Primeval ritual prayer was codified and handed down socially to become a deep-rooted feature of people’s cultural behaviour, so much so, that it may surface again several years later, in the face of death, danger, need, even in the case of relapse from faith and religious practice. Modes of prayer depend on religious experience, on relations between personal prayer and social action, between prayer and forgiveness, and between prayer and approaches to religions. Various forms of prayer exist, from the covert-hidden to the overt-manifest kind.
Premessa
Le origini della preghiera sono ancora oggetto di studio soprattutto da parte di storici, antropologi e sociologi. Qualche fondamento ha la tesi di Ernesto de Martino secondo il quale “nelle civiltà primitive e nel mondo antico una parte considerevole della coerenza tecnica dell’uomo non è impiegata nel dominio tecnico della natura (dove del resto trova di fatto applicazioni ancora limitate), ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. Ora l’esigenza di questa protezione tecnica costituisce l’origine della vita religiosa come ordine mitico-rituale”[1]. I rischi per gli esseri umani del mondo antico erano ben individuati: animali feroci, territori ignoti, mancanza di acqua e cibo, fenomeni atmosferici, moria di bestiame, malattie. Oggi si è più attrezzati contro tali situazioni di pericolo ma rimane il rischio della morte propria o di un familiare. Una minaccia simile è comune a tutte le generazioni ed a tutte le popolazioni. C’è dunque una linea diacronica che attraversa i millenni e che nel mondo antico portava fra l’altro a manifestazioni come il lamento funebre[2].
Le radici antiche della preghiera
Per de Martino[3] il sacro è da intendersi come “tecnica mitico-rituale che protegge la presenza dal rischio di non esserci nella storia”. E del resto appunto il pianto rituale antico ha vari punti di contatto con la preghiera: può essere individuale ma anche collettivo, può avere una o più guide che si alternano, è accompagnato da gesti rituali, ha un suo ordine procedurale, ha forme responsoriali, prevede pure una partecipazione corale, segue un andamento periodico più o meno fisso, ha degli specialisti nell’esecuzione, può essere recitato e/o cantato, comporta talora il battersi il petto, prevede iterazioni di un medesimo passaggio, fa uso di ritornelli, può avere anche andamenti molto liberi oppure recitazioni alternate fra gruppi di persone, presenta un carattere che è insieme narrativo-valutativo-interpretativo, ha di solito una conclusione ritualmente risolutiva attraverso un gesto vistoso come lo strapparsi le vesti o il graffiarsi od il percuotersi (una sorta di amen conclusivo che in verità significa “poggiarsi su”, dunque “avere fiducia”, insomma credere che qualcosa sia in un certo modo, il che mal si concilia con atti di disperazione e di autopunizione, a meno che non si voglia in tal maniera esprimere una certa rassegnazione, insomma un arrendersi alla volontà superiore, riconoscendo implicitamente e congiuntamente l’inanità del proprio agire e la potenza divina: “così è perché così Tu vuoi”).
Il tema della morte resta comunque la chiave di volta che mette sullo stesso piano il pianto funebre e la preghiera: si tratta, in forma più o meno conscia, di dare una risposta a degli interrogativi laceranti: perché si interrompe la vita? Chi ne è il vero padrone? Perché il termine dell’esistenza tocca a taluni e non ad altri? Come affrontare il rischio letale? Oppure come renderlo, luhmannianamente[4], più sopportabile grazie alla mediazione religiosa? Ed in fondo non sono il lamento sul defunto e la preghiera in favore dell’estinto dettati entrambi da motivi di compensazione di uno squilibrio che si è venuto a creare in un corpo sociale per la dipartita di un suo membro? Lamento e preghiera sono anche forme di elaborazione del lutto o se si vuole del senso da dare sia alla vita che alla morte.
Invece del ricorso al suicidio dei sopravvissuti c’è il rimedio del rito (pianto od orazione che sia). Dunque “senza dubbio la misura rituale atta a risolvere l’impulso suicida in equivalenti attenuati e simbolici è da intendersi come misura drammatica, da instaurare di volta in volta nella vicenda concreta delle singole lamentazioni […] Del resto la mimica del planctus ritualizzato appare nel lamento antico orientata verso una progressiva attenuazione simbolica rispetto all’effettivo atto suicida della crisi in atto: dall’incidersi le carni secondo una certa misura si passa a forme di annientamento allusivo meno impegnative, come il percuotersi, lo strapparsi i capelli o la barba, l’imbrattarsi di polvere come se si fosse inumati, il cospargersi il capo di cenere come se si fosse cremati; il lasciarsi cadere per terra come se si fosse folgorati da morte, ed altri atti di avvilimento e di abiezione che raffigurano in forme relativamente più blande e attenuate il come se della volontà di morire”[5]. A questo punto si può pure ipotizzare che la stessa preghiera per un defunto sia una forma di attenuazione del cupio dissolvi, del desiderio di con-morire con la persona cara scomparsa. Ma in senso traslato anche la preghiera in generale, sebbene non dedicata ad un morto, ha tuttavia in sé un sottinteso latente che rimanda al momento ultimo dell’esistenza umana: si prega per ringraziare di uno scampato pericolo, si prega per superare un momento di forte rischio per la sopravvivenza, si prega con l’intenzione di una captatio benevolentiae cioè per ottenere un’attenzione speciale da parte dell’essere supremo, si prega per poter proseguire nel proprio itinerario esistenziale, si prega per lodare la divinità e la sua benevolenza, si prega per ottenere e vivere situazioni non conflittuali e dunque non foriere di rischi.
Un indicatore peculiare di quanto sostenuto sinora è fornito dall’uso, tuttora in corso, della benedizione dei campi. In effetti è dal buon andamento del raccolto che dipende il rimanere in vita dei singoli e di intere comunità. Nella benedizione delle terre si vuole scacciare la possibilità di una siccità, o di una rovina delle piantagioni e dei frutti. Poiché molto sembra aleatorio e non dipendente dalla volontà umana si invoca la protezione divina al fine di evitare il pericolo di morte. E l’atto precauzionale e preventivo della benedizione non è disgiunto da quello successivo dell’atto di ringraziamento (ormai formalizzato negli USA con la festa nazionale del Thanksgiving). L’uno e l’altro rimandano al referente principale che non è terreno ma divino ma soprattutto non escludono il rinvio ad istanze legate al rapporto fra vita e morte, fra abbondanza e carenza, fra protezione e pericolo, fra semina e raccolto, tra frutti della terra e frutti soprannaturali.
Il legame della preghiera prevalentemente con situazioni difficili è comprovato a livello biblico dalle cosiddette Lamentazioni genericamente attribuite a Geremia (650-586 avanti Cristo) ma in realtà risalenti ad una comunità della Giudea che ricordava la distruzione di Gerusalemme nel 586 avanti Cristo. I cinque poemi delle Lamentazioni hanno un andamento affine al genere del rimpianto, del lamento funebre si direbbe per la fine della città santa di Gerusalemme. La loro recita è sia individuale che collettiva: si parla della città distrutta ma si invoca pure il Signore che è “giusto” (versetto 18) e vede “quanto grande è l’angoscia” (20). Così il lamento una volta di più diventa preghiera, richiesta di aiuto, perorazione (dal verbo per-orare), come si legge nei versetti finali della quinta ed ultima Lamentazione: “facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico! Poiché non ci rigetti definitivamente né sei sdegnato oltre misura contro di noi”.
Continuità e contiguità delle forme di preghiera
Come reperire i legami che uniscono le fenomenologie attuali a quelle più antiche? Lévi-Strauss[6], com’è noto, ha cercato tali connessioni studiando popolazioni non ancora toccate dai processi di modernizzazione. Nel nostro caso, con riferimento all’area euro-mediterranea del pianto funebre greco e romano, ci si può rifare alla cultura sarda delle attittadoras[7], le lamentatrici tuttora operanti in occasioni di eventi funebri e che presentano caratteri abbastanza affini a quelli delle lamentatrici sia egiziane, greche e rumene che lucane, calabresi e campane (queste ultime con la variante dei ritornelli asseverativi che in forma corale confermano quanto la lamentatrice principale va dicendo del defunto o con quella del riepito battuto cioè del lamento accompagnato dall’azione del percuotersi)[8]. Non dissimile è la lamentazione documentata da Koppers[9] presso la popolazione Yamana e ripresa da de Martino[10].
Nella tradizione culturale sarda si incontrano le historiolae, già oggetto di studio da parte di de Martino[11] in Sud e magia. Si tratta di exempla, di esempi in forma di racconto che giustificano e rafforzano taluni comportamenti, ivi compreso il ricorso alla preghiera come soluzione efficace a fronte di situazioni problematiche.
Modalità abbastanza vicine alle preghieras sarde si rinvengono in altri territori italiani, per esempio in Lucania[12], con riferimento a Dio, alla Madonna ed ai santi, fra cui in particolare san Nicola[13].
Esiste poi una forma piuttosto singolare di preghiera, quella indossata-nascosta e quella esposta-manifesta. La prima è contenuta in qualche teca o medaglietta ed è celata alla vista altrui perché portata sotto un abito, la seconda è affissa ad una porta o ad una finestra della casa, oppure su un mezzo di trasporto, con funzione protettiva rispetto ad un male che può giungere dall’esterno.
La religione diffusa della preghiera
La pratica della preghiera, che secondo Marcel Mauss[14] – com’è noto – è insieme credenza e rito e dunque l’essenza della religione per Durkheim[15], è certamente l’azione più ricorrente e diffusa a livello di religioni universali, nell’espressione di Max Weber[16]. Le stesse ricerche empiriche, in misura costante e senza soluzione di continuità cronologica e territoriale, dimostrano che in effetti le preghiere sono il filo rosso conduttore di molti comportamenti religiosi[17] orientati verso se stessi e verso gli altri[18].
Non ultima, una vasta indagine condotta da Poloma e Gallup[19] ha mostrato come la preghiera sia importante nella vita degli statunitensi. L’inchiesta ha coinvolto 1030 soggetti ed ha chiaramente mostrato che l’uso della preghiera rappresenta una sorta di sfida alle chiese ed ha influenze decisive sulla vita politica, morale e sociale, specialmente in relazione alla capacità di perdonare ed alla soddisfazione per la vita.
Poloma e Gallup hanno operato segnatamente sulla tipologia, sull’esperienza religiosa, sul rapporto fra preghiera personale ed attivismo politico, fra preghiera e perdono, fra preghiera ed approccio religioso. Il dato più significativo emerso è che l’88% degli intervistati prega e che non si tratta essenzialmente di vecchi, neri, meridionali e donne poco istruite. Una riduzione minima, rispetto alla media generale, si ha per i più giovani: si va intorno all’80%.
I tipi di preghiera individuati sono quattro, nell’ordine (dal meno partecipativo al più partecipativo): “ritual”, “petitionary”, “meditative”, “conversational”. Dunque si prega attraverso una cerimonia, una richiesta, una meditazione, una conversazione. Ma è la preghiera-meditazione a manifestare un più diretto rapporto con la divinità. Anche le esperienze che derivano dalla tipologia sono diversificate, in cinque categorie, fra le quali prevale la sensazione di pace e benessere. Poloma e Gallup approfondiscono, fra l’altro, lo studio del rapporto fra preghiera e politica.
Un’ulteriore indagine, la Baylor Religion Survey, realizzata nel 2005 su 1721 casi, sempre negli Stati Uniti, mette in evidenza che le donne, gli afro-americani ed i soggetti a basso reddito pregano di più che non gli uomini, i bianchi ed i soggetti con alto reddito. La preghiera di richiesta (“petitionary”) è preferita da afro-americani e soggetti con basso livello di reddito ed educazione. Inoltre i soggetti con reddito inferiore orientano il loro pregare verso fini più direttamente spirituali, onde ottenere i favori divini[20].
Secondo i dati raccolti attraverso il “2004 General Social Survey” una percentuale dell’89,8% degli statunitensi prega almeno qualche volta[21]. E tre quarti della medesima popolazione prega almeno una volta ogni giorno; inoltre, fra quanti pregano, il 97% ritiene che le preghiere siano ascoltate ed il 95% che trovino una risposta[22].
Stando ad un’indagine di vari anni fa, la preghiera non sarebbe collegata con l’ansia per la morte[23] (Koenig 1988), ma c’è da chiedersi in che misura il campione utilizzato fornisca dati generalizzabili anche in altri contesti e se la modalità dello studio condotto abbia approfondito abbastanza la conoscenza delle dinamiche relazionali fra preghiera e timore di morire.
Altre motivazioni sull’uso della preghiera come soluzione che rende più accettabile una condizione di per sé difficile sono fornite a più riprese dai risultati di diverse inchieste. Lo stesso dicasi per la richiesta di un favore divino nei propri confronti, magari in connessione con l’ammissione delle proprie colpe, dei propri peccati.
