’impegno, la continuità. Allora vediamo un po’ che cosa succede nell’ambito di associazione religiosa a carattere nazionale a carattere parrocchiale o di altro tipo. Possiamo avere un’adesione di massima, ma senza partecipazione. Possiamo avere un’adesione saltuaria poco impegnata. E invece abbiamo coloro che sono regolarmente presenti, regolarmente attivi nell’ambito dell’associazione.

Vediamo un attimo i dati:

Associazioni nazionali:                  67%     14%  18%

Associazioni parrocchiali: 45%                 25%  18%

Altre associazioni:                          75%     13% 11%%

Che cosa ci dicono questi dati? Vedete che la partecipazione maggiore più forte, continua, salda è quella dei gruppi parrocchiali. Cioé il 28% di coloro che aderiscono ad un gruppo parrocchiale lo fanno in modo costante. E’ più debole la partecipazione a gruppi di altro genere. E’ inferiore rispetto a quella dei gruppi parrocchiali nell’ambito delle associazioni nazionali. Che cosa significa questo? Che quanto maggior peso ha l’associazione in ambito locale tanto più l’associazione è attraente, è coinvolgente. Di conseguenza guardando questi dati, un’associazione come la vostra che ha una radice tipicamente localistica dovrebbe essere in grado di suscitare maggiore interesse, maggiore attenzione;` perché ha un Istituto, come la Congregazione del Sacro Costato, come base a cui far capo per la propria attività. Vedete che il disinteresse maggiore riguarda i gruppi che non sono né parrocchiali, né nazionali, ma anche sui nazionali vedete che siamo già al 67% che è abbastanza consistente come quota, ma c’è scarsa frequenza. Poi viene la saltuarietà: la più alta è quella dei gruppi parrocchiali. Però essere saltuari come partecipanti significa comunque partecipare, quindi anche quello è un dato importante. Per cui mettete insieme il 25 dei saltuari e il 28 dei costanti abbiamo già una quota del 53%, cioé più della metà, in qualche modo, nel corso di un anno è coinvolto nelle iniziative dei gruppi parrocchiali.

Questo è un po’ il quadro dal quale volevo partire anche perché venisse sfatata l’idea di una carenza sul piano della presenza associativa religiosa in Italia. Invece così non è. Tenete anche conto che le persone intervistate non avevano alcun interesse a dire il falso, perché il questionario oltre tutto era anonimo, quindi alla fine la persona risultava solo un numero e non si sapeva chi aveva detto determinate cose anziché altre. Chiariti i punti di partenza cerchiamo di entrare nel merito più specifico del nostro discorso.

Soffermiamoci su quello che è il titolo di questo intervento, il tema dell’appartenenza; il tema chiave anche della vostra presenza in questa sede. Cioé come si appartiene ad un’associazione ed in particolare ad un ‘associazione laica.

L’appartenenza può essere di due tipi. Può essere genericamente un sentimento, ma può anche essere un’identificazione. Cosa intendo dire con questo? Quando parliamo di sentimento parliamo di un atteggiamento, di una propensione, di un interesse, di un orientamento, il quale orientamento può essere sia verso, sia contro; cioé un orientamento favorevole al proprio collocarsi nell’ambito di un’associazione laica come la vostra, ma anche un orientamento che qualche volta può essere contro; cioé io preferisco questo tipo di associazione e non ne preferisco un altro, oppure vedo come diversi coloro che sono al di fuori di questa associazione. Tutto questo si inscrive nel discorso del sentimento di appartenenza.

Ben diverso è il tema della identificazione. L’identificazione, nel caso specifico vostro è quella essenzialmente religiosa. Quindi ci si sente religiosamente orientati, ci si sente cattolici, come un altro tipo di gruppo si sentirà musulmano. Ma vediamo anche che l’appartenenza ad un gruppo, ad un’associazione si fonda su un atteggiamento il quale può essere sia di tipo verbale, sia di tipo fattuale, reale. Per esempio una persona può dichiararsi a parole, in modo esplicito come appartenente ad un’associazione, cioé ha un atteggiamento sostanzialmente positivo. Altro discorso può essere quello della attività all’interno di un’associazione, quindi l’atteggiamento fattivo, operativo, reale.

Teniamo conto che il comportamento umano, sovente imprevedibile, può dar luogo anche ad eventi singolari, per esempio di persone che hanno verbalmente un atteggiamento positivo e poi sul piano reale non cooperano, non operano, non si impegnano; o viceversa: persone che sul piano operativo, magari danno anche una mano all’associazione, però in fondo non credono poniamo agli orientamenti, ai contenuti, ai valori di quest’associazione. Quindi anche guardando alla vostra stessa esperienza occorre ipotizzare che vi possano essere anche queste appartenenze diversificate. Il meglio per il successo dell’attività associativa è di avere sia un atteggiamento di tipo dichiarativo, che un atteggiamento di tipo implementativo, cioé che opera, che fa, che agisce all’interno dell’associazione.

L’appartenenza ad un’associazione può anche avere un carattere individuale, quindi a livello soggettivo, a livello personale o anche una dimensione sociale, di gruppo, di insieme. Quindi a volte l’adesione può scaturire da una motivazione del tutto soggettiva, a volte anche da motivi di ordine più ampio, di ordine collettivo. Allora io aderisco a questa associazione per ragioni mie e basta, vi aderisco certo per ragioni anche mie, ma perché mi ritrovo nell’ambito di questa comunità, nell’ambito di questa associazione, nella collaborazione a quella che è l’attività di una Congregazione come quella del Sacro Costato.

Teniamo però conto che questi due aspetti, cioé l’adesione individuale e l’adesione di tipo più sociale, più collettivo interagiscono continuamente tra di loro. Quindi non prevale solo l’una o l’altra prospettiva. Teniamo conto che a volte possono essere ragioni di tipo individuale, a volte possono essere ragioni di tipo più ampio a portare ad un certo tipo di partecipazione. Guardando all’esperienze associative  c’è una continua dialettica, un continuo andirivieni tra questi aspetti che portano anche ad una certa uniformità di comportamenti, ad una certa uniformità di comportamenti, ad una certa solidarietà e quindi ad un atteggiamento e ad un sentimento di appartenenza se non all’identificazione in senso lato appunto per la caratteristica religiosa.

Il maggiore studioso a livello mondiale in questo campo è E. Carrier (?), che è stato rettore alla Pontificia Università Gregoriana. Ha scritto un libro che ha avuto diverse edizioni anche in varie lingue, intitolato “Sociologia dell’appartenenza religiosa”. E’ un testo fondamentale per capire un po’ anche il significato di certe adesioni.

Il gruppo associativo può avere anche due diverse valenze: può essere o un gruppo di riferimento o un gruppo di appartenenza. Naturalmente, in qualche caso può essere sia l’una che l’altra cosa. Nel gruppo di riferimento io vedo solo, come dice la parola, un termine al quale faccio capo. Non so, voglio sapere quale sia la soluzione migliore di un certo problema; so che quel gruppo, quella associazione ha scelto una certa linea; non sono all’interno di quel gruppo, ma per me diventa un segnale, diventa un’indicazione, quindi gruppo di riferimento. IL gruppo di appartenenza, invece, quello al quale si dà una collaborazione sostanziale e quindi ci si sente di appartenere.

E’ importante in tutto questo discorso tenere conto del processo educativo che non è un fatto limitato solo ai primi anni dell’infanzia o all’adolescenza o all’età giovanile in generale. Quando parliamo di processo educativo dobbiamo pensare a qualcosa che è continuamente in corso nell’intero arco dell’esistenza, perché il processo di educazione, di adeguamento, di adattamento, di ricerca della soluzione più adatta alla propria esistenza, al proprio vivere è un percorso che noi tutte le volte affrontiamo in ogni istante del nostro ciclo esistenziale. Allora come si inserisce il discorso dell’educazione all’interno dell’esperienza educativa?

Innanzi tutto attraverso un’appartenenza che deriva da un processo di integrazione. Ad esempio, gli stranieri che entrano in Italia a mano a mano cercano di integrarsi. Dunque, lo stesso dicasi per quanto riguarda un’appartenenza associativa. Cioè a poco a poco si assimila l’esperienza anteriore. Nel caso specifico della vostra associazione, qual è l’esperienza anteriore? L’esperienza anteriore è quella espressa dal carisma di don Montemurro, che poi si è esplicitato come percorso educativo in quella che è la Congregazione alla quale la vostra associazione fa capo. Ecco, primo processo è avvenuto attraverso questa integrazione in una esperienza già acquisita in una esperienza che sottolinea certi carismi certe caratteristiche e quindi l’appartenenza all’associazione laica che in qualche modo voi fondate di fatto con la vostra adesione.

Ma come avviene questa integrazione? A quali condizioni? Avviene sostanzialmente attraverso tre strade prima è quella dei valori. In fondo si aderisce, si appartiene perché vi sono degli aspetti valoriali, dei principi che sono all’origine del processo di identificazione. Quindi l’identificazione religiosa cattolica, ma anche certi valori presenti in un’associazione, come quella che voi avete scelto. Quindi, i valori come fulcro della fase educativa o auto educativa, eventualmente, e quindi come leva su cui si fonda l’appartenenza.

Altro aspetto spesso dimenticato, ma che probabilmente nel vostro caso ha già funzionato è quello degli orientamenti affettivi primari. Con questo intendo dire che così come all’interno della famiglia il legame affettivo tra genitori e figli funziona per la trasmissione di certi contenuti anche nel caso di un’associazione come la vostra, l’orientamento affettivo primario può essere quello che vi ha portati nel passato ad avere contatti con la Congregazione di religiose del S. Costato e poi questi legami affettivi precedenti hanno rappresentato la base, il punto di partenza per la creazione dell’associazione, per l’adesione all’associazione. Quindi, un legame anche di tipo affettivo anche di tipo amicale anche di condivisione dell’esperienza, poniamo del percorso di fede, che diventa un substrato su cui poi si innesta l’esperienza associativa.

Altro aspetto è l’oggettivazione, la reificazione di una certa appartenenza Cioè l’adesione all’associazione, al gruppo a quello che sia, diventa così forte per cui si arriva quasi ad immaginare che quella sia la soluzione unica e migliore rispetto ad altre scelte. Quasi a dire: è così e non può essere diversamente; cioè l’appartenenza è così cogente per cui non si riesce ad immaginare qualcosa di diverso. Mi spiego: un cattolico che poniamo vada a visitare l’India, può trovarsi in gravi difficoltà perché non comprende il significato di certi comportamenti. Pensate all’Induismo e a tutto quello che significa, pensate al rispetto degli animali, pensate all’uso dei lavaggi con l’acqua, pensate anche a certi comportamenti che riguardano le divisioni in caste, ecc..

Lo stesso avverrebbe per una persona di religione induista che visitasse l’Italia. Avrebbe delle osservazioni piuttosto gravi nei riguardi dei comportamenti relativi ad una cultura cattolica. Cioé ognuno che è vissuto all’interno di un’esperienza considera l° che la sua sia la migliore; 2° che debba essere così, l’esperienza da vivere, e non un’altra Quindi c’é una forte oggettivazione c’é una forte reificazione.

Che cosa voglio comunicarvi? Voglio far capire che all’interno di un’appartenenza religiosa generale: siamo tutti cattolici o associativa particolare: noi apparteniamo all’associazione laicale Sacro Costato, ci può essere quest’orientamento anche di chiusura nei riguardi di ciò che è al di fuori del proprio mondo, della propria realtà. Per cui, poniamo anche questo Statuto è così e non può essere diversamente. Laddove, invece, nel corso degli anni si può immaginare anche degli sviluppi nei riguardi dell’appartenenza associativa.

Teniamo conto, che l’atteggiamento religioso, rispetto ad altri atteggiamenti è abbastanza precoce. Che cosa intendo segnalare? Intendo dire che vi è una fase dell’arco di vita in cui è più facile intervenire per creare le premesse per quello che verrà dopo. Gli psicologi sono senz’altro dell’idea che i primi anni di vita sono quelli fondamentali. Io ripeto sempre un’esperienza ed un’espressione di Piaget il quale dice: a cinque anni ormai il ragazzo o la ragazza è già formato /a ha già le sue idee, ha già il suo mondo. Però subito dopo vi è un arco di età che possiamo grosso modo dire essere quello tra i 7 e i 14 anni in cui si costituisce l’orientamento religioso. Quindi ragazze e ragazzi tra i tredici e i quattordici anni cominciano e sviluppare la propria sensibilità religiosa. E questo atteggiamento religioso è precoce rispetto ad altri atteggiamenti. Pensate per esempio alla scelta politica, viene molto dopo; quella politica comincia a svilupparsi tra i quindi e i diciotto anni, non prima. Quindi prima l’opzione religiosa, poi quella politica, con una appendice importante che cioè la scelta religiosa ha a che vedere con la Chiesa più o meno fino ai dodici anni; dopo i dodici anni il discorso è più religioso ma in senso lato. Quindi, il discorso più istituzionale può essere fatto in maniera più incisiva nei cinque anni dai sette ai dodici, meno dopo. Tanto è vero che dopo quest’età cominciano le crisi, cominciano gli abbandoni. E’ la fase post prima Comunione, quando c’è lo spartiacque della scelta di continuare a vivere un certa esperienza di Chiesa o invece di lasciar perdere.

C’è un sociologo  ? il quale sostiene attraverso le sue indagini che è soprattutto la famiglia che fornisce l’orientamento religioso e quindi anche in questo, per esempio un’associazione come la vostra dovrebbe sviluppare al massimo il legame con la famiglia, perché attraverso la famiglia passano molti contenuti di fede. Dice “La famiglia trova la sua maggiore integrazione nella comunità di Culto”. Vediamo di spiegare meglio questa frase con un esempio. La famiglia che unita va a messa ogni domenica, attraverso questo atto solidifica ancor più la propria integrazione, la propria appartenenza. Quindi la famiglia si integra quando diventa comunità di culto. Applicando questo tipo di discorso all’esperienza associativa laica vostra: nel momento in cui l’associazione fa esperienza di attività di culto si integra ancor più. La recita della preghiera iniziale aveva anche questo significato; ci ha messo in maggiore comunicazione fra di noi. E naturalmente le grandi feste sono l’apice dell’integrazione, tanto è vero che anche a livello di linguaggio comune c’è la propensione a vivere le grandi feste liturgiche insieme in famiglia, insieme, attraverso l’associazione, appunto per consolidare i legami, i vincoli dell’appartenenza.

Però, teniamo anche conto che questo processo educativo che è un tipico processo di socializza zione, cioè dell’abituarsi allo stare insieme a condividere un’esperienza può sembrare conformismo cioé tutti all’interno della famiglia facciamo le medesime cose, tutti all’interno dell’associazione ci muoviamo allo stesso modo. C’è conformismo, indubbiamente, ma ci può anche essere, ed è questa una strada percorribile, approfondimento della coscienza di sé, cioé dell’autoconsapevolezza, della capacità critica propria.

Ora, se guardiamo non solo a quell’arco di età in cui avviene la scelta religiosa, cioé 7 – 14 anni, ma anche più in là, a quella che è la realtà giovanile, che cosa constatiamo? Lo dicono molte ricerche: constatiamo soprattutto nelle giovani e nei giovani una certa lontananza dalla Chiesa e in particolare dall’insegnamento morale della Chiesa. Pensate a tutte le questioni etiche, pensate alla sessualità, ecc.. Si acquisce a livello giovanile una forte soggettività individuale, cioé una scelta che avviene a livello personale e c’é, come qualcuno dice, una sorta di reffrattarietà rispetto alle grandi scelte. Questa reffrattarietà rispetto alle grandi scelte significa che molto spesso il giovane sceglie giorno per giorno il da farsi cioé non si pone grandi traguardi, non si pone davanti a sé grandi prospettive.

Non di meno il discorso evangelico rimane, perché c’è stata in precedenza tutta la fase di preparazione di tipo catechetico, ma è un riferimento non assoluto; cioé un riferimento sui valori di massima, non un riferimento nei dettagli e quindi ciò è una sostanziale divaricazione a livello giovanile fra quella che è la morale e quella che è la religione, appunto per le caratteristiche che abbiamo sin ora cercato di enucleare.

Avviandoci alla conclusione di questa prima parte avviamoci sul significato dell’appartenenza e come l’appartenenza si corrobora, si rinsalda.

L’appartenenza diventa più forte quando vi è una interdipendenza dei membri, cioé quando i membri sono molto legati fra di loro, magari anche per precedenti vincoli; non so, due fidanzati, marito e moglie, due amici due amiche, ecc.. L’appartenenza si basa anche sulle motivazioni dell’appartenenza. Se le motivazioni sono deboli, sarà debole, evidentemente anche l’appartenenza.

Un altro aspetto importante è il prestigio del gruppo. Cioé se quella associazione è prestigiosa, non gode di cattiva fama, non ha cattiva stampa, evidentemente, diventa appetibile e quindi ci si va con maggiore soddisfazione. Ancora, è importante quello che è lo status, cioé la condizione vista dall’esterno di quel gruppo. Faccio l’esempio tipico vostro: se l’associazione laicale è vista solo come una sorta di prolungamento di quello che è una Congregazione di suore, di religiose, dall’esterno questo può incidere in modo del tutto non positivo, perché allora diventa un po’ adito per quello che qualche anno fa si diceva a proposito dell’Azione Cattolica. Uno studioso italiano Gianfranco Pogi(?) scrisse un libro, siamo negli anni ’50, dal titolo “Il clero di riserva” Allora, una associazione laica come questa potrebbe diventare, non so, i religiosi/e di riserva della Congregazione del Sacro Costato. Allora può essere perfino difficile abbandonare il gruppo, perché si deve fare i conti con il timore di rompere con i vincoli di appartenenza. Mi spiego. Se ad un certo punto una persona che ha aderito in precedenza all’associazione decide di lasciarla, deve pure dare per scontato che lasciando quella associazione o quel gruppo lascerà certi amici, certe amiche, certe esperienze e condivisioni. Quindi un gruppo abbastanza coeso fa sì che questa coesione possa durare nel tempo. Quindi occorre anche molta attenzione a non urtare la suscettibilità degli appartenenti. Perché è vero che ci sono delle barriere, e questa che ho appena detto è una, che impediscono l’abbandono del gruppo, però ad un certo punto il disagio, il disappunto di una persona può essere tale da superare facilmente le barriere e quindi l’adesione non ha più alcun significato.

L’adesione si fonda essenzialmente su una coesione che ha i suoi fattori di base in tre aspetti.

Primo aspetto: la stima reciproca dei membri. Se all’interno di un’associazione ci sono persone che non si stimano fra di loro, che non si apprezzano fra di loro, quel gruppo, quell’associazione, è destinata a frantumarsi, quindi è importante la stima reciproca. E qui aggiungo un corollario: la stima reciproca aumenta nella misura in cui ci si conosce di più. Perché è vero che si scoprono anche i difetti, ma si scoprono anche i pregi e se c’è un afflato religioso evidentemente, il difetto può essere in qualche modo messo da parte e invece può essere enfatizzato, valorizzato il pregio. Questo naturalmente è un discorso che avviene in un ambito scolastico, come in un ambito parrocchiale come anche fra amici e fra amiche. Quindi importante è la stima reciproca dei membri.

Secondo fattore di coesione: la stima del gruppo. Cioé quando il gruppo è stimato anche all’esterno e anche la stima che ciascun membro ha nei riguardi del gruppo. Se la mia adesione al gruppo è un’adesione fondata sulla disistima, poi verrà meno. Se io ho stima, ho fiducia nel gruppo, evidentemente la coesione aumenta.

E’ importante per la coesione la stima che si ha nei riguardi del gruppo, dell’associazione come raggiungimento dei propri fini. Naturalmente questo discorso può essere ambivalente. Faccio un esempio: in qualche caso l’appartenenza, non so al Rotari, può essere motivata da ragioni di tipo economico strumentali, cioè io partecipo alle riunioni del Rotari, incontro un industriale, io sono un imprenditore, prendo contatto con questo industriale, faccio i miei affari. E’ chiaro che io stimo tantissimo questa appartenenza, ma, perché attraverso guasto gruppo io raggiungo i miei obiettivi. Ma ribaltiamo questo discorso e diciamo che i fini non sono quelli economici, ma quelli religiosi, ma quelli della solidarietà sociale, quelli della presenza nel sociale ed è chiaro che se i miei fini sono questi, io ho grande stima del gruppo cui appartengo perché attraverso questo gruppo riesco ad essere presente sul territorio, ad esercitare la mia carità verso l’altro, a sviluppare la mia sensibilità religiosa.

Le appartenenze, soprattutto in campo religioso, hanno una tipologia piuttosto variegata. Ne possiamo indicare cinque, andando anche al di là di quella che è la nostra esperienza particolare.

Si può appartenere ad una chiesa; si può appartenere ad una setta; si può appartenere ad una setta-istituzione cioè a qualcosa che è insieme setta ed anche istituzione; si può appartenere ad una denominazioone; si può appartenere ad un culto. Ecco queste sono le cinque categorie di appartenenza di tipo religioso.

Perché parliamo di sette, anche di denominazione e di culto? Perché in qualche caso la stessa appartenenza di chiesa, qual è l’esperienza a cui è chiamata la vostra associazione può assumere caratteri di setta, di denominazione, di culto, di setta-istituzione.

Veniamo al concreto e partiamo da quella che è l’appartenenza di base: l’appartenenza alla Chiesa. E’ in genere un’appartenenza per nascita, salvo poi, che uno nel corso della vita non decida diversamente; tanto è vero che quelli che sono nati in Italia, in linea di massima sono cattolici, o chi è nato in India di solito è un induista. Quindi, l’appartenenza alla Chiesa di solito è per nascita, ed è un’appartenenza istituzionalizzata, cioé la Chiesa è di per sé un’organizzazione con la sua struttura più o meno piramidale. E’ gerarchica, anche, questa appartenenza: papa, vescovi, superiora, presidente ecc.. Comporta dogmi cioè punti indefettibili, comporta disciplina: abbiamo anche uno statuto, comporta dei riti, comporta dei simboli: che può essere, poniamo, lo stesso fondatore o può essere anche il simbolo caratteristico di una Congregazione o di un’associazione.

Nella forma Chiesa vi è una tendenza all’universale: non a caso abbiamo qui anche Taiwan e vi è anche una propensione a convivere con la società, cioè non a prenderne le distanze, ma a stare dentro, stare insieme con la società che non avviene nell’altra forma setta. Peraltro, teniamo sempre presente che pur appartenendo alla forma Chiesa, vi possono essere anche dei caratteri di tipo settario.

Qual è l’elemento che caratterizza la setta? La setta è solitamente un dire di no al mondo, un dire di no alla realtà esterna, un non confondersi con il mondo. Si va un po’ per proprio conto. Però, nel caso della setta l’appartenenza è volontaria in genere si decide di aderire, non avviene per nascita. E si aderisce ad una setta dopo un’esperienza iniziatica, dopo una iniziazione, dopo un noviziato.

Nella setta vi è poca istituzionalizzazione, vi è poca sacramentalizzazione, vi è una tendenza ad isolarsi; le relazioni tra le persone sono molto semplici, magari c’è gerarchia, ma con due soli soggetti: il leader e tutti gli altri.

Avete capito da questi semplici passaggi come anche l’appartenenza di Chiesa può assumere caratteri di tipo settario. Si badi bene che io qui non sto esprimendo un giudizio di valore; no, sto descrivendo determinate realtà.

Terza forma: quella che mette insieme il carattere della setta ed il carattere della istituzione, cioè il carattere della setta e della Chiesa, perché la Chiesa è un’istituzione. Nella setta-istituzione abbiamo delle strutture legalizzate da norme, dallo statuto, dal regolamento e vi è una notevole vitalità di gruppo: il gruppo è molto dinamico, molto attivo, molto presente, si dà molto da fare in termini di proselitismo, di evangelizzazione, di diffusione del proprio credo.

Quarto carattere: le denominazione. La denominazione è tipica della fenomenologia religiosa degli Stati Uniti, dove

 Vale la pena accennare ai diversi caratteri differenziati delle Sette per capire anche che cosa è l’elemento tipico delle varie forme di sette. Vi possono essere sette-conversionistiche, cioè volte alla conversione, il cui obiettivo essenziale è la salvezza del maggior numero possibile di persone. Questo è un carattere tipico dei Pentecostali. Vi faccio questi esempi perchè vorrei che alla luce di essi si legga anche la propria esperienza, che può essere, poniamo, tendente a convertire tutti.

Vi sono anche altre sette che possiamo definire Avventiste e Rivoluzionare. Avventiste perchè c’è il solito discorso della venuta del Regno, della discesa di Dio sulla terra, e anche Rivoluzionarie, cioè che tendono a cambiare la situazione esistente. Un tipico esempio di Setta Avventista e Rivoluzionaria lo troviamo nei Testimoni di Geova.

Una setta peculiarmente introversa, che lavora cioè al proprio interno, in cui l’interiorità è il punto qualificante può essere quella dei Quaccheri diffusa soprattutto negli Stati Uniti. Facevano le loro città, facevano il loro commercio, vivevano per proprio conto.

Vi sono sette di tipo gnostico, di tipo esoterico. Anche in Italia si va diffondendo il Movimento della scienza cristiana, il quale fonda tutto sulla conoscenza del messaggio cristiano.

Non entriamo nei dettagli, ma completiamo il discorso sulla setta dicendo che, in genere, all’interno della setta c’è la ricerca della verità. Quindi, sono persone piuttosto inquiete sul discorso della verità. Non vi è un’appartenenza di Chiesa. Gli appartenenti cambiano molto spesso. Quindi, un’associazione in cui c’è un continuo cambiamento di persone diventa, appunto, una sorta di setta. In genere una setta comporta un’inadattabilità alle situazioni correnti. Vi è instabilità nell’ambito del gruppo di riferimento e vi è una grande suggestionabilità emotiva. L’appartenenza in genere si vi sono varie denominazioni religiose. Cioè non vi sono Chiese nel senso cattolico del termine, non vi sono sette, nel senso di tante esperienze religiose non di Chiesa, ma vi sono denominazioni, cioè tante maniere di chiamare la propria esperienza religiosa. Infatti, il fenomeno tipico per quanto riguarda la religione negli Stati Uniti è quello del denominazionalismo, cioè quasi ogni città ha una sua maniera di vivere la propria religiosità. Sono migliaia e migliaia le denominazioni religiose, soprattutto d’impronta protestante che si trovano negli Stati Uniti.

Qual è il carattere della denominazione? E’ di consentire anche altre partecipazioni sociali e persino religiose. Negli Stati Uniti, molto spesso, si ha questo tipo di fenomeno: si appartiene, poniamo, alla Chiesa Battista, ma si partecipa anche al culto Metodista e non è un caso che molte famiglie hanno, poniamo, il papà metodista e la mamma battista. Ecco il carattere tipico delle denominazioni: questa pluripartecipazione alle diverse esperienze religiose.

Ultima categoria, quella del culto, dove è fortissima la solidarietà affettiva tra i membri, tanto forte che se uno decide di suicidarsi, poi si suicidano tutti. Esempi di questo genere vi sono già stati nella storia, in particolare negli Stati Uniti. Gli adepti sono pochi, non vi è nel culto il carattere universale della Chiesa. Con Jim(?) John si suicidarono in Guiana tremila persone, le quali erano lo 0,00 della popolazione di duecentomilioni degli Stati Uniti. Quindi, grande solidarietà all’interno, pochi adepti isolati se ne vanno a vivere per proprio conto in Guiana e con una grande influenza locale. Per esempio è noto che la setta dì Jim(?) Johon coi caratteri tipici del culto aveva le sue radici soprattutto a San Francisco, dunque in un certo contesto specifico californiano.

Ricapitolando: Chiesa, Setta, Setta-Istituzione, Denominazione, Culto, muove lungo due binari: quello delle motivazioni e quello dei benefici. Però l’appartenenza risponde anche a dei bisogni, per esempio il bisogno di socialità, il bisogno di comunità, il bisogno di stare insieme. Nell’appartenenza si cercano risposte chiare agli interrogativi esistenziali. Nell’appartenenza di tipo religioso vi è una ricerca di trascendenza: di sperimentare la trascendenza attraverso il gruppo. Vi è anche una ricerca d’identità psicologica: una persona che è sola si inserisce in gruppo per sentirsi parte di qualcosa. E vi è anche una ricerca di identità culturale.

L’appartenenza ha però anche il carattere di una mentalità istituzionale, perché si appartiene a qualcosa che già è stato fatto; lo Statuto già è stato fatto, quindi, noi entriamo in qualcosa che altri hanno preparato per noi. Ma all’interno dell’appartenenza può essere molto sviluppato il senso della famiglia, ci si sente appunto una famiglia, ci si sente tutti un’unica comunità.

Ma, oramai, ci sono anche altre esperienze di appartenenza che si sperimentano. per esempio quella di una “rete aperta” cioè un’appartenenza che è certo alla propria associazione, al proprio gruppo, ma che non si chiude ad altri gruppi; possiamo sperimentare anche la collaborazione cori altri, non so, tra la vostra Associazione e l’Azione Cattolica, tra la vostra Associazione ed altri movimenti, quindi una sorta di trasversalismo di appartenenze.

Adesso affrontiamo quello che secondo me è il nucleo del discorso e lo dividiamo in tre punti:

Gli aspetti comunitari e istituzionali

Status e ruolo del leader e in particolare del sacerdote o del religioso/a nell’ambito di un gruppo

La dimensione della comunità, del gruppo, della Associazione.
Aspetti comunitari e istituzionali. Soffermiamoci sui costante, un grado inferiore per altro tipo di frequenza

Il ruolo del leader. Nell’ambito dell’esperienza cattolica sostanzialmente il leader tende ad essere molto istituzionalizzato, cioè riconosciuto, legittimato con un’investitura dall’alto, e quindi è sottolineata la sua ortodossia, perché è persona gradita a chi lo nomina. Però anche in questo ambito vi è una sorta di conflitto fra quello che è il proprio ruolo istituzionale di responsabile del gruppo e quello che è invece l’orientamento personale. Direi che una delle questioni problematiche ricorrenti in ambito istituzionale cattolico è proprio questo continuo conflitto tra quello che l’istituzione mi chiede e quello che io invece penso che sia opportuno fare. Qui vi possono essere delle propensioni ad una sorta di funzionarismo del proprio ruolo da parte del leader. Intendo dire che soprattutto quando si ha a che fare con grandi realtà, faccio l’esempio di una grande parrocchia qui a Roma, il parroco alla fine fa solo il funzionario. Come fa a seguire cinquantamila persone? Quindi la comunità è minata. L’esperienza della solidarietà è ridotta ai minimi termini, ed è chiaro che gli stessi rapporti interpersonali ne risentono; non vi è un rapporto a tu per tu. Tutto diventa minimo, ridotto, frantumato che non si vede nemmeno in termini di rapporto. E naturalmente qui il leader, religioso a può avere davanti a sé tre scelte: la prima è quella di prendere il proprio ruolo come chiamata all’interno dell’associazione, della parrocchia, del gruppo, ecc.; la seconda: come professione, cioè “io sono un uomo di Dio, faccio questo ogni giorno”. Il ruolo diventa quasi una sorta di abitudine, di abito mentale. La terza scelta è quella di una sorta di mestiere nel senso pieno del termine, cioè un esercizio quotidiano senza grande afflato. Queste sono le possibilità. Naturalmente non esprimo un giudizio di valore positivo o negativo sulla vocazione, sulla professione, sul mestiere. Di fatto queste sono le realtà che constatiamo.

Dimensione della comunità, del gruppo. Anche senza molto studiare in termini di psicologia e di sociologia, i Padri del Concilio di Trento avevano visto giusto, perché c’è un’espressione a proposito dei pastori d’anime che è fondamentale per il discorso sull’appartenenza e sul funzionamento poi dell’appartenenza. Già nel Concilio di Trento si diceva che il Pastore “debet suas ovescognoscere”, deve conoscere le sue pecorelle, se no come fa ad interagire con le sue pecorelle con i suoi parrocchiani con i membri del proprio gruppo?

Alcuni studiosi di pastorale hanno concluso in proposito che, per esempio, in termini di parrocchia l’ideale sarebbe avere non più di cinquemila abitanti perché al di là di questo poi i rapporti si sfilacciano, cioè non vi è reale conoscenza. Qualcuno arriva persino a dire che le parrocchie non devono essere troppo piccole perché altrimenti diventano un ghetto, diventano una setta, diventano un gruppo molto ristretto e quindi è bene che ci siano almeno trecento famiglie e quindi millecinquecento persone. Certo l’ideale è cinquemila, ma quando si arriva a cinquantamila il contatto personale non esiste.

Qual è la conclusione di questo tipo di discorso che abbiamo fatto sinora? E’ che aspetti comunitari, ruolo del leader e dimensione della comunità sono aspetti fondamentali per i buoni risultati dell’Associazione, del gruppo. Perché? Perché l’appartenente ad un gruppo deve sentire la sua filiazione come personale e il gruppo di appartenenza da una parte non deve superare certe dimensioni in cui si perde la possibilità del contato, ma non deve essere nemmeno troppo ristretto, perché altrimenti si rischia di rinchiudersi in se stessi.

Quindi, arrivando a delle conclusioni per quello che riguarda l’esperienza specifica della vostra Associazione: non si facciano gruppi di pochissime persone: tre quattro, cinque, ma nemmeno gruppi di cento, duecento persone. Forse, non è questo il caso, ma si tenga conto che va rispettata la fondamentale conoscenza reciproca. Quindi, non si può imporre dall’alto, poniamo con una circolare della Superiora Generale, tutta una serie di piccoli dettagli su che che cosa deve fare il gruppo, non so, di Grottaglie. Occorre rispettare lo specifico locale. E all’interno dello specifico locale, non ci si può ridurre a tre o quattro appartenenti, occorre avere una consistenza che consenta al gruppo di essere incisivo, influente, operativo nell’ambito del territorio.

Un sociologo francese di origine russa, sostiene  ?   che l’appartenenza più intensa ad un gruppo è la comunione. Naturalmente, non parlava di comunione eucaristica, ma parlava di comunione come grande socialità, grande disponibilità all’interno del gruppo. Egli diceva: “allora c’è comunione all’interno di un’associazione, o di un gruppo quando ogni appartenente al gruppo ha il senso del ‘noi “, cioè non dice più ‘io’, dice “noi” associazione, “noi” gruppo. Possiamo anche allargare il discorso e dire: questa comunione diventa anche una comunione con l’Altro e attraverso questo viviamo meglio anche la nostra comunione.

Conclusione

Delle tre colonne non fa problema l’ultima perché l’appartenenza c’è ed è vivace; la seconda fa qualche problema, ma in fondo qualcosa si fa per il gruppo; il punto delicato è quello della non appartenenza e allora cerchiamo di capire qualcosa di più in proposito. Per l’appartenenza ad un gruppo, ad un’associazione, a quello che sia, hanno un ruolo strategico, fondamentale gli anni della formazione, quindi la formazione è la leva su cui poggiare l’attività di un gruppo di un’associazione, tenendo conto che la formazione andrebbe sviluppata soprattutto in quell’arco di età 7-14, magari 7-12 per il discorso relativo alla Chiesa in modo tale da evitare un abbandono precoce sia della Chiesa, sia dell’esperienza in senso generale. Non possiamo dimenticare anche il fatto che la non appartenenza, la non adesione si ha anche a fronte di una buona istruzione religiosa. Buona sì, poniamo, di trasmissione di contenuti, ma non nel senso di radicamento di questi contenuti all’interno della persona. Molto importante è anche la famiglia di origine.

Nelle varie indagini che sono state fatte qui in Italia e anche altrove si dimostra che se c’è una famiglia religiosa di origine poi è abbastanza facile che i figli di quella famiglia siano orientati religiosamente.

La non appartenenza può dar luogo a dei valori sostitutivi, cioè a dei valori che sostituiscono i valori cristiani che in precedenza formavano l’oggetto di attenzione. E si può dar luogo ad una sorta di religione della non religione, poniamo: esaltare il discorso della libertà al massimo punto, sino a fare della libertà la propria religione e quindi questa scelta come legittimazione della propria non adesione ad una chiesa, ad un gruppo.

Però, non dimentichiamo, visto che vogliamo essere un’associazione attenta anche al mondo esterno, che i valori religiosi sono sempre presenti all’interno dei soggetti. E’ difficile che ai soggetti umani sfugga una qualche attenzione al discorso religioso. E spesso lo stesso ateismo, dice Fromm, può essere una via di ritorno alla Chiesa, cioè una ricerca, una sperimentazione, un desiderio di conoscere, di approfondire.

Mi avvio alla conclusione, ricordando quattro principi che sono decisivi ai fini dell’appartenenza.

Primo principio: quello della costanza cognitiva. Che cosa significa? Significa che l’appartenenza ad un gruppo diventa l’organizzazione storica del proprio pensiero nella misura in cui noi continuamente conosciamo secondo determinati modelli. La ripetizione di certi contenuti, l’approfondimento di certe letture, poniamo bibliche o di tipo catechistico, rappresentando la costanza cognitiva, rafforza l’appartenenza, quindi, è difficile poi che si vada al di fuori, perché si è abituati a nuotare in uno stesso fiume che continua.

Secondo aspetto. Vi possono essere all’interno dell’appartenenza delle condotte di difesa, cioè quasi a dire: io non voglio capire il resto perché sono convinto che ciò che sto praticando è la soluzione migliore.

Terzo aspetto: il principio selettivo della memoria. Noi siamo abituati anche al di là di una certa età, a conservare quelli che sono i residui religiosi dell’infanzia. Intendo dire che è vero magari che una persona non va più a messa e che non pratica più, però qualcosa sicuramente è rimasta, diceva anche Fromm, e su questo noi possiamo puntare per riaprire il discorso religioso.

Quarto aspetto: il sostegno sociale. All’interno di una cultura largamente cattolica come quella italiana, evidentemente, una scelta di tipo religioso-cattolico orientato può trovare alto consenso in senso più lato.

Credo che oramai tutti abbiamo constatato che vi sia una tendenza ad un rifiuto dell’appartenenza burocratica, un rifiuto del tesseramento all’interno di un’associazione. Vi è la tendenza ad un’appartenenza estesa, quasi di tipo ecumenico, con un pluralismo anche delle associazioni. Vi è un nuovo emergere di gruppi di interesse, ma anche qualche conflittualità, qualche operazione del tipo: partiti all’interno della medesima Chiesa. Vi sono problemi anche di rapporti con… La formazione di una cricca è segnale di qualcosa che non funziona. Può essere il segnale della possibile creazione di un altro gruppo, il che non è da considerare un fatto negativo perché nascono altre esperienze, nascono altre Congregazioni, altre associazioni la vivacità dei carismi si esprime in maniera assolutamente diversa, però la presenza di una cricca è un campanello di allarme. In termini di appartenenza qualcosa non funziona.

Interventi

Lo Statuto: se ci rifacciamo solo alla lettera, uccidiamo lo Spirito. Lo Statuto come tale è una prima formulazione. E’ un orientamento provvisorio. Tanto più sarà vivace l’Associazione, tanto più sarà in grado di innovare questo Statuto nel rispetto delle esigenze di coloro che aderiscono all’Associazione. Quindi, teniamolo come punto di partenza, a mano a mano che andiamo avanti lo riformiamo. Lo Statuto non è un dogma, non è un testo evangelico e quindi lo consideriamo uno strumento, un’ipotesi di lavoro. Approfondiamo stabiliamo noi stessi, anche per sentirci più coinvolti, che cosa fare in proposito. E’ chiaro che alla luce delle cose che ho cercato di dire sta mattina non è che lo Statuto risponda in pieno, è difficile poi dire in che percentuale, diciamo che in buona misura non risponde, quindi, diverse cose andrebbero riformulate, però è una traccia. Lavoriamo a livello locale poi riportiamo a livello generale quella che è la nostra esigenza e insieme si discute. Si potrebbe anche arrivare ad una sorta di Statuto universale e poi all’interno di questo Statuto universale si possono studiare dei regolamenti locali, perché ci possono essere esigenze diverse.

Nella misura in cui sviluppiamo questa esperienza noi saremo anche in grado di formare lo Statuto. Se viviamo almeno nello spirito dello Statuto attuale ci accorgeremo poi che cosa funziona e che cosa non funziona. E dalla base della Associazione stessa verranno le richieste di cambiamento.

La carta vincente di una forma associativa è la continuità, ed è la volontà di resistere nei momenti di maggiore difficoltà. Un movimento di carattere religioso che vedendo calare il numero dei membri decide di chiudere, fa una scelta non opportuna, perché questa situazione può essere momentanea, può essere una febbre di crescita, cioè la necessità di rivedere il proprio Statuto per cercare di renderlo più adatto all’esigenze del momento. Io ritengo che la continuità sia la soluzione per far sì che un’Associazione, una Congregazione, una presenza possa proseguire, senza lasciarsi abbattere dalle difficoltà del momento.

Nulla vieta che il nucleo centrale non pensi ad operare per sé come obiettivo centrale della propria presenza sul territorio, ma pensi a coloro che già avevano mostrato una certa sensibilità; non solo, ma insieme gli “istituzionali” e gli “spontanei” si pongano come proposta aperta alla comunità più vasta. Intendo dire che vi sono sempre dei promotori, vi sono coloro che poi si accodano, ma insieme gli uni e gli altri dovrebbero aprire questo ventaglio in modo da raggiungere il maggior numero possibile di persone con le proprie proposte. Nulla vieta d’altra parte anche che coloro che in precedenza e poi anche dopo preferiscono la soluzione della spontaneità non decidano, poniamo, di vedersi più impegnati anche in campo istituzionale.

E’ importante mantenere questo nucleo sempre attivo sempre presente, rivolgersi in maniera aperta agli altri e strada facendo non possono mancare delle adesioni più convinte, delle adesioni più sostanziali. E’ un problema anche di mentalità: l’Associazione non vive per se stessa, ma vive per ciò che è al di fuori dell’Associazione. Quando ci riuniamo come Associazione, non pensiamo solo al Ritiro spirituale per i soci dell’Associazione, pensiamo ad un Ritiro spirituale o ad un’iniziativa anche più attraente capace di cogliere i consensi degli altri, cercando di inserire una proposta, ma che sia sempre una proposta fatta in modo delicato, con grande rispetto degli altri. Ripeto: non guardiamo solo all’Associazione altrimenti essa diventa una setta, diventa un culto e poi in termini metaforici ci si suicida; perché visto che non si riesce a parlare con il mondo, che ci stiamo a fare? Il suicidio diventa di fatto la fine dell’Associazione.

La pluralità delle appartenenze sono un dato di fatto. Quanto alla positività o meno io credo al principio dei vasi comunicanti, nel senso che l’esperienza fatta in una certa realtà può essere utile anche alla realtà alla quale si appartiene in un altro momento. Le appartenenze plurime di per sé non sono un fatto negativo. Tranne il caso di persone che sono presenti dappertutto. Lì c’è un problema di tipo personale. Vanno fatte delle scelte. Ritengo che un’appartenenza plurima sia importante, ma non deve essere dispersiva. Ognuno deve dare più spazio a ciò in cui crede di più, e che in termini di metodo è più gratificante e porta a maggiori risultati.

Di per sé il conflitto in un gruppo non è negativo; è indice di dinamismo è indice di vivacità, significa che non c’è assuefazione a ciò che ha detto il leader o un altro membro del gruppo. L’importante è lo spirito con cui questo dissenso viene affrontato.

Qui faccio una proposta all’Associazione, alla Congregazione: conviene conoscere determinate tecniche di lavoro e di presenza all’interno di un gruppo. Intendo dire che uno degli obiettivi prossimi all’interno della Congregazione in generale è di studiare la così detta dinamica di un gruppo, cioè come si vive in un gruppo, quali sono i rapporti tra il leader, il contro leader il dissenziente colui che invece aiuta sempre il leader, ecc.. C’è una varietà immensa di comportamenti, ora se noi non li capiamo in termini scientifici, non possiamo risolvere il problema. Una delle finalità che un’associazione dovrebbe avere è anche capire meglio determinate cose. Siccome non sono specialista, la prossima volta possiamo chiamare qualcuno che abbia competenza in materia e sperimentare qui noi la dinamica di gruppo. La dinamica di gruppo non si fa con 45 persone, ma la possiamo fare con sei sette persone, magari divisi nelle salette con gruppi di approfondimento con un osservatore che guardando dall’esterno, vi dice che cosa è avvenuto e vi spiega che cosa si è creato in termini di reticoli, di rapporti, di contrasti, di consensi o mancati consensi. Qualche tecnica innovativa può essere quella di unirsi e di fare la cosiddetta “tempesta dei cervelli” che è una tecnica tipica di una dinamica di gruppo. Ci si riunisce attorno ad un tavolo ed ognuno dice la propria, poniamo, sulla situazione dell’Associazione, senza che ci sia la Superiora, la presidente, l’Assistente ecclesiastico/a, chiunque sia, a dire la sua. Ribaltando, insomma questa esperienza nostra di oggi: l’ideale sarebbe che ognuno possa avere uguale tempo e uguale possibilità di dire il proprio punto di vista.

Oggi questo non è avvenuto, speriamo invece che la prossima esperienza d’incontro associativo possa dar luogo a questo tipo di sperimentazione, che non è un fatto di laboratorio, ma si capisce meglio chi si è in prima persona e quali sono anche gli ostacoli creati alla comunicazione nel gruppo dalla propria incapacità di emettere correttamente i messaggi, di farsi capire e di capire le esigenze degli altri.

Noi dobbiamo mettere, in quanto responsabili di un gruppo tutti a proprio agio perché il gruppo sia interessante e possa raggiungere i suoi obiettivi, però visto che la realtà umana è così variegata, dobbiamo mettere in conto anche la possibilità di una diversificazione, cioè, poniamo, dell’abbandono del gruppo, ma sempre dopo aver fatto il possibile perché la questione si risolva. E’ ovvio che ad un certo momento non è che ci sono catene per trattenere persone all’interno di un’Associazione. E’ molto importante lo spirito solidale fraterno.

La Religione dei valori diffusi

Premessa

Non è facile definire una volta per tutte che cosa sia la religione: in linea di massima si distingue fra un approccio sostantivo ed un approccio funzionale. Sarebbe sostantivo quello di Durkheim[1] che parla di «credenze e pratiche» come base costitutiva della «comunità morale» detta «chiesa», sarebbe funzionale quello di Luckmann[2] che si riferisce agli «universi simbolici» come «sistemi di significato socialmente oggettivati», attraverso« processi sociali» – considerati «fondamentalmente religiosi» – «che conducono alla formazione dell’Io» ed alla «trascendenza della natura biologica».
Ma a ben scavare nei testi durkheimiani ed in quelli luckmanniani ci si accorge che Durkheim è anche attento alla funzione (infatti la religione serve per la solidarietà) e che Luckmann non bada solo alla funzione (in effetti la religione è una concezione del mondo costituita da contenuti specifici).
Dunque già coloro che vengono citati come campioni esemplari dell’una o dell’altra prospettiva in realtà risultano alla fine più orientati verso soluzioni meno rigide, polivalenti. Insomma contenuti e funzioni non sono separabili ed anzi vanno considerati come un unicum, il che consente l’implementazione di percorsi analitici ed interpretativi ben più complessi.
Si potrebbe partire, per esempio, dall’idea che il riferimento metaempirico nell’attribuzione di significato all’esistenza umana sia un carattere peculiare della religione, ma in pari tempo è opportuno lasciare un varco aperto anche a soluzioni che non contemplino un esplicito rinvio alla dimensione della non verificabilità empirica e della impraticabilità dell’esperienza diretta. Insomma il riferimento metafisico avrebbe solo un carattere meramente orientativo, «sensibilizzante» per dirla con Blumer[3]. «In tal modo non si ha un contrasto fra livello trascendente e livello reale. In sostanza è come se da due diversi punti di vista si guardasse ad un medesimo oggetto: l’innervamento di una presenza non umana nella realtà ed il radicamento di un significato esplicativo all’interno della stessa realtà. L’una delle due visioni non esclude l’altra, non vi si oppone, anzi vi può essere talora una convergenza che approdi al medesimo risultato: la comprensione-spiegazione della vita in chiave religiosa»[4].

Per una definizione flessibile di religione

Se si dovesse precisare ulteriormente (almeno per quanto riguarda il contenuto), per una definizione flessibile di religione si potrebbero prendere in considerazione le seguenti variabili: «In primo luogo la religione è fatta di relazioni interpersonali con altri soggetti umani e/o con una o più divinità. Tali relazioni sono costituite principalmente da convinzioni (credenze), sentimenti (emozioni), principi (valori) e pratiche (riti, cioè atti cultuali, ma anche azioni, sia quotidiane che straordinarie), interconnesse fra loro in modo più o meno coerente. La libertà del soggetto nella sua imprevedibilità produce eventi non usuali e congiunzioni singolari. Intanto però la tradizione delle religioni storicamente riconosciute continua a consolidare i suoi tratti più significativi attraverso nozioni, precetti, cerimonie, secondo le contingenze temporali ed ambientali. Non rientra nella ricerca sociologica stabilire l’esistenza di un dio, l’immortalità dell’anima, il ciclo della reincarnazione, il sistema premiale o sanzionatorio del comportamento umano, la vita ultraterrena, la rivelazione divina all’uomo, ma ciascuno di questi elementi può essere qualificante per l’una o l’altra religione e rientrare dunque in uno schema definitorio (debitamente contestualizzato) non suscettibile però di prova empirica. Va poi da sé che nessuna delle religioni appare come la religione per antonomasia, per cui vengono a cadere anche le remore sull’uso della dizione sociologia della religione invece di sociologia delle religioni.
In secondo luogo la religione si estrinseca come legame con la divinità, che tiene uniti gli uomini fra loro in chiave universale anche attraverso il sentimento di devozione verso un dio, per il rispetto che gli è dovuto. Pertanto l’oggetto di tale venerazione diventa qualcosa di sacro, di altamente diverso, intoccabile, superiore. Verso di esso ci si fa scrupolo di osservare con deferenza e reverenza ogni buona norma e prassi secondo precetti prestabiliti.
In terzo luogo la religione è manifestazione di un credere profondo e convinto, è professione di fede anche accentuata e non del tutto riflessiva, non necessariamente critica, in rapporto a concezioni della vita che hanno il carattere di cogenza, di valore paradigmatico, con un’accettazione quasi incondizionata. La fede si esprime appunto nell’affidamento ai valori ritenuti fondamentali, indefettibili. Essi presiedono quasi ad ogni scelta, per quanto minima.
In quarto luogo la religione è fervore, impegno, dedizione, pratica continua, comportamento devoto, pietà, in fondo religiosità manifestata esteriormente nel raccoglimento, nella compunzione, nella meditazione, nella riflessione, nel silenzio»[5].
Va tuttavia detto che questi connotati della religione rappresentano semplicemente una traccia dialogica ed aperta, in funzione di guida per la ricerca teorica ed empirica, e non altri elementi catalogatori da aggiungere al gran novero di definizioni già esistenti.
Intanto però ogni religione propende ad autoconsolidarsi sempre più, salvaguardando la sua autonomia, la sua indipendenza da ogni forma di stato ma pure da altre religioni concorrenti. Oggi però con i processi globali in atto e con l’aumento dei flussi migratori da un paese all’altro il confronto a livello sociale, politico e religioso comporta l’assunzione di nuove strategie da parte delle chiese, delle denominazioni e dei movimenti religiosi. Inoltre si sta per affermare in diversi luoghi pure una nuova concezione della laicità, intesa come spazio comune, luogo pubblico di convivenza e di condivisione, che mette in crisi le identità di partenza, le tradizioni plurisecolari, le frontiere ed i confini consolidati.
L’andamento reale, tuttavia, rimane a due velocità. Mentre in alcuni contesti si è preso atto dell’avvento di nuove dinamiche altrove si registra una tendenza a ripercorrere soluzioni inveterate, con il tentativo di restaurare prospettive autoreferenziali, monorientate, centralizzate, non disponibili alla dialettica imposta dai fatti e dalle istanze degli attori sociali protagonisti della realtà.