Secondo Baker[24] è ben più interessante ed utile guardare al contenuto della preghiera (e non tanto alla sua frequenza): per la sicurezza finanziaria, per la salute, per la confessione ed il perdono dei peccati, per la relazione spirituale con Dio. Fra quanti pregano, in base a quanto risulta dal “2005 Baylor Religion Survey”, l’89,4% prega per la famiglia, il 75,3% per un conoscente, il 66,2% per una relazione con Dio, il 62.2% per quanto concerne il mondo, il 61.2% per la confessione dei peccati, il 57,1% per la salute, il 49,4% per una forma di adorazione (dal verbo ad-orare), il 46,8% per chi non si conosce e il 33% per la sicurezza finanziaria. Intanto questi soli dati sommari spiegano che al calo delle confessioni sacramentali non corrisponde un venir meno della consapevolezza delle colpe commesse. E comunque tutto l’insieme ha una configurazione che sembra prescindere dall’appartenenza di chiesa, anche se a completamento del discorso va precisato che la sensibilizzazione all’azione del pregare deriva presuntivamente dai contenuti della socializzazione religiosa avvenuta in ambito ecclesiale e nella comunità familiare e sociale, in cui la preghiera è divenuta una sorta di impronta permanente.
Infine va considerato che l’analisi di Baker non concerne la preghiera rituale, né quella di gruppo e neppure quella dei servizi liturgici. In altri termini la preghiera personale ed estemporanea è così ricorrente da divenire abbastanza dominante rispetto alle forme più standardizzate e gestite istituzionalmente. Un altro punto importante riguarda la limitazione delle interpretazioni fornite da Baker al solo quadro cristiano d’insieme, trascurando pertanto le modalità proprie di altre forme religiose.
Dello studio di Baker, dopo numerose analisi statistico-quantitative sulla funzione della preghiera, va sottolineato il passaggio finale: “qualitative data on prayer content would also be an important advancement to the current understanding of prayer. Content analysis of individual prayer, assessing why people choose to pray about specific topics, and gathering extensive information about prayer habits are but a small glimpse into the issue that could be covered by qualitative research. When dealing with a topic as intensely personal and varied as prayer, certainly this approach deserves exploration”[25]. Anche un’esplorazione filosofica approfondita come quella di D. Z. Phillips[26] può aprire strade nuove per intendere la preghiera come conversazione, come dialogo con qualcuno che non comprende, come dipendenza, come superstizione, come voce divina, come fatto comunitario.
Verso una sociologia della preghiera
Le diverse maniere di pregare offrono il destro al sociologo per un’analisi non consueta, basata su indicatori minimi, su dettagli ridottissimi. Come indagare, per esempio, l’orazione mentale? A quali segnali porre attenzione per individuarla? Certamente è lo stesso attore sociale che ne possiede la conoscenza diretta. Lui e solo lui può renderla accessibile agli altri, comunicandone motivi e contenuti.
Vi sono però ben altri modi di pregare con i cinque sensi, che in forma straordinariamente ricca e documentata cinque teologhe spagnole, di cui due suore cattoliche, aiutano ad indagare, ponendo attenzione ad una dimensione corporea dell’orazione altrimenti trascurata nell’approccio scientifico-conoscitivo abituale[27] l’assunto di base è che “‘senso’ significa strada. L’essere umano ha cinque sensi, cinque accessi o strade verso la realtà. Strade verso l’esterno, verso il mondo e verso l’altro, e strade verso l’interno, partendo dall’essere umano e dalla realtà. La diversità di queste strade non è indifferente di fronte alla realtà percepita. Anche se nella vita spirituale tutto risiede nell’intelletto, la tipicità dei sensi nella configurazione del mondo spirituale è importante”.
Si apre altresì la strada verso una sociologia più avvertita della preghiera, cui contribuisce con grande cura ed ampie prospettive Michele Colafato[28], che attraverso vari specialisti aiuta a scoprire e capire l’esperienza dell’orazione nel cristianesimo ortodosso, la prospettiva individuale e collettiva della salat cioè della preghiera islamica, la preghiera cattolica, quella buddista in particolare nel Sūtra del Loto e quella ebraica (in cui riemerge la questione dei sensi: “il gusto: ogni volta che gustiamo qualcosa, abbiamo l’obbligo di dire una benedizione”, “l’olfatto: esistono benedizioni particolari per le erbe aromatiche come salvia e rosmarino”, “l’udito: l’ascolto di una qualsiasi notizia, brutta o buona che sia, necessita di una benedizione”, “la vista: nel momento in cui incontriamo un re, un contadino, o vediamo il mare, degli alberi in fiore… dobbiamo pronunciare una specifica benedizione”, “il tatto: lo strumento attraverso cui il corpo entra in contatto e percepisce ciò che lo circonda. Particolarmente rilevante nella religione ebraica è il precetto che riguarda la donna: di immergersi completamente in un bagno purificatore, nel quale percepisca fortemente il contatto del corpo con l’acqua”)[29].
Quest’apertura amplia pure il campo di una sociologia della religione che diviene sociologia della spiritualità[30]. Non è un caso che alcune ricerche mostrino come ci sia una preferenza da parte degli intervistati nel definirsi soggetti spirituali piuttosto che religiosi. Kirsi Tirri in proposito richiama il contributo fondamentale di William James[31] sulla varietà delle esperienze religiose e scrive che “today some writers use the terms ‘religion’ and ‘spirituality’ interchangeable to add linguistic variety to their terminology. However, many researchers define spirituality in contrast to religion. In these definitions, religion is usually defined as organisational, the ritual, and the ideological. The spiritual then refers to the personal, the affective, the experiential, and the thoughtful. The reminder that an individual can be spiritual without being religious or religious without being spiritual, has become a standard part of many papers on spirituality. It seems clear that spirituality must be seen as a wider concept than religion. This kind of understanding about these concepts indicates that religion and spirituality share some common areas but they also have their own areas of interests”[32].
Tirri però colloca la preghiera fra i rituali religiosi[33]. Si potrebbe invece sostenere che essa sia non solo il punto di giunzione fra religiosità e spiritualità ma anche lo strumento attraverso cui le religioni storiche universali riescono a mantenere una funzione socializzatrice nella trasmissione di contenuti e forme culturali e cultuali da una generazione ad un’altra, secondo la prospettiva della teoria della religione diffusa che fa perno appunto sulla socializzazione primaria e secondaria attraverso le famiglie e le organizzazioni religiose.
Ancora una volta rifacendosi ad un classico, questa volta contemporaneo[34], Tirri[35] insiste sul carattere sociale della spiritualità, che si aggiunge come quarto a quelli proposti da Hay[36] concernenti la consapevolezza di prestare attenzione a ciò che avviene, la capacità di trascendere l’esperienza quotidiana attraverso il riferimento al mistero e la rilevanza dei sentimenti come misura di ciò che si apprezza in termini di valori.
Tra i giovani finlandesi il 69% si considera orientato spiritualmente ed il 45% religiosamente (e dunque vi sono anche coloro che si percepiscono sia come religiosi che come spirituali). Anche fra quanti si considerano appartenenti ad una chiesa prevale la dimensione della spiritualità (64%) rispetto alla religiosità (46%). Tra i giovani adulti l’8% si definisce religioso non spirituale, il 34% spirituale non religioso, il 21% non spirituale e non religioso[37].
Infine appaiono di particolare interesse i risultati di un’indagine su 500 giovani adulti di un’area di Helsinki, in qualche modo rappresentativi dei giovani adulti urbani finlandesi. Nell’inchiesta è stata usata una scala di Likert da 1 (completamente in disaccordo) a 5 (completamente d’accordo). Nella scala di sensibilità spirituale ottengono i maggiori consensi, nell’ordine, le seguenti espressioni: 1) I admire the beauty of nature, for example, the sunset; 2) I rejoice in the beauty of life; 3) I want to advance peace with my own actions; 4) there are many things in life to wonder; 5) I am searching for goodness in life, 6) I want to help those people who are in the need; 7) in midst of busy everyday life I find it important to contemplate, 8) I reflect on the meaning of life; 9) I try to listen to my body when I study and work, 10) narratives and symbols are important things for me in life; 11) I want to find a community where I can grow spiritually; 12) it is important to me to share a quiet moment with others[38]. La maggior parte di queste esperienze hanno a che fare con quanto si percepisce al momento della preghiera e quindi possono rientrare appieno nel novero delle caratteristiche del pregare. Ma ci sono altri aspetti intriganti nei risultati dell’inchiesta finnica: la sensibilità spirituale è importante anche per chi non è religioso; gli appartenenti ad una chiesa sono più orientati verso una spiritualità praticata in comunità; anche chi non appartiene ad una chiesa apprezza i valori mistici; lo sviluppo spirituale avviene in un processo che dura tutta una vita e può essere favorito sia all’interno che all’esterno di una chiesa. Nondimeno c’è da chiedersi se la sensibilità spirituale sia anche il frutto di una pregressa socializzazione religiosa o almeno di una contestualizzazione capace di diffondere contenuti religiosi anche fra i non appartenenti ad una confessione religiosa.
Conclusione
Il filone carsico plurimillenario che ha fatto giungere fino a noi la tradizione della preghiera ha avuto probabilmente origine in congiunzione con crisi esistenziali primordiali, con l’esperienza della morte altrui e poi con il timore ed il rischio di quella propria.
La presenza del lamento funebre volto a superare la crisi di presenza instauratasi al momento dell’esito letale ha innescato presumibilmente meccanismi di narrazione che poi sono divenuti anche di riflessione più matura sul significato della vita e quindi della morte.
A questo punto si sarebbe innestato il problema di una presenza altra rispetto a quella umana. Con tale alterità è iniziato allora un tentativo di colloquio, in forma di richiesta di sostegno, poi divenuta insieme di lode e ringraziamento, ma anche molto altro: richiesta di un intervento straordinario (la grazia del miracolo che poi comporta il rendere grazie per il favore ricevuto), invocazione, pentimento, atto pubblico, azione cerimoniale, espressione di fiducia, dialogo privato, orazione mentale, testo sacro ed altro ancora, in forme originali e diversificate secondo le varie religioni ma abbastanza convergenti nelle funzioni esercitate in ambito culturale.
La diffusione della preghiera è essenzialmente frutto dell’azione socializzatrice svolta dalle confessioni religiose con le loro strutture educative e legittimatrici, che perpetuano forme e contenuti della preghiera, lasciando spazio anche ad innovazioni che lungi dall’erodere il patrimonio esistente ne rimotivano e ne riadattano le proposte, a tutto vantaggio di una religione diffusa che si fa forte dell’apporto di intere generazioni del passato le quali hanno conservato nel tempo le testimonianze pregresse.
Non è fuor di luogo potere immaginare che anche le resistenze da parte dei giovani ad usare il capitale culturale pre-esistente risponda – alla lunga – ad un’esigenza di conservazione non garantibile dalle sole strutture operative già in atto. Del resto se anche si prescinde da formule consolidate e da soluzioni già disponibili nondimeno un afflato religioso e spirituale insieme pare mantenere in essere una “abitudine del cuore”, per dirla ancora con Rousseau e Bellah[39], dura a morire perché correlata alla morte stessa, con cui si confronta continuamente, attraverso lo schermo-copertura della figura sacra che funge da interlocutore utile, anche se ritenuto fittizio.
In che misura tutto ciò possa trovare conferma anche nel futuro non è facile stabilire a priori, ma date le sue vetuste e solide radici non avverrà all’improvviso una sua scomparsa. Se così fosse vorrebbe dire avere già risolto il problema della morte ed aver trovato il cammino verso una vita senza fine.
[1] E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975, p. 37.
[2] R. Cipriani, La nenia ovvero la lamentazione funebre come strumento di comunicazione e di gestione di una crisi esistenziale massima, in R. Frasca (a cura di), La multimedialità della comunicazione educativa in Grecia e a Roma. Scenario – Percorsi, Dedalo, Bari 1996, pp. 89-92.
[6] R. Cipriani, Claude Lévi-Strauss. Una introduzione, Armando, Roma 1988a.
[7] R. Cipriani, V. Cotesta, A. De Spirito, S. Di Riso, J. Fraser, M. Mansi, , La lunga catena. Comunità e conflitto in Barbagia, Angeli, Milano 19963.
[8] de Martino, Morte e pianto rituale, pp. 360-364.
[9] W. Koppers, La religione dell’uomo primitivo, Vita e pensiero, Milano 1947; ed. or., Primitive Man and His World Picture, Sheed and Ward, London 1952, pp. 129-131.
[10] de Martino, Morte e pianto rituale, pp. 368-371.
[11] E. de Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1960.
[12] R. Cipriani, La religione quotidiana. Documenti dell’espressione popolare a Picerno, Euroma-La Goliardica, Roma 1988b, in collaborazione con G. Bianchini Caivano.
[13] R. Cipriani, Dall’agiografia ai canti narrativi. Un’indagine in Lucania su testi religiosi popolari e in particolare su san Nicola, “Parola e Storia”, 4, 2008, pp. 187-221; R. Cipriani, Dall’agiografia ai canti narrativi. Un’indagine in Lucania su testi religiosi popolari, “Nicolaus”, XXIII, 44-45, fasc. 1-2, 2012, pp. 353-384.
[14] M. Mauss, La prière, in Oeuvres, Editions de Minuit, Paris 1968, vol. I (Les fonctions sociales du sacré), pp. 357-478.
[15] É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris 1912; tr. it., Le forme elementari della vita religiosa. Il totemismo in Australia, Meltemi, Roma 2005.
[16] M. Weber, Sociologia delle religioni, UTET, Torino 1976.
[17] R. Cipriani, Diffused Religion and Prayer, “Religions”, 2, 2011, pp. 198-215.