Verso una religione dei valori diffusi

Indubbiamente la presenza di valori è una costante sia delle religioni storiche, più radicate a livello culturale, sia dei nuovi movimenti religiosi, ancora in fase di crescita ed assestamento. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.
Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza – anche in termini di rational choice[6]-, la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.
Detto altrimenti, ogni celebrazione di un rito svolge funzioni molteplici, ma soprattutto mette a fuoco l’insieme di valori che una certa religione promuove e diffonde attraverso i suoi membri, i quali più partecipano e più si convincono della loro scelta come giusta.
Quest’ultimo effetto è di tale pregnanza che permane, seppur indebolito, anche in assenza di una successiva, ulteriore partecipazione costante. Dunque l’esperienza della pratica (e della credenza) religiosa induce di per sé un habitus[7] ideale e valoriale che tende a persistere ben al di là di una religiosità visibile. Infatti anche chi non è più praticante e magari è anche sempre meno credente conserva una sorta di imprinting, non facilmente cancellabile, che lo vede come membro disaffezionato ma con legami ancora significativi con l’ex gruppo di riferimento.
Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale, nell’ambito dei peer groups). La lezione berger-luckmanniana[8] in proposito rimane magistrale: in effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere ‘religioso’ dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.
Ora però, invece di distinguere fra una religiosità tradizionale, legata alle strutture di chiesa ed abbastanza visibile nelle sue forme, da una parte, ed una religiosità più individualizzata[9], privatizzata e dunque meno visibile, dall’altra, può essere più opportuno far leva su una disarticolazione interna alla fenomenologia religiosa in chiave di dinamiche più stratificate, dalle sfaccettature molteplici. In pratica non è detto che vi siano solo una religione di chiesa ed una religione invisibile alla Luckmann[10], è ipotizzabile piuttosto un’altra soluzione che preveda categorie intermedie più o meno vicine ai due poli definiti in termini di visibilità/invisibilità.
Una prima interpretazione post-luckmanniana venne presentata a Londra, nel 1983, ed applicata alla situazione italiana, in occasione della diciassettesima Conferenza Internazionale di Sociologia della Religione[11].
Il punto di partenza era rappresentato dall’influenza della religione cattolica sulla politica in Italia. Si trattava di un indicatore casuale ma rivelatosi assai illuminante in seguito, anche perché sempre più è stato possibile verificare che una simile influenza riguardava e riguarda ambiti ben più ampi della politica. Anzi, oggi, dopo quasi un ventennio, sembrerebbe che il peso della religione si sia ridotto nei riguardi delle decisioni di natura partitica e governativa ma che sia rimasto piuttosto saldo nei confronti della società in genere e dell’opinione pubblica, su cui contare per interventi di natura giuridico-politica. Nel contempo si è attenuato lo spirito antistituzionale, visto che la chiesa cattolica è l’istituzione meno osteggiata dai cittadini italiani, che peraltro le assegnano quote non trascurabili delle loro tasse (con il cosiddetto ‘otto per mille’ dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche).
Venuta meno l’incidenza preponderante del cattolicesimo ufficiale non si sono però immediatamente sostituite ad esso altre confessioni religiose. Semmai solo l’ebraismo è riuscito in qualche occasione particolare ad ottenere rispetto per le proprie scadenze festive e per le proprie consuetudini. Del tutto trascurabile appare per ora la capacità degli islamici, dei ‘Testimoni di Geova’ ed altri insiemi religiosi organizzati di farsi ascoltare a livello politico.
Invece è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, dopo essere partiti dal concetto di «religione diffusa»[12] in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, si è giunti poi ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.
Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema, ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa (altrimenti definita di tipo ufficiale) sarebbe parte fondamentale (all’origine) della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis). Peraltro la sua diversificazione rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse, rispetto al modello ufficiale cattolico. Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico, e quindi culturale, della religione praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice, svolta capillarmente sul territorio, da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali. In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how relativamente efficace. Di tale efficacia la prova migliore è data dal proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche. Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, non particolarmente attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono in genere poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento, ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non condivisi.    
Anche la religione diffusa rischia di essere classificata come una «religione invisibile» sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una ‘semiappartenenza’ o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi).
Si potrebbe persino parlare di religione diffusa come effetto quasi ‘perverso’ dello stesso sistema religioso dominante, che genera dunque – in continuità con se stesso – ciò che è altro da sé. La maggiore libertà nel porsi al di fuori della «chiesa ufficiale» consente spazi di azione altrimenti impediti. Insomma non vi è una netta opposizione ma neppure una decisa adesione della religione diffusa alla religione di chiesa.
Nonostante la sua pervasività, la religione diffusa non è presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa. Se si guarda in particolare alla collocazione politica, tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra[13]. Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei principii laici, però vagamente ispirati od ispirabili a modelli ortodossi sul piano della confessione di appartenenza. Sembra dunque che la religione diffusa quand’anche fosse destinata a restare talora in balia di altre confessioni mantenga il suo richiamo maggiore nei confronti dei valori immessi dalla socializzazione pregressa.  
Una ventina di anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa «religione diffusa»[14]. Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti religiosi anche l’approccio sociologico si modifica, mettendo a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scavando più a fondo nella realtà e cercando verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.
A dire il vero, sino alla fine degli anni ’80 non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili, che fossero frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative, sul piano statistico, in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque anche sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori[15] all’indagine nazionale su La religiosità in Italia[16], a quella a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism[17].
Soprattutto nel corso di questi ultimi decenni, si è constatato che le relazioni fra chiesa cattolica e stato italiano – anche se non del tutto scomparse, come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso, fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 e ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche o sul testamento biologico) – non sono più un test di prova della capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane. Una volta regolate – in forma solenne il 18 febbraio 1984 e poi con una legge il 20 maggio 1985 – le questioni maggiori sul piano diplomatico, mediante il rinnovo del Concordato del 1929 fra stato italiano e gerarchia vaticana, la cosiddetta «questione cattolica» sembra aver perduto mordente ed interesse, almeno nei termini già noti. Anche il movimento definito come contestazione cattolica ha da tempo tirato i remi in barca e sembra ridursi ora a qualche sporadico tentativo di dissenso rispetto all’establishment. Neanche l’occasione dell’Anno Santo del 2000 ha offerto particolari occasioni di ripresa in chiave critica, prendendo spunto dagli eventi collegati al giubileo.
In qualche misura proprio quella che si potrebbe oramai definire come «religione dei valori diffusi» rappresenta anche una sorta di sostituto funzionale della divergenza dalla struttura ecclesiastica. Tale differenziazione si manifesta attraverso altri modi di credere e praticare, sebbene la base di fondo rimanga impregnata di cattolicesimo.
Il nucleo essenziale della «religione dei valori diffusi» è rinvenibile appunto nell’insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano i cattolici ma anche i non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società (si pensi al fenomeno tutto italiano dei cosiddetti «atei devoti»). Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico, dopo qualche tentativo più proteso ad una maggiore presenza nell’arena pubblica, sembra oggi restare sullo sfondo, intervenendo in modo piuttosto mediato. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come orientamento di massima. Appunto questo consente una certa collaborazione fra stato italiano e chiesa cattolica, senza grandi turbative e con un’intesa anche formale e legittimata, che dura da ottanta anni.
Come già sottolineavano Calvaruso ed Abbruzzese[18], la religione diffusa appare come un antidoto al processo di secolarizzazione, di cui però è in pari tempo un’espressione significativa quale presa di distanza dalla religione di chiesa[19]. Un esempio peculiare veniva poi fornito pure dai dati generali di un’indagine socio-religiosa condotta nella Sicilia centrale[20], largamente premonitrice di sviluppi successivi:

                Religione di chiesa acritica                                              101 (14,0%)

                Religione di chiesa critica                                                261 (36,3%)

                Religione critica come divergenza                                 79 (11,0%)

                Religione diffusa come condizione                                190 (26,4%)

                Religione critica come allontanamento                          47   (6,5%)

                Non religione                                                                         41   (5,8%)

                TOTALE                                                                            719 (100%)

Sulla base di questi risultati si era sostenuto che la religione dei valori abbracciasse le quattro categorie centrali della tabella presentata sopra. In particolare l’ambito ascrivibile alla religione dei valori andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata come religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Risulterebbe così un ampio quadro di religiosità non istituzionale, fondata su valori condivisi e rappresentati essenzialmente dalle scelte operate (fino ad un massimo di quattro risposte) dagli intervistati, in termini di principi-guida della loro vita, a partire dall’educazione ricevuta fino all’età di diciotto anni:

                Valori particolaristici

                               Attaccamento alla famiglia                              450 (62,6%)

                               Amore per i figli                                                 232 (32,3%)

                               Buon uso del denaro                                           69 (  9,6%)

                               Fare da soli                                                            66   (9,2%)

                               Guadagnare molto                                               32   (4,5%)

                Valori universalistici

                               Onestà, serietà                                                    532 (74,0%)

                               Fede in Dio                                                          386 (53,7%)

                               Rispetto degli altri                                              213 (29,6%)

                               Aver la coscienza a posto                                 131 (18,2%)

                               Attaccamento al lavoro                                     120 (16,7%)

                               Amicizia, solidarietà                                         105 (14,6%)

                               Accontentarsi del poco                                       99 (13,8%)

                               Generosità, carità                                                 96 (13,4%)

Come è facile desumere dalle percentuali fatte segnare dai diversi elementi valoriali, è plausibile sostenere che non solo siamo di fronte ad una vera e propria religione dei valori, cioè basata su valori largamente condivisi, ma tali valori possono essere considerati di per se stessi quasi una sorta di religione con venature laiche, profane, secolari. In definitiva si è passati da una religione di chiesa dominante ad una religione diffusa maggioritaria e quindi ad una religione articolata principalmente attraverso valori: la conclusione è che la religione può essere definita una modalità di trasmissione e diffusione dei valori, anzi che essa svolge peculiarmente tale compito funzionale e lo svolge in modo tendenzialmente efficace.
Si risolve così anche la diatriba fra definizioni sostantive e definizioni funzionali: in chiave sostantiva gli elementi costituenti di una religione sono i valori che essa insegna e propala, mentre in chiave funzionale il compito della religione – specialmente quando essa appare come prevalente in un dato quadro storico-geografico – è quello di offrire punti nevralgici di aggancio per la vita comunitaria, per l’agire sociale, per le scelte ‘razionali’ da compiere sulla scorta di linee-guida acquisite e da porre in essere nella vita quotidiana e nelle scelte esistenziali fondamentali. 

Il caso di Roma

Emblematico è il caso di Roma, chiamata città sacra per eccellenza eppure fortemente secolarizzata. La capitale mondiale del cattolicesimo, luogo di convergenza universale per più di una decina di milioni di pellegrini in occasione del giubileo del 2000, presentava invero livelli piuttosto bassi di pratica religiosa: quella dichiarata come regolare, cioè una volta per settimana, era del 23,3%[21] mentre il 22,1% non andava mai a messa; ma era consistente il tasso di coloro che pregavano, in quanto si trattava del 71,5% degli intervistati, i quali si dedicavano alla preghiera magari anche solo qualche volta in un anno (14,9%) o ben più spesso (cioè una o più volte ogni giorno), come faceva il 32%. Dunque si registravano nel contempo uno scarso attaccamento alla pratica ma altresì un ampio interesse per la preghiera. Ciò significava che la ritualità non era tutto nella religione e che anzi il legame più frequente con la divinità passava attraverso l’orazione, cioè un colloquio diretto, a livello interpersonale.
Si potrebbe a tal proposito sostenere che mentre la pratica della messa festiva è più legata ad una religione di chiesa quella del ricorso alla preghiera ha un carattere più spontaneo, libero, sottratto al controllo sociale, ma comunque indicatore, rivelatore di una credenza, di un legame, di una sensibilità a livello religioso. In pratica, se Roma non appariva certo come una città di tanti praticanti non lo era neppure di molti atei, agnostici o indifferenti sul piano religioso (va tuttavia tenuto presente che il 21,3% dei soggetti intervistati – il tasso più alto in assoluto di tutto il Paese – non mostrava alcun segnale di religiosità). La capitale italiana presentava, accentuate, alcune caratteristiche rilevate nel campione nazionale della ricerca svolta nel 1994-95 sulla religiosità in Italia: per esempio, in un intero anno appena il 7,6% aveva partecipato a pellegrinaggi ed il 13,6% aveva fatto o soddisfatto un voto. In definitiva la religiosità dei romani sembrava bifronte: per un verso si mostrava come pervasa da una crisi drammatica, per un altro appariva anche piuttosto vitale (sebbene a debita distanza dalle consuetudini della chiesa ufficiale). Anche oggi il trend religioso della città eterna sembra destinato a procedere lungo queste due direttrici divergenti ma anche tendenzialmente parallele. Ulteriori indagini andrebbero però svolte per approfondire questo aspetto.
Lo stesso può dirsi in linea di massima per l’Italia, sia pure con qualche differenza sostanziale: la religione di maggioranza si innervava nella coscienza individuale guidata dalla legge di Dio secondo il 40,4% degli intervistati, su un campione ponderato di 4500 individui[22], nella sola coscienza individuale per il 36% dell’universo campionato ed esclusivamente nella legge di Dio per il 22,1%. Sul piano dei valori vissuti con soddisfazione si trovava al primo posto la famiglia su cui contare (nel 73% del campione), seguita dal lavorare con onestà ed impegno (secondo il 68% degli intervistati), dall’avere amici (per il 38% degli interrogati in proposito), dall’avere un buon rapporto affettivo (nel 35% dei casi), dall’essere sicuri del posto di lavoro (a detta del 34% dell’universo d’indagine). Più contenuti apparivano il dedicarsi agli altri (25%) e l’impegnarsi per modificare la società (22%).
Il quadro complessivo che ne risultava era variegato ma consolidava l’immagine di una religiosità diffusa e frattalica, frastagliata, con profili eterogenei. Secondo gli esiti della cluster analysis venivano classificati come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.

Nel dettaglio l’articolazione della religiosità italiana mostrava la seguente tipologia:

                1) Religione di chiesa orientata (eterodiretta)                9,4%

                2) Religione di chiesa riflessiva (autodiretta)              22,6%

                               Totale della religione di chiesa (1+2)          32,0%

                3) Religione modale (diffusa) primaria                         16,5%

                4) Religione modale (diffusa) intermedia                     21,6%

                5) Religione modale (diffusa) perimetrale                    21,0%

                                Totale della religione modale

                             o diffusa (3+4+5)                                         59,1%

                               Totale della religione continua

                            (1+2+3+4+5)                                                 91,1%

                6) Non religione                                                                    8,9%

                               Totale generale (1+2+3+4+5+6)              100,0%

Come si vede dalla consistenza percentuale delle sei classi attitudinali e comportamentali, la religione in senso lato (sia di chiesa che modale o diffusa) era largamente preponderante ed era ovviamente quasi tutta di matrice cattolica. Percentualmente, era minoritaria la religione di chiesa ed era maggioritaria quella diffusa (chiamata modale perché statisticamente è in pratica la moda, cioè il carattere al quale corrisponde la massima frequenza). Ma tra minoranza e maggioranza non c’era frattura, anzi spesso era difficile stabilire il discrimine fra l’una e l’altra, in particolare poi fra religione di chiesa riflessiva (più autonoma, più individualizzata, meno propensa ad accogliere le direttive del magistero ufficiale ecclesiastico) e religione modale o diffusa primaria (più diversificata rispetto all’appartenenza di chiesa). Infatti religione di chiesa e religione modale o diffusa erano in stretta relazione fra loro, anzi la seconda scaturiva dalla prima, per cui si poteva parlare di una vera e propria religione continua che concerneva il 91,1% degli intervistati, senza interruzioni del discorso religioso e dei suoi contenuti, specialmente in campo valoriale.
Ancora più convincente, se possibile, era quanto emergeva da una successiva indagine internazionale comparata fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism, che in Italia aveva visto impegnate le università di Torino, Padova, Trieste, Bologna e Roma. Il campionamento italiano era stato messo a punto dalla Doxa ed aveva riguardato 2149 interviste (1032 maschi e 1117 femmine, a partire dai diciottenni ed oltre), realizzate per 742 casi in comuni capoluoghi e per altri 1407 in centri non capoluoghi.
Il 97,5% si era dichiarato cattolico; il 31,2% si era detto molto vicino alla chiesa; il 45,5% si era proclamato vicino ad essa. Il 51,1% aveva ricordato che all’età di dodici anni andava in chiesa almeno una volta ogni settimana, ma c’era pure il 21,7% che aveva parlato di più di una volta per settimana ed il 6,7% di una partecipazione quotidiana alle funzioni religiose.
Conferme significative sul gradimento della religione provenivano dalla valutazione se essa fosse più o meno importante rispetto a venti anni prima: il 29,6% aveva sostenuto che essa era ugualmente importante, il 22,2% che lo era un po’ di più, mentre il 12,8% aveva ritenuto che lo fosse molto di più.
Quanto poi al rapporto fra educazione e religione, era dato per scontato un nesso assai stretto soprattutto se si tiene conto che il 35,9% degli intervistati appariva molto influenzato dall’educazione ricevuta.
Va poi considerato che ben l’81,2% dell’universo indagato aveva ammesso esplicitamente di appartenere ad una chiesa, confessione, gruppo o comunità religiosa.
Infine l’86,4% aveva detto di dedicarsi alla preghiera, sebbene con diversificazioni sia quantitative (una o più volte) che temporali (ogni giorno o durante l’anno). 

In definitiva sembrano abbastanza provate due caratteristiche:

  1. i contenuti essenziali della religione sono i valori, ancor più dei riti e delle credenze;
  2. la funzione della religione risulta essere proprio la diffusione dei valori.

Pertanto la religione può essere intesa sostanzialmente come agente diffusore di valori.
Ciò era quanto emergeva fino a qualche anno fa. Nel frattempo non ci sono state altre indagini scientificamente affidabili a livello nazionale. Non vi sono però dubbi sulle dinamiche in atto, interpretabili in chiave di «religione dei valori diffusi». Occorrerebbe tuttavia promuovere quanto prima ulteriori studi empirici per accertare quale sia il livello di accelerazione (o meno) delle tendenze rilevate in precedenza.

Conclusione

Per un ventennio il concetto di religione diffusa è stato più volte adoperato per sperimentarne l’efficacia euristica. A partire da un’originaria applicabilità al caso italiano si è passati anche a proporlo in altri contesti in cui fossero caratteristiche la centralità e la numerosità di una specifica confessione religiosa. L’esito più significativo è dato dalla verifica del ruolo dei valori come base portante di molte espressioni religiose. Al di là della partecipazione (socializzante e consolatoria) alle cerimonie e della credenza-fiducia in qualcosa che, in termini sociologici, sfugge ad ogni analisi empirica, risulta che sono piuttosto i valori a fungere da chiave di volta della Weltanschauung religiosa.

Abstract

L’ambito ascrivibile alla religione dei valori diffusi andrebbe dalla categoria definita come religione di chiesa critica a quella indicata come religione critica come allontanamento, dunque comprendendo sia una parte della religione di chiesa (quella meno corriva), sia tutto l’arco della religione diffusa, sia ogni forma di religione critica. Secondo gli esiti della cluster analysis vengono classificati come appartenenti alla religione di chiesa il 32% degli intervistati, alla religione diffusa (o modale) il 59,1%, alla non religione l’8,9%.

The area that can be ascribed to the religion of diffused values runs from the category defined as religious (church) critical to that described as religious (distancing self from church) critical, and thus includes both a part of church religion (the less indulgent part) and the whole gamut of diffused religion, along with all forms of critical religion. Thus the framework of non-institutional religion appears much broader, being based on shared values which are represented essentially by choices acted upon by those interviewed, in terms of guiding principles of their life, commencing with education received.

Roberto Cipriani è docente ordinario di Sociologia e direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione nell’Università Roma Tre. È stato presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia e presidente del Comitato di Ricerca di Sociologia della Religione nell’International Sociological Association. Ha diretto come Editor-in Chief la rivista International Sociology. Ha condotto studi e ricerche anche in Grecia e Messico. Fra le sue pubblicazioni: Lévi-Strauss. Una introduzione (1988), Sociologie del tempo (1997), Metodologia delle storie di vita (19953), Il pueblo solidale (2005), L’analisi qualitativa (2008). Il Manuale di sociologia della religione (1997) è stato edito anche in inglese, spagnolo, francese, portoghese e cinese. Nel 2009 ha pubblicato presso Borla il Nuovo manuale di sociologia della religione.


[1] É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris 1912, trad. it. Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton Italiana, Roma 1973.

[2] T. Luckmann, The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, Macmillan, New York 1967, trad. it. La religione invisibile, il Mulino, Bologna 1969.

[3] H. Blumer, What is Wrong with Social Theory?, “American Sociological Review”, XIX, 1, 1954, pp. 3-10.

[4] R. Cipriani, Manuale di sociologia della religione, Borla, Roma 1997, p. 15.

[5] R. Cipriani, Religion,in G. Ritzer, a cura di, The Blackwell Encyclopedia of Sociology, Blackwell, Oxford 2007, vol. VIII, pp. 3853-3864.

[6] P. Lucà Trombetta, a cura di, Il mercato delle religioni. Prospettive americane e contesto italiano, “Inchiesta”, 136, 2002.

[7] P. Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique, précédée de trois études d’ethnologie kabyle, Éditions de Minuit, Paris 1970.

[8] P. L. Berger, T. Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday, Garden City, N. Y. 1966, trad. it. La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 1969.

[9] W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature, Longmans, New York 1902, trad. it. Le varie forme della coscienza religiosa. Studio sulla natura, Bocca, Milano 1904, 1945; Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 1998.

[10] T. Luckmann, The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, cit.

[11] R. Cipriani, Religion and Politics. The Italian Case: Diffused Religion, “Archives de sciences sociales des religions”, LVIII, 1, 1984, p. 32.

[12] R. Cipriani, R., La religione diffusa. Teoria e prassi, Borla, Roma 1988; ‘Diffused Religion’ and New Values in Italy, in J. A. Beckford, T. Luckmann, a cura di, The Changing Face of Religion, Sage, London 1989.

[13] R. Cipriani, a cura di, La religiosità a Roma, Bulzoni, Roma 1997.

[14] R. Cipriani‘Diffused Religion’ and New Values in Italy, cit., p. 24.

[15] R. Cipriani, La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1992; De la religion diffuse à la religion des valeurs, “Social Compass”, XL, 1, 1993, pp. 91-100; Religiosity, Religious Secularism and Secular Religions, “International Social Science Journal”, 140, June 1994, pp. 277-284.

[16] V. Cesareo, R. Cipriani, F. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, Mondadori, Milano 1995.

[17] F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace, Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, il Mulino, Bologna 2003.

[18] C. Calvaruso, S. Abbruzzese, Indagine sui valori in Italia. Dai postmaterialismi alla ricerca di senso, SEI, Torino 1985, p. 79.

[19] Ibidem, p. 80.

[20] R. Cipriani, La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, cit.

[21] R. Cipriani, a cura di, La religiosità a Roma, cit.

[22] V. Cesareo, R. Cipriani, F. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, cit., p. 180.

“Maestro” per vocazione

Credo che per il Professor Natale Ammaturo la relazionalità non fosse un problema. Avviare un colloquio con lui era abbastanza agevole. D’altro canto la sua appartenenza alla comunità dei sociologi fondata da Achille Ardigò con il nome di “Sociologia per la Persona” era una garanzia di lealtà e di solidarietà, caratteristiche che ho avuto modo di mettere alla prova con il Collega campano in situazioni anche problematiche e delicate, trovando sempre ascolto e disponibilità, indipendentemente dall’esito finale, magari non raggiunto nell’immediato ma solo rinviato nel tempo. Proprio come mi è accaduto nell’ultima occasione in cui ho interloquito con lui, per sostenere la causa di una Collega fortemente penalizzata, per di più in una sede universitaria che non era di nostra appartenenza od interesse.

Avevamo molto in comune: l’età, la meridionalità (per me acquisita ma di fatto caratterizzante), la passione per l’insegnamento, la cura estrema della ricerca, il farsi carico di problematiche altrui, la responsabilità (non certo invidiabile) della direzione di un dipartimento universitario e della presidenza di un corso di laurea, l’ordinariato nel settore scientifico-disciplinare di sociologia (generale), ma anche molto altro sul piano ideologico e comportamentale. In più, Natale Ammaturo aveva un atout a suo vantaggio: aveva anche fondato e diretto un’apprezzata pubblicazione periodica dal titolo Rivista ReS – Ricerca e Sviluppo per le politiche sociali. Per lui la res essenziale era quella pubblica, in particolare il suo governo, la sua gestione, la presenza sul territorio, a partire dall’istituzione scolastica dapprima e quella universitaria poi, in ordine di successione di tempo.

Ci si incontrava spesso, specialmente in convegni ed in riunioni della cosiddetta componente di SPe, ovvero di “Sociologia per la Persona”, definita dei cattolici ma in realtà inglobante anche non cattolici. Oppure, nelle mie puntate a Salerno non mancava l’occasione di un incontro magari fugace ma sempre cordiale, con la promessa di ulteriori e più distese frequentazioni.

C’è però un’immagine che mi è rimasta ben impressa: se penso al Professor Ammaturo non posso non vederlo accompagnato da sua moglie, la Professoressa Tullia Saccheri, Collega sociologa dell’Università di Salerno, particolarmente versata nel campo della sociologia della salute e già Presidente della SISS, Società Italiana di Sociologia della Salute. Dico questo perché solo molto raramente, magari una sola volta, mi è capitato di imbattermi in Natale senza Tullia o in Tullia senza Natale, con le debite spiegazioni per l’assenza dell’altra persona di una coppia molto affiatata.

Natale era anche un grande organizzatore e promotore di attività scientifiche e culturali. Non a caso, nel 1974 aveva fondato il CEIM, Centro Educazione Istruzione Mezzogiorno, un ente di formazione, con sede a Mercato San Severino, in provincia di Salerno. Nell’ambito delle attività del CEIM aveva pubblicato Il consumo culturale dei giovani. Una ricerca a Napoli e Salerno (CEIM, Mercato San Severino, 2008) ed insieme con Emiliana Mangone Locale-globale verso quale sviluppo? Il caso del comune di Laviano (CEIM, Mercato san Severino, 2008).

La sua propensione verso gli altri traspare dai suoi contributi scientifici più significativi, che appunto non senza significato hanno come titoli: Noi, gli altri, il mondo (Loffredo, Napoli, 2015) e La dimensione della solidarietà nella società globale (Angeli, Milano, 2005), nonché Educazione e società (Angeli, Milano, 2000). Né gli mancavano interessi ad un livello teoretico più generale, come esplicitato nell’opera Elementi di epistemologia sociologica (Angeli, Milano, 2004).

Come ha scritto Ignazia M. Bartholini, a nome dell’Associazione Italiana di Sociologia, “ci piace ricordare Natale soprattutto per la capacità di guardare e riconoscere l’alterità valorizzandola nelle sue peculiarità, di vivere le relazioni amicali con una generosità e autenticità difficilmente arginabili, e di stare nel mondo con la gentilezza, la mitezza e l’umorismo lieve che gli appartenevano e che ricorderemo sempre”.

Ma l’appellativo che meglio descrive la sua attività di studioso, ricercatore, docente ed intellettuale è quello di “Maestro per vocazione”, per l’afflato posto nel suo intendere la scienza e l’insegnamento in termini di Beruf di matrice weberiana. Appunto Weber sosteneva che l’educazione può produrre due effetti diversi: rendere più uguali i membri di una società in modo che tutti possano accedere ai livelli più alti, come stato sociale e come tipo di lavoro, oppure accrescere le differenze, riducendo le opportunità e stratificando ancor più la società. Natale Ammaturo da Maestro per vocazione ha dato il suo contributo esemplare per evitare che le nuove generazioni si limitassero ad accettare lo status quo di una società ingiusta.