[18] K. L. Ladd, B. Spilka, Inward, Outward, And Upward. Cognitive Aspects of Prayer, “Journal for the Scientific Study of Religion”, 41, 2002, pp. 475-484.
[19] M. M. Poloma, G. H. Gallup, Varieties of Prayer. A Survey Report, Trinity Press International, Philadelphia 1991.
[20] J. O. Baker, An Investigation of the Sociological Patterns of Prayer Frequency and Content, “Sociology of Religion”, 69: 2, 2008, pp. 169-185.
[26] D. Z. Phillips, The Concept of Prayer, Routledge and Kegan Paul, London 1965.
[27] I. Gómez-Acebo, A. Fuertes Tuya, M. Zubía Guinea, M. Navarro Puerto, T. León Martin, Pregare con i sensi. L’esperienza di cinque teologhe, Paoline, Milano 2000, pp. 17-18.
[28] M. Colafato, Io che sono polvere. Preghiera e Sociologia della Preghiera, Silvio Zamorani editore, Torino 2007.
[30] P. Heelas, Paul, L. Woodhead, (eds.), The Spiritual Revolution. Why Religion is Giving Way to Spirituality, Blackwell, Oxford 2005; K. Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, in H. G. Ziebertz, U. Riegel, (eds.), Europe: Secular or Post-secular?, Lit Verlag, Berlin 2008, pp. 155-166.
[31] W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature, Longmans, New York 1902; Signet Classic, New York 2003; tr. it., Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 1998.
[32] Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, pp. 155-156.
[34] H. Gardner, (ed.), Intelligence Reframed. Multiple Intelligences, Basic Books, New York 1999.
[35] Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, p. 157.
[36] D. Hay, (ed.), The Spirit of the Child, Fount, London 1998.
[37] T. Mikkola, K. Niemelä, J. Petterson, The Questioning Mind. Faith and Values of New Generation, Church Research Institute, Tampere 2007, pp. 112-116.
[38] Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, p. 162.
[39] R. N. Bellah, R. Madsen, W. M. Sullivan, A. Swidler, S. M. Tipton, Habits of the Heart. Individualism and Commitment in American Life, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1985; tr.it., Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Armando, Roma 1996.
La nascita e lo sviluppo di una città (Weber 1968) dipendono da varie contingenze e convenienze, a partire dal luogo, che viene prescelto perché favorito da alcuni elementi ricorrenti: innanzitutto la presenza dell’acqua, base essenziale per la sopravvivenza ma anche strumento formidabile per ricavarne risorse fondamentali, nonché via di comunicazione primaria fin dai tempi più antichi. A parte l’acqua, la linfa fondamentale che crea le premesse e garantisce il prosieguo dell’esperienza urbana è senza dubbio la comunità che abita il luogo. Orbene, in linea di massima la storia mostra che alle origini ci sono di solito popolazioni tendenzialmente omogenee per cultura, lingua, religione, usi, riti. Ma non sempre si ha una simile fenomenologia.
Il caso di Haifa in Israele presenta una storia piuttosto travagliata. Presumibilmente sorta circa due millenni fa o poco più (ma vi sono tracce di antichissima presenza umana, il cosiddetto uomo preistorico del Carmelo, nella zona del monte omonimo, che risalgono al periodo musteriano, cioè a 75.000-35.000 anni prima dell’era volgare).
La cultura locale fu quella cananea, israelitica (sono state scoperte abitazioni risalenti al IX secolo a. C.) e fenicia (quest’ultima fino al IX secolo prima dell’era volgare: una nave fenicia affondata nel golfo di Haifa e risalente al VII secolo a. C. è stata esplorata in immersione da Folco Quilici ed è ora conservata presso il locale Maritime National Museum (aperto nel 1954), dove si ricorda anche l’immigrazione clandestina ebraica). La dominazione assira prima (vi sono reperti di urbanizzazione databili al VII secolo a. C.) e quella babilonese (dal 586 a. C.), persiana (dal 539 a. C.), di Alessandro Magno (dal 333 a. C.). Fu probabilmente già porto nel quarto secolo prima di Cristo con il nome di Tel Abu Hawam, poi forse chiamata Hof Yafé (cioè costa bella) sul sito della zona oggi detta di Bat Gallim. Ci fu poi il dominio dei sovrani egiziani tolomei e di quelli siriani seleucidi che precedettero il periodo di autonomia ebraica dei Maccabei (dal 168 a. C. e fino all’avvento dei romani – nel 63 a. C. – sotto il cui dominio fu fondata Cesarea Marittima, a sud di Haifa).
Haifa fu certamente abitata (da contadini, come testimonia il Talmud) attorno al quarto secolo dell’era cosiddetta cristiana. Dopo i bizantini (subentrati ai romani nel 476), gli arabi vi giunsero nel 637 (distruggendola forse), restandovi in seguito con i califfi ommiadi, abbasidi e fatimidi sino all’avvento dei turchi nel secolo XI ed alle crociate (dal 1097, per quasi due secoli: il normanno Tancredi d’Altavilla se ne impossessò dopo un assedio nel 1099, nel corso della prima crociata).
Citata con il nome greco di ‘’Ηφα, fu un importante punto di riferimento (con il nome di Caiffa e/o Carmelo) durante le crociate, in quanto porto di accesso a Tiberiade. Fu assediata e conquistata appunto dai crociati e divenne signoria alle dipendenze dell’arcivescovo di Nazaret. Fu distrutta nel 1187, nel corso della terza crociata, da Ṣalāḥ ad-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb (Saladino) – sultano sunnita di Egitto e Siria, però di origine curda, fondatore della dinastia degli ayyubidi -. Successivamente venne riconquistata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191. Luigi IX re di Francia la fortificò nel 1250-51. Nel 1265 i mamelucchi (milizia musulmana egiziana di schiavi turchi ed indoeuropei) la occuparono. Seguì un lungo periodo di assenza di conflitti. Nel 1517 cominciò la lunga occupazione ottomana che durò quattro secoli fino al 1917, salvo qualche interruzione. Nel 1761 Ẓāhir al-ʿUmar al-Zaydānī, governatore della Galilea, la distrusse e poi ricostruì. Dal 1775 al 1918 tornò ancora sotto gli ottomani. Tuttavia nel 1799 fu in potere di Napoleone Bonaparte e dal 1831 al 1840 fu amministrata dall’egiziano (ma ottomano di origine) Ibrahim Pasha, che dopo aver preso Haifa nel 1839 dovette arrendersi ai turchi nel 1840, anche perché pressato da navi europee e principalmente inglesi. Qualche decennio dopo furono appunto i britannici che occuparono Haifa, nel 1918.
Le ondate immigratorie
Già prima del 1882 (anno della prima Aliyah, ondata immigratoria sionista) vi era un insediamento di ebrei in Palestina: lo si indica come “vecchio Yishuv” (quasi 25.000 persone), che aveva un carattere piuttosto ortodosso in materia religiosa, vestiva anche in modo orientaleggiante, si esprimeva in arabo o ladino (spagnolo antico) nel caso dei sefarditi (di origine iberica, costretti alla diaspora nel 1492) ed in yiddish nel caso degli ashkenaziti (di origine germanica, emigrati in Polonia e negli Stati Uniti). Il “nuovo Yishuv” aveva iniziato a costruire case fuori delle mura della città vecchia di Gerusalemme sin dal 1860 ed aveva preso parte all’immigrazione del 1892, proveniente soprattutto dalla Russia in fuga dai pogrom, le persecuzioni in Russia contro le minoranze ebraiche tra il 1881 ed il 1921. Il governo ottomano era del tutto contrario agli insediamenti. Gli immigrati vivevano del sostegno economico che ricevevano dagli ebrei della diaspora. Ci fu una seconda ondata immigratoria dal 1903 al 1914 con l’arrivo di altri 35.000 ebrei soprattutto russi. Sorsero nuovi problemi per la conduzione dell’attività agricola: i sionisti chiedevano che la lavorazione fosse affidata solo ad ebrei, mentre di fatto i contadini arabi erano più esperti. Si obiettò che si stavano discriminando gli arabi così come si erano discriminati gli ebrei in Russia. Un primo conflitto con gli arabi nacque quando gli ebrei licenziarono i soldati circassi, musulmani sunniti, per sostituirli con ebrei, cui non era permesso di portare armi in territorio islamico. Nel 1908 fu fondato dai sionisti un Ufficio della Palestina e si ebbero scontri a Jaffa, ma successivamente anche altrove con angherie e violenze. Nacque Hashomer, un gruppo sionista di autodifesa, a protezione degli insediamenti degli immigrati. Nel corso della prima guerra mondiale una parte degli ebrei venne allontanata, un’altra fu arruolata nell’esercito ottomano. In pari tempo ci furono due battaglioni inglesi di ebrei denominati Zion Mule Corps, impegnati sul fronte palestinese contro l’impero ottomano.Con la fine della guerra e della dominazione ottomana gli ebrei ebbero poi a che fare con gli inglesi per quasi un trentennio. Nel frattempo la numerosità del vecchio Yishuv era divenuta minoritaria rispetto ai nuovi arrivati. In seguito al congresso politico fondativo di Basilea nel 1897, il movimento sionista (così denominato dall’antico nome di Gerusalemme, Sion), che propugnava la costituzione di uno stato ebraico, ottenne nel 1917 la dichiarazione di Balfour, ministro degli esteri inglese, che riconosceva il diritto degli ebrei ad avere un proprio territorio.
Ottomana fino al 1917, Haifa vide l’occupazione prima ed il mandato inglese dopo (dal 1922 al 1948) ed è stata una delle sedi principali della conflittualità arabo-ebraica.
Dal 1919 al 1924 si ebbe la terza ondata d’immigrazione ebraica. Ci furono soprattutto nel biennio 1920-21 sommosse degli arabi. Fu un periodo difficile per vari motivi: gli arabi non accettavano la dichiarazione di Balfour e rigettavano l’ipotesi di un’Agenzia unica per la Palestina che mettesse insieme ebrei ed arabi ed inglesi; gli ebrei non ricevevano più il sostegno economico dal mondo della diaspora; gli inglesi ostacolavano al massimo l’arrivo di nuove ondate di profughi.
Nel 1929 vi fu un altro arrivo massiccio di ebrei, la quarta Aliyah: 133 ebrei vennero a morte durante i moti suscitati dagli arabi. Un altro massiccio arrivo di immigrati ebrei si registrò negli anni Trenta e fu la quinta Aliyah. La popolazione ebrea in Palestina giunse a circa 400.000 soggetti.
Dal 1935 al 1939 ci fu la Grande Rivolta Araba, con uno sciopero generale di sette mesi nel 1936: un autobus di ebrei venne assalito da arabi; ne seguirono eccidi da una parte e dall’altra, con molti morti. L’Haganah, organizzazione paramilitare a protezione degli insediamenti ebraici, già sorta nel 1920, cercò di difendere l’Yishuv come poté. Esponenti di Irgun dal canto loro assalirono i campi arabo-palestinesi. Gli inglesi inoltre deportarono molti arabi.
Il 18 aprile 1938 ad Haifa per una bomba posta da Irgun su un treno morirono 2 arabi e 2 poliziotti britannici. Il 24 maggio del 1938 ebrei di Irgun spararono a 3 arabi, che morirono. Il 6 luglio 1938 ancora Irgun fece esplodere due bombe nel mercato del melone ad Haifa: vennero a morte 18 arabi e 5 ebrei ed oltre 60 furono i feriti. Il 25 luglio 1938 Irgun fece fuori 43 arabi che si trovavano nel mercato di Haifa. Il 27 febbraio 1939 fu Irgun a provocare la morte di 24 arabi nel mercato del quartiere Suk ad Haifa. Il 19 giugno 1939 infine gli ebrei di Irgun con esplosivo trasportato da un asino colpirono a morte 20 arabi nel mercato di Haifa.
Nel frattempo con il White Paper del 23 maggio 1939 il governo di Londra aveva permesso un ingresso di 75.000 ebrei in cinque anni. Dopo iniziò un periodo di pace relativa. Ma cominciò pure una cospicua immigrazione clandestina, a causa dell’antisemitismo nazista e fascista. Oltre il già citato caso della nave Patria, si ebbero anche i tentativi della Struma e della Bulgaria.
Intanto la seconda guerra mondiale proseguiva. Non fosse stato per la sconfitta di Rommel ad el-Alamein, proprio nella zona del Carmelo ad Haifa si prevedeva di costituire un ultimo baluardo contro l’avanzata tedesca.
Con l’accrescersi della necessità di accogliere ebrei in Palestina, specialmente i sopravvissuti della Shoah, aumentarono le pressioni presso il governo britannico perché permettesse altri ingressi. Anche gli Stati Uniti fecero tutto il possibile in tal senso, ma gli inglesi temevano le reazioni degli arabi ed avevano già molti problemi con gli ebrei stessi. Cominciarono i sabotaggi degli ebrei militarizzati contro i britannici e si incrementò l’immigrazione clandestina. Esponenti dell’Haganah vennero arrestati. La risposta fu l’attentato il 22 luglio 1946 al King David Hotel di Gerusalemme, sede del comando militare britannico e della divisione britannica d’investigazione criminale: fra gli altri vi morirono 28 inglesi e 17 ebrei palestinesi.
Alla fine l’ONU decise per la costituzione di due stati separati: uno israeliano e l’altro arabo. A quel punto l’Arab Higher Committee, costituito negli anni Trenta, cominciò ad attaccare gli ebrei. Gerusalemme fu messa in stato di assedio senza che vi potessero entrare armi, cibo, acqua. Fu costruita una strada da Tel Aviv a Gerusalemme, il cui assedio alla fine cessò.
Dall’acutizzarsi del conflitto al Festival dei Festivals
Nel dicembre del 1947 ci furono scontri a fuoco ad Haifa fra arabi ed ebrei. Il 24 dicembre 1947 cecchini arabi spararono, uccidendoli, a 4 ebrei, mentre altrettanti arabi vennero a morte per rappresaglia da parte di ebrei. Il 30 dicembre ebbe luogo il massacro detto della raffineria di petrolio di Haifa: vennero colpiti a morte dagli arabi 39 ebrei e feriti 49, mentre in precedenza una bomba messa dagli ebrei di Irgun aveva ucciso 6 arabi. Il 1° gennaio 1948 gli ebrei di Palmach (forza regolare di Yishuv) tolsero la vita a 70 arabi ad Haifa (massacro di Balad al-Shaykh). Il 3 gennaio 1948 in Haifa gli arabi soppressero 4 ebrei. Il 14 gennaio 1948 persero la vita ad Haifa – per mano di arabi – 7 ebrei e 2 britannici.
Il mese di febbraio del 1948 fu un mese nero per Haifa: il 3 febbraio militanti arabi tolsero la vita a 6 ebrei su un autobus; il 7 febbraio gli arabi uccisero 3 ebrei e gli ebrei altrettanti arabi; il 19 febbraio ad opera di arabi trovarono la morte 4 ebrei che viaggiavano in bus; la risposta non si fece attendere ed il 21 febbraio furono 4 arabi che rimasero uccisi per mano di militanti ebrei. Il 31 marzo 1948 una bomba sul treno Cairo-Haifa uccise 40 arabi e ne ferì 60: il movimento militante ebraico Lehi se ne autoaccusò. Il 23 aprile 1948 sulla medesima tratta ferroviaria un’altra bomba diede la morte ad otto britannici, ferendone altresì 27, sempre ad opera di Lehi.
In epoca più recente, il primo attentato ad Haifa avvenne alla stazione degli autobus il 5 settembre 1993, ma senza danni alle persone, con una rivendicazione da parte di Hamas. Il secondo attacco, suicida, fu al bus 16 il 2 dicembre 2001 con 15 ebrei morti: seguì la rivendicazione di Hamas. Qualche giorno dopo, il 9 dicembre, in località Check Post Junction, in direzione di Tel Hanan nell’area di Haifa, 39 persone vennero ferite da una bomba: la Jihad islamica palestinese dichiarò la sua responsabilità in merito. Il quarto episodio, suicida, avvenne il 31 marzo 2002 al ristorante Matza di Haifa, con 15 ebrei morti e successiva rivendicazione di Hamas. Il 5 marzo 2003 un attacco, ancora una volta suicida, sull’ autobus 37 uccise ad Haifa 17 ebrei e ne ferì 53: la vittima più giovane aveva 12 anni, la più anziana 54; l’attentatore era un ventenne arabo di Hebron. L’organizzazione palestinese di Hamas rivendicò l’attentato. Il ristorante Maxim di Haifa il 4 ottobre 2003 fu oggetto di un ulteriore attentato suicida che procurò 21 morti ebrei: lo rivendicò la Jihad islamica palestinese. Il calcolo finale delle vittime ad Haifa, prima e dopo la nascita dello stato d’Israele, è di 237 arabi e di 143 ebrei (comprese le tre vittime dell’abbordaggio alla nave Exodus 1947), cui vanno aggiunti 12 britannici.
Nel 2011 tre supposti ideatori del tragico evento del 5 marzo 2003 furono liberati dal carcere in occasione di uno scambio di prigionieri.
Appunto nei momenti di maggiore crisi, nei primi anni del 2000, cominciò a diffondersi una maggiore sensibilità volta a cercare soluzioni utili per un superamento dei contrasti: nacque così l’idea di sviluppare ancor più un’iniziativa comune del tutto pacifica, promossa dalla municipalità di Haifa sin dal 1914 con il sindaco Hassan Bey Shukri (in carica dal 1914 al 1920 e dal 1927 al 1940, arabo islamico che considerava fratelli gli ebrei, costretto, dopo un ennesimo attentato alla sua vita, a lasciare Haifa per fuggire a Beirut) (Cohen 2009: 15-17), ripresa nel 1994 ed ora rilanciata dall’attuale primo cittadino Yona Yahav (in carica dal 2003, già parlamentare laburista nella Knesset dal 1996 al 1999, poi passato al partito sionista secolare liberale Shinui, che vuol dire cambio, ed infine al Kadima dal 2009), con il titolo di The Holiday of Holidays Festival (in ebraico Hachag shel hachagim) ed organizzata ogni mese di dicembre dal centro culturale arabo-ebraico Beit-Hagefen, diretto da un board di sette ebrei e sette arabi.
Tale manifestazione si colloca in una struttura economica della città che è piuttosto solida e fondata su diverse risorse: c’è il porto (aperto nel 1933) che ha un carattere commerciale ed industriale ma pure turistico; c’è l’area dei grandi opifici; c’è una ragguardevole rete di luoghi d’incontro a carattere culturale ed artistico. Sul piano della stratificazione sociale si registra una variegata presenza di classi sociali, facilmente riconoscibili dalle condizioni abitative, dal linguaggio e dalla lingua, dall’istruzione e dai mezzi di trasporto usati. Il contesto agricolo non risulta molto evidente ma si notano abbastanza le differenze di legami che intercorrono in un quartiere od in un altro: Wadi Nisnas non a caso è stato scelto per la realizzazione del festival in quanto in esso la sociabilità è già una tradizione consolidata. I ritmi stessi di vita delle diverse zone della conurbazione di Haifa sono visibilmente differenziati: sono più o meno frenetici secondo il tipo di lavoro svolto, la numerosità degli impegni quotidiani, il grado di personalizzazione dei rapporti intersoggettivi, il tasso di alienazione nella vita giornaliera, il livello della solidarietà comunitaria, la frequenza di atteggiamenti conflittuali, la propensione a forme di coesione, il tenore del vissuto intra-familiare ed extra-familiare, il genere di locali frequentati giornalmente, il contesto etnico-culturale (il quartiere ebraico collinare di Hadar HaCarmel risale al 1920). Un discorso a parte meritano l’Università di Haifa (fondata nel 1964) ed il Technion (istituto universitario di tecnologia fondato nel 1908 ed aperto nel 1924) immersi entrambi in vaste aree.
Come i sociologi urbani hanno spesso messo in evidenza l’industrializzazione e l’urbanizzazione sono stati i principali motori dei processi immigratori. Haifa non solo rientra appieno in questo ambito fenomenologico ma ne rappresenta l’acme e rimane un luogo dotato di un’intensa carica simbolica, che rimanda al rientro degli ebrei in patria dopo le drammatiche vicende del secondo conflitto mondiale.
Il contributo del cinema e della letteratura
Il film dal titolo Exodus di Otto Preminger del 1960, tratto dal romanzo omonimo di Leon Uris, narra il tentativo, messo in atto con una nave ribattezzata Exodus 1947 il 17 luglio 1947, di far giungere in Israele 4554 persone. Già da qualche anno, all’epoca, fra gli ebrei alcuni erano più favorevoli alla creazione di uno stato d’Israele secondo l’impostazione politico-diplomatica dell’Yishuv, Agenzia Ebraica per la Palestina (nata nel 1932), altri erano orientati verso forme di tipo più militante e dunque in favore dell’organizzazione chiamata Irgun Zvai Leumi, che si opponeva con la forza all’occupazione britannica (furono sei militanti dell’Irgun, travestiti da arabi, ad organizzare l’attentato al King David Hotel di Gerusalemme, provocando un centinaio di morti).
Navi della flotta britannica inseguirono ed abbordarono Exodus 1947 fin sulla costa della Palestina, nel porto di Haifa, dove la nave giunse il 18 luglio 1947. Lo Stato Maggiore britannico rinviò su tre navi 4399 ebrei in Francia (Port de Bouc, luogo di partenza il 10 luglio 1947 e di rientro il 29 luglio, con lo sbarco volontario di 130 persone solamente) e soprattutto in Germania (ad Amburgo). Qualcosa di simile era già avvenuto nel 1940 sempre ad Haifa: la nave Patria, con duemila profughi ebrei in fuga dall’Europa e dall’antisemitismo nazi-fascista, era stata bloccata dagli inglesi con l’intento di farla dirigere verso le isole Mauritius.
Il 29 novembre 1947 l’ONU approvò il Piano di partizione della Palestina. La fondazione dello stato d’Israele avvenne il 14 maggio 1948.
Nel cimitero di Haifa sono seppellite tre vittime ebree dell’abbordaggio inglese alla nave Exodus 1947, che, rimasta nel porto, venne destinata nel 1951 ad essere un museo. Ma tale operazione subì rinvii, per le ostilità allora in corso fra arabi ed israeliani. Nell’estate del 1952 il bastimento subì un incendio e venne rimorchiato al largo, dove affondò.
Haifa è largamente presente anche nell’immaginario sociologico di matrice araba. Emblematico a tal proposito è il contributo di uno scrittore palestinese, cantore delle due diaspore (quella palestinese e quella ebraica), nato nel 1939 a San Giovanni d’Acri, a nord di Haifa, e deceduto nel 1972 a Beirut insieme con la nipote a causa di un attentato da parte israeliana. Ghassan Kanafani è autore di Ritorno ad Haifa, un romanzo che affronta la problematica della Nabka, della catastrofe, cioè dell’altro esodo che ha riguardato le popolazioni palestinesi ed arabe a partire dal 15 maggio 1948, come conseguenza del citato Piano di partizione e della nascita dello stato d’Israele. Si calcola che nel 1951 711.000 persone abbiano lasciato il territorio assegnato agli ebrei. Dal 2010 esiste una legge israeliana che vieta la celebrazione pubblica della data del 15 maggio come ricorrenza della Nabka.
Il romanzo di Kanafani mette in evidenza le contraddizioni e le dinamiche complesse che derivano dall’intreccio inestricabile di sofferenza ed identità, cambiamento e rinnegamento, trasformazione culturale e rovesciamento di fronte, il tutto secondo un andamento di stretta e diretta corrispondenza quasi speculare, come nel caso del confronto fra un’anziana reduce dai campi di concentramento e due coniugi palestinesi che le hanno lasciato forzosamente la loro abitazione, nonché un loro figlio ancora infante. Tutti i personaggi del romanzo soffrono pesantemente le conseguenze del conflitto interculturale e dunque sono vittime dell’assenza assoluta di comunicazione e dialogo. Soprattutto è emblematico il comportamento del figlio educato secondo il modello culturale ebraico e che non riconosce più i suoi genitori naturali arabi (rientrati ad Haifa dopo 20 anni di esilio) in quanto si sente del tutto ebreo, avendo sposato in pieno la causa dello stato d’Israele. Egli non si rende conto delle ragioni che hanno indotto suo padre e sua madre a lasciarlo solo e quindi sostiene il punto di vista degli israeliani.
Un altro effetto inatteso, che deriva direttamente dalla nuova situazione creatasi il 14 maggio 1948, è anche la rinuncia dei palestinesi a rivendicare una propria identità, almeno da una certa parte della popolazione che non condivide più le ragioni della causa araba, come emerge chiaramente in un altro romanzo di Kanafani, dal titolo Uomini sotto il sole.
Invece trova uno sbocco positivo la vicenda presentata nel film Lemon Tree (Il giardino dei limoni, secondo il titolo della versione italiana) di Eran Riklis, uscito nel 2008. La trama parla di una donna rimasta vedova e senza neppure i figli, che si sono allontanati da lei. Ella difende il suo campo di limoni contro il tentativo di un suo vicino di casa, ministro israeliano, che vorrebbe abbattere il giardino dei limoni a motivo di una sua maggiore sicurezza personale. Singolarmente è la stessa moglie del ministro che prende le difese della vedova palestinese.
In un altro film del 2004, dal titolo Private, opera del regista Saverio Costanzo, il tema dello spazio conteso tra israeliani e palestinesi vede una soluzione ancora una volta pacifica e non violenta: la famiglia palestinese di Mohamed vede sequestrata la sua casa dagli israeliani per ragioni militari e si autosegrega nelle stanze del piano inferiore e vive con profondo disagio l’occupazione del proprio ambito privato. Ma intanto la vicinanza fra i due gruppi crea continue occasioni d’incontro, di contatti, che non sfociano in avversità, anzi danno luogo ad una maggiore comprensione reciproca.