Lavoro, economia e preparazione al futuro

La complessificazione del lavoro e dell’economia

Lavoro ed economia sono cambiati, all’inizio del nuovo millennio, in misura di gran lunga maggiore rispetto a quanto fatto registrare all’epoca della rivoluzione industriale. In effetti il periodo posteriore all’affermarsi e diffondersi della società industriale sta già facendo intravedere nuovi scenari, di cui la flessibilità del lavoro e la complessificazione dell’economia sono i primi e sempre più evidenti segnali. Sociologi ed economisti sono in particolare difficoltà nel tracciare un’analisi della presente società e soprattutto sembrano avere pochi strumenti per ipotizzare quali possano essere gli sviluppi futuri.

Si parla di società flessibile e liquida, di lavoro sgranato, divenuto un particolato sfuggente a qualificazioni precise.

Intanto in Italia ed in Europa però le conseguenze sono evidenti: il calo demografico è solo in parte compensato dalla nascita di neonati stranieri, i giovani rinviano l’età del matrimonio, il lavoro è in genere caratterizzato dalla precarietà e dall’incertezza, ogni nuova impresa appare rischiosa anche per la costante mutevolezza della normativa in materia.

Le soluzioni non mancano. Molte sono allo studio. Alcune sono già in atto ma i risultati non appaiono chiari.

Il punto cruciale è riuscire ad amalgamare le istanze soggettive con gli interessi collettivi, il lavoro con la sicurezza, la prestazione d’opera attuale con le previdenze del futuro, gli imprevisti (incidenti, malattie, ecc.) con le provvidenze del caso.

Ancora una volta si tratta di cercare intensamente e scientificamente il punto di convergenza più adatto, di volta in volta, ad affrontare le emergenze.

Il ruolo del tempo

In questo quadro così difficile da leggere ed interpretare c’è una categoria concettuale che può svolgere un ruolo-chiave: il tempo. Si deve infatti ad accelerazioni temporali il nuovo scenario costituito dal mercato del lavoro dove la rapidità delle informazioni, per esempio, fa agio sulle competenze di settore e dove le durate dell’impiego incidono direttamente sui risultati. Com’è noto, in alcuni ambiti l’obsolescenza non solo dei prodotti ma anche – è una constatazione – delle risorse umane (o, meglio, delle persone) è un dato di fatto che si considera ormai scontato.

Un atteggiamento lamentevole, però, non paga, di fronte a problematiche che hanno già una loro configurazione ben radicata, modelli di comprensione sofisticati, prassi consuetudinarie e routines immarcescibili.

Ecco dunque delinearsi la necessità di studi mirati al problem solving, nell’interesse congiunto delle persone e della loro collettività di appartenenza.

Su questo terreno è evidente che hanno un ruolo strategico le reti solidaristiche di intervento, orientate allo scopo in forma responsabile, condivisa, partecipata, consapevole.

Ed anche qui emerge, una volta di più, la questione formazione, ovvero la cultura della sociabilità come caratteristica diffusa, innervata nelle agenzie educative (dalla famiglia alla scuola, dalla cooperazione aziendale alla sportività di squadra e così via).

In ogni caso il fulcro resta la dimensione temporale, con particolare riferimento all’uso ed alle scelte del tempo, caso per caso, momento per momento, azione per azione.

In un mondo globalizzato permane comunque la struttura fisica di soggetti umani la cui esistenza fa continuamente i conti con le possibilità di accesso o meno alle potenzialità offerte dall’economia, dalle condizioni peculiari di un territorio, dalle chances di una rete informatica, dalle abitudini di tipo inventivo-innovativo.

Insomma il tempo appare la chiave di volta di molte soluzioni nel campo dell’economia e del lavoro. E dunque un’adeguata didattica del tempo o, meglio, del suo utilizzo può offrire nuovi inputs in chiave di inserimento nel sociale e di corretta gestione della sociabilità umana.

Intanto occorre prendere atto che gran parte dell’economia contemporanea si basa sulla velocità come vera e propria sfida, nonché strumento di concorrenza. Ma l’eccesso di velocità produce anche errori, fa vittime, soprattutto non consente recuperi e modifiche in corso d’opera. Se poi la struttura aziendale è di dimensioni notevoli è ancora più difficile rimediare ad una cattiva qualità del prodotto. Gli interventi di assistenza e di riparazione diventano impraticabili in assenza di un’adeguata ed efficiente organizzazione. E quando manca un’analisi preventiva delle possibilità di guasti ed errori le conseguenze sono pagate, anche drammaticamente, dagli stessi lavoratori.

Le potenzialità dell’informatica

È vero però che il tempo gioca pure a favore di soluzioni agevolate, rapide, immediate, specialmente quando esiste una rete informatica che favorisce la ricerca di un posto di lavoro, di canali di distribuzione e vendita, di provvidenze assicurative e previdenziali tra cui scegliere a ragion veduta. Le nuove risorse in proposito provengono, fra l’altro, da EURES (EURopean Employment Services – Servizi europei dell’occupazione), che consente sia la circolazione dei lavoratori in Europa mediante forme di consulenza, assistenza ed informazione, sia l’operatività dei datori di lavoro che vogliono accogliere manodopera straniera. Grazie ai servizi pubblici di ciascuno stato membro dello Spazio Economico Europeo (SEE), chi cerca lavoro accresce le sue competenze e fa esperienze utili, anche con esiti immediati. Una rete di consulenti è a disposizione dei lavoratori e dei datori di lavoro. Tale rete è territorialmente ben distribuita ma poco conosciuta e dunque scarsamente sfruttata.

Molte volte prende lo scoraggiamento quando non si hanno a disposizione gli elementi di base: le notizie essenziali, le linee di orientamento, l’attività di collocamento. In particolare il bisogno riguarda la conoscenza del mercato del lavoro, delle possibilità di alloggio, delle offerte formative specialmente per le generazioni più giovani, delle risorse sanitarie ed ospedaliere, dei prezzi relativi ai beni di consumo primario, del sistema di tassazione, delle provvidenze per la sicurezza sociale, delle qualifiche previste, delle relazioni sociali praticabili, delle forme di associazionismo disponibili sul territorio.                          

La modalità di accesso alle offerte di lavoro comporta di solito la compilazione di un curriculum vitae da cui può dipendere, almeno in parte, il buon esito della ricerca di occupazione. Il dato di fatto è che non molti sono in grado di predisporre una buona presentazione di se stessi attraverso lo strumento curricolare. Dunque anche a questo livello minimale occorre porre specifica attenzione,  per diffondere alcune linee essenziali, che mettano tutti gli aspiranti lavoratori in grado di provvedere a se stessi, senza dover ricorrere a terzi per la redazione di un documento di partenza tanto rilevante. Ben più complesso è poi l’itinerario che conduce ad inserire in rete il proprio curriculum: quali canali privilegiare? Preferire le formule a pagamento o quelle assolutamente free, sostenute da istituzioni pubbliche?

C’è poi il problema ricorrente degli eccessi di manodopera in alcune aree e di carenza in altre, senza che si crei l’opportunità di una relazione del tipo “vasi comunicanti”. Anche in questo caso l’opzione informatica può giovare per risolvere le necessità di riduzione dell’esubero da una parte e di incremento dell’occupazione dall’altra. La questione non riguarda solo la dimensione territoriale ma più spesso concerne peculiari settori di attività, che possono essere quelli dell’alta tecnologia o dei servizi per la salute.

Le nuove prospettive internazionali

Se conviene oramai non tenere più conto solo dei confini provinciali e regionali, ed anche nazionali, perché siamo tutti cittadini dell’Europa allargata ad una trentina di stati (e nel futuro anche di più), è opportuno parimenti non trascurare del tutto le problematiche riguardanti le zone frontaliere, che comportano difficoltà di varia natura (amministrativa, finanziaria, legislativa, comunicativa, ecc.). Nella misura in cui pure tali questioni vengono affrontate e risolte risulterà poi più percorribile la strada dell’intercultura piena, delle relazioni fra eguali, dei rapporti socio-politico-economici alla pari.

Sono le forme di cooperazione intersettoriale, intercomunitaria ed interaziendale che possono creare ricchezze per tutti, mercati maggiormente condivisi, lavori più gratificanti, organismi socio-economici fondati sulla libera partecipazione degli interessati. L’ideale sarebbe poter praticare libere forme di discussione e condivisione attraverso tavoli comuni fra lavoratori e datori di lavoro, fra cittadini comunitari e stranieri, fra ambiti diversi di esperienza lavorativa.

La disponibilità di una moneta comune, di una rete di trasporti in superficie a vasto raggio (su ferro e su gomma) – per non dire delle vie aeree – permette di esperire soluzioni inusitate e percorsi del tutto innovativi. D’altra parte lo stesso ricorso a modalità di basso costo non fa che aumentare le potenzialità e le vie di accesso a mercati ed aree in precedenza quasi irraggiungibili.

C’è altresì un dato culturale da valutare in tutti i suoi riflessi: la propensione a restare legati al proprio municipio di origine. Questo non è certo un vantaggio in una società sempre più complessa, articolata, flessibile, frattalica. Il rischio è indubbiamente quello di un difficile radicamento altrove, ma se il discorso sulla sociabilità va oltre – pur senza dimenticarli – gli affetti familiari, i legami amicali, le reti associative adolescenziali, allora nuove situazioni possono presentarsi ed offrire altrettanta relazionalità.

Le prospettive occupazionali e di progressione professionale non si giocano in un unico, ristretto cerchio di riferimento quasi solo ombelicale, ma si allargano sino all’intero continente europeo ed anche ben oltre.

D’altro canto il lavoro ha un carattere sempre più interculturale, differenziato, molteplice, plurilingue. Il che, invece di rappresentare uno svantaggio, può essere persino giocato in termini di opportunità ulteriore, di allargamento delle sfere di azione, di ampliamento dei contatti umani. In tal modo non saranno più solo la concorrenza e la velocità di intervento ad avere la meglio ma la capacità di interazione fra le persone, tutte (o quasi) coinvolte nella medesima progettualità sociale, fondata sempre più sulla persona umana, sui suoi diritti e sui suoi doveri.             

Senza più frontiere

Lavoro ed economia sembrano non conoscere più frontiere, dopo gli accordi di Schengen e le successive normative in materia. Nonostante alcune limitazioni tuttora in vigore, è pur vero che la libera circolazione dei lavoratori in Europa è un dato di fatto, un esercizio reale di libertà, che non necessita di un permesso particolare, poiché si tratta di un diritto comunitario. Da un punto di vista normativo, comunque, molto ancora dipende dagli accordi bilaterali fra gli stati, non sempre disponibili a stipule tempestive. Insomma si è ancora in una fase di transizione, prima dell’accettazione completa del principio.

Fra l’altro il tasso di disoccupazione, in Italia come in Europa, rimane ancora alto, ma vi sono variazioni stagionali accentuate che vedono mutare l’andamento dell’offerta di lavoro, segnatamente in alcuni settori, dal turismo all’agricoltura, dall’edilizia alla sanità.

Ci sono poi i problemi di adattamento, non sempre risolvibili in un breve lasso di tempo, soprattutto quando vi sono differenze linguistiche, culturali, religiose, fiscali. Per non dire del riconoscimento delle competenze già possedute, non sempre annoverate fra quelle omologabili con le professioni già consolidate nei paesi di accoglienza. Per ora esiste una lista europea delle equivalenze professionali ma in diversi casi non vi è alcun riconoscimento. In proposito è già in funzione una piattaforma interattiva cui accedere per ottenere le informazioni necessarie, ma ben pochi ne sono a conoscenza. Dunque una volta di più solo chi è aggiornato sopravanza tutti gli altri e consulta in modo mirato i vari portali informatici. Ciò porta invero a risultati positivi in chiave di mobilità socio-professionale, soprattutto quando a visite informatiche seguono altre visite più personalizzate presso gli esperti del settore ed i consulenti messi a disposizione dall’Unione Europea.

Un buon servizio per chi cerca lavoro è offerto pure dalla stampa specializzata, riviste, mensili e settimanali che pubblicano annunci di posti vacanti e di ricerca di personale. Ma ci si può rivolgere anche ad agenzie pubbliche e private che operano (a titolo gratuito o meno), fra l’altro anche per la disponibilità di lavoro interinale.

Non tutti sanno, poi, che è possibile, a determinate condizioni, ottenere il trasferimento dell’indennità di disoccupazione pure all’estero fino a tre mesi. Queste ed altre facilitazioni rendono possibile un periodo iniziale di esperienza, prima di trovare un lavoro non precario.        

Il sostegno a livello locale

Il livello di impegno dell’Unione Europea nel campo della ricerca si aggira attorno al 2% del Prodotto Interno Lordo, mentre altrove si registra un punto in più di percentuale (non solo in Giappone ma anche in Corea). A risentirne è la capacità d’innovazione, che, priva della ricerca, non è in grado di raggiungere validi traguardi economici ed occupazionali, competitivi con le altre economie mondiali. Non vi è in effetti un’adeguata crescita economica, la produttività è contenuta, non si creano molti altri posti di lavoro.

Il sostegno di integrazione può giungere dalle politiche locali (municipali, distrettuali, provinciali, regionali, nazionali), finalizzate ad ottenere risultati di rilievo nell’ambito di un processo economico di sviluppo, collegato ad un quadro più ampio in chiave comunitaria. Si tratta di far acquisire anche ai soggetti locali la consapevolezza di contribuire al progresso globale dell’Unione Europea. Le strategie per l’occupazione non funzionano se circoscritte al contesto periferico. Ormai la partita si gioca su altri piani, per accedere alle risorse necessarie alla ricerca ed all’innovazione. Se torna utile la propensione a costituire distretti locali mirati ad un certo tipo di produzione, nondimeno il loro esito economico ed occupazionale dipende anche dalla loro connessione con il più vasto quadro internazionale, almeno europeo.

Non si può non constatare in proposito che gran parte della ricerca (due terzi) e dell’innovazione è concentrata in tre paesi: Francia, Germania e Regno Unito. In Italia ed altrove in Europa, ben poco si fa e per di più quasi tutto è concentrato in aree abbastanza limitate e limitrofe a grandi aree metropolitane (si pensi al caso esemplare di Roma e Milano).

Nel primo decennio neo-millenario i fondi strutturali europei hanno destinato oltre 10 miliardi euro per infrastrutture d’indagine, innovazione, progetti, trasferimenti di know how, formazione dei ricercatori. Fino al 2013 saranno incrementati gli interventi a livello regionale per ricerca ed innovazione (sviluppo), con specifica predilezione per iniziative di collaborazione fra imprese e ricerca pubblica, creando distretti regionali ed interregionali tesi a favorire in primo luogo le piccole e medie imprese, una prerogativa cioè tipicamente italiana nel campo dell’economia e del lavoro. Ma l’attenzione sarà posta – si dice – principalmente sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), onde valorizzare le infrastrutture di ricerca ed in primo luogo il capitale umano.  

In Italia è il Lazio con Roma l’area che investe maggiormente in ricerca e sviluppo. Segue poi gran parte dell’area centro-settentrionale-occidentale (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana, Abruzzo e Campania). I dati delle rimanenti regioni sono quasi trascurabili.

Ecco perché una quota significativa dei fondi strutturali fino al 2013 sarà destinata alle regioni del cosiddetto obiettivo “Convergenza” (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) per “ricerca e sviluppo tecnologico, innovazione e imprenditorialità, incluso il potenziamento delle capacità di ricerca e sviluppo tecnologico e loro integrazione nello Spazio europeo della ricerca (infrastrutture comprese); sostegno alla ricerca ed allo sviluppo, segnatamente nelle piccole e medie imprese (PMI), e al trasferimento di tecnologie; miglioramento dei legami fra le PMI, l’istruzione universitaria, gli istituti di ricerca e i centri di ricerca e sviluppo tecnologico; creazione di clusters e reti di imprese; partenariati pubblico-privato; sostegno alla prestazione di servizi commerciali e tecnologici a gruppi di PMI; promozione dell’imprenditorialità e finanziamento dell’innovazione per le PMI attraverso nuovi strumenti di ingegneria finanziaria”.

Invece rientrano come regioni di phasing-in (sostegno provvisorio) la Sardegna e di phasing-out (esclusione progressiva) la Basilicata. Tutte le altri regioni italiane sono coinvolte per l’obiettivo “competitività regionale e occupazione”, cioè “innovazione e economia della conoscenza, tramite il sostegno alla creazione e al potenziamento di efficaci sistemi regionali di innovazione in grado di ridurre il divario tecnologico e che tengano conto delle esigenze locali”.

Le azioni europee per il lavoro e l’economia

I prossimi anni vedranno un forte impegno europeo attraverso l’Ottavo Programma Quadro (FP8) per la cooperazione fra università, industria, centri di ricerca ed autorità pubbliche; per la creatività e l’eccellenza nella ricerca di base e di “frontiera”; per la formazione, la mobilità e lo sviluppo; per il miglioramento delle infrastrutture e dei distretti regionali di ricerca, delle PMI, dei contatti fra scienza e società, della cooperazione internazionale.

Inoltre la Banca europea per gli investimenti promuove due iniziative: la Jaspers (Joint Assistance for Preparing Projects in European Regions, Assistenza congiunta ai progetti nelle regioni europee) e la Jeremie (Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises, Risorse europee congiunte a favore delle microimprese e delle piccole e medie imprese).

Nell’ambito del Programma quadro per la competitività e l’innovazione, poi, sono programmate tre attività: la prima rivolta all’innovazione ed all’imprenditorialità delle PMI; la seconda che concerne il sostegno alla politica dell’ICT, cioè delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; la terza che riguarda il programma “Energia intelligente-Europa”.

Infine viene promossa una politica comunitaria in materia di concorrenza e aiuti di stato, per stabilire regole relative ad un maggiore impegno delle imprese nella cooperazione transfrontaliera, al partenariato pubblico-privato, alla sicurezza giuridica per gli enti di ricerca senza fini di lucro.

Investire nel sociale

Investire nel capitale economico è certamente necessario per condurre la ricerca e promuovere lo sviluppo e l’occupazione ma non basta per garantire un’equa distribuzione fra gli aventi diritto, fra i cittadini ed i lavoratori partecipi. Sorge dunque un’ulteriore necessità: quella di investire nel capitale sociale, sul territorio, sulle risorse culturali, sulla formazione, sull’aggiornamento, sulla mediazione sociale, sulla concertazione socio-sindacale e politica, senza trascurare la centralità del lavoro come risorsa umana primaria non cedibile sottocosto ed a qualunque condizione ambientale, temporale, gestionale.

Di recente è stata sperimentata la soluzione di una “flessibilità dolce”, differenziata secondo necessità soggettive e territoriali. Si è altresì coniato il termine di flexsecurity per trovare un punto di convergenza fra esigenze di flessibilità espresse dai datori di lavoro ed esigenze di sicurezza sostenute dalle forze del lavoro. Più che sul dissenso e sulla contrapposizione vi è una tendenza a puntare a soluzioni consensuali, che contemplino in pari tempo diritto alla formazione permanente e contratti a termine su progetto, allungamento del periodo di prova e maggiori garanzie sulla sicurezza sia del posto di lavoro che della previdenza post-periodo lavorativo.

Tutto ciò significa altresì un cambiamento di mentalità e di cultura nelle relazioni industriali. Insomma la libertà di espressione delle istanze fondamentali non può essere espunta dalla codificazione vigente in materia di lavoro. Un punto di convergenza può essere sempre trovato fra ottiche anche contrapposte. Imprese economiche e forze-lavoro sono cointeressate alla costruzione di ricchezza, al progresso economico ed al pieno sviluppo in chiave di occupazione.

All’orizzonte non mancano nuove ed interessanti prospettive: il futuro pare fortemente caratterizzato dalle problematiche di gestione dell’ambiente. Dunque un nuovo campo di ricerca e sviluppo è già prospettato, ma occorrono nuove sinergie, nuove convinzioni, nuovi adattamenti a livello economico, culturale, formativo. I talenti non mancano, è invece carente lo spirito di collaborazione, in grado di superare i personalismi e le difficoltà dovute ai mutamenti tecnologici e commerciali. Nuove soluzioni non si inventano se non c’è capacità di auto-imprenditorialità a fronte di crisi e nuove sfide. In Italia è ancora tutta da sviluppare una mentalità aperta alla ricerca ed all’innovazione. Ad esempio il cosiddetto spin off, cioè la trasposizione delle conoscenze acquisite dentro l’università verso soluzioni imprenditoriali all’esterno degli atenei, è poco praticato: solo poche centinaia di casi in tutta Italia. Insomma i tentativi sono minimi rispetto alle potenzialità reali. Occorre pertanto riflettere sulle motivazioni di una così scarsa propensione alla novità, al rischio, all’investimento sul proprio capitale umano e sociale. In definitiva ci si arresta sulla soglia del provvisorio, del precario, senza dare consistenza ad un progetto serio, a lunga gittata, capace di crescere ed offrire soluzioni occupazionali di largo respiro, per sé e per gli altri

Body and biology

Generally speaking, scientific knowledge regarding the reality assumes prevalently mono-disciplinary forms. Inter-disciplinary analytical endeavours are rather rare and, more often than not, they encounter contestation, reluctance and criticism, aimed mostly at matters of content and methodology. It is difficult, however, to deny that the presence of differentiated perspectives can bestow greater trustworthiness on results. If anything, the critical issue is how to overcome the diffidence which prevents scholars from remaining open to confrontation with ambits outside of their usual areas of competence and questioning the know how they already possess. Undoubtedly the inter-disciplinary choice will not be of interest to scholars who retain that their own is the only truly rigorous, correct and serious discipline. A physicist, for example, who does not consider ethology truly worthy of the epithet scientific, will find it even more difficult to emerge from his/her shell and venture into the flexible area of fuzzy sciences like sociology or psychology.                                                                                                                    To tell the truth, previous operative attempts have been made to conjugate, for example, biology and sociology, and these have produced mixed solutions, like those advanced by socio-biologists like E. O. Wilson (1975), S. S. Acquaviva (1983), A. S. Franklin (2002), T. Newton (2003). But the meagre results of these attempts need not act as a barrier to ulterior proposals of inter-disciplinary collaboration between sociology and biology (in different terms and with a more open mind) concerning the development of areas of convergence and divergence, the latter due to limitations typical of the human subject. One may refer, for example, to cases of the so-called exact sciences being inspired by sociological methodologies (for example phyto-sociology, which studies communities of vegetables that emerge spontaneously in nature) or ethno-botany (which studies relationships between plants and humans).

A newborn baby receives a special type of imprinting due to its mother’s bacterial flora[1]. This initial “contamination” is implemented by the vagina. The baby is delivered after a number of hours’ contact with the mother’s vaginal canal. In the case of delivery unhindered by technological intervention, the mother, immediately after birth, brings her baby spontaneously to her breast, not to feed it but to look at it. This is a profound kind of contact, caused by a specific endorphin hormonal cocktail to which mother and child are subject during this phase: this process is called bonding.

When child is born he is composed only of his own cells (there is, however, a subsequent transmission of maternal bacterial flora, after birth, however). The immune system is not yet active and, therefore, the individual is open to acquisition of many elements coming from without. And so, various microorganisms begin to develop on and in the child’s body, beginning with the more easily reachable external parts (paradoxically some of the less accessible and sterile inner tissues are more malleable) due to exterior, heteroclite impact. In actual fact, the human child, from the moment of its conception begins a relationship with another subject: its mother. When, later, after delivery, when the neonate comes into contact with the external environment, a number of areas of its body are invaded by microbes. But, at the same time, its brain too, that is, its mental apparatus begins to receive and assimilate new messages, inputs. Their characteristics, like those of microbes, protozoans, fungi, and viruses (which are not cells), do not differ substantially from one another, seeing that their structures are quite similar. A kind of symbiosis is built up slowly and gradually between the newborn’s body and the microflora of the environment; but between it and the voices, tones and gestures of the others belonging to the social milieu, another kind of symbiosis emerges too. It is by no chance that one speaks of symbiotic bacteria which co-evolve with the human bodies that are the seat of their engraftment. Analogously, one may also consider the infant-mother and the adult-child bonds as symbiotic. This kind of ever-growing symbiosis ensures that the link thus established become increasingly mutual and imitative, something extremely useful during the early learning and socialisation phases of development. One must consider the fact, however, that it is not so much a question of one type of microorganism as of a microfloral milieu (micro meaning small but also microbic) colonising various parts of the body. The same may be said of human relations during the early stages of life: a striking compound of interpersonal, linguistic and behavioural exchanges take place, together with habits that begin to crystallise and consolidate to become a kind of bedrock which will be very difficult to undermine or change later on in life. The same is true of and regards every sphere of the surrounding environment on the whole. This is true, for example, of natural biodegrading processes where pollutants trigger off series of procedures on the part of microbes, protozoans, minuscule worms and other tiny metazoans, which transform them into polluted liquids and purify them: which is exactly what happens to fluvial sediment or the active sludge treated by urban waste purification plants. In these environments, too, what might be deemed a microfloral community, classifiable as the genome of those particular contexts, springs into action.

At human level, transformations occur as the result of a number of key-interventions which bestow direction on the life of an individual, causing him/her to change course due to conviction or as the result of conscious and autonomous choice, although, later on, it is not possible to establish what the results of a presumably significant influence may be. Something similar happens when microflora digests a pollutant, before re-releasing the decomposed matter (even in the form of gas) into the environment. To this regard it is possible to speak of plagiarism or enforced education.

It should be noted that specific microfloral elements are capable of adapting themselves to some very peculiar environments and combine, for example, with volcanic or sulphurous contexts. It is important to keep in mind, however, that outside of certain environments and ecological niches some microfloral components would be unable to survive. The opposite also holds because the microflora in and on our bodies would be unable to resist in volcanic or sulphurous conditions.                                                                                                                     
Therefore, one can say that microfloral elements are endowed with a specific and well-known degree of both adaptability and complexity. The microflora of the oral cavity differs from that of the mouth and that of the faeces (of which it is a relevant component, weighing about one fifth of the whole). Its structure, however, is extremely diversified and, in this, might be compared to complex and differentiated social communities. In the case of human society, variability is even more far-reaching and varied and presents characteristics shared by a given group, but also found in distant and not necessarily similar contexts. Above all, one trait of human society needs to be underlined explicitly and clearly: the society of people is always associative and collective, with a constituent and distinctive profile of its own.

It must be pointed out that society on the whole, like microflora, is no mere mosaic comprising many tesserae but a structure in its own right, enclosed, one might say, in a particular environment necessary to its effective functioning. However, the components of the structure do not remain confined forever within this reference frame, but may be expelled, ousted, ejected (as is the case when one coughs, blows one’s nose, salivates, etc.). The tiny structural parts will stay in their niche, carry out their functions and grow together. Similarly, a given social group will remain within a given territory, characterise, define, colonise and transform it.                               

Now, if a sole element is expelled from the microfloral or social community as described here, there is no guarantee that it will be able to grow elsewhere. On the other hand, the subtraction of even a sole element may trigger off the decline of all the other members of a microfloral colony, of a social group, of a community group. During purification processes, like that of the biodegradation of pollutants present in water, many transformations occur which lead, eventually, to the creation of a series of final products due to the biodegrading process itself. Following a similar kind of general procedure, one might say that in the case of human societies too, change gives rise to something different, day after day, even if continuity with the past is never broken. In other words, social companies never repudiate their identity completely but proceed by degrees, slowly, building on the pre-existent.

Variation within the microfloral milieu can lead to pathology. For example, an excessive quantity of a given microfloral element in the mouth can cause periodontal disease. If a single component develops too much, this imbalance will alter the microenvironment of all the other elements, so that the person whose mouth hosts this altered microflora will suffer pain and discomfort. It may also occur that, in the absence of one element, all the others may readjust. In brief, the members of a microfloral community are inter-related and the imbalances produced impact on the host, on the ecological niche, on the surrounding environment, bi-univocally. This is exactly what one finds in human social groups or communities. The “suffering”, the discomfort, of a single member has an impact on the rest of the group, so that consequences, changes and effects of all kinds are produced. If a social actor wields excessive power, this fact produces change within the relative social framework. All the other members of the group perceive this power as authoritarian and as an imposition, different, in any case, from the normal flow of the social “fluid”, that is, of the social lymph, the “amniotic” liquid, which guarantees the survival of all social beings. 
At this point we may refer to Craig Venter’s examination of the microorganisms present in the Sargasso Sea (Venter et alii 2004), where the microflora presents an amazing morphological, genetic and functional variety of microbic species, as found, besides, in other natural matrices, like soil, water, debris. But the Sargasso Sea would not possess the singular characteristics it does without its particular microflora, taken as a dynamic whole, like other microfloral complexes.
Some fluids, however, in order to avoid serious danger, need to be sterile, like cerebrospinal fluid or sperm and even blood itself; all of these are devoid of microflora, at least when the body enjoys normal good health.

From this it may be deduced that it is not useful to consider single elements independently of all the others, but that it is necessary to focus on the community as a whole. In other words, it is opportune to study the group in order to grasp the relationships existing between the individual and the community as well as between the group and its single members.                                            

The coincidence between body fluids and the liquid society is truly singular; no mere fluke in Baumanian (Bauman 2000, 2003) terms. This coincidence is accentuated by the contingent contemporary situation, which witnesses the liquefaction of the solid structures of the past. Lack of employment, the end of job security and the increased mobility of individuals, due to globalisation processes, have created conditions favouring unwonted and persisting flexibility (for the moment, at least). The individual and the social are interlinked more, perhaps, than ever before, just like the DNA microflora clings almost inextricably to the human body. But an unexpected event may cancel a job, creating instability; in the same way, the action of a human being and/or of an external, environmental biological factor can undermine the bond existing between a DNA microfloral reality and the body that hosts it.                                                                                     

What is most intriguing is, however, the fact that the ejection of even a sole microbe from its community produces effects that cannot be underestimated. One needs, of course, to discover the reasons for the separation, the motives, the independent variable that favoured it.

The theory of situational determinism advanced by Lucy Suchman (1987), with its “ situated cognition” and “situated action”, considers the environment as a part of the cognitive and operative process; it holds that knowing is linked to doing and belongs to social, cultural and physical frameworks. It is a fact, however, that today there is a marked tendency to come to terms with a kind of modernity where no solid, tendentially static, protective, sheltering, safeguarding haven exists any longer. In actual fact, we are now obliged to renounce many certainties and allow ourselves to be assailed by myriad existential worries of all kinds. The stabilisation of a community is no longer a given. Work placement is an increasingly recurring worry. Bankruptcy and redundancy loom on the horizon which draws closer and closer. The socio-economic crunch is no longer a marginal issue that concerns only the few. Instability and flexibility are practically the norm fixed in time and space. All told, as Bauman writes, jobs in consolidated workplaces appear today as a memory from the past; no special skills or experiences exist which, once acquired, are capable of guaranteeing a permanent and, above all, lifetime job (Bauman 2000: 161). The same may be said of the liquid elements present in some of the body’s cavities: they are not guaranteed to last in time, exposed as they are to environmental degradation, to interaction with others and with other bacterial communities which come into contact with the oral, intestinal and vaginal mucous areas of the body. These biological fluids, once they enter the environment, are subject to ulterior modification, caused by various agents including other microorganisms. The microbial signature determined by residues of mfDNA does not last very long either and yet, although no longer vital, it can, nonetheless, permit us to recognise its origin. This is true too of social individuals, whose origins are hard to conceal for various reasons (from the language they speak to the colour of their skin, from their somatic traits to their cultural attitudes and behaviour). Vestiges of ancient civilizations, documents, ruins and architectural remains, which survive the ravages of time and destruction, tell far more than the story of their specific original function, reflecting, as they do, the complexity, history and roots of the society that produced them. Similar information is by no means static, therefore, but its traces assume a dynamic and complex significance in the light of the original texture that gave birth to it.

The liquid form is also the means by which to escape from the solidity of power, however it may be expressed, and enter mobility, flexibility and free circulation. Post-modern liquid society seems to provide increasingly broader degrees and ranges of freedom, though instability weakens existing bonds. And that is now membership of communities dwindles and leads to the affirmation of individuals without ties.
In more explicit terms, Bauman holds that solidity is a curse, as is the case with every other form of persistence, because the latter is a sign of dangerous inability to adapt to a world which changes in rapid and unforeseeable manner, to the opportunities it unexpectedly offers and to the speed at which yesterday’s resources become tomorrow’s burden (Bauman 2001: 231). In reality, what the idea of individualisation brings with it is emancipation from the unwritten, inherited determinism innate to its social character (Bauman 2001: 144). The individual can no longer count on a haven in which to seek refuge. There is no further security.          

Finally, one position from which to study the organization of human societies (Donaldson 2001) might be that provided by the mfDNA approach which is used for analysis of microbial communities. According to this perspective, the community is neither a mosaic nor a sum of different identities but something akin to a new, compound being, characterised by its own genome: the mfDNA. It involves, in particular, a kind of colonisation, the outcome of events, contingencies, probabilistic dynamics, interrelationships between the individual (or society) and the environment.

Furthermore, community does not imply a mere list of species but a milieu that exists to serve their relative, not simply single and bi-univocal representations and interrelationships, acting within a complex multifactorial network characterized by a preliminary mathematical-model approach.

In conclusion, it is possible to introduce a new perspective, driven by the mfDNA approach and biology, and suggest a wider context capable of improving our understanding of the role of individuals within societies. We propose a new tool, the “social mfDNA model”, as an interior indicator of the properties, composition and dynamics of human society.

References

S. S. Acquaviva, La strategia del gene, Laterza, Roma-Bari, 1983, 1992 (6th edition).

Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge, 2000.

Z. Bauman, The Individualized Society, Polity Press, Cambridge, 2001.

Z. Bauman, Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, Polity Press, Cambridge, 2003.  

L. Donaldson, The Contingency Theory of Organizations, Sage, Thousand Oak, 2001. 

A. S. Franklin, Nature and Social Theory, Sage, London, 2002.

T. Newton, “Truly Embodied Sociology: Marrying the Social and the Biological”, Sociological Review, 51, 1, 2003, pp. 20-42.

L. Suchman, Plans and situated actions: The Problem of Human-Machine Communication,

Cambridge University Press, New York, 1987.

J. C. Venter, K. Remington, J. F. Heidelberg, A. L. Halpern, D. Rusch, J. A. Eisen, D. Wu, I. Paulsen, et alii, “Environmental Genome Shotgun Sequencing of the Sargasso Sea”, Science, 304, 5667, 2004, pp. 66–74.

E. O. Wilson, Sociobiology: The New Synthesis, Belknap Press, Cambridge, Ma., 1975.


[1] We thank Angela Giusti from “Istituto Superiore di Sanità” (National Institute of Health – CNESPS – National Centre of Epidemiology, Surveillance and Health Promotion – Rome) for some suggestions concerning this specific issue.

LA SOCIOLOGIA IN ITALIA AI TEMPI DI VITTORIO EMANUELE SECONDO

(alla memoria di Filippo Barbano)


In genere si considera la Francia come la patria di origine della sociologia. Ma non va trascurato che in un’area limitrofa quale il Piemonte, non certo aliena dalla conoscenza e dalla pratica della lingua francese, la nuova disciplina di analisi scientifica della società ha subito preso vigore, respiro e lena, come ha compiutamente sostenuto un sociologo non a caso piemontese, recentemente scomparso, Filippo Barbano, che ha così periodizzato lo sviluppo della scienza della società in Italia: “in breve, la morfologia culturale e gli eventi della cosiddetta “prima” sociologia sono risultati in Italia caratterizzabili entro tre successivi periodi o fasi: un periodo di origini o genetico, lungo la prima metà dell’Ottocento; un periodo di formazione tra il 1860 ed il 1890; al quale succedette un periodo di trasformazioni, intervenute dopo il 1890 e nel primo decennio del Novecento” (Filippo Barbano, La sociologia in Italia. Storia, temi e problemi 1945-60, Carocci, Roma, 1998, pag. 17).
Se si segue la ripartizione suggerita da Barbano il periodo di regno (1849-1878)  di Vittorio Emanuele II corrisponderebbe sia alla fase di incubazione che a quella del primo sviluppo della sociologia. Dunque si tratta di una serie di momenti decisivi perché fondanti. E proprio la sede universitaria di Torino (capitale del Regno fino al 1865) ha avuto un ruolo strategico nella storia della sociologia italiana. Anzi, a voler essere più precisi, appunto nel suddetto ateneo si è avuto il primo insegnamento universitario ufficiale di sociologia in Italia. Il docente è stato Giuseppe Carle, di formazione vichiana e cultore di filosofia del diritto. Solo più tardi, nel 1878, si è avuta un’altra disciplina sociologica professata a livello accademico: a Bologna, ad opera di Pietro Siciliani (si veda il suo Socialismo, darwinismo e sociologia moderna, Zanichelli, Bologna, 1879), professore di Sociologia teoretica, sulla scorta di Herbert Spencer (autore di Principi di sociologia nel 1876).
Indubbiamente si deve a Filippo Barbano una compiuta ed approfondita disamina di quanto è avvenuto in quell’epoca di trapasso dalla prima alla seconda metà dell’Ottocento. Mentre l’Italia a poco a poco si andava unificando, dopo le travagliate esperienze risorgimentali, la sociologia conosceva un iniziale successo, cui però non seguirono risultati concreti in chiave di riconoscimento pubblico e di istituzionalizzazione scientifica. I flussi di idee provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra ma anche dalla Germania lambirono appena il nostro contesto nazionale e produssero solo qualche fugace folata.
Evoluzionismo e positivismo caratterizzavano in prevalenza il dibattito culturale del tempo, con vivaci prese di posizione favorevoli o contrarie, cui si connettevano anche esigenze di tipo operativo-pratico o di mera osservazione empirica ma senza adeguata riflessione teorica.
Ed alla fine prevalse un atteggiamento anti-sociologico le cui radici si sarebbero distese sino a giungere alle soglie del ventennio fascista, nel secolo successivo, allorquando la sociologia venne del tutto bandita, procurando conseguenze pesanti, con l’interruzione di un processo appena avviato ed ancora non consolidato a livello intellettuale.
Infatti “si concluse così, con uno scarso sviluppo critico e metodologico, la vicenda della nostra prima sociologia, scienza e disciplina” (Filippo Barbano, op. cit., pag. 24). Insomma non si ebbe una legittimazione diffusa e mancò il radicamento nell’università.
Ma intanto si erano create nuove prospettive, meno provincialistiche, più attente agli apporti esterni, abbastanza aperte alla sperimentazione di nuove soluzioni. Invero erano giunte in Italia proposte innovative e suggestive, che indussero a superare opzioni tradizionali e pomposamente retoriche, nonché correnti filosofiche ancorate all’idealismo ed allo spiritualismo.
Contro la sociologia se la sarebbero presa più tardi sia Benedetto Croce che Antonio Gramsci, cogliendo alcune debolezze delle fasi iniziali dell’approccio sociologico ma sottovalutando la portata originale della sua metodologia di studio applicata alla società ed ai fenomeni sociali.
Però quella prima fase che coincise quasi esattamente con il periodo più decisivo per la nascita della nostra nazione, orsono centocinquanta anni, favorì lo sviluppo di un clima culturale diverso, meno paludato, più disponibile ad accogliere correnti problematiche sul tema della modernità, ma anche in grado di superare l’idea di un progresso scontato e lineare.
Ma ritorniamo al punto ufficiale di inizio della sociologia in Italia. Come ben puntualizza Marco Burgalassi (Itinerari di una scienza. La sociologia in Italia tra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano, 1996, pagg. 45-46), “il successo locale della disciplina ebbe sostanzialmente inizio nel momento in cui principiarono a rendersi evidenti le complesse questioni che caratterizzavano la stagione postunitaria. Si trattava, segnatamente, di quelle che derivavano dai particolari connotati del nuovo Stato, e in primo luogo dall’enorme squilibrio economico, sociale e culturale tra le differenti aree di esso. In quanto scarsamente conosciuti, tanto nell’origine quanto nell’effettiva portata, tali problemi si mostravano infatti difficilmente gestibili dalla classe politica dell’epoca. Esigenza assai diffusa si rivelava dunque quella di approfondire in modo sistematico l’analisi dei diversi ambiti di una realtà territoriale per buona parte ignorata, ciò che rendeva necessario il ricorso ad una strumentazione metodologica e concettuale nuova, d’impronta empirica”. Detto altrimenti, della sociologia c’era un bisogno evidente, in un Paese in costruzione, in una realtà socio-politica ancora da mettere a punto, in uno Stato che andava allargandosi territorialmente e che aveva a che fare con nuove e diverse realtà di popolazione, non più solo piemontese o sarda ma anche toscana e laziale, campana e siciliana.
Non è casuale che nel 1877 Stefano Jacini, studioso di scienze sociali, autore di saggi sulle condizioni economiche della Lombardia nel periodo 1856-1858 e più volte ministro dei lavori pubblici negli anni dal 1860 al 1867, abbia iniziato la sua Inchiesta Agraria, che proseguirà negli anni successivi, fino al 1884. Insomma occorreva conoscere meglio il Paese che diventava finalmente unito dopo separazioni millenarie. Ed occorreva conoscerlo in modo scientificamente corretto, dunque con gli strumenti dell’analisi sociologica.
Intanto però nello stesso anno 1877 Francesco De Sanctis (Saggi e scritti critici vari, Barion, Milano1938, vol. IV, pag. 362, nota 1) mostrava alcune riserve, sostenendo che “la sociologia non è ancora una scienza esatta, anzi è ancora nella sua infanzia, malgrado le dotte generalità di Spencer e di altri moderni. È più facile trovare la direzione del pallone che la direzione della storia tra gli infiniti flutti dell’umano arbitrio. Astrarre dagli interessi e dalle passioni certe idee generalissime che si decorano col nome di filosofia della storia, e fissarle come una bussola dello spirito determinando fini e mezzi e anche la durata, questo è un lavoro grato alla mente, vaga dell’uno e del collettivo. C’est beau, mais ce n’est pas la guerre. È bello, ma non è la storia”.
Qui il fraintendimento è notevole, ma non si può pretendere dal maestro di Croce e dal raffinato critico letterario una comprensione adeguata del nuovo verbo sociologico, per di più ancora ai suoi inizi incerti.
Un altro fraintendimento ebbe a colpire la già citata inchiesta di Jacini. Essa non fu presa in particolare considerazione dal mondo politico, cui non interessavano, si direbbe, le evidenze empiriche quanto piuttosto i discorsi magniloquenti, le grandi teorizzazioni, le visioni globalizzanti. Finemente nota Giorgio Sola (“Per una periodizzazione della sociologia italiana nella seconda metà dell’Ottocento”, in Contributi di storia della sociologia, Franco Angeli, Milano, 1983, pag. 105): “ciò che caratterizza paradossalmente questa età è che la scienza sociale, invece di mantenere la promessa formulata in precedenza, viene ben presto a sovrapporsi e ad accompagnare l’aspetto trasformistico del potere piuttosto che a indirizzare  e promuovere quello riformistico. Per quanto l’età della Sinistra al potere coincida finalmente con l’avvio e la conclusione della monumentale ricerca agraria promossa da Stefano Jacini, di cui si parlava da anni, appare subito chiaro che alle indagini di carattere socio-economico cominciano ad essere preferite le formulazioni teoriche onnicomprensive e totalizzanti, e alle ricerche sono sostituiti i modelli organicistici della società improntati ai dogmi di un positivismo rigidamente evoluzionistico”.
Se il 1876 segna un punto di svolta e la morte di Vittorio Emanuele II nel 1878 pone fine ad un’epoca però quello che segue sembra tradire gli ideali di partenza puntando sugli aspetti politico-gestionali, sugli aggiustamenti di convenienza, per i quali invero la sociologia non fa certo comodo.

“Sport, Corpi, Identità. Una rivisitazione alla vigilia delle Olimpiadi di Londra”, Orientamenti Sociali Sardi, gennaio-giugno, 2012, pp. 48-68

Corpi e identità

Non è assolutamente un caso il fatto che tutte le caratteristiche tipiche del gioco [Vigarello 2002b] teorizzate da Roger Caillois [1991] coinvolgano sia il corpo [Blacking 1977; Defrance 1978, Featherstone, Hepworth, Turner 1991; Frank 1991; Polhemus 1978; Schilling 1993; Turner 1984; Vigarello 2002a] che l’identità [Donnelly, Young 1988; Donnelly 2008; Dubar 1996; Hill, Williams 1996; King 2004; Remotti 1996; Stevenson 2007]. Infatti è dato verificare una tale connessione sia nella competizione come agon, sia nell’azzardo come alea, sia nel simulacro come mimicry, sia infine nella vertigine come ilinx. E dunque il carattere della competizione è presente in tanti sports di squadra ed individuali, quello dell’azzardo è basato sul rapporto fra attesa e risposta da dare (come nel caso del tiro al piattello), quello dell’imitazione si ritrova nelle gare di nuoto sincronizzato, infine quello del rischio [Baudry 1991] è peculiarmente rilevabile nell’alpinismo (dove la vertigine è emblematicamente ciò che si prova nel corso di una scalata, allorquando lo stordimento è sì dovuto al rarefarsi dell’aria che si respira ad alta quota ma è altresì l’effetto della percezione plurisensoriale di uno spazio sconfinato e quasi del tutto vergine perché non attinto che da pochissimi corpi).     

La predisposizione del corpo allo sport

            Da Paolo di Tarso (I sec d. C.) a Giovanni Cassiano (IV-V sec. d. C.), sin dai tempi antichi era nota e praticata la connessione fra corpo e sport ed in particolare la necessità di predisporre il corpo al fine di poter ben figurare nella competizione sportiva: “Ascolta quanto dice l’Apostolo: ‘Ognuno che combatte in una gara s’impone ogni sorta di privazioni’ (1 Cor 9, 25). Cerchiamo ora di indagare di quali privazioni, in senso largo, egli intenda parlare per poter così, attraverso un confronto materiale, conformarci al combattimento spirituale. Infatti coloro che si cimentano in queste lotte spettacolari secondo certe regole non hanno la facoltà di ricorrere a tutti i cibi suggeriti dalla voglia della gola, ma solo a quelli che sono indicati dalla disciplina degli stessi giorni. E non è soltanto necessario astenersi dai cibi ad essi vietati, dall’ubriachezza e da ogni eccesso, ma anche da ogni indolenza e ozio e inoperosità, allo scopo di poter accrescere il loro valore con esercizi quotidiani e una continuata concentrazione. E così essi si estraniano da ogni preoccupazione, dalla tristezza e dagli affanni secolari, e perfino dagli affetti e doveri coniugali, in modo da non attendere ad altro se non agli esercizi imposti dalla disciplina, senza lasciarsi implicare in nessuna cura mondana (cf. 2 Tm 2, 4): essi confidano di ottenere il necessario vitto quotidiano unicamente da chi presiede agli agoni, la corona della gloria e i premi convenienti al valore della loro vittoria. Si mantengono immuni da ogni relazione carnale a tal punto che, mentre si preparano al combattimento degli agoni, per timore che durante il sonno, per effetto di ingannevoli illusioni notturne, non abbiano a sminuire le energie conquistate in lungo tempo, coprono con lamine di piombo i loro fianchi proprio perché il freddo del metallo, applicato all’inguine, inibisca l’effusione degli umori impuri. Essi così sono convinti che senza dubbio sarebbero destinati alla sconfitta senza poter più condurre a termine la lotta programmata, qualora la falsa immagine di un piacere nocivo avesse intaccato la sicurezza procurata dall’astinenza” [Cassiano 2007: 191-192].

            Questo passo, che si colloca nell’ottica di una concezione cristiana volta ad evitare anche incontrollabili polluzioni notturne, sottolinea comunque lo stretto legame intercorrente fra preparazione fisica ed esito dell’agone, fra impegno personale e risultato conseguibile nella competizione. Ma soprattutto rimanda alla vexata quaestio della differenza fra l’io del soggetto e l’oggettività del corpo, che pure identifica la persona umana. A ciò si aggiunge il tema del controllo del corpo ovvero del suo possesso. In che modo l’uomo e la donna sentono proprio il loro corpo? È forse la stessa cosa dire che io sono un corpo o che io ho un corpo? Orbene se io sono il corpo la mia identificazione con esso non è discutibile e dunque ne sono responsabile in pieno. Ma se io intendo dire invece che ho un corpo allora creo una distanza fra me ed il mio corpo, lo rendo altro da me, non assoggettabile sempre e comunque alla mia volontà: “da qui si scorge facilmente l’origine della concezione dualistica dell’avere e del possedere: l’io che ha un corpo, non è il corpo. E non lo è neppure quando si giunga a affermare che l’io si trova a essere in un corpo, nel proprio corpo. Giacché anche in questo modo l’io e il corpo vengono intesi come due parti, due componenti eterogenee di un io, che si estende fino a comprendere se stesso, per un lato, come un io parziale e, inoltre, a comprendere, per l’altro lato, il proprio corpo come un’altra parte non riconducibile all’io parziale, diversa da esso. Ma allora la proposizione: io ho un corpo, sdoppia il significato dell’io in un io che è soggetto comprensivo e totale dell’io e del corpo, e in un io che è solo una sua parte, di cui si può dire che è posseduta, avuta, dall’io comprensivo e totale allo stesso modo in cui è posseduta, avuta, quella parte che denominiamo corpo” [Molinaro 2008: 10]. Le problematiche qui sollevate non sono di poco conto e sottendono la fitta rete di rapporti fra corpo, identità e sport. Metaforicamente si può fare riferimento in proposito al tiro con l’arco, per cui il corpo sarebbe lo stesso arco che debitamente piegato, assuefatto grazie alla tensione della corda che unisce e chiude formando una circolarità identitaria, viene poi teso agonisticamente fino al massimo della forza possibile per scoccare infine la freccia (emblema dello sport) che andrà a raggiungere il bersaglio, la meta, il traguardo, facendo segnare un certo punteggio.        

Il corpo come identità

            Si potrebbe sostenere che in principio era il corpo ed il corpo si fece identità ed andò ad abitare fra gli sports [Magnane 1964; Ohl 2006; Parlebas 1986]. Credo che questa parafrasi renda bene il significato [Synnot, Howes 1992] della relazione che intercorre fra sport e identità, fra sport e corpo [Bancel, Gayman 2002; Nunziata 2008], fra identità e corpo [Salisci 2008: 150-153]. Ovviamente il punto di partenza resta pur sempre il corpo [Bromberger, Duret, Kaufmann, Le Breton, de Singly, Vigarello 2005; Le Breton 1990; 1993], senza del quale non è possibile l’identificazione: non a caso nel linguaggio corrente si dice appunto che un corpo è stato identificato, cioè è stato riconosciuto appartenere ad una singola persona, la cui identità (almeno anagrafica) è unica, presumibilmente irripetibile. Invece altre forme di identità, o meglio di identificazione, sono possibili ed anche praticabili, proprio come avviene nello sport. Va notato, comunque, che rispetto al passato ci sono state, in tempi recenti, variazioni significative. Se prima l’attore sociale sportivo era connotato quasi solo da un numero, apposto sul retro della maglia indossata, o fermato sul petto, o aggiunto al telaio della bicicletta o della moto o della canoa, ora invece sempre più spesso si ricorre all’indicazione (ben visibile) del cognome o talora del soprannome, cioè di una forma enfatizzata di identità riconosciuta come eccezionale, straordinaria.

Un tale cambiamento, mentre sembra ridurre la valenza collettiva in uno sport di squadra, privilegiando ed esaltando la dimensione individuale, in realtà sottolinea anche la responsabilità del singolo per il buon esito della prestazione di squadra. Né si può trascurare la creazione (e la diffusione) del flusso di identità e di conseguente identificazione che nasce ed intercorre fra un protagonista sportivo (un individuo o un team) e gli sportivi, i tifosi, gli aficionados, i fans, che manifestano la loro affezione, il loro attaccamento [Jamet 1991], la loro appartenenza [Poli 2005, Porro 2008: 76-79], attraverso una serie innumerevole di modalità: dall’indossare una maglia del medesimo colore (con tanto di nome su di essa) al dipingere parti visibili del corpo (specialmente volto e mani) con le medesime caratteristiche cromatiche del soggetto di riferimento.

Il processo di identificazione

Il processo di identificazione [Robinson 2008: 318] comporta essenzialmente un ravvicinamento somatico [Schlanger 1995], in qualche modo. Per questo si segue l’atleta o l’équipe in ogni momento, per quanto possibile, dalle fasi dell’allenamento alle trasferte, dal momento ludico (imprevedibile nei suoi sviluppi) alla vita quotidiana (più ripetitiva nel suo svolgersi).

            Uno degli obiettivi di questa continua sequela, di questo seguire quasi senza sosta, è verosimilmente il poter toccare con mano, personalmente, direttamente, l’oggetto-soggetto della propria ammirazione, della propria relazione, del proprio transfert psico-sociologico. Ecco dunque che la ricerca di un autografo (ovvero di uno firma originale ed identificativa), magari con dedica (elemento di congiunzione identitaria tra firmatario e destinatario), o il possesso di un indumento (elemento che consente di sentirsi quasi a contatto con la pelle di un altro) divengono un fattore di rafforzamento del processo identitario, che trova così una sua legittimazione concreta e visibile. C’è poi tutto un armamentario simbolico che in modo assolutamente peculiare accompagna ogni evento, ogni tempo della esperienza di interazione [Goffman 1961; 1967], la quale non investe – si badi bene – solo la persona dello sportivo-tifoso ma altresì quella dello sportivo-atleta che, a sua volta, cerca sostegno (e dunque identificazione) in quanti lo seguono da vicino, a costo di notevoli sacrifici (non solo economici ma anche fisici: si pensi alle lunghe ore di trasferimento per seguire un avvenimento sportivo, lontano dalla propria città di residenza).