Proprio all’Haifa International Film Festival è stato presentato un film di due registe europee, dal titolo Shout, che racconta l’avventura di due giovani palestinesi che vivono in un’area militarizzata israeliana di confine e decidono di emigrare in Siria, nella zona delle alture del Golan. Una volta attraversata la frontiera il rientro in Israele non è più possibile. I due amici però vogliono mantenere i contatti con i loro familiari, con i parenti, con i compagni. Si sentono siriani ma la loro casa è rimasta al di là del valico che hanno attraversato. Allora decidono di riprendere contatto con quanto hanno lasciato mettendosi letteralmente a gridare (shout), dall’alto di una collina, verso i loro conoscenti, rimasti in Israele, i quali a loro volta rispondono servendosi di un megafono. L’andirivieni di voci e richiami, di grida e repliche, è la metafora di un legame quasi ombelicale che non si vuole interrompere, a qualunque costo.
Tre casi esemplari: Kashua, Yehoshua e Michael
Ancor più intrigante è il caso dello scrittore Sayed Kashua, arabo israeliano che vive con la sua famiglia in un quartiere ebraico di Gerusalemme e scrive in ebraico. Egli affronta la questione arabo-ebraica anche in forma umoristica, attraverso la stampa periodica e la televisione. Il suo più recente romanzo ha come titolo, in italiano, Due in uno (Neri Pozza, 2013) ma in inglese suona come Second Person Singular (2010). Le difficoltà di integrazione e di assimilazione interculturale sono il filo conduttore dell’opera di Kashua, che enfatizza la mancanza di adeguata conoscenza reciproca fra le due culture quale origine delle incomprensioni e delle conflittualità. Insomma da entrambe le parti in causa vi sarebbero pregiudizi e resistenze al cambiamento.
In Due in uno i protagonisti hanno a che fare con la complessa articolazione delle identità di appartenenza, cui a volte si rifanno strenuamente ma poi capiscono che la realtà può anche sconfessare le paure ed i sospetti, contribuendo a modificare quelle che sono le propensioni abituali, le precognizioni di fondo, i modelli culturali di riferimento prevalente. Qualcosa di simile era già prefigurato nel testo del 2002 dal titolo Arabi danzanti (Dancing Arabs), pubblicato in Italia da Guanda.
“Voglio essere uno come loro” è il Leitmotiv che accompagna la produzione artistico-culturale di Kashua e contraddistingue il fervente desiderio degli arabi protagonisti di diventare come gli ebrei, per non essere discriminati. Ma di fatto questo medesimo discorso si può ribaltare dalla parte degli ebrei, a loro volta a lungo emarginati nel corso dei secoli. E nel dire discriminati si rischia di usare un eufemismo, rispetto ad una realtà che è stata ancora più tragica. Del resto il rovesciamento può anche riprodursi ulteriormente a danno degli arabi, senza soluzione di continuità lungo l’arco della storia, più o meno recente. Parlare di richieste di documenti, di perquisizioni, di controlli, ha di fatto un valore ambivalente. Gli uni e gli altri ne hanno esperienza. Nel contempo gli uni e gli altri non conoscono a sufficienza la cultura altrui, la letteratura, la lingua, le canzoni, la storia, i poeti, gli attori. D’altro canto la carta blu di arabi con cittadinanza israeliana non è sufficiente per farsi accettare in pieno: occorre ben altro, cioè condividere esperienze, costumi, modi di vivere, cerimonie, stili e comportamenti. Non a caso il protagonista di Due in uno non ha un nome: è indicato solo come “avvocato”. Il che equivale a dire che si tratta di una situazione generalizzabile proprio perché comune a quasi tutti.
L’arabo dunque vuole fare parte degli ebrei, essere come loro in tutto e per tutto: disinvolto con le donne, dotato di ragguardevole cultura, possessore di beni vistosi, buongustaio, raffinato. Anche il deuteragonista del romanzo ha lo stesso obiettivo di fondo, pur di misere origini socio-economiche: per questo accetta di assistere un giovane ebreo in coma.
Gli esiti non sono quelli auspicati: l’avvocato arabo imita gli ebrei proprio in ciò che di loro a lui non è gradito, l’altro prende una decisione imprevedibile.
Kashua racconta la sua prima esperienza di viaggio in autobus: fu subito picchiato come arabo, un ragazzo che usciva per la prima volta dal suo villaggio, con abiti arabi, con sottili baffi arabi, e soprattutto l’aspetto timoroso di un arabo. Ed oggi è il più eminente scrittore arabo in Israele. Scrive in ebraico in modo sornione, allusivo, sottilmente furbesco. Non dà un nome al suo protagonista ma risulta evidente che molto si richiama a lui stesso. Il che gli riesce bene perché in fondo non fa che riferirsi a se stesso. Parlare di sé medesimo. Con una certa noncuranza tratta gli argomenti in modo piuttosto distaccato. Il suo personaggio principale è sempre in fondo un antieroe, anonimo ma piuttosto rappresentativo, anzi pure autobiografico. Viene accettato negli ambienti bene ma è abbandonato a vivere la sua duplice identità di arabo e di ebreo. La sua maturazione di persona adulta non risolve il dilemma dell’essere l’uno e/o l’altro. Si barcamena fra un nazionalismo arabo senza più vigore ed un vissuto annoiato in un mondo che non gli è consono e che non ha divinità in cui credere. Non è minaccioso, neppure violento, ma rimane onesto con se stesso, anche se deve cambiare continuamente d’abito per mascherarsi e cambiare più volte di ruolo ed aspetto. Si tratta di una verità sui generis, utile ad una sopravvivenza non inquieta. Kashua è molte cose insieme, è altro da sé come direbbe Ricoeur, appunto un tu per lui stesso, cioè una seconda persona singolare ovvero “due in uno”. Ma intanto nel suo secondo romanzo del 2006 Let it Be Morning (E fu mattina), che suona chiaramente come un richiamo alla potenza creatrice divina ricordata nella Genesi, il protagonista decide di far rientrare la sua famiglia al villaggio arabo di origine. Una contraddizione? No di certo. Solo un altro modo di essere nella sua travagliata dinamica fra due entità ed identità.
Grazie al suo reality televisivo intitolato Avoda Aravit (lavoro arabo) la lingua araba entra dal 2007 nella televisione israeliana, anche se non mancano reazioni e resistenze. La novità ha indubbiamente un suo impatto perché presenta un arabo non più come pericoloso nemico ma come un essere umano con tutte le sue debolezze ed anche con tutte le sue potenzialità in positivo. I soggetti della serie televisiva appaiono come una normale famiglia: il marito fa il giornalista per un quotidiano in lingua ebraica, la moglie è un’assistente sociale arabo-israeliana, i figli frequentano una scuola ebraica. Ma l’autore non manca di mettere in evidenza le ipocrisie, il conservatorismo. E spesso vi scherza sopra con il suo compagno di viaggio e di avventura cultural-letteraria, il regista israeliano Shai Capon suo dirimpettaio d’ufficio. Ma, attraverso i suoi personaggi, Kashua scherza anche su se stesso e sul mondo che lo circonda. E riesce così ad essere parte e non parte della cultura israeliana. Così come i personaggi sono pure antagonisti oltre che protagonisti. Esattamente secondo quanto avviene in Due in uno. Ed anche qui Kashua gioca: se l’avvocato è senza nome l’altro eroe/anti-eroe mostra tutto il suo essere ancipite in quanto porta un nome, Amir, che è sia arabo che ebraico. Per di più Amir si prende cura di un ebreo in coma, Yoanatan, che ha tentato di annientare la sua identità suicidandosi. La dinamica dio inclusione-esclusione prosegue senza soluzione di continuità. E Kashua si esprime con la massima libertà in tema di libertà, razza, religione, cultura, identità, lingua, appartenenza, pace, violenza, conflitto. E tutto diventa sempre più problematico (Bar-Tal 2013). Ma l’intellettuale ricorre anch’egli allo shout del film citato sopra: grida per farsi ascoltare, grida a modo suo ma si fa di fatto portavoce di un gruppo cospicuo di persone di ebrei israeliani o di israeliani ebrei.
Sulla stessa lunghezza d’onda culturale ma con qualche non lieve differenza si muove un altro noto intellettuale, che vive ad Haifa: Abraham Yehoshua. Di origine sefardita, è docente di letteratura all’università locale, dopo aver insegnato a Parigi. Dapprima ha scritto per il teatro e poi si è dato ai romanzi. Sua moglie è una psicanalista. Il suo tema principale è quello della diversità declinata a vari livelli, sia culturali che religiosi. Ben consapevole delle difficoltà nei rapporti intersoggettivi mette in evidenza le conseguenze negative dell’intolleranza e dei pregiudizi (cfr. Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare del 1996). Nel suo volume del 1997 Viaggio alla fine del millennio s’interessa proprio delle relazioni fra ebrei, arabi ed europei. Un medesimo approccio ritorna nell’opera del 1990 dal titolo Signor Mani. Con questi problemi s’intrecciano pure le situazioni familiari, esaminate molto approfonditamente da Yehoshua nelle loro fenomenologie complessificate ebraicamente (si potrebbe dire) da malintesi, scarso dialogo, reticenze, fraintendimenti, che si susseguono sulla scorta degli approcci di tipo affettivo, religioso, culturale, ideologico, politico, comportamentale, nel quadro peculiare della situazione d’Israele e del suo mondo, come emerge soprattutto nel lavoro del 2007 dal titolo Fuoco amico e da quello del 2009 Il labirinto dell’identità.
Non si può infine non citare un altro straordinario testimone e grande intellettuale, l’iracheno-israeliano Sami Michael, anch’egli di stanza ad Haifa, dopo essere vissuto in Iraq con altro nome (Salâh Menashe) ed essere fuggito dapprima in Iran e poi in Israele per evitare le minacce del regime iracheno nei suoi confronti. Comincia a scrivere in arabo sui giornali comunisti pubblicati in Israele. Ma poi comincia ad imparare l’ebraico. Nei suoi scritti sono sempre presente riflessioni sull’identità, sulla pace, sulla guerra, sulla convivenza, sui contrasti generazionali e di classe. Si batte per la collaborazione fra arabi, ebrei e cristiani. Il suo primo lavoro importante è del 1948: Uguali ed uguali di più. La diffusione delle sue opere è internazionale e giunge anche in Iraq ed Egitto. Oltre i romanzi ha scritto, come Yehoshua, opere teatrali. Risale al 2006 il romanzo dal titolo Una tromba nello uadi, ambientato nel quartiere arabo Wadi Nisnas di Haifa: racconta la storia tragica di due innamorati, ebreo lui, araba lei. La scena finale è ambientata nel cimitero di Haifa con la donna che piange il suo amato ucciso in un’azione militare. Più recente è l’opera Tempesta tra le palme del 2009. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti (si è parlato di lui come possibile candidato al Nobel).
Il contributo rilevante degli autori sin qui citati non è affatto trascurabile. Grazie anche a loro si sta facendo strada in Israele una diversa idea di ciò che rappresenta l’arabo, con la sua cultura, lingua e religione. Non a caso nel 2013 lo Yad Vashem di Gerusalemme, il museo memoriale dell’olocausto, ha accolto il primo arabo come Giusto fra le nazioni: il medico egiziano Mohamed Helmy per aver nascosto e salvato quattro ebrei a Berlino. Prima di lui altri musulmani hanno avuto il medesimo riconoscimento ma non erano originari di un paese arabo.
Il conflitto urbano, interetnico ed interreligioso
Anche la peculiarità sociologica di Haifa merita di essere approfondita. La città non ha mantenuto a lungo una sua totale autonomia, una sua identità unica. Per diverse vicende storiche ed avvicendamenti continui di esercizio del potere essa è stata attraversata da molteplici esperienze, senza che nessuna di esse prevalesse e perdurasse come esclusiva cultura di riferimento.
La sua collocazione geografica presenta un ampio golfo, adatto per l’ormeggio dei mezzi di navigazione e, come tale, unico in tutto il litorale della Palestina. Non solo. Haifa si avvale di un importante corso d’acqua, già noto come Cison ed ora chiamato Nahr el-Muqaṭṭa‘, che attraversa la valle di Esdrelon e giunge al lago di Tiberiade, alla valle del Giordano ed alla Siria. In tal modo si crea un collegamento diretto fra il mare Mediterraneo e le acque interne.
La parte antistante il porto (che serve da punto di smistamento per il petrolio e per la frutta ma anche per i minerali provenienti via treno da Beersheba) è verosimilmente quella di più vecchio insediamento, almeno in epoca moderna, ed è caratterizzata da una prevalente presenza araba nel quartiere di Wadi Nisnas, mentre gli ebrei si sono insediati in larga misura (a partire dagli anni Venti del secolo scorso) nella zona dell’Esdrelon ed attorno al monte Carmelo, che sovrasta l’intera città e che fu il luogo della vittoria del profeta Elia sui profeti di Baal, come si legge nel biblico Primo Libro dei Re, capitolo 18, versetti 20-46, nonché residenza del profeta Eliseo, discepolo di Elia. Nell’antichità erano famosi i vini del Carmelo. Nel XII secolo sul Carmelo sorse un monastero carmelitano. Sempre nella zona del Carmelo sono insediati anche due villaggi drusi, dissidenti musulmani.
Verso sud-est c’è l’area industriale con le raffinerie di petrolio sorte tra il 1936 ed il 1939 come punto di arrivo dell’oleodotto proveniente da Kirkuk in Irak (disattivato nel 1948), la centrale termica, i cementifici, le fonderie, le vetrerie e varie altre industrie (soprattutto chimiche e di alta tecnologia), lungo la strada per Acco (San Giovanni d’Acri) e quella per Nazaret, con quattro villaggi. La forza lavoro è impiegata soprattutto nei servizi, assai meno nell’industria.
La situazione urbana odierna è in buona misura uno sviluppo delle potenzialità che Haifa aveva già in passato, pur nelle sue ridotte dimensioni rispetto all’espansione attuale del territorio municipale. ‘’Ηφα era una piccola entità, frutto della civiltà ebraica agli inizi dell’era volgare o comune. Era nata, come tanti altri agglomerati abitativi, per rispondere ad esigenze di varia natura che non trovavano soddisfacimento nel territorio circostante, in aperta campagna, dove potevano mancare vari servizi di prima necessità, reperibili invece nel centro urbanizzato. Ovviamente l’articolazione attuale di detti servizi è ben maggiore e risponde ad usi che si sono creati e sviluppati in seguito al macro-processo di industrializzazione che ha cominciato ad attraversare l’Europa e le aree mediterranee proprio nell’epoca in cui Haifa è risorta, nel XVIII secolo. Indubbiamente la crescita più significativa ha preso avvio nel successivo XIX secolo per poi proseguire in modo più rilevante nel XX secolo allorquando la città ha raggiunto i centomila abitanti (soprattutto arabi musulmani, insieme con arabi cristiani in misura minore ed ancor meno numerosi gli ebrei). La presenza ebraica in Haifa è poi andata crescendo notevolmente sino a pareggiare quella araba, dopo la seconda guerra mondiale. Il 23 aprile 1948 l’esercito d’Israele ha fatto evacuare circa ottantamila arabi.
E la proclamazione dello stato d’Israele è avvenuta il 15 maggio 1948.
Da quel giorno in poi Haifa è divenuta ancor di più il punto di approdo degli ebrei che desideravano entrare nel paese dei loro antenati. Il che è avvenuto in misura preponderante via mare e dunque attraverso Haifa, porta marittima d’Israele. Centinaia di migliaia sono stati i profughi e gli immigrati sbarcati nel porto della città, mentre il quadro politico non si era ancora rasserenato a seguito del rifiuto, da parte degli stati arabi confinanti, di accettare la nuova situazione decretata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1947. I contrasti sfociarono quindi nella guerra arabo-israeliana del 1948-49, che vide Haifa al centro di molti scontri per la presenza del porto e delle industrie. Gli arabi di Haifa si arresero il 22 aprile 1948. Molti di loro, che in precedenza erano quasi 50.000, abbandonarono la città. Gli abitanti arabi si ridussero a 3.000.
Nel 1949 ci furono gli accordi armistiziali di Rodi, che riguardarono i rapporti di Israele rispettivamente con Libano, Siria, Transgiordania ed Egitto, per definire i confini tra i diversi stati in questione, che furono mantenuti fino al 1967, cioè allo scoppio della cosiddetta guerra dei sei giorni. L’accordo con il Libano fu sottoscritto il 23 marzo 1949 e fissò la “linea blu” di frontiera fra i due stati. Quello con la Cisgiordania venne firmato il 3 aprile 1949 e quello con la Siria il 20 luglio 1949. Quest’ultimo stabilì il ritiro dei siriani dalle zone occupate verso ovest, che vennero smilitarizzate. Quasi l’80% dei territori già sotto il mandato britannico furono dunque assegnati allo stato d’Israele. Ma si trattava di intese provvisorie ed a carattere militare (eccezion fatta per il Libano), in attesa di veri e propri trattati di pace.
Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni che vide Israele contro Siria, Giordania ed Egitto, gli israeliani vollero considerare definitive le linee di confine in atto. Però seguirono varie violazioni degli accordi, da entrambe le parti, con irruzioni in zone delle controparti. Per la regione di Haifa ci furono diverse azioni militari, con attacchi provenienti dalla Siria ed in particolare dalle alture del Golan.
Nel 1973 Siria ed Egitto violarono la tregua voluta dall’ONU ed iniziarono la guerra detta del Kippùr (ricorrenza ebraica di digiuno e pentimento, nel decimo giorno del mese di tishrî – tra settembre ed ottobre -). Mentre con l’Egitto lo stato d’Israele giunse agli accordi di Camp David nel 1978 ed alla pace di Washington nel 1979, più problematica si presentò invece la situazione al nord e segnatamente nella regione circostante Haifa, con azioni di guerriglia e colpi di artiglieria. Truppe israeliane invasero poi il sud del Libano dal 1982 al 1985. E nel 1987 ebbe inizio la rivolta (intifada) palestinese, specialmente con il ricorso al lancio di pietre.
La vittoria laburista in Israele nel 1992 diede avvio con il primo ministro Rabin, laburista, ad un periodo di pace relativa, che portò pure al riconoscimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ad un trattato di pace con la Giordania e ad intese con la Siria. Anche Haifa ovviamente si giovò del nuovo clima socio-politico e vide un allentamento delle tensioni in atto.
Ma l’assassinio del leader laburista Rabin interruppe la dinamica pacificatrice in corso.
Le vicende successive furono condizionate dalle politiche governative messe in atto dal conservatore Netanyahu prima (dal 1996 al 1999), dal laburista Barak (dal 1999 al 2000) che tentò una ripresa degli accordi con i palestinesi e fece ritirare l’esercito israeliano dal sud del Libano, da Sharon (dal 2001 al 2006) della coalizione di centro-destra del Likud che vide una recrudescenza dell’intifada e degli attacchi terroristici, con eventi tragici che colpirono in modo ripetuto e sempre più tragico proprio Haifa, che vide varie centinaia di morti da entrambe le parti in contesa, fino al 2003.
Nel 2004 morì il leader palestinese Arafat, cui subentrò Abu Mazen, esponente moderato di al-Fatah (fondata dallo stesso Arafat). Nel novembre 2005 Sharon creò una nuova forza politica centrista denominata Kadima, che vuol dire “avanti”, e nel 2006, ammalatosi, venne sostituito da Olmert (fino al 2009), nuovo leader di Kadima.
Nel frattempo il movimento fondamentalista islamico palestinese di Hamas (“ardore”) aveva ottenuto la maggioranza nel parlamento palestinese sconfiggendo al-Fatah (“giovane”), la parte più orientata verso soluzioni meno conflittuali. Ed in effetti le conseguenze si videro subito, con la cattura di soldati israeliani ad opera di miliziani di Hezbollah (“partito di Dio”, sciita fondamentalista libanese) e la risposta israeliana di rivalsa sul Libano. Anche in questo caso, come pure tutte le volte che ci furono situazioni critiche anche con il confine siriano, la regione di Haifa entrò in fibrillazione.
Nel 2009 Netanyahu, capo del Likud, è tornato ad essere primo ministro d’Israele, riconfermato poi nel 2013, alla guida di una coalizione che ha escluso gli ultra-ortodossi e compreso anche i partiti di centro Yesh Atid (“c’è un futuro”) e Hatnuah (“il movimento”), quello conservatore di HaBayit HaYehudi (“la casa ebraica”) ed il partito della destra sionista laica Israel Beitenu (“Israele, nostra casa”).
Il nuovo governo di Netanyahu ha dato l’avvio alla liberazione, in quattro fasi, di 104 palestinesi incarcerati per fatti sanguinosi. I primi 26 sono stati liberati il 14 agosto 2013, pur tra le proteste. Nondimeno si sono create, così, le premesse per una ripresa delle trattative israelo-palestinesi. Ma la morte di due sergenti israeliani, verso la fine di settembre, per mano di palestinesi, ha provocato una petizione di ministri e parlamentari israeliani per una sospensione del rilascio degli altri detenuti. Ancora una volta il processo di pacificazione ha dovuto subire un rallentamento.
La Colonia tedesca e lo sviluppo della città
Oggi Haifa, nella sua articolazione topografica di città bassa, media ed alta, conta più di 270.000 abitanti (ma erano solo 24.634 nel 1922 e 229.000 nel 1979), ora in larga maggioranza ebrei (di cui circa il 25% di origine russa), insieme con tre minoranze per così dire principali, rispettivamente, nell’ordine di grandezza numerica, di arabi cristiani (che si avvicinano ad un totale di 20.000 persone, di cui quasi 6.000 sono greco-ortodosse), di arabi musulmani (poco meno di 10.000 individui) e di drusi (che, considerando però l’intera area metropolitana, assommano a circa 40.000, musulmani sciiti ismaeliti di cultura agro-pastorale e patriarcale) che vivono nei dintorni di Haifa e soprattutto a Daliyat el-Carmel, Isfiya e Shfar’am.
Ad Haifa sono presenti università e centri culturali, teatri e sale cinematografiche (da segnalare l’importante Film Festival Internazionale a cadenza annuale), insieme con varie altre realtà religiose come quella dei Baha’i, i melchiti, i maroniti (circa 2.000 persone), gli arabo-cristiani, gli ahmadiyya (musulmani sunniti che sono giunti dal Pakistan nel 1925, vantano ora una grande moschea e quasi 2.000 aderenti), i protestanti (un migliaio). Vanno ricordati anche gli hashemiti (di origine giordana), che appartengono, per discendenza diretta, alla famiglia di Maometto, il cui bisnonno si chiamava Hāshim.
Per ricostruire lo sviluppo urbano della città di Haifa può fare da filo conduttore anche la breve storia della cosiddetta Colonia tedesca, un insediamento sui generis, a carattere religioso ed economico, avvenuto nel 1869, su un’area allora spopolata e prospiciente la spiaggia di Haifa, ad opera di un gruppo protestante germanico denominato templari (ma non si tratta dei più famosi cavalieri templari, istituiti nel 1119 per difendere i luoghi santi della Palestina). All’epoca dell’arrivo dei protestanti tedeschi (ormai quasi un secolo e mezzo fa), la piana retrostante la costa, dove oggi si trova il porto turistico e commerciale di Haifa (completato nel 1934), appariva quasi del tutto spopolata: c’era solo un piccolo villaggio di pescatori. Le prime abitazioni della Deutsche Kolonie furono perciò l’incipit di un insediamento urbano che si sarebbe a poco a poco allargato, confermando ancora una volta che i posti di mare sono facilmente vocati ad essere urbanizzati se solo qualche altra condizione permetta una vita comunitaria non particolarmente disagiata.
I sociologi urbani hanno più volte sottolineato che la stessa presenza di una ferrovia e magari di un nodo ferroviario (come nel caso di Chicago nell’Illinois) rappresentano un volano rilevante per la promozione di un incremento abitativo e di un collegato sviluppo in campo lavorativo. Da questo punto di vista la lezione della cosiddetta Scuola di Chicago (Short 1971) rimane esemplare ed illuminante: la città ebbe a svilupparsi da un nucleo inziale sorto attorno alla stazione ferroviaria, ancor oggi punto nevralgico della metropoli statunitense.
Nel caso di Haifa la ferrovia venne costruita tra 1900 ed il 1905 e completata nel 1919 (quarant’anni dopo sarebbe stata aperta la metropolitana, nel 1959, collegando la parte alta e quella bassa della città): la tratta ferroviaria che da Tel Aviv giunge lungo la costa sino al porto di Haifa per poi proseguire verso San Giovanni d’Acri ha contribuito indubbiamente a favorire lo sviluppo della città e delle sue attività commerciali di import-export. Haifa Center HaShmona, Haifa Bat Gallim, Haifa Hof HaKarmel (Razi`el) sono oggi le tre stazioni della città, nell’ordine, procedendo lungo il percorso da san Giovanni d’Acri verso Tel Aviv. La stazione centrale è proprio sulla rada, a contatto con la zona portuale e l’entroterra abitativo. Va anche segnalato che un oleodotto porta ad Haifa il petrolio, che arriva dal Mar Rosso per essere raffinato sul posto.
Ancora oggi, ad Haifa lungo i due lati dell’attuale viale Ben Gurion, che inizia a mezza strada tra il vecchio cimitero di Haifa e la stazione Haifa Center HaShmona, si possono riconoscere quelle che furono un tempo le abitazioni della già citata Colonia tedesca, che, fautrice di piccole iniziative imprenditoriali a carattere familiare o poco più, favorì lo sviluppo dei trasporti, specialmente dal mare verso l’interno (Nazaret in particolare) ma altresì lungo la costa fino a san Giovanni d’Acri (o Acco) a nord e Giaffa a sud, oltre Tel Aviv.
Classica espressione dello spirito protestante connotato da un forte impegno nel lavoro e nella professione, secondo la prospettiva teorico-sociologica suggerita da Max Weber (1965), i templari nel giro di qualche decennio videro migliorare le proprie capacità produttive ed acquisitive. Qualche complicazione si ebbe solo allorquando nel 1874 si registrò un dissenso all’interno della comunità, che si divise al suo interno in quanto una parte di essa pensò di aderire alla chiesa protestate prussiana. Quest’ultima aiutò molto i nuovi adepti operanti ad Haifa, che alla fine ebbero il sopravvento sui loro correligionari di un tempo, restati fedeli al movimento della fondazione e nondimeno qualificati come settari dai loro compatrioti ed ormai avversari religiosi. Il conflitto si acuì fino a far crescere la sfiducia reciproca, con continui contrasti ed affronti. Fu così che nel 1886 si costituì ad Haifa una congregazione protestante tedesca chiamata Kirchler, con oltre 50 membri.