Proprio la presenza di una simbologia, efficace ed eloquente di per sé, fa intendere quale sia la dinamica reale dei processi di identificazione. Il che risulta dal significato stesso di simbolo, le cui radici affondano nel verbo greco che gli dà origine: sumbάllw (“sumbállo”), che vuol dire “metto insieme”, “unisco”. Orbene per comprendere adeguatamente il senso di questa azione del “com-porre”, del “porre insieme”, del “congiungere”, conviene rifarsi ad una procedura, di derivazione appunto greca, relativa al sistema di votazione in uso nell’agorà, nell’assemblea pubblica (riservata ai cittadini maschi). Per il riconoscimento di quanti avessero diritto al voto si utilizzava uno strumento elementare consistente nel ricorso a frammenti di argilla derivanti da oggetti (vasi, per esempio) ridotti in pezzi. Com’è noto, le linee di frattura che si producono nello spezzare un oggetto fatto di argilla sono assai diverse fra loro, per cui ogni tentativo di ricomposizione riesce solo nelle misura in cui i frammenti combacino l’uno con l’altro, ricostituendo la forma originaria. Ciò è possibile se effettivamente i vari pezzi riaccostati fra loro riproducono quello che era l’affiancamento quando l’oggetto era intatto. Dunque una parte si unisce ad un’altra solo se era unita anche in precedenza. In tal modo il diritto di voto nell’agorà poteva essere esercitato verificando la possibilità di connessione fra i due frammenti usati per la procedura. In definitiva il “porre insieme”, il “com-porre”, permette l’identificazione e dunque il simbolo è una forma di identità ed è altresì una legittimazione del processo di identificazione.

L’appartenenza

Si capisce bene, da quanto già detto, quanto rilevante sia il ruolo del simbolo, che identifica una squadra sportiva, l’appartenenza di uno sportivo-atleta e di uno sportivo-tifoso.

Ed anzi proprio sul simbolo si gioca il conflitto fra appartenenze diverse. Si può addurre come caso emblematico il rapporto che si instaura rispetto alla bandiera di club o al blasone che lo rappresenta. L’una e l’altro hanno un posto di riguardo, sono venerati alla pari di un elemento sacro [Amara 2008], sono conservati con cura, non si lasciano in balia di chi ne possa fare un uso improprio, magari a dispetto. E gli allori conquistati si appuntano sull’una e/o sull’altro, per accrescerne il valore simbolico e la carica identificatoria. Né va trascurato il caso che vede un particolare individuo assumere un prestigio ed una stima così accentuati da indurre a considerarlo una vera e propria “bandiera”, un simbolo rappresentativo dell’intera squadra e di quanti, a vario titolo, la accompagnano, la sostengono e vi fanno capo.

Insomma la parte, cioè il simbolo, di fatto sostituisce il tutto, cioè il gruppo sportivo. In questo andirivieni fra rappresentanza e rappresentato si gioca – è giusto il caso di dire – gran parte dell’interazione psico-sociologica che implementa un’attività sportiva, la quale diventa immagine di un’intera città, di un popolo, di un quartiere, di un’etnia, di una comunanza di caratteri, di una classe sociale [Pociello 1995].

Arrivano ad essere così forti i legami tra un soggetto sportivo, agonisticamente impegnato, e la sua base organizzativa e di sostegno emotivo che raramente un atleta, un dirigente, un allenatore, un preparatore, un massaggiatore o un magazziniere sono in grado di prescindere da una frequentazione che è stata in vigore per anni. Andare via, abbandonare, cambiare squadra suonerebbe come un vero e proprio tradimento. In effetti i riferimenti di bandiera di solito non sono propensi a mutare contesto, città, affiliazione. Neppure l’attrattiva economica funziona più di tanto, perché si preferisce ricevere un compenso minore, rispetto ad altre offerte, pur di restare il point de repère di un’intera realtà sportiva. Il rapporto che si è venuto a creare è abbastanza profondo. E se anche, per varie ragioni, si è costretti a cambiare squadra, quando dovesse capitare di affrontare la squadra di ex appartenenza la professionalità sportiva porterebbe ad avere un comportamento agonistico ineccepibile ma altresì a tenere conto del passato e dunque a non gioire in modo vistoso in caso di propria vittoria: a livello inconscio, sotterraneo, carsico, resta pur sempre un filo rosso, un cordone ombelicale metaforico che riconduce alla matrice di provenienza. D’altra parte l’atleta che si trova in una nuova situazione sa bene che ha perduto tutto un retroterra (costruito e conquistato a fatica) e che lì dove si trova al momento deve ancora porre le basi per ottenere, se ci riesce, i medesimi risultati già raggiunti prima.

I segni dell’appartenenza identitaria

Può anche darsi che il medesimo atleta abbia sul suo stesso corpo il segno visibile e tangibile della sua precedente affiliazione, per esempio un tatuaggio [Atkinson 2003; Caplan 2000; De Mello 2000; Featherstone 1999; Nunziata 2008; Steiner 1990; Tannebaum 1987] che evidenzia il legame identificativo con una squadra, con un club. Il tatuaggio non è cancellabile facilmente, come non lo è il passato di chi lo ha ben impresso su di sé. D’altra parte il recente diffondersi della moda del tatuaggio richiama di solito alla memoria le esperienze pregresse del soggetto, siano esse affettive o sportive, oppure le une e le altre insieme, in una simbiosi inscindibile. È opportuno rilevare che se una persona decide di portare con sé un marchio indelebile (o quasi) lo fa per ragioni non estemporanee, non passeggere. Egli sa bene che si tratta di qualcosa che è destinato a restare per sempre, o meglio per tutta la durata fisica del suo stesso soma. Solo la conclusione dell’esistenza darà inizio ad un processo di decomposizione, di desimbolizzazione, di disaffiliazione, di separazione tra il simbolo tatuato ed il corpo sul quale è inscritto. In altri termini il tatuaggio è una scelta sostanzialmente definitiva, non agevolmente cancellabile. Quando dunque uno sportivo-atleta o uno sportivo-tifoso decide di farsi tatuare il nome del proprio team o del proprio divo calcistico o rugbistico lo fa a ragion veduta. In fondo è un tipo di soluzione e di esperienza che ha affinità inconfutabili con altri andamenti, per esempio di natura religiosa. Le stimmate sono infatti una sorta di tatuaggio più cruento, una stampa sui generis dei connotati di un’entità superiore, diversa. Francesco d’Assisi e Padre Pio da Pietralcina, in ambito cattolico, costituiscono due casi emblematici di immedesimazione, di identificazione con il Cristo, di cui ripropongono in modo ostensibile (anche se tendenzialmente riservato) i segni della passione, cioè della sofferenza attraverso la quale il “dio fattosi uomo” si è incarnato fisicamente, cioè assumendo la corporeità degli altri esseri umani per rappresentarli. Tale rapporto ha poi un orientamento biunivoco, nei due sensi: dal divino all’umano e dall’umano al divino. Allo stesso modo ha luogo la transizione di identità [Barba 2007: 81-105] tra un atleta e la sua compagine di militanza sportiva, tra un tifoso ed il suo campione preferito, tra un allenatore ed il suo gruppo di azione addestrativa [Vigarello 2004]. Ma c’è da dire che avviene anche il contrario, perché la relazione è vissuta pure nell’altra direzione, cioè tra la squadra e il giocatore di riferimento, tra l’équipe ed il suo trainer (il cui corpo, in caso di vittoria, viene sopraelevato e messo in mostra dagli altri corpi di atleti e dirigenti, in un’apoteosi che simboleggia, al massimo grado, la convergenza fra sport [Coakley, Dunning 2000], corpo [Cortine, Courbin, Vigarello 2005-2006] e identità [Crossley 2001; Stevenson 2002]). Il contatto fra i corpi diviene necessario, anzi è visibilmente ritualizzato ed ostentato anche nell’abbraccio che il realizzatore di una meta, di un gol, di un punto, riceve da parte dei suoi compagni, il cui ammucchiarsi quasi orgiastico [Maffesoli 1985] denota chiaramente una compartecipazione, una condivisione, che va ben al di là del mero incontro fisico [Ulman 1993] ed ha piuttosto una valenza simbolica, che unifica annullando le differenze di ruolo e di carattere, tutte sciolte ed avvinghiate nel profilo di gruppo, in cui non si distinguono i corpi, le braccia, le gambe, le teste, perché sono parti di un puzzle che configura un momento di gioia condiviso, unico: ognuno diventa tessera di un mosaico che è possibile leggere attraverso uno sguardo d’insieme, un colpo d’occhio talmente significativo che spesso viene immortalato dalle macchine fotografiche o dalle telecamere, che ne restituiscono il messaggio fondamentale del tutti per uno e dell’uno per tutti. La forza di un simile messaggio è talmente cogente e coinvolgente che può rimanere valida per diverse generazioni ed essere riproposta senza soluzione di continuità nel tempo. In qualche caso diventa, a partire da una foto (anche se un po’ costruita), un vero e proprio monumento, come ben documenta il celebre esempio dei soldati statunitensi che insieme, l’uno appoggiato all’altro, issano la bandiera a stelle e strisce sul suolo di Iwo Jima, senza soluzione di continuità fra i corpi dei militari ed il simbolo della confederazione.

Gli strumenti di identificazione

Appunto la bandiera, sventolata dai fans, è un simbolo per eccellenza che unisce [Bairner 2003; Henry 2008] ed emoziona, suscita sentimenti di appartenenza e rafforza lo spirito di squadra. Alcuni la indossano, quasi fosse un abito [Giorcelli 2008] per il loro corpo. Certamente sono anche altre le soluzioni adottate da atleti e tifosi per sottolineare il loro intento comune: dal fare un corpo unico per stringere le loro mani al centro di un cerchio al gesto, assai diffuso, del “give me five” che facendo combaciare le cinque dita delle mani di due atleti richiama in maniera inequivocabile il concetto di “congiungere”, “com-porre”, cioè il già citato procedimento in uso nell’agorà greca, che riconosceva il diritto di voto, mediante l’accostamento di due cocci di argilla, cioè esattamente come si fa con l’avvicinamento di due mani nel “give me five”.

Altre formule unificatrici ed identitarie si basano sugli indumenti indossati, sia quelli di gioco che di allenamento od anche di viaggio, e/o di riposo. La condivisione dei valori, delle fogge e dei capi di abbigliamento è pervasiva e quindi connotativa, cioè performativa nel senso che trasforma un singolo individuo in qualcosa che almeno materialmente, a livello di vista, appare diverso dagli altri che non facciano parte del medesimo insieme. E così non solo gli atleti vestono allo stesso modo ma lo fanno anche dirigenti ed accompagnatori e chiunque abbia un ruolo funzionale per la squadra. Vi sono tenute e tute che, come indicano gli stessi lemmi adoperati, sottolineano l’intento palese, volto a tenere, mantenere, custodire, salvaguardare, assicurare l’adesione di tipo collettivo. Però il corpo è di solito rivestito e pertanto gli abiti [Steiner 1990] divengono essi pure un supporto per manifestare un’appartenenza, altrimenti non riconoscibile da parte degli altri. Per questo, non solo la tenuta sportiva, indossata nei tempi di pratica agonistica, ma altresì gli abiti del resto della giornata seguono un modo ormai ampiamente diffuso, cioè il rivestirsi con una foggia e con dei colori che richiamano quelli della società sportiva di cui si fa parte. E al limite può bastare un piccolo stemma sulla giacca o su un cappello per assolvere in pieno la funzione di esplicitazione di una membership.

Oltre i vestiti della quotidianità, sono anche e soprattutto le tute, piuttosto vivaci nei loro accostamenti cromatici, ad evidenziare la connotazione identitaria. Un tempo la presenza della tuta di squadra era limitata agli allenamenti, in particolare al periodo di permanenza sul campo di gara o negli immediati dintorni. Ora invece l’uso è esteso anche ai momenti di riposo, alle permanenze in albergo, in camera di letto, o al ristorante. Insomma pare che quasi non si voglia lasciare alcuno spazio ed alcun tempo in cui venga meno il carattere dell’affiliazione. Così l’atleta si sentirà sempre e comunque impegnato e coinvolto nel rendere onore ed omaggio al suo club. In definitiva, abiti di rappresentanza e tute sportive ricoprono e proteggono i corpi, ma in realtà salvaguardano altresì il sentimento di relazione con la propria comunità. Un po’ come per i componenti di un’orchestra, che vestono tutti allo stesso modo, gli atleti si sentono vicini fra di loro, accompagnati, grazie al semplice tegumento tessile che li avvolge e che li presenta alla considerazione altrui come un insieme non divisibile, piuttosto unito ed uniforme grazie all’uniforme. L’uniformità rispetto a qualcuno o a qualcosa passa peraltro attraverso modi che sono simili a quelli sperimentati in ambito religioso, come nel caso delle stimmate ad esempio, in cui l’immedesimazione tra il mistico e la sua figura d’imitazione (si pensi al celebre testo di Tommaso da Kemp dal titolo L’imitazione di Cristo) è così forte da imprimere le medesime piaghe di Gesù nel corpo del suo fedele seguace. E così se Francesco d’Assisi diviene alter Christus, un atleta dal suo canto è talmente un tutt’uno con il suo team da poterlo rappresentare in pieno, giacché ne è la figura-chiave, il simbolo per eccellenza. 

C’è però un’altra dimensione meritevole di considerazione: l’identità resta pur sempre una manifestazione del sé, che si rende possibile, percepibile e sperimentabile grazie appunto alla mediazione degli altri, per il semplice loro esistere indipendentemente dal sé. Quest’ultimo dunque presuppone gli altri, ma entrambi riconoscono di esistere proprio in quanto si contrappongono fra loro. Ecco perché l’identità non è riscontrabile come una realtà autonoma ma ha bisogno di riflettersi in qualcos’altro. La partnership dell’altro è fondamentale per l’avvio del processo di identificazione. Nello sport ciò ha luogo sulla base di una diversità di appartenenza fisica ed intersoggettiva che consente il confronto competitivo. Non è dunque fuori luogo il ribadire la propria identità di base prima dell’inizio di una gara, con il suono (ed il canto) degli inni nazionali o con gesti e grida che sono in pari tempo di autoincoraggiamento, di rafforzamento in forma di autosuggestione sulla propria capacità di vittoria e con qualche contenuto scaramantico. Le collettività sportive prediligono sottolineare più volte la loro identità, testimoniarla in modo vistoso, creando e ricreando di continuo una mappa della loro autocollocazione, costruita a propria immagine, con una proiezione che porta a vedere gli altri come diversi e come ostacoli al raggiungimento del risultato, del traguardo. In tal modo l’impazienza di raggiungere la meta comporta anche una certa fretta nel delineare il profilo altrui, trascurando il dato di fatto che anche dall’altra parte c’è una medesima ansia che impedisce una conoscenza adeguata dell’antagonista, dell’avversario sportivo.

In questo quadro d’insieme lo sport come il gioco appare quindi come una forma di socialità, anzi – meglio – di sociabilità alla maniera di Georg Simmel [1971: 127-140], che l’ha definita “forma ludica della socializzazione”, in base alla quale si registrano numerosi scambi simbolici, attraverso le interazioni messe in atto dagli attori sociali, che provano gusto nel loro intrattenersi reciproco, su una base contestuale di appartenenza e di differenziazione, di giochi di ruolo, di incontri e scontri, di avvicinamenti ed allontanamenti, di cambi di persona, luogo e tempo. In particolare la sociabilità, secondo Loy e Coakley [2007: 4647], si basa sulla reciprocità dell’interazione: mentre nella vita gli ostacoli si frappongono senza che gli attori sociali abbiano le risorse per superarli nello sport invece vengono forniti gli strumenti per affrontare le barriere appositamente create; poi i partecipanti ad una gara sportiva vengono spersonalizzati, per la presenza di maschere e costumi, riducendo perciò il coinvolgimento personale; inoltre nell’agone la collaborazione è necessaria, riducendo le istanze soggettive; infine tutti i partecipanti sono considerati alla stessa stregua, senza alcuna differenza di classe o di altra natura ed in pratica alla luce di una concezione democratica.  

In fondo l’individuo-atleta si esprime ma anche spiega e costruisce se stesso attraverso il suo linguaggio peculiare, che è quello di trastullarsi con le regole, ora rispettandole ora infrangendole, provando a rappresentare la sua stessa vita in questo interplay, che mira ad una sostanziale riappropriazione della realtà, ad un recupero del perduto, ad una ripresa del passato in vista della costruzione di un diverso futuro. Ed allora appunto attraverso lo sport l’io ed il corpo rendono manifesto il loro Dasein (esserci) nel tempo che vivono, in una prospettiva di matrice heideggeriana [1927].       

La sociabilità poi diventa socievolezza specialmente nel gioco e nello sport, ma diviene altresì aggressività, per cui socievolezza ed aggressività risultano essere parti di un medesimo gioco, la cui indeterminazione è dovuta all’incertezza del risultato finale e ne costituisce l’alea principale, la dose di rischio, l’imprevedibile. Ecco allora che il gioco da semplice mezzo si trasforma in fine e diventa sport, che però non è un ambito separato dalla realtà ma ne fa parte in pieno. La sua processualità dinamica non è prevedibile perché sono in gioco delle regole da rispettare ma anche da valutare da parte di chi tiene le redini del gioco e ne giudica la corretta osservanza. Detto altrimenti, mentre si gioca entro le regole si conduce pure una schermaglia con le regole, od anche ci si prende gioco delle regole stesse, ma l’esito di tutto ciò dipende anche dallo stare dell’altro al gioco, cioè dal suo comportamento, dalla sua reazione alle sfide che deve affrontare.

Il gioco e lo sport si muovono in effetti fra innovazione continua e contrapposizione costante, per cui se appare necessaria la regola è presumibile che il giocatore tenda ad una sua eccentricità rispetto alla regola di riferimento. Da tali dinamiche derivano i capovolgimenti di fronte nelle gare, le oscillazioni comportamentali degli atleti, la loro resa incostante. Gran parte del gioco di confronto scaturisce dalle prefigurazioni delle mosse altrui, in una gara di pallacanestro o in una corsa ciclistica, in cui la combinazione di vari fattori produce di continuo situazioni inusitate. L’apparenza di una certa leggerezza non può ingannare: dentro si cela un agonismo di fondo, attento a cogliere l’attimo propizio per infliggere la stoccata vincente, l’affondo conclusivo, la verticalizzazione efficace della giocata.

Identità ed imitazione

In generale non vi è soluzione di continuità fra il singolo e la sua comunità, fra l’atleta ed il suo gruppo sportivo.

La tendenza all’imitazione poi esercita altri effetti di varia natura: emulazione, ma anche fedeltà a tutti i costi. Quando un arbitro o un giudice interviene per sanzionare un membro della squadra, l’insorgere degli altri è quasi scontato, dovuto, accentuato. Ci si sente lesi, come se la reprimenda riguardasse se stessi. L’intento dunque non è solo quello di preservare il proprio compagno da decisioni sfavorevoli, ma pure di non creare difficoltà a tutto il gruppo, facendo venire meno una collaborazione apprezzata comunque come importante.

Persino nel caso di doping [Brissonneau, Aubel, Ohl 2008] occorre tenere presente l’impatto del fattore d’imitazione, per cui se un leader, una persona solitamente piuttosto ascoltata e seguita, decide di tenere un comportamento deviante, non legittimo, che gli altri lo seguano è più una costante che un’eccezione. Ecco perché la rete di legami più o meno identitari è da ritenere essenzialmente come una variabile indipendente, che condiziona atteggiamenti e comportamenti di più soggetti, a partire da un capo più o meno carismatico, più o meno simbolo rappresentativo di un’intera squadra.

Il corpo e le sue modifiche

Fino ad un recente passato si riteneva che potessero praticare uno sport solo corpi adatti, escludendo dunque i fisici imperfetti perché troppo magri o troppo grassi od anche perché menomati. Oggi, a diversi livelli, un corpo considerato “diverso” dalla norma è in grado di affrontare quasi ogni genere di attività sportiva, magari con il ricorso a qualche supporto appositamente studiato e considerato legittimo per una competizione fra soggetti con le medesime difficoltà di movimento, o persino alla pari – senza necessità di ulteriori interventi – con sportivi-atleti cosiddetti normo-dotati.

L’esperienza delle paraolimpiadi segna certamente una nuova frontiera rispetto al passato, ma un tale evento rimane ancora marginale (ed emarginato) rispetto alle stesse olimpiadi. Eppure le risultanze sportive, agonistiche, competitive, sono alla fine dei conti della stessa qualità, dello stesso valore. Anzi, a ben considerare le condizioni di partenza, si potrebbe pure dire che soprattutto in alcuni casi la performance realizzata è di gran lunga superiore, tecnicamente e sportivamente, rispetto a quella degli atleti ritenuti “regolari”.

Il problema reale è piuttosto di carattere culturale, per la mancanza di abitudine complessiva nei riguardi dei portatori di handicap, dei diversamente abili, dei soggetti in difficoltà per qualche ragione (sia fisica che psichica). Anzi, invero, non è nemmeno corretto parlare di carenza, menomazione, in quanto si tratta più semplicemente di un profilo diverso, di una forma diversa, di un aspetto certamente diverso ma non per questo incomparabile. Detto altrimenti, se non fa problema il colore degli occhi o dei capelli o della pelle (ma non sempre è così perché forme di razzismo [Barba 2007: 81-105] si affacciano talora anche nello sport), lo stesso potrebbe avvenire, in un contesto culturale altrimenti predisposto, nei confronti di soggetti che presentino altre modalità, altre caratteristiche di natura corporea. Forse l’occasione più propizia e più ricorrente per abbattere talune barriere sia fisiche che culturali è data proprio da specifiche manifestazioni sportive aperte a tutti, come le maratone o minimaratone cittadine, dove nel novero dei concorrenti trova spazio chiunque, in qualunque modo, mediante una sorta di cittadinanza sportiva a tutto spiano, che diventa così utopia realizzata, perché ognuno ha la possibilità di esprimersi per quello che è, senza necessità di distinzioni previe (fatti salvi alcuni accorgimenti elementari, a salvaguardia degli stessi partecipanti).

Un corpo per così dire modificato non è inadatto a fare sport. Ogni pregiudizio in merito è stato più volte sfatato. Ma ancora si registrano resistenze, dovute – si dice – a ragioni di immagine. Ma in realtà non sarebbe forse altrettanto “vincente” e “di immagine” mostrare chiaramente e visibilmente le potenzialità che tutti hanno di vivere lo sport, di esprimersi con i corpi che hanno, di confrontarsi insieme con tutti gli altri, di cimentarsi mettendo alla prova se stessi?

Un altro discorso è poi quello di corpi modificati ad hoc, per raggiungere prestazioni fuori dell’ordinario. Qui però sorgono altre questioni, specialmente di natura etica e comportamentale. Entro quali limiti è opportuno ed accettabile procedere ad interventi modificativi del proprio soma, magari in maniera irreversibile, pur di raggiungere un traguardo, un risultato? Un conto è rafforzare un muscolo, un altro conto è “gonfiarlo” con sostanze non sempre innocue. Un conto è seguire diete calibrate, un altro conto è cambiare i propri connotati fisici (e non solo) in vista di un risultato sportivo. Anche su un piano puramente estetico un corpo “bonzaizzato”, costretto, legato, impedito, assoggettato, diviene di fatto qualcosa di altro da sé, dalla persona che lo incarna e che ne è titolare. Insomma il corpo-persona è un tutt’uno, per cui scindere il primo dalla seconda è in effetti una separazione, simile a quella che avviene tra sangue ed arterie, nonché foriera di esiti non sempre auspicabili. Anche in tal caso dunque può valere la regola del giusto mezzo, dell’equilibrio, delle giuste dosi, onde evitare scivolamenti inarrestabili e conseguenze anche letali. La pratica di alcuni sports cosiddetti estremi, per esempio, si connota di caratteristiche che rischiano di annullare l’identità tipica del soggetto.

Il genere del corpo

Un’identità particolarmente significativa è quella di genere [Armour, Kirk 2008: 269-270; Kay, Jeans 2008: 146-148]. Orbene la divisione fra sport al maschile e al femminile è ormai consolidata e difficilmente potrà essere abolita. Ma intanto alcune riflessioni possono essere proposte. È vero che le prestazioni maschili, misurabili e comparabili, manifestano una netta propensione degli uomini a raggiungere esiti migliori. Tuttavia è anche vero che taluni risultati ottenuti da donne sono superiori a quelli fatti registrare da tanti altri soggetti di genere maschile. Il che vuol dire che non sempre e comunque sia il maschio ad eccellere rispetto alla donna. A ciò va aggiunto il fattore, non secondario e di matrice culturale, che vede una più larga e consolidata (da più tempo [Mewett 2003: 331-332]) partecipazione maschile alla pratica sportiva, invece non favorita e talora anche proibita – per ragioni diverse (anche religiose) – nel caso della partecipazione femminile.

Più larga dunque è la base, più è probabile che emergano soggetti in grado di fornire prestazioni di più alto livello. Non si tratta di negare le peculiarità che certamente rendono più agevole il compito degli uomini, ma c’è da chiedersi se a lungo andare e con un eventuale mutamento di rotta in ambito culturale non sia dato verificare un trend innovativo rispetto al passato.

Del resto, è ben noto che gli intervalli di misura (tempo, altezza, lunghezza, forza, peso, ecc.) si sono ridotti nel corso degli anni, facendo sì che il divario fra records maschili e femminili sia sempre meno consistente. Se peraltro si passa ad analizzare la situazione negli sports di squadra il confronto non tiene più. Probabilmente una squadra maschile di pallavolo avrà tendenzialmente la meglio su quella femminile eventualmente contrapposta. Ma non tutte le squadre maschili di pallavolo sono destinate eo ipso a prevalere su quelle femminili. In termini sperimentali sarebbe interessante verificare a lungo andare che tipo di andamento del gioco si potrebbe registrare nel caso di squadre miste, composte per metà di uomini e per metà di donne, od anche – in forma meno vincolante – con uomini e donne in gioco di volta in volta, secondo le necessità tattiche o le doti caratteristiche di ogni atleta. Qualcosa di simile intanto è già avvenuto, almeno a livello di dirigenti e/o di personale tecnico: non mancano donne che dirigono o allenano squadre maschili (il contrario è da lungo tempo una prassi più che consolidata). Anche in campo arbitrale o tra i giudici di gara la differenza di genere non è più marcata e separatista, come in precedenza. Dunque la strada è aperta e probabilmente il futuro riserva importanti novità.