Per di più nel 1891 gli aderenti alla chiesa di Prussia ottennero un rilevante supporto attraverso l’organizzazione denominata Jerusalemverein per gli aiuti ai cristiani di Palestina. Anche altre colonie tedesche sorte in Terrasanta ebbero sostegni ed apparvero prosperose ma non superarono mai, messe insieme, fino al 1914, il numero totale di 2.500 membri. Perciò la loro forza politica ed economica andò esaurendosi, nonostante l’invio di un insegnante nel 1890 per aprire una scuola tedesca in terra palestinese.
A ben poco era valso anche il tentativo messo in atto da Otto Fischer, un evangelico di Haifa, di offrire anche un luogo di culto per la comunità tedesca: il mecenate donò un terreno, su cui una chiesa venne costruita nel giro di un anno tra il 1892 ed il 1893, anno in cui vi giunse un pastore inviato dal Jerusalemverein.
Ma la comunità tedesca di Haifa non si estese di molto e toccò al massimo il numero di circa 400 membri, più o meno stabili a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel corso degli anni, invero, l’assestamento comunitario, dovuto sia a ragioni religiose attraverso la regolarizzazione dell’appartenenza religiosa, sia a motivi economici a seguito di una sostanziale tenuta della prosperità economica, attutì le stesse differenze intra-confessionali che avevano dato luogo a divergenze negli anni precedenti. Nel 1907 la comunità evangelica tedesca Kirchler di Haifa riuscì peraltro a realizzare un nuovo insediamento intitolato Waldheim (Allonei Abba).
Nondimeno la sorte della Colonia tedesca era ormai segnata, con l’arrivo della prima guerra mondiale e dei conseguenti disagi di natura bellica, nonché con l’occupazione da parte degli inglesi quali nuovi padroni della Palestina. Nel 1937 venne nominato dal Jerusalemverein il nuovo pastore di Haifa, Christian Berg, in sostituzione di Detwig von Oertzen andato in pensione. Ma in quel medesimo anno i britannici scoprirono che circa un terzo della comunità tedesca era iscritto al partito nazista tedesco per cui i protestanti templari furono osteggiati ancor più ed infine deportati in campi di internamento. Dopo quasi un secolo era irrimediabilmente finita l’esperienza della Colonia tedesca di Haifa.
Haifa tra comunità e società
La città di Haifa presenta alcune marcate caratteristiche che porterebbero a verificare l’idea di Tönnies (1963) relativa alla dicotomia fra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft). In effetti in luoghi e tempi diversi della vita cittadina si evidenziano ora aspetti tipici della comunità ora elementi caratteristici della società. A livello residenziale vi sono quartieri in cui le abitazioni così come sono costruite non consentono facilmente l’interazione fra attori sociali mentre altrove l’intersoggettività è talmente favorita da apparire quasi scontata. Un conto è infatti risiedere in grandi edifici a conduzione condominiale ben altro è vivere in case basse che permettono un incrocio continuo e persino speculare di sguardi, voci, interazioni comportamentali. Ma vi sono anche situazioni in cui il dato di fatto contestuale è annullato dalla volontà dei singoli che si ritrovano per momenti conviviali, incontri di festa, ritualità religiose, svaghi in comune. Ciò vale per gli ebrei come per gli arabi, per i melchiti come per i maroniti, per gli ahmadyya come per i Baha’i, per i cattolici o i protestanti. Sotto questo profilo è ben evidente il ruolo strategico che riveste un’occasione come quella del Festival dei Festivals che si volge ogni anno nel mese di dicembre.
Nella stessa quotidianità di Haifa si assiste ad una sequenza di interazioni che interessano gli individui in ogni loro dimensione, con un coinvolgimento che si direbbe totale. Questo si constata sia a livello di vicinato, di condominio, di quartiere, sia a livello cittadino, secondo contingenze del momento, situazioni socio-politiche locali e regionali o nazionali, condizionamenti esterni anche di natura internazionale, conflitti manifesti o latenti in atto.
In base ai diversi tassi di integrazione intra-familiare ed intra-etnico-religiosa si registra una propensione più o meno accentuata verso la dimensione comunitaria, cioè del rapporto tendenzialmente sereno a faccia a faccia.
C’è però da chiedersi se sia possibile applicare la duplice categoria di tradizionale e moderno al caso specifico della città di Haifa. Innanzitutto andrebbe chiarito in quale misura si possa parlare di tradizione. Se è vero che la storia del luogo ha conosciuto tante ed alterne vicende se ne deduce che sarebbe mancata una sostanziale continuità che solitamente consente la costruzione di un forte impianto culturale, capace di resistere a lungo nel tempo, superando ostacoli ed attacchi di ogni sorta.
Nel confronto con la città di Gerusalemme, per esempio, Haifa presenta molte discontinuità: abitata e poi abbandonata, distrutta e ricostruita, ridotta a poco più di un villaggio e poi cresciuta in modo esponenziale nel corso degli anni più recenti. Dunque si può notare che manca un radicamento costante, senza soluzioni nel tempo. Da un punto di vista storico-sociologico questo significa che Haifa sembra difettare di una propria identità e dunque permette più agevolmente l’innervamento di tante altre identità, culturali, nazionali, linguistiche, religiose. Insomma quella che parrebbe una sua debolezza si trasforma in forza in quanto apre ad altri inserimenti, ad ulteriori innesti, senza opporre una particolare resistenza.
Invero i problemi non mancano. Si pensi al cospicuo arrivo ad Haifa di immigrati provenienti dall’ex Unione Sovietica: trovano un’accoglienza adeguata e per quanto possibile vengono collocati a svolgere un’attività lavorativa in città. Da parte della comunità araba in particolare si obietta che tali nuove presenze diventano evidentemente concorrenziali nell’ambito di un mercato del lavoro che non è certo florido e facilmente accessibile, specialmente in questo momento storico di grave crisi occupazionale a livello internazionale.
Va anche detto però che la coesione socio-economica di alcune aree cittadine riesce a far fronte all’impatto dei nuovi arrivati, che dunque si ritrovano a dover cercare soluzioni lavorative altrove, nel medesimo tessuto urbano o al di fuori di esso. In questo senso vige ed ha la meglio un certo senso di appartenenza che connota peculiarmente proprio le comunità “i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere” (Parsons 1965: 97). Hadra HaCarmel, quartiere ebraico per eccellenza, e Wadi Nisnas, quartiere arabo per eccellenza, sono a loro modo singolare due comunità, più o meno coese, più o meno integrate, più o meno accoglienti. In primo luogo non si può parlare di un’assoluta omogeneità al loro interno. Detto altrimenti non risultano essere realtà esclusive ed esclusiviste. Ed allora si creerebbe in tale quadro urbano d’insieme quella che Talcott Parsons chiamerebbe forse una comunità societaria, cioè contraddistinta da due sottosistemi (ebraico l’uno ed arabo l’altro, si direbbe) in cui esistono almeno in modo orientativo “obblighi di lealtà nei confronti della collettività societaria, sia per il complesso dei suoi membri, che per le varie categorie, diversificate per il loro status e ruolo, che si ritrovano all’interno della società” (Parsons 1973: 28). Tale lealtà non è necessariamente sempre chiara, visibile, percepibile. Rimane un tratto di fondo. Appare sottintesa. Ma, come nella teoria dei giochi di von Neumann e Morgenstern (1944) o meglio nel noto dilemma del prigioniero (Poundstone 1992), essa è frutto di una prima intenzione di collaborazione, di fiducia, almeno fino a prova contraria. Si potrebbe anche parlare di una sorta di sfiducia ben riposta (Mutti 1998; 2006). In situazioni conflittuali, con aspri scontri, con azioni forti, possono essere accusati di slealtà coloro che propendono per soluzioni più miti, meno violente, non vendicative, non assolutistiche, magari di compromesso. Orbene proprio il compromesso è sovente considerato un accomodamento poco efficace, non duraturo, rinunciatario. Eppure esso rappresenta in molti casi la via di uscita da un’impasse altrimenti senza soluzione, da un vicolo cieco entro il quale l’assenza di vie di fuga costringe i contendenti a misurarsi in uno spazio ristretto, che non offre alternative se non lo scontro diretto con danni reciproci. Il compromesso è in effetti una forma di mediazione, faticosa da realizzare e basata sulla speranza di reperire una formula adatta ad affrontare una situazione di crisi. Quando due interlocutori, singoli o collettivi, si cimentano su una questione da risolvere, su una decisione da prendere, i rispettivi punti di partenza rispondono tendenzialmente e principalmente a prospettive univoche, interessate, piuttosto ideologiche. Solo nel dibattito e nella dialogicità si scoprono le esigenze e le attese altrui, non sempre ed immediatamente percepibili da un angolo di visuale diverso e persino opposto. Ecco dunque che diviene necessaria una modalità di attenzione all’altro per coglierne le intenzioni ed il bisogno reale di riconoscimento. Perciò diventa imprescindibile un’offerta di disponibilità, di apertura alla comprensione ed alla compartecipazione. L’atteggiamento dell’attesa e della sospensione del giudizio ovvero del pregiudizio risponde ad una scelta operativa ben fondata: conoscere per capire, comprendere ancora prima di agire, procedere con cautela evitando attacchi diretti, frontali, dichiaratamente ostili. Ovviamente non sarebbe produttivo un atteggiamento di resa incondizionata alle proposte altrui: non si renderebbe un buon servizio nemmeno a chi sta dall’altra parte, perché lo si rafforzerebbe nella sua convinzione di avere sempre e comunque ragione. E ciò d’altro canto non sarebbe giusto e corretto neanche nei riguardi di chi offrendosi del tutto alla colonizzazione ideologica dell’altro rinuncia per ciò stesso alla propria matrice di provenienza. Detto altrimenti, il permissivismo o l’eccesso di tolleranza (termine piuttosto ambiguo) di cui si parla in generale a proposito di soggetti che muovono da un’ispirazione religiosa, o di altra derivazione, non può significare solo un annientamento della propria identità quanto piuttosto un consapevole modo di interagire nella forma più opportuna, cioè ipotizzando in linea di principio una disponibilità anche del proprio interlocutore a voler trovare una convergenza consensuale. Di solito serve appunto una sfiducia ben riposta, già citata sopra. In altre parole l’epoché, come sospensione del giudizio, è espressione in pari tempo di fiducia ma anche di sfiducia ben riposta, cioè contemporaneamente di prudenza e saggezza. Si offre il destro ma si evita di lasciarsi colpire. Si porge l’altra guancia, ma – si direbbe – non ve n’è una terza che darebbe all’altro il diritto di offendere all’infinito, con suo stesso detrimento (oltre che altrui). La propensione al dialogo interculturale ed interreligioso in definitiva non sembra una formula perdente se viene esercitata con accortezza e senza rinunzie significative ai valori che ad essa danno luogo e sostegno. Ancora una volta risulta valida la metafora del dilemma del prigioniero che non sa decidere se collaborare o meno. In genere la risoluzione di avvio è quella della fiducia e del rispetto. Ma se a lungo andare tutto ciò non servisse occorre poi passare ad un atteggiamento che faccia capire ancora meglio che non si è inconsapevoli vittime della coartazione altrui ma solo latori di una volontà di comunicazione dialogica a due vie, cioè in modo circolare, senza che l’uno prevarichi l’altro.
Il Festival dei Festivals come solidarietà spontanea
L’esperienza che i cittadini di Haifa ripetono ogni anno con il loro Festival dei Festivals assume i connotati di una solidarietà spontanea che il clima della festa suscita, la municipalità promuove, gli abitanti stessi condividono in buona misura anche se non totalmente. D’altro canto appunto il carattere festivo stimola la percezione di una comune appartenenza alla città, anche al di là delle rispettive culture etnico-linguistiche-religiose di provenienza. Molto si mescola in termini di arte e spettacolo, musica e teatro, adulti e giovani, anziani e fanciulli. Avviene così che in termini toenniesiani “ogni convivenza confidenziale, intima, esclusiva […] viene intesa come vita in comunità; la società è invece il pubblico, è il mondo. In comunità con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata a essi nel bene e nel male, mentre si va in società come in terra straniera” (Tönnies 1963: 45-46).
Le attività decembrine segnano dunque un discrimine, uno spartiacque nel corso dell’anno: le diverse comunità di Haifa si incontrano, stanno insieme, provano che la convivenza pacifica è realizzabile. La differenza con il resto dell’anno è evidente ma, almeno nelle intenzioni, sembra essere sempre meno evidente e dunque più sfumata, nonostante le barriere pluricentenarie ed in qualche caso plurimillenarie che hanno separato le comunità fra loro ed impedito di avere un costume comune, una condivisione duratura, un destino compartito.
In effetti andare da Wadi Nisnas ad Hadar HaCarmel è quasi come andare in terra straniera e lo stesso dicasi per coloro che da Wadi Nisnas si dovessero recare nel quartiere di Hadar HaCarmel. Eppure il territorio comunale non ha soluzioni di continuità nello spazio ed entrambi i quartieri sono reciprocamente visibili a gittata d’occhio. Le case basse di Wadi Nisnas consentono una relazionalità che si sviluppa in senso più orizzontale che verticale, al contrario di quanto potenzialmente avviene nel quartiere a prevalenza ebraica, dove la conoscenza interpersonale è piuttosto interna al medesimo edificio.