Lo stadio e la sede sociale come fattori d’identità

Sul piano dei fattori identitari sta prendendo piede sempre più una propensione, da parte dei clubs con maggiori risorse economiche, a disporre in proprio – appunto come proprietari – della struttura in cui si svolgono le gare di casa, nel corso del campionato. Parlare di casa significa in concreto riferirsi a qualcosa cui si tiene in massimo grado, come alla propria famiglia di appartenenza. Ecco perché le società aspirano a costruire od acquisire stadi [Houlihan 2008: 40-46], palestre, ginnasi, i luoghi cioè della loro pratica sportiva quotidiana, che poi settimanalmente assume un carattere ufficiale, attraverso l’incontro non solo con una squadra avversaria, ma in primo luogo con il proprio pubblico, con il quale si rinnova un patto di alleanza, una solidarietà solitamente a prova di ogni sconfitta sportiva, un’intesa a lunga gittata, destinata a divenire pure una forma di socializzazione intra-familiare, che perpetua nel tempo una fidelizzazione intergenerazionale, difficilmente scalfibile in quanto iniziata e consolidata in un periodo decisivo e di fatto fortemente condizionante rispetto al resto dell’esperienza esistenziale di ciascun individuo.

Di conseguenza disporre del proprio stadio come della propria casa è un fattore che indubbiamente fa da supporto ad una scelta che il tifoso-sportivo ha compiuto ad un certo punto della sua vita, forse a seguito dell’input di un familiare di riferimento, particolarmente influente. Ed  allora andare allo stadio è come andare o tornare a casa. Ed andarci con uno o più membri della famiglia diventa motivo di coesione e di legame, che consolida l’appartenenza sia sportiva che familiare.

In questo contesto non è da trascurare neppure la stessa sede ufficiale di un team, quasi sacralizzata (a Roma, fino a non molti anni fa, l’edificio in cui era la sede della locale squadra di calcio, l’Associazione Sportiva Roma, era indicato – con una certa dose di ambiguità mista ad ironia – come la Santa Sede). Dunque la stessa sede sociale di una compagine sportiva diviene oggetto di interesse e di attaccamento, perché è lì che la squadra si incontra nei momenti liberi dagli allenamenti e dalle gare ed è lì che si familiarizza ampiamente tra atleti e tifosi, in una sorta di crogiuolo intersoggettivo che, pur lasciando distinti i ruoli, consente una dimestichezza non sperimentabile altrove. Anzi la familiarità raggiunge punte tanto elevate da consentire pure ad atleti e simpatizzanti di una squadra di cimentarsi in confronti diretti, magari parasportivi o sportivi tout court, come nel caso di una partita a biliardo o di un gioco-sport da tavolo.

Tale vicinanza a faccia a faccia migliora la conoscenza reciproca e pone le basi di una complicità quasi scontata, nell’interesse comune della squadra cui si appartiene e con la quale ci si identifica.

Sponsor e identità

Fa leva esattamente sul medesimo tipo di legame la stessa sponsorizzazione a carattere pubblicitario che investe l’immagine pubblica di un atleta, per un investimento sulla forza trainante e sul richiamo del suo volto, della sua bravura sportiva, del suo carattere di personaggio pubblico. Ciò comporta un’alta responsabilità per il protagonista sportivo di una tale operazione di evidente commercializzazione di un’affidabilità, di un credito, che si trasferisce dall’ambito meramente agonistico a quello dei beni di consumo o comunque delle spese da effettuare. Molta parte dell’efficacia del messaggio pubblicitario dipende dalla tenuta del singolo atleta di riferimento. Ogni sua frase, ogni suo comportamento, più o meno corretto, può influire decisamente sulla vendita di un oggetto, sulla credibilità di un’azienda, sulla “verità” di un comunicato commerciale. La scelta di un campione “sbagliato”, che non conferma la sua statura di sportivo a tutto tondo, bravo e leale, può avere conseguenze non sempre prevedibili anche in chiave di danno economico per un’impresa, per la distribuzione di un prodotto, per la potenzialità attrattiva di un marchio, sovente mostrato dagli atleti sulle loro maglie, a chiara testimonianza di un legame con uno sponsor palese e riproposto più volte sul campo di gara, nelle immagini televisive, nelle foto di un quotidiano o di una rivista: ritraendo un momento di esultanza per un gol o una meta o un canestro o un punto od anche una situazione più drammatica come nel corso di un’ammonizione o di un’espulsione. In ogni caso il nome dello sponsor è strettamente connesso a quello dello sportivo-atleta, il quale indossa un indumento che oltre il nome del giocatore mette in evidenza quello dello sponsor, attraverso il logo che lo rappresenta. Anche in questo frangente la simbiosi è assoluta: l’atleta non è più solo se stesso ma rappresenta la squadra, un marchio, i suoi fans, la città del suo team, i valori insiti nella storia sportiva del suo club. Nel bene e nel male, dunque, l’identità di un atleta va ben oltre la sua persona.

Conclusione

            Sulla scorta di quanto detto sinora appare evidente che la corrente dell’interazionismo simbolico, di marca blumeriana [Blumer 1969], rappresenti tuttora una delle soluzioni teorico-metodologiche più efficaci nel campo della sociologia dello sport, largamente costellata di simboli, significati, messaggi, relazioni interpersonali, che si estrinsecano negli atti che gli attori sociali compiono, dando loro un senso, creando rapporti interattivi ed interpretando e modificando i propri e gli altrui gesti, tipicamente espressi attraverso la fisicità del corpo, la manualità ed il linguaggio nelle sue diverse forme. Ed in effetti nell’interazionismo simbolico hanno rilevanza la processualità (che presuppone un’attività continua), l’emergenza (che si riferisce all’insorgenza di eventi diversi ed imprevedibili), l’agency (ovvero la capacità umana di agire in forma consapevole, costruttiva, trasformativa ed orientata alla gestione del sé e del proprio contesto circostante), l’esistenza di condizioni già date (cui adattarsi per reagirvi od anche cambiarle), la dialettica (che va ben oltre la classica distinzione fra corpo e mente, ragione ed emozione). Dunque processualità, emergenza, agency, condizionalità costruita e dialettica sono i cinque elementi caratteristici dell’interazionismo simbolico, che appaiono particolarmente utili nello studio sociologico dello sport perché corrispondono in pieno a gran parte di quanto ha rilevanza in ogni tipo di attività sportiva.

            Sul piano metodologico, inoltre, gli sviluppi più recenti hanno offerto nuovi strumenti specialmente a livello di analisi qualitativa, secondo le varianti della cosiddetta etnografia, delle interviste in profondità, della raccolta di storie di vita. Ormai non si ricorre quasi più ad esperimenti in laboratorio ma si considera la stessa scena della realtà sociale un laboratorio di prim’ordine senza condizionamenti di natura tecnico-investigativa. Anche l’approccio della sociologia visuale sta compiendo progressi rilevanti. Infine per l’analisi di documenti sia testuali sia iconici sono disponibili programmi informatici sempre più perfezionati. Fra questi va segnalato in modo precipuo l’ultima versione di un software già di largo successo ed ora implementabile pure per l’analisi delle immagini: si tratta di NVivo 8, da poco reso disponibile come prodotto di QSR International ed orientato a sviluppare l’approccio della Grounded Theory di Glaser e Strauss [1967], che com’è noto evita di postulare ipotesi di lavoro e mira a costruire la teoria a partire dai dati empirici, attraverso un’indagine dapprima aperta, poi assiale (basata sulle correlazioni) ed infine selettiva. Ma invero è la triangolazione fra approcci quantitativi e qualitativi che è destinata a garantire esiti più soddisfacenti di quelli tradizionali (per qualche esempio di questi ultimi si vedano i saggi di Brenda Farnell [2004: 30-55] e di Pauline Turner Strong [2004: 79-87] sull’uso razziale delle mascots sportive).

            Peraltro cercando di immaginare quali possano essere gli sviluppi futuri della sociologia dello sport Peter Donnelly [2008: 27] parla in primo luogo proprio di: “the globalisation of sport, including its relationship to local and regional sport practices, and to issues of identity”. Dunque il tema dell’identità sembrerebbe essere strategico per gli anni a venire, con l’avanzare dei processi di globalizzazione e con i tentativi di resistenza a livello locale.     

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“Per ripensare l’impegno culturale di Cataldo Naro”, in Canta, Rizza (a cura), Non facciamo come lo struzzo. L’impegno intellettuale di Cataldo Naro tra ricerca storica, analisi sociologica e ripensamento della prassi, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2009, pp. 209-29.

Roberto Cipriani


Le anime buone


sono così poche


che non si dimenticano.


(Bertolt Brecht, L’anima buona di Sezuan, 1938-40)


Premessa


“Mio fratello”: queste parole, sovente pronunciate da don Massimo Naro, sono accompagnate da un páthos che l’interlocutore non può non cogliere. In esse, al di là del riferimento familiare (medesima genitorialità e medesima educazione), c’è un indicatore di legame che è sacerdotale ed intellettuale insieme, di condivisione di ansie ed aneliti, di compartecipazione ecclesiale ed intellettuale. Ma certamente la prospettiva religiosa è quella prevalente ed informa di sé anche l’ottica conoscitiva e scientifica. Dunque una coppia di fratelli (con il primo che continua a parlare attraverso il secondo) che diventa anche metafora di un rapporto ideale tra fede e scienza, travalicando gli astrattismi di visioni teologiche scarsamente incarnate nella realtà. Ed appunto questa incarnazione del messaggio evangelico nella concretezza dell’agire quotidiano e prospettico (escatologico) diviene una cifra interpretativa per leggere l’una e l’altra vicenda umana, fra loro speculari, di don Massimo e di don Aldo. Tra i due quasi non v’è soluzione di continuità, tant’è che nella voce e nei tratti comportamentali di entrambi si resta esterrefatti tanto sono evidenti i richiami, le evocazioni, i ricordi. Mentre vengono scritte queste riflessioni, proprio in data 3 maggio, il pensiero va all’odierna celebrazione annuale dedicata al Santissimo Crocifisso del Santuario di Belici, oggetto di una ricerca sociologica [Canta, Cipriani, Turchini 1999] commissionata da don Cataldo Naro per conto del Centro Studi “A. Cammarata” di San Cataldo. L’idea gli venne dopo aver constatato la straordinaria partecipazione di popolo presso quel luogo sacro, dove si era recato su consiglio della madre che gli aveva detto di rivolgersi a lu Signuri di Bilìci per cercare di risolvere i suoi problemi di vista.


Se tutte le diocesi…


La frequentazione di don Aldo Naro, grazie alla mediazione dei colleghi universitari Carmelina Chiara Canta e Salvatore Rizza, è durata a lungo, dal 1988 [Cipriani 1992] e per oltre un decennio sino alla sua nomina ad Arcivescovo di Monreale, allorquando il dialogo si è svolto solo a livello epistolare e per intervalla del suo gravoso impegno pastorale. Durante quest’ultimo periodo l’incontro con lui è avvenuto due volte, senza però che egli se ne accorgesse: in occasione della sua consacrazione episcopale nel Duomo di Monreale e di un convegno in cui era relatore presso la Pontificia Università Lateranense. In entrambi i casi lo sguardo da lontano [Lévi-Strauss 1984] rivolto verso  di lui non faceva che confermare lo sguardo da vicino.


Cataldo Naro è stato sacerdote attento all’altro e studioso indagatore delle realtà ecclesiali locali e segnatamente dei testimoni religiosi e laici che hanno lasciato tracce significative nel loro territorio (“lo specifico ecclesiale locale è invece da ricercarsi nella tradizione propriamente spirituale e pastorale della Chiesa locale; riguarda appunto il ‘metodo’ di esperienza della fede e di annunzio del Vangelo che è stato elaborato da una comunità ecclesiale locale attraverso il succedersi delle generazioni che hanno vissuto la fede con l’aiuto interiore dello Spirito Santo, nello stesso ambito culturale e territoriale; si articola, perciò, nella spiritualità di cui sono state portatrici le figure più rappresentative del clero e del laicato locali” [Naro 1981: 2]).      


La sua sensibilità plurima, alle persone ed alla loro storia, ne ha fatto un esempio da imitare, un animatore religioso e culturale preparato e coraggioso. La mole delle attività intraprese, delle iniziative culturali organizzate, delle pubblicazioni curate in proprio od affidate ad altri, delle ricerche sul campo incentivate, lo ha fatto apprezzare ben oltre la sua regione. Intellettuali italiani di primo piano hanno frequentato più volte il Centro Studi “A. Cammarata” di San Cataldo, fucina di imprese religiose e scientifiche senza pari in altre diocesi italiane. Se queste ultime avessero dato vita ad almeno una minima parte di quanto avviato da don Naro il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana avrebbe avuto ben altro respiro. Non a caso si è pensato opportuno convocare il sacerdote sancataldese a collaborare con l’Ufficio Nazionale del medesimo progetto a Roma.


Sarebbe utile ed interessante fare i conti con la poderosa produzione storico-religiosa di Cataldo Naro ed in particolare con le sue opere degli inizi [1977; 1981; 1984; 1986; 1989a; 1989b; 1989c; 1991a; 1991b; 1992a; 1992b; 1993a; 1993b; 1996; 1997a; 1997b]. Ma su queste ci saranno altre competenze ed altre conoscenze disciplinari e territoriali in grado di intervenire a ragion veduta. Qui invece ci si limita a tratteggiare la figura di Naro in chiave biografica e sostanzialmente autobiografica anche a partire da alcuni documenti personali, secondo una tradizione storico-sociologica ormai affermatasi da tempo anche in Italia.          


Fede e cultura


Alla scuola di Giacomo Martina, presso l’Università Gregoriana, don Cataldo si era imbevuto di metodo e rigore storico. Nella sequela di don Divo Barsotti e della sua “Comunità dei figli di Dio” aveva appreso la valenza di una visione mistica della vita e del servizio agli altri. E se da storico non mancava di usare strali critici nei riguardi di interpretazioni superficiali e poco documentate, da sacerdote e pastore accorto era in grado di discernere fra modelli pastorali adeguati o meno (valgano a questo proposito due esempi: la sua non condivisione della diffusa communis opinio valutativa in senso negativo nei riguardi delle espressioni di religiosità popolare e la sua rinuncia al ruolo di segretario del sinodo diocesano di Caltanissetta, avvenuta peraltro in forma discreta, garbata e senza manifestazioni plateali di dissenso).


Capace di citare correttamente ed a ragion veduta opere storiche e sociologiche di primaria rilevanza, don Naro era consapevole della “possibilità di integrare analisi sociologica e ricerca storica. Si tratta di due tipi di conoscenza con proprio statuto e con propri metodi, quindi reciprocamente autonomi” [Naro 1993b]. Pertanto “lo storico può verificare l’attendibilità e la coerenza interna della sua ricostruzione e interpretazione del passato nel confronto con gli esiti di quel passato quali osservati ed analizzati dal sociologo. E il sociologo può verificare la plausibilità della sua analisi ricorrendo ai dati offerti dalla conoscenza storica circa il medesimo oggetto della sua analisi” [Naro 1993b]. 


Don Aldo manteneva sempre un suo stile di correttezza e di rispetto ma ciò non gli impediva di lamentare umanamente qualche disattenzione, qualche eccesso, qualche caduta di tono. Più che nel muovere critiche pesanti ad alcuni preferiva rinviare all’esempio di altri: da monsignor Intrecciatagli (vescovo nisseno dal 1907 al 1921), soprannominato “intrecciacuori”, a monsignor Guttadauro (ordinario di Caltanissetta dal 1859 al 1896), vero “fondatore” della diocesi, istituita nel 1844.


L’atteggiamento aperturista connotava anche lo sguardo rivolto al di fuori dell’appartenenza di Chiesa. Così ad esempio non mostrava astio nei riguardi di sette e culti diversi dal cattolicesimo ed anzi invitava ad evitare crociate anti-sette. Infatti scriveva in proposito sul periodico La Voce di Campofranco, con debita cautela di studioso e pastore: “può darsi che ci sia qualcosa di vero nella tesi del complotto anticattolico, anche se va provato. Ma quel che bisogna evitare è attribuire il successo delle sette esclusivamente a fattori extraecclesiali. Ci saranno pure dei movimenti intraecclesiali perché tanti cattolici si rivelano così fragili davanti al proselitismo delle sette! E sono motivi che certamente non si possono ricondurre tutti alla ‘confusione’ dottrinale che in campo cattolico si sarebbe insinuata nel post-concilio” [Naro 1991b].


Pure sul terreno più specificamente scientifico don Cataldo mostrava competenza e riscuoteva consensi. Basti citare l’esempio dell’illustre storico siciliano Francesco Renda, laico, marxista, non corrivo con il sacerdote di San Cataldo sul piano religioso, eppure così ben disposto nei suoi riguardi perché studioso serio ed anch’egli specialista di questioni isolane, sebbene su un altro versante. Ma forse la tendenziale sintonia fra Renda e Naro deriva dall’approccio di quest’ultimo al fenomeno mafioso, in particolare nel suo legame con il mondo cattolico. Di tale visione non allineata con le interpretazioni correnti in ambito ecclesiale don Cataldo Naro aveva dato prova in una conferenza sul tema “Religione e mafia” tenuta, su invito, presso la Facoltà di Scienze della Formazione nell’Università Roma Tre.


Non era poi un caso che il professor Alberto Maira e l’ingegner Stefano Diprima, tipici esponenti di una classe di intellettuali periferici molto attivi sul territorio nisseno ed altresì non certo ideologicamente omogenei fra loro, fossero entrambi molto legati a don Aldo e dessero il loro apporto alle sue attività culturali.


La tradizionale formula della revisione di vita si poteva di fatto declinare per Naro come leggere, discernere e rinnovare, passando dall’afflato spirituale alla passione scientifica e quindi all’impegno operativo pastorale. Detto altrimenti si trattava di coniugare insieme ricerca storica, analisi sociologica e ripensamento della prassi ministeriale.


Nella sua stessa San Cataldo don Naro non rinunciava a polemizzare con la locale Associazione Culturale “G. Amico Medico”, che nel 1996 aveva pubblicato un volumetto sulla pietà popolare, in polemica a sua volta con un altro testo pubblicato sullo stesso tema, oltre un anno prima, dal vicariato del medesimo comune. In realtà i parroci locali non avevano replicato e dunque don Aldo lo faceva quasi in loro vece e con uno stile non graffiante, anzi amicale: “la confusione in cui sembrano cadere i miei amici deriva da una complessità della concreta situazione. Il passato da cui veniamo – di stretta connessione ed anzi di fusione tra comunità ecclesiale e comunità civile – non è superato e continua in qualche modo a prolungarsi nel presente” [Naro 1997a: 12]. Inoltre “il passato cristiano è un patrimonio civile, cioè comune alla società tutta. Anche limitatamente a certe tradizioni di culto e di devozione popolari cristiane che si sono tramandate fino ad oggi nei Paesi di antica cristianità, si può dire che esse sono in qualche modo un patrimonio, oltre che della comunità ecclesiale, anche della comunità civile. E comunque credo che ciò possa dirsi di tante manifestazioni popolari natalizie o pasquali dei paesi della nostra diocesi. È un fatto che spesso esse sono sentite come un patrimonio di tutti. Tanto più che – come dimostrano indagini di sociologia religiosa condotte negli ultimi anni per l’area centrale della Sicilia (Cipriani, Berzano-Introvigne, Canta) – è ancora amplissima la percentuale della popolazione che si riconosce nella Chiesa, anche se frequenta raramente o niente affatto le celebrazioni liturgiche e ha credenze religiose e convinzioni etiche piuttosto lontane dall’insegnamento della Chiesa. È comprensibile che tanta gente, pur lontana dalla Chiesa e persino indifferente in materia religiosa, continui a vedere nelle manifestazioni di antica pietà popolare un legame con la propria infanzia religiosa o con la religione dei propri genitori e, in ogni caso, una testimonianza della storia culturale delle nostre comunità locali. Ritengo che i responsabili della guida della comunità ecclesiale non possano non tener conto di questa situazione. Essi – pur non abdicando alla propria responsabilità pastorale, anche nei confronti delle antiche manifestazioni della pietà popolare, che appartengono di pieno diritto alla comunità ecclesiale e perciò non vanno ‘cedute in gestione’ ad enti turistici ed associazioni pro-loco – debbono intervenire in questa materia con delicatezza ed anche con rispetto verso tutti, spiegando ampiamente il senso di eventuali disposizioni e innovazioni che intendono apportare. E del resto non si può ignorare che l’amore a queste antiche forme di devozione cristiane spesso rappresenta, almeno per certe fasce generazionali, un ponte di appartenenza alla Chiesa che non dev’essere disprezzato ma anzi valorizzato” [Naro 1997a: 13]. Una così lunga citazione si giustifica ampiamente con il fatto che in essa è contenuta una sorta di summa che coniuga insieme i risultati delle ricerche sociologiche con le esigenze pastorali del contesto territoriale. L’orientamento espresso è un punto di arrivo strategico, decisivo, anche se evidentemente non condiviso da tutti, neppure in ambito ecclesiale. Ma il profeta, lo studioso, l’analista meticoloso, è sovente in anticipo sui tempi ed in contraddizione con i suoi contemporanei. Egli va oltre le apparenze, si interroga sul futuro ed indica quale sia l’ottica corretta con cui guardare alla realtà presente ed alle sue radici “antiche” (aggettivo quest’ultimo assai ricorrente nel testo citato).       


Gli accenti critici


Cataldo Naro attingeva all’esempio ottocentesco di monsignor Guttadauro nel valutare la religiosità popolare come connessa con la catechesi: “per avere più chiaro il concetto di ‘canale tradizionale’ di trasmissione della fede si pensi che il catechismo pubblicato da mons. Guttadauro per la nostra diocesi, ancora negli anni ottanta dell’Ottocento, consisteva in una raccolta di preghiere e canti in dialetto: nessuna formula, solo preghiere da usare privatamente, in famiglia e in chiesa. ‘Le cose di Dio’ erano allora propriamente queste preghiere, cioè una concreta prassi di fede cristiana da trasmettere oralmente nei concreti ambiti di vita sociale: dalla famiglia al quartiere e alla parrocchia” [Naro 1989a]. Per Naro la questione è ben chiara: “la pietà popolare è propriamente il risultato dell’opera di evangelizzazione esercitata dalla Chiesa in un determinato tempo, in un determinato ambiente e in rapporto ad una determinata cultura” [Naro 1992b].


Successivamente, in previsione dell’arrivo del papa Giovanni Paolo II a Caltanissetta nel 1993, il sacerdote sancataldese arrivava anche ad ironizzare su un “gratuito ottimismo” in auge presso “certi ‘responsabili ecclesiastici’” e domandava retoricamente (ma forse provocatoriamente per i destinatari del messaggio): “perché non godersi, senza tante storie, questo bellissimo momento di ‘egemonia cattolica’? Per la Sicilia non c’è alcun problema: le cose vanno benissimo. Oh, se non ci fossero quei sanguinari mafiosi, profanatori del magnifico tempio di Dio che è la società siciliana! Se non fosse per loro, al papa che verrà in primavera si potrebbe presentare la Sicilia come un modello di società cristiana. Del resto – osservano gli ottimisti – le indagini sociologiche più recenti confermano queste ‘confortanti’ valutazioni sulla Sicilia. Basta citare i confortantissimi dati dell’indagine di Cipriani sulla diocesi di Caltanissetta (La religione dei valori, Caltanissetta 1992). È vero che Cipriani scrive che la religione istituzionale (cioè la Chiesa) ‘opera con una sorta di grimaldello, quello dei valori, per entrare in uno spazio [quello della società] che le sarebbe quasi del tutto negato’ (un’immagine – questa del grimaldello – che può essere utile anche per rendere efficacemente certa strategia ecclesiastica nella società secolarizzata). Ma in altra pagina del suo libro Cipriani scrive che la religione (quella istituzionale o quella ‘diffusa’ o solo quella ‘dei valori’?) ‘rimane un punto di riferimento valoriale, che sconfessa l’ipotesi di una secolarizzazione galoppante’. Dunque, si può trarre narcotizzante ‘conforto’ anche dall’indagine di Cipriani. Pessimismo o ottimismo? Sarebbe auspicabile semplicemente un sano, concreto, equilibrato realismo cristiano: il realismo di chi ha appreso la lezione evangelica del campo in cui crescono buon frumento e cattivo loglio, insieme, fino alla mietitura” [Naro 1993a].


Già in precedenza, invero, don Naro aveva preso di petto la questione della mafia, usando parole inequivocabili: “le comunità ecclesiali, in quanto tali e nel loro complesso, non sono state finora motivate ad esprimere un significativo impegno contro la mafia o anche solo a portare un qualche contributo alla resistenza alla mafia che si manifesta e si organizza nella società” [Naro 1992a]. Va ricordato poi che all’epoca era ancora in corso il sinodo nisseno, a proposito del quale egli osservava: “vi appare evidente che la Chiesa nissena sperimenta qualche difficoltà a fare un discorso argomentato sulla mafia. Di fronte al triste fenomeno che corrode come tarlo la nostra società, la Chiesa è sembrata finora senza parole. Meglio: senza parole ‘sue’, che cioè attingano al patrimonio della speranza da lei custodita e annunziata: quella del Vangelo” [Naro 1992a]. Inoltre, aggiungeva Naro, “pare che nella parte dell’analisi manchino attualmente due importanti elementi. Primo: un esame degli atteggiamenti assunti dalla Chiesa nissena nel passato di fronte alla mafia. Secondo: l’attenzione al rapporto politica-mafia” [Naro 1992a]. In particolare il sacerdote-studioso di San Cataldo se la prendeva con una “‘pastorale dello struzzo’. È il rischio, in altri termini, di affondare la testa nella sabbia per non vedere, quasi a difendersi dal ‘pericolo’ di dover mutare, in conseguenza del ‘vedere’, qualcosa nei propri metodi pastorali” [Naro 1989c]. Alla pastorale dello struzzo egli preferiva del resto una pastorale aperta socialmente, alla maniera di monsignor Sturzo, cioè sul modello del fratello vescovo del prete-politico-sociologo don Luigi Sturzo.  


Don Cataldo stigmatizzava altresì l’inefficacia dell’omiletica in uso: “basta esaminare i testi di tante prediche per accorgersi che si tratta di una banalizzazione frequentissima che accarezza le orecchie, ma finisce per tradire il Vangelo e, comunque, essere tutt’altro che trasmissione della fede” [Naro 1989a].        


In conclusione, se si dovesse tracciare un bilancio complessivo dell’azione nariana l’output sarebbe da considerare positivo sia per l’ampiezza degli interessi che per la numerosità e la qualità degli interventi effettuati (dalle pubblicazioni alla convegnistica, dalle ricerche ai bollettini informativi). Per ragioni di completezza, va pure ricordato che in alcuni momenti di maggior disagio, dapprima nella sua diocesi di origine e poi in quella di destinazione episcopale, egli aveva dovuto scalpitare – ma senza fur rumore – nei confronti di qualche vescovo di cui non condivideva le linee pastorali.


Spunti da un epistolario: studioso attento e pastore sensibile


Don Cataldo Naro amava scrivere ed amava scrivere a penna – anche nell’era del computer –, come molti sanno per esperienza personale in quanto destinatari di sue missive, autografe sin nella busta d’invio in cui il mittente era un semplice nome e cognome mentre il ricevente era qualificato con ogni attribuzione possibile in relazione allo status professionale ed alla carica istituzionale. Ed i contenuti delle lettere non erano mai futili né ripetitivi o di maniera. In fondo l’interlocutore veniva trattato al meglio, cioè come una persona nel senso pieno del termine. I messaggi partivano da un’occasione quasi sempre a sfondo culturale: segnalare una pubblicazione, inviare un libro od un articolo, allegare la copia di un documento d’archivio, fornire o chiedere indicazioni bibliografiche o copie di recensioni apparse su testi pubblicati o curati dal Centro Studi “A. Cammarata”, proporre un’indagine su una fenomenologia socio-religiosa, segnalare qualche difficoltà nell’avere “udienza” anche presso quotidiani e riviste di matrice cattolica, inviare la rivista Argomenti o il bollettino diocesano di Monreale, far pervenire le sue lettere pastorali (da Diamo un futuro alle nostre parrocchie ad Amiamo la nostra Chiesa).


In quella che è forse la prima missiva indirizzata al suo destinatario romano, don Cataldo con grande rispetto dà ancora del lei al ricevente, giudica “molto volante” una sua trattazione dedicata alla “figliolanza” (una sorta di documento-attestato che veniva dato a chi offriva un contributo a favore dell’azione dei francescani in Terrasanta). Tale ricevuta-diploma si riteneva potesse avere un carattere apotropaico, fosse in grado cioè di allontanare i mali naturali prodotti da una tempesta, dallo scoppio di un fulmine, magari da un terremoto. La “figliolanza” era posta in bella vista in casa o nei pressi della porta di accesso, se non proprio su di essa. Ma anche in questo contesto di religiosità popolare l’intellettuale rigoroso spunta fuori con tutto il suo profilo: si affida ad un documento storico, accenna poi ad altri suoi scritti sull’argomento (ma non li ricorda). Dunque l’estensore cerca comunque sostegni documentali per le sue affermazioni. Passando poi a trattare dell’inchiesta in corso sulla religiosità nel nisseno il mittente si preoccupa che i risultati dello studio giungano al più presto ai membri sinodali della diocesi di Caltanissetta. In altri termini, è chiaro il progetto perseguito: passare all’azione, od almeno ad una prima riflessione sui dati, proprio nell’ambito del sinodo diocesano (allora in corso di svolgimento e certamente un indicatore di modernizzazione secondo quanto suggerisce Diotallevi [1999]). Per di più gli utenti degli esiti della ricerca hanno da essere anche coloro che a vario titolo si interessano alla situazione religiosa locale, non solamente quindi i partecipanti all’evento sinodale. Infine, mentre per sé non pare porre particolare attenzione alle risorse finanziarie, si preoccupa molto di non creare difficoltà ai ricercatori, chiarendo esplicitamente che avrebbe provveduto di conseguenza in caso di necessità.


Ed ecco il testo della lettera:


San Cataldo 23-1-90


Caro Prof. Cipriani,


                l’accenno alla “figliolanza” o bolla della Santa Crociata nel mio volume è davvero molto volante (pag. 494 di Momenti e figure della Chiesa nissena dell’Otto e Novecento). Le allego alla presente fotocopia della relazione per la visita ad limina del 1871 di mons. Guttadauro, in cui si parla della bolla, come le ho detto stamani a telefono. Avrò scritto più diffusamente della cosa da qualche parte, ma in questo momento non ricordo dove.


                Penso che, quando le arriverà la presente, già da tempo i questionari dell’inchiesta saranno pervenuti a Milano. Sì, è vero che abbiamo preso molto più tempo del previsto ed abbiamo incontrato delle difficoltà; ma la pregherei, nella misura del possibile, di adoperarsi perché i risultati dell’inchiesta possano essere dati in mano ai partecipanti al sinodo e più in generale a quanti sono interessati al sinodo nisseno. Se è il caso di anticipare qualcosa in questa fase di elaborazione dei dati, me lo faccia sapere con grande libertà, scrivendomi o quando ci sentiamo a telefono.


                Cordialissimi saluti.


                                                                                                                                             Suo


                                                                                                                                             Cataldo Naro


Una cordialità costante


La lettera successiva è, se possibile, ancora più cordiale ed amichevole. Ormai don Cataldo dà del tu. Dopo i ringraziamenti per gli auguri di Pasqua e per una recensione, Naro chiede scusa per il ritardo nel rispondere (fatto non abituale per lui, solitamente tempestivo) e passa subito a trattare dell’ipotesi di un’indagine sui pellegrinaggi in area nissena, fenomenologia che lo colpisce particolarmente perché mette insieme sia l’esperienza contadina che altri tratti più moderni. Per questo ritiene opportuno porre in cantiere quanto necessario, anche economicamente, per la realizzazione dello studio empirico e saggiamente predispone una doppia tranche di finanziamento a carico del Centro Studi “A. Cammarata”. La somma prevista è rilevante e dovrebbe bastare, confidando anche nell’assenza di pretese da parte dei realizzatori. La parte finale presenta qualche amara considerazione sulla scarsa attenzione sia de “L’Osservatore Romano” sia di “Avvenire” nei riguardi di proposte di articoli sul volume relativo all’inchiesta sociologica dal titolo La religione dei valori [Cipriani 1992]. Ma don Cataldo non demorde e spera di poter pubblicare qualcosa in occasione del viaggio del papa a Caltanissetta: 


Centro Studi “A. Cammarata”


Via Misteri, 6 – Tel. 0934/571960


93017 San Cataldo


                                                                                                                                                                                            7.4.93


Carissimo,


                ti ringrazio degli auguri pasquali e del testo della recensione che comparirà su “Annali di sociologia”.


                Ho da scusarmi per il lungo silenzio e per non aver prontamente risposto alla tua della fine di febbraio.


                Ti ringrazio per aver preso in considerazione la proposta dell’indagine sociologica sui pellegrinaggi nell’area nissena, in particolare a San Cataldo. E sono contento che abbia accettato di condurla, seppure non quest’anno. Resto convinto che si tratti di un tema-spia per un’analisi sociologica più vasta. Mi pare, però, che convenga legare nella stessa indagine le due modalità – la tradizionale e la moderna – di pellegrinaggio: sono distinte ma interagiscono nello stesso ambiente culturale e l’uno mi sembra base dell’altro. C’è un turismo religioso che si radica nella tradizione del pellegrinaggio contadino. Proprio in questi giorni di Pasqua un sodalizio di San Cataldo – la società operaia “M. Rizzo” – ha organizzato un pellegrinaggio dei suoi soci per San Giovanni Rotondo sulla tomba di p. Pio da Petralcina.


                Tengo molto a questa ricerca e troverò la somma necessaria. Farò mettere nel bilancio del Centro Cammarata per l’anno prossimo – cominciando ad accantonare la somma da quest’anno – un budget di 30 milioni che certo è insufficiente se si volesse una ricerca con rimborsi, ma che spero possa bastare, almeno in parte, conoscendo appunto lo spirito con cui conduci e guidi le ricerche.


                Gli articoli su “Avvenire” e “L’Osservatore” non sono più usciti. “L’Ossevatore” – che ebbi modo di sentire poco dopo il nostro incontro tramite Borzomati – non pubblica più cronache di convegni e presentazioni periferiche: si può solo tentare con recensioni sulla terza pagina. E l’“Avvenire”, scoraggiato, non l’ho più contattato. Mi dispiace di questa mancata segnalazione.


                Ho visto che Garelli ha segnalato il volume nella bibliografia finale di un suo articolo su “Incongruenza e differenziazione della religiosità in Italia” pubblicato nel volumetto “Chiesa in Italia” della rivista “Il Regno”.


                Se mi faranno scrivere un articolo – come spero e come tenterò – sulla venuta del Papa a Caltanissetta, nell’“Osservatore Romano”, inserirò la notizia della pubblicazione della ricerca e una sua breve sintesi.


                Sempre con viva gratitudine e sincero affetto


                                                                                                              Cataldo Naro


L’attenzione continua agli apporti culturali


Qualche tempo dopo don Cataldo fa cenno a recensioni estere del medesimo volume già citato, secondo notizie ricevute da Johan Leman, studioso belga, autore di un’indagine sulla presenza dei “Testimoni di Geova” nell’immigrazione dalla Sicilia al Belgio [Leman 1976; 1987; 1998]. Ecco il breve testo della lettera, qui di seguito:


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                                                                                                                                                                                            22.7.94


Carissimo,


                unisco la fotocopia di una lettera di Leman in cui dice di recensioni al tuo “La religione dei valori”. Sono recensioni su riviste estere? Se ne hai copia, potresti inviarmene fotocopia? Ti ringrazio. Mi dispiace che Leman non viene alla presentazione del volume di Introvigne-Berzano, ma lo coinvolgeremo per qualche altra occasione.


                Affettuosi saluti                 


                                                                                              Cataldo Naro


La lettera successiva accompagna l’invio delle bozze di un volume scritto da Massimo Introvigne e Luigi Berzano ed augura buone vacanze (in realtà si intravede una lettera effe cancellata; evidentemente era stata pensata in un primo momento la parola ferie, poi modificata in vacanze, espressione meno burocratica e più amichevole):


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                                                                                                                                                                                            30.7.94


Carissimo,


                ti invio le bozze del libro di Introvigne e Berzano che offrirà lo spunto del dibattito del seminario dell’1 ottobre prossimo. Spero di inviarti prima di quella data il libro confezionato. Ma per ogni eventualità, mi permetto inviartelo, per tempo, in bozze.


                Cordiali saluti e buone vacanze.


                                                                                              tuo


                                                                                  Cataldo Naro


Conoscenza scientifica e sensibilità pastorale


Anche nel messaggio che segue, l’autore si giustifica per un ritardo, assai breve questa volta, nel rispondere. La ragione è presto spiegata: ancora non c’è una data ufficiale per il pellegrinaggio dell’Unitalsi a Lourdes per il 1995. Ma intanto c’è già un’informazione ufficiosa relativa alla partenza alla fine di aprile ed al ritorno ai primi di maggio. L’idea coltivata è quella di un’osservazione sociologica partecipata nel corso del pellegrinaggio stesso.  


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                                                                                                                                                                            19.09.94


Carissimo,


                ho tardato qualche giorno a risponderti, perché ho dovuto perder tempo a informarmi per la data del pellegrinaggio. Di fatto l’organismo centrale di Roma dell’Unitalsi che decide le date non ha ancora deciso e non ha stilato il programma ufficiale dei pellegrinaggi 1995. Lo farà entro il prossimo mese di ottobre. Però ho saputo che con quasi certezza il pellegrinaggio siciliano di primavera – che comprende quello nisseno – sarà dal 22 aprile al 2 maggio. Dunque quasi in coincidenza col pellegrinaggio rurale di Marianopoli! Comunque potremo parlare della cosa – penso con elementi più solidi in mano – quando verrai qui tra due settimane: potremo parlare anche col presidente locale Unitalsi. Arrivederci. Cari saluti.


                                                                                                                                             Cataldo Naro


Il ventinove marzo del 1996 è don Cataldo per primo ad inviare i suoi auguri per la Pasqua, da estendere anche al coniuge del destinatario. Per l’occasione si danno alcune indicazioni operative e logistiche per la realizzazione della ricerca sul santuario di Bilìci. Non manca poi qualche informazione bibliografica, questa volta concernente i parroci della sua cittadina di San Cataldo, autori di un testo che sembra non molto tenero nei riguardi della “pietà popolare” ed invece fatto passare come ispirato al suo pensiero in materia. Don Naro non ne condivide invece lo spirito, piuttosto “dirigista”, cioè di visione dall’alto di una presunta superiorità. E si firma più familiarmente come Aldo, invece di Cataldo.


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                                                                                                                                                                            29.3.96


Caro Roberto,


                nell’imminenza delle festività pasquali desidero farti giungere gli auguri affettuosi e grati di buona Pasqua. Estendili anche ai tuoi, particolarmente a tua moglie, di cui ricordo sempre la grande e signorile gentilezza con cui mi ha accolto una volta venendo a casa tua.


                Sto cercando di trovare un allogio per la notte del 2 maggio nella stessa Marianopoli. Intanto ti indico il numero del telefono dell’autista che verrà a prenderti a Catania e che resterà a tua disposizione l’indomani, anche per riaccompagnarti poi all’aeroporto. Si chiama Amico e già altre volte ha fatto lo stesso servizio e quindi ti conosce bene. Il numero è questo: 0934/574626. Già è informato di tutto.


                A parte ti invio un opuscoletto che i parroci di San Cataldo hanno pubblicato, con l’approvazione del vescovo, sulla “pietà popolare”. Anche se dicono di essersi ispirato a qualche mio scritto in materia, di fatto lo trovo piuttosto distante dalla mia sensibilità, perché un po’ “dirigista” e perché non lascia trasparire una grande simpatia verso le manifestazioni tradizionali della pietà del popolo. Te lo invio semplicemente perché tu lo conosca, dal momento che ti occupi, a più titoli, del Nisseno.


                Ancora auguri e affettuosi saluti.


                                                                                              tuo


                                                                                              Aldo Naro


Il culto del Crocifisso


Quando Cataldo Naro diviene preside della Facoltà teologica di Sicilia l’epistolario non s’interrompe e continua a fornire notizie sul culto al Crocifisso in Sicilia, oggetto di un’indagine iniziata nel mese di maggio del 1994 ed allora in via di completamento [Canta, Cipriani, Turchini 1999], in relazione al pellegrinaggio al santuario del Crocifisso di Bilìci, su cui nel frattempo il parroco di Marianopoli ha pubblicato un volumetto. Sul medesimo pellegrinaggio i parroci della diocesi stanno rispondendo ad un questionario inviato dalla professoressa Carmelina Chiara Canta.  


Facoltà Teologica di Sicilia


“San Giovanni Evangelista”


                Il Preside


                                                                                                                                             26 luglio 1996


Caro Roberto,


rispondo con notevole ritardo alla tua della fine di maggio-inizio giugno in cui mi chiedevi notizie sul pellegrinaggio di Trecastagni. Mi sono informato con don Gaetano Zito, archivista della diocesi di Catania, il quale sta dirigendo una tesi su questo pellegrinaggio presso l’Istituto di scienze religiose di Catania. Zito mi precisa che:


–          il santuario di S. Alfio è a Trecastagni: il pellegrinaggio, dunque, non è da Trecastagni al santuario.


–          attualmente non ci sono croci portate dai pellegrini. Fino a qualche tempo fa c’era invece l’usanza dei “nudi”, pellegrini che per penitenza andavano al santuario quasi nudi.  


–          la data quella del 10 maggio, come da te scritto.


Questo è tutto.


Don Leonardo Mancuso ha pubblicato il volumetto su Bilìci. Ti mando a parte una copia. Vedo l’interesse scientifico e pastorale crescente sul tema del pellegrinaggio (vedi l’ultimo numero di Regno, n. 14, pp. 446-448).


Il volume su Bilìci troverà un terreno pronto! Stanno pervenendo anche le risposte dei parroci al questionario inviato da Chiara. Con affetto e buone vacanze!


                                                                                                                                             Cataldo Naro


Anche tre anni dopo, in un altro scritto inviato al medesimo destinatario, si coglie il destro per segnalare un rapporto di viaggio in Sicilia redatto da un autore italo-americano, subito dopo la seconda guerra mondiale: si parla, una volta di più, del culto al Crocifisso [Mangione 1992: 193-197].      


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                                                                                                                                                             6/4/99


Carissimo,


                ti segnalo un’interessante testimonianza di un resoconto di viaggio in Sicilia di un italo-americano nell’immediato secondo dopoguerra, da cui emerge – nelle pagine fotocopiate che unisco – la devozione siciliana, anche maschile, al Crocifisso. Forse può esserti utile ad arricchire, per eventuali altri tuoi saggi e articoli, la documentazione sulla devozione al Crocifisso in Sicilia.


                Cordialmente


                                                                              Cataldo Naro


Appena due giorni dopo la lettera precedente, un’altra ne segue per rimandare in particolare alla conclusione presente in un altro suo saggio [Naro 1997b], scritto a proposito di Domenico Lentini, un predicatore mistico degli inizi del XIX secolo. Il tema ricorrente è quello della devozione al Cristo crocifisso, sofferente, di cui aveva scritto anche su “L’Osservatore Romano” [Naro 1996] offrendo una chiave di lettura secondo cui “non compiangiamo, dunque, semplicemente la vittima di una tremenda ingiustizia di tanti secoli fa, ma viviamo un rapporto con Gesù, il Messia crocifisso e risorto”:


CATALDO NARO


    DIRETTORE


                                                                                                                                                                            8.4.99


Carissimo,


                non ricordando se ti ho mandato l’unito saggio su un predicatore meridionale del primo Ottocento, lo faccio ora. Ti prego di leggere la conclusione: forse può fornire qualche spunto di riflessione sull’incidenza storica della devozione al Crocifisso, di cui discuti nel libro su Bilici. Cordialmente


                                                                                                                                                             Cataldo Naro


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L’appressamento all’epilogo


Il rapporto epistolare non riguarda solo temi culturali ma investe anche l’ambito personale e familiare, come risulta dal biglietto di ringraziamento per la partecipazione al lutto in seguito alla morte del padre dello stesso don Aldo. In tale contesto si affaccia pure l’interrogativo sul senso della morte, sul suo significato, quasi prolegomeno ad una riflessione ancora più articolata e motivata che poi don Naro presenterà ad un pubblico particolarmente colto, in occasione di un anniversario sturziano e quasi alla vigilia del suo stesso improvviso trapasso:


CATALDO NARO


    DIRETTORE


                                                                                                                                                                            3 settembre 2001


Grazie, carissimo Roberto, della lettera con cui mi dici di avere appreso della morte di mio padre. Sì, ringrazio il Signore di averlo avuto come genitore. E adesso Gli chiedo di dargli il riposo eterno. E chiedo pure che l’esperienza mi introduca di più nel mistero che si cela dietro la morte. Grazie ancora. Spero di avere modo di incontrarti di presenza prossimamente.


                Con riconoscente amicizia


                                                                                                              Cataldo Naro


Un’ultima missiva giunge appena a ridosso della conclusione di un’assemblea della Conferenza Episcopale Italiana a Roma. Il peso dell’onere episcopale è evidente, come lo è quello del desiderio di un incontro amicale, in prosieguo di una frequentazione ultradecennale. Si constata che l’esistenza si è trasformata e quasi non lascia spazio alla riflessione pacata, al ripensamento critico, alla ripresa di fiato dopo le fatiche anche fisiche del ministero. Messe da parte simili considerazioni, il pensiero va direttamente all’amico ed alle sue problematiche. Ed un’ultima volta c’è l’invio di una pubblicazione del “Cammarata”, insieme con la firma di Aldo Naro:


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                                                                                                                                                             26 maggio 2003


Carissimo Roberto,


                di ritorno dalla Conferenza Episcopale che si è svolta nei giorni scorsi a Roma, trovo la tua lettera di cui ti sono molto grato. Ritornando a Roma per qualche altro impegno, cercherei di incontrarti. Penso proprio di restare quello di prima, pur assorbito dai compiti del ministero. La mia vita è interamente mutata, non ho spazi di riflessione, ma capisco che è necessario conservare la capacità di ripensare ciò in cui si resta immersi. Un incontro con te mi aiuterà certamente in questo senso. Spero che il tuo lavoro e la tua vita scorrano secondo i tuoi desideri.


Ti invio l’ultimo volumetto del Centro Cammarata. Con grata amicizia


                                                                                                                                                                            Aldo Naro


Tre mesi dopo perviene un semplice saluto, essenziale, quasi un commiato, questa volta accompagnato dal segno episcopale della croce che precede la firma:


CATALDO NARO


    DIRETTORE


                                                                                                                                             20/8/2003


                Con amicizia sempre viva e grata


                                                                                                              +Cataldo Naro


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Infine giunge ancora un altro plico, spedito il 9 novembre 2005: contiene la lettera pastorale 2005-2006 “Amiamo la nostra Chiesa” (indirizzata “ai fedeli della Chiesa di Monreale”), nonché una foto della visita dell’arcivescovo Naro a papa Benedetto XVI. Sulla copertina del documento arcivescovile è rappresentato lo scambio di pace fra Paolo e Pietro a Roma; esso rinvia emblematicamente anche alla stessa foto dell’incontro fra monsignor Naro ed il Pietro di oggi, il Pontefice medesimo.           


Conclusione


Non sempre si riesce ad essere profeti in patria ma basta varcare i propri confini territoriali per trovare più larga eco alle proprie proposte. Così è avvenuto per don Aldo quando ha cominciato a frequentare ancor più Palermo e Roma.  


Naro, com’è noto, vuol dire fuoco ed egli in effetti era un fuoco che bruciava per infiammare anche gli altri e lo faceva sino ad annientare se stesso a vantaggio altrui. Ma dalle ceneri si risorge e si fa risorgere anche gli altri.  


È così che l’esperienza di Chiesa “trova la sua più propria manifestazione nella persone che si usa dire ‘sante’ in senso speciale, persone cioè che si sono distinte nella dedizione a Dio e nel servizio ai fratelli in un modo tale da porle come segno e modello per l’intera comunità” [Naro 1981: 2]. Quanto don Aldo diceva di altri può ben attagliarsi a lui stesso, che è stato testimone straordinario di una fede vissuta e consapevole ma anche un vocato al lavoro intellettuale in senso pieno, da etica weberiana [Weber 1967]. Alla “Litania delle figure di santità della Chiesa di Monreale”, da lui acclusa alla sua lettera pastorale del 2005-2006, non sarebbe dunque improbabile aggiungere in futuro anche il suo nome, ricordandolo per l’amore diffusivo che oggi a molti fa dire di lui: “mio fratello”.    


Riferimenti bibliografici


Carmelina Chiara Canta, Roberto Cipriani, Angelo Turchini, Il viaggio. Pellegrinaggio e culto del Crocifisso nella Sicilia centrale: lu Signori di Bilìci, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1999.


Luca Diotallevi, Religione, chiesa e modernizzazione: il caso italiano. Aggiornamenti agli anni ’90 sugli approdi del progetto cattolico di modernizzazione religiosa: un contributo di sociologia della religione, Borla, Roma, 1999.


Claude Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino, 1984; ed. or., Le regard éloigné, Plon, Paris, 1983.


Roberto Cipriani, La religione dei valori. Indagine nella Sicilia centrale, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1992.


Johan Leman, “Siciliaanse migranten en hun gezinnen. Een socio-cultureel verhaal”, Kultuurleuven, 9, 1976, pp. 803-825.


Johan Leman, “I testimoni di Geova nell’immigrazione siciliana in Belgio. Una lettura antropologica”, Argomenti, 6, 1987, pp. 20-29.


Johan Leman, “The Italo-Brussels Jehova’s Witnesses Revisited: From First Generation Religious Fundamentalism to Ethno-Religious Community Formation”, Social Compass, 45, 2, 1998, pp. 219-226.  


Jerre Mangione, Riunione in Sicilia, Sellerio, Palermo, 1992.


Cataldo Naro, Il movimento cattolico a Caltanissetta (1896-1919), Edizioni del Seminario, Caltanissetta, 1977.  


Cataldo Naro, “Specifico locale e folklore locale”, La Voce di Campofranco, XXI, 4, 1981.


Cataldo Naro, Un esempio di agiografia nella tradizione del popolo. Vite popolari del Padre Pirrelli da San Cataldo, Edizioni del Seminario, Caltanissetta, 1984.


Cataldo Naro, Dizionario biografico del movimento cattolico nisseno, Centro Studi sulla Cooperazione “A. Cammarata”, San Cataldo, 1986.


Cataldo Naro, “Confronto con la secolarizzazione”, La Voce di Campofranco, XXIX, 11, dicembre, 1989a.


Cataldo Naro, Momenti e figure della Chiesa nissena dell’Otto e Novecento, Centro Studi “A. Cammarata”, San Cataldo, 1989b.


Cataldo Naro, “Leggere la realtà attraverso una indagine”, La Voce di Campofranco, XXIX, 8, settembre, 1989c.    


Cataldo Naro, La chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, 3 voll., Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1991a.


Cataldo Naro, “Per una riflessione sulla diffusione delle sette nel contesto nisseno”, La Voce di Campofranco, XXXI, settembre, 7, 1991b.


Cataldo Naro, “Le difficoltà del discorso ecclesiale sulla mafia”, La Voce di Campofranco, XXXII, 10, ottobre, 1992a.


Cataldo Naro, “Una questione di dettaglio”, La Voce di Campofranco, XXXII, 9, settembre, 1992b.


Cataldo Naro, “Ottimismo o pessimismo?”, La Voce di Campofranco, XXXIII, 2, febbraio, 1993a.


Cataldo Naro, “Indagine sociologica e ricerca storica sulla chiesa nissena: per un fecondo confronto”, La Voce di Campofranco, XXXIII, 3, marzo, 1993b.


Cataldo Naro, “Un Messia crocifisso per la salvezza dell’uomo”, L’Osservatore Romano, 22 marzo 1996.


Cataldo Naro, “La pietà popolare è partrimonio ‘civile’?”, L’Aurora Nuova, 1, 1997a, pp. 11-13.


Cataldo Naro, “La spiritualità di Domenico Lentini”, in Paolo Ghedda (a cura di), Domenico Lentini contemplativo e asceta in terra meridionale. Atti del Convegno di Studi promosso dalla Fondazione ‘Venerabile Domenico Lentini’ (Lauria, 14-16 ottobre 1994), Morcelliana, Brescia, 1997b, pp. 73-91. 


Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, nota introduttiva di Delio Cantimori, traduzione di A. Giolitti, Einaudi, Torino, 19672 [“Wissenschaft als Beruf, Politik als Beruf”, in Geistige Arbeit als Beruf. Vier Vorträge vor dem Freistudentischen Bund, Duncker und Humboldt, München, 1919].