Da una parte è più facile lo sviluppo di un rapporto intersoggettivo “come vita reale e organica” (Tönnies 1963: 47), dall’altra forse il carattere solidale si presenta come un “aggregato”. Ma in entrambi i casi il vissuto intra-familiare ripercorre le stesse dinamiche comuni: uomo-donna, genitori-figli, fratelli-sorelle, grandi-piccoli. La condivisione del luogo di esistenza per periodi prolungati non può non produrre senso di affiliazione, un sentire compartecipato. Per cerchi concentrici, si può dire che la sociabilità simmeliana (Simmel 1997) si estenda dalla famiglia alla parentela e poi al vicinato ed alle reti amicali, ora sempre più fondate su mediazioni elettroniche (twitter, facebook, skype, ecc.) che travalicano i confini dei quartieri e delle città, delle nazioni e dei continenti.
I legami più significativi, al di là della famiglia, si riscontrano specie fra gli amici, cioè fra soggetti che non sono dati per default di collocazione topografica (come nel caso del vicinato) o di nessi di consanguineità (come per quanto concerne il parentado) ma vengono prescelti a ragion e convenienza vedute come pure sulla base di spinte emozionali. L’amicizia come Erlebnis, come esperienza di un vissuto, ha molto a che vedere con il carattere comunitario, in quanto contiene “un modo di sentire comune e reciproco, associativo” (Tönnies 1963: 62), affine a quello della comunità. Ebbene le forme di partecipazione e di responsabilità rinvenibili nell’organizzazione e nella realizzazione del Festival dei Festivals si spiegano anche con la sensibilità agli scopi e con la spontaneità della collaborazione, entrambe non sempre soggette a formule economiche e contrattualistiche.
Ovviamente non manca l’indispensabile impianto d’assieme che comporta un notevole impegno economico, affrontato principalmente dall’amministrazione comunale, in misura equivalente a circa un milione di euro per ogni anno. Ma un tale esborso non garantisce di per sé l’esito delle diverse manifestazioni del dicembre di Haifa. Sono ben altre le forze e le volontà necessarie per condurre in porto tante iniziative di ogni genere e durata. Pertanto solo condizioni di base particolarmente favorevoli in chiave di disponibilità dell’offerta collaborativa garantiscono che per un mese ogni aspetto sia ben predisposto, non abbiano luogo incidenti, ogni spettacolo funzioni al meglio.
Ad Haifa, specialmente nelle zone in cui il Festival si snoda con le sue diverse offerte culturali, è quasi palpabile un’aura, un’atmosfera speciale di intensa cooperazione e di intesa coscienziosa. Si cerca comunque di evitare qualsiasi ostacolo al buon andamento dei vari momenti festivalieri programmati. Una sapiente regia, quella di Asaf Ron, prepara e segue le diverse dinamiche di The Holiday of Holidays, una serie di eventi a 360 gradi per varietà di forme, linguaggi ed espressioni.
Vi partecipano generazioni di ogni età, individui di ogni lingua e religione presenti in città (ma con arrivi anche da fuori), senza particolari distinzioni, quasi una sorta di metafora della non soluzione di continuità fra comunità e società, fra dimensione locale e prospettiva globale. In effetti è illuminante in proposito quanto scrive Tönnies (1963: 83): “la teoria della società muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono ed abitano pacificamente l’uno accanto all’altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante tutte le separazioni. Di conseguenza, qui non si svolgono attività che possano derivare da un’unità a priori esistente necessariamente, e che quindi esprimano anche la volontà e lo spirito di questa unità nell’individuo, in quanto compiute per mezzo suo, realizzandosi tanto per gli associati con l’individuo quanto per l’individuo stesso. Piuttosto, in questo ambito ognuno sta per conto proprio e in uno stato di tensione con tutti gli altri”.
Applicando ad Haifa ed al suo Festival la proposta toenniesiana di lettura del rapporto tra comunità e società ne scaturisce un quadro d’insieme secondo cui l’intera città avrebbe le caratteristiche della società mentre le realtà dei singoli quartieri, con la loro diversa matrice socio-culturale, costituirebbero altrettante comunità che, confluendo nel momento del Festival, propongono un mix comunitario e societario allo stesso tempo, che ben rappresenta la peculiarità di Haifa quale risposta esemplare alle tendenze conflittuali eventualmente in atto.
Inoltre i residenti ad Haifa “vivono ed abitano pacificamente l’uno accanto all’altro” ma rimangono separati fra loro per motivi storico-sociologici di varia natura. Senonché sarebbe esattamente l’immergersi nella folla quasi indistinta delle celebrazioni festive che provocherebbe una transizione di fatto dalla società cittadina alle comunità cittadine, grazie proprio alle comunità di quartiere che compongono la medesima città di Haifa.
Detto altrimenti la forza delle comunità, separate fra loro, se congiunta virtuosamente nel Festival produce effetti superiori a quelli che ci si potrebbe attendere da un semplice sommarsi di interventi, apporti, consensi. Si può pertanto parlare di un volano (a dismisura), di un potenziatore (all’ennesima potenza) e di un diffusore (in ogni direzione) che adducono conseguenze visibili nell’immediato della festa ma altresì latenti, carsiche, nel corso dell’anno.
In fondo, nella città il fatto stesso di insistere su un territorio comunque contiguo mentre separa i diversi “isolati” fra loro nondimeno li unisce nella cittadinanza collettiva. D’altra parte le comunità dei quartieri tendono a conservare comunque i loro legami residenziali, nonostante le diversità inerenti le singole famiglie, le religioni avite, le lingue materne. Quando poi tutto ciò confluisce nella dimensione di The Holiday of Holidays allora riesce persino arduo discernere fra gli uni e gli altri, fra ebrei ed arabi, fra drusi e maroniti, e così via. Si realizza in tal modo un trapasso dalla prospettiva solo individuale e familiare a quella più allargata, più incurante delle differenze, più disponibile a mescolarsi con gli altri (conosciuti o meno), più aperta verso il nuovo o il poco noto. Si passa così dalle tensioni intercomunitarie alla normalità della dimensione societaria, più aggregante ed aggregata, come esemplarmente mostra la folla festiva. Ma è altresì dato verificare che l’esperienza societaria è un terreno di coltura delle contrapposizioni, delle ostilità, delle rotture. Non è che un simile contrasto non alberghi anche nelle realtà comunitarie. Invero il tenore dell’appartenenza mitiga in parte alcune asprezze che invece emergono chiaramente in ambito societario.
Appartenere ad una comunità si accompagna poi a tutta una serie di condizionamenti che influenzano atteggiamenti e comportamenti dei soggetti che ne sono membri. Weber (Weber 1961: 38) peraltro rende esplicita la situazione tipica della comunità fondata sulla relazione sociale, “se, e nella misura in cui, la disposizione dell’agire sociale poggia […] su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dagli individui che ad essa partecipano”. Ed inoltre (Weber 1961: 39) “una comunità può riposare su ogni specie di fondamento affettivo o emotivo, o anche tradizionale – per esempio una confraternita ispirata, una relazione erotica, un rapporto di reverenza, una comunità ‘nazionale’, una truppa tenuta insieme da legami di cameratismo”.
La comunità invero è una forma sociale ancipite, ambigua: condiziona ed ispira, costringe e spinge, insomma fa l’una e l’altra cosa insieme. Ciò detto, è evidente che il vissuto comunitario presenta aspetti problematici, che non lasciano facilmente presagire ciò che seguirà dopo.
Orbene se il Festival dei Festivals fa leva sulla comunità araba di Wadi Nisnas e sul centro culturale arabo-ebraico Beit HaGefen tale scelta appare fondata e razionale, nell’ottica di una modernizzazione delle proposte culturali che facciano tesoro delle potenzialità insite nel medesimo territorio di riferimento. Gli ostacoli tuttavia non mancano, perché vi sono radici profonde che risalgono molto addietro nel tempo e non possono essere facilmente rimosse. La permanenza delle culture pregresse è una costante che si presenta ad ogni tentativo di innovazione volto a mutare il profilo originario.
Il ricorso a forme di solidarietà organica (Durkheim 1962), nel corso delle attività del Festival,diventa una soluzione particolarmente efficace (anche ai fini di una maggiore coesione sociale), in quanto le diverse funzioni (organizzative, gestionali, performative) rispondono a criteri di massima professionalità, evitando di lasciare solamente al caso il buonesito degli eventi messi in cantiere. Un siffatto modo di procedere diventa pure un parametro di riferimento per segnalare in modo forte e chiaro che anche le situazioni più complesse, articolate e contraddittorie sono governabili grazie a corrette intenzioni ed opportune provvidenze. Valga per tutti l’esempio delle modalità preventive relative alla sicurezza sia del pubblico che dei performers: un discreto ma attento servizio di sorveglianza controlla gli accessi agli spazi della festa. Presumibilmente anche altre azioni vengono predisposte ed un servizio centralizzato coordina tutti gli addetti a questo particolare compito finalizzato ad evitare incidenti. Questi ultimi potrebbero rendere vani una volta per sempre tutti gli sforzi sinora condotti per mantenere in piedi quella che è stata definita “La risposta di Haifa”, dal titolo del film girato nel dicembre 2011 e presentato nel dicembre successivo presso il centro Beit HaGefen.
A ben vedere la sfida posta in essere si basa su una sostanziale fiducia verso gli altri, aspettandosi che questi ultimi a loro volta rispondano in modo coerente ed adeguato rispetto all’apertura di credito offerta loro. Viene di fatto rispettato il requisito di un’identità irrinunciabile. Si invoca inoltre il principio della reciprocità.
Orbene l’identità rimane un’ancora di salvezza in situazioni assai problematiche e controverse. A fronte dell’incertezza si chiede quindi almeno una base certa di appoggio della propria concezione della vita, onde tenerla ben salda a fronte di una possibile perdita dell’orientamento di fondo. La questione travalica però il semplice punto di vista personale e tocca il tema dell’integrazione, delle relazioni all’interno della collettività, dei modi di essere in pubblico, dei simboli-guida, delle definizioni delle situazioni (Thomas, Thomas 1928: 571-572) che si presentano di volta in volta.
Anche la reciprocità gioca un ruolo strategico sia nella cerchia comunitaria che in quella societaria. Di solito nell’ambito più ristretto essa si esercita abbastanza liberamente e quasi senza limite alcuno, per cui la regola del do ut des non vige affatto: nessuno pensa in genere a calcolare il dare e l’avere. Il che, al contrario, è piuttosto frequente nel contesto della società più vasta dove anche il minimo calcolo è di prassi, per stabilire ciò che ci si aspetta in risposta a quanto si è prestato.
In altre parole la scommessa dei promotori del Festival dei Festivals si fonda sulla fiducia che a lungo termine l’investimento (non solo economico) produca qualche effetto concreto in termini di riappacificazione, di comprensione, di solidarietà, di orientamento al bene pubblico, cioè a vantaggio di tutte le componenti cittadine.
In definitiva il modello della festa di dicembre tende a divenire un dato di fatto continuo per la città di Haifa, attraverso soluzioni di amicizia e fedeltà che contrastino quelle conflittuali e destabilizzanti.
Conclusione
I processi di urbanizzazione ed industrializzazione hanno fatto di Haifa una città particolarmente attraente per i flussi migratori sia dall’estero che dall’interno. Non si tratta solo di cercare lavoro in un’area potenzialmente più ricca di altre. Va aggiunto un altro fattore importante che contraddistingue Haifa: essa sta sperimentando più e meglio di altre città alcune formule di tipo meno conflittuale, tese comunque a rasserenare una cittadinanza che fino a non molto tempo fa aveva affrontato momenti assai difficili, per il continuo susseguirsi di attentati che colpivano persone inermi di diversa estrazione. La municipalità sta escogitando anche forme nuove di raccolta del consenso, che vanno oltre i riferimenti tradizionali, a livello di partiti. La scelta a favore di coalizioni politico-amministrative fra più parti è divenuta anche un esempio per la cittadinanza e per il suo agire quotidiano.
La presenza plurima di confessioni religiose di varia provenienza testimonia che in città è possibile praticare culti diversi, senza che questo crei particolari problemi. Anzi non mancano occasioni nelle quali vi è una convergenza contestuale fra gli esponenti principali dei gruppi religiosi operanti in città. In tal senso il Festival dei Festivals rappresenta un’occasione privilegiata.
Diversamente dal passato, Haifa non parrebbe correre oggi molti rischi. La sua stessa situazione socio-economica risulta salda, comparativamente, nel quadro d’insieme dello stato d’Israele. Semmai un problema è dato dall’ingente tasso di immigrazioni, specialmente dalla Russia. La città da sola non riesce ad assorbire tutti i nuovi arrivati, che vengono un po’ per volta indirizzati verso altre destinazioni nel Paese.
Sarebbe infine da considerare con una certa attenzione il carattere policentrico dell’area urbana: dal Carmelo a tutta la zona industriale ed ai vari poli abitativi che la circondano, quasi satelliti attorno ad un pianeta. Gli insediamenti sparsi lungo tutta la ripartizione comunale suggeriscono la presenza di altrettante stratificazioni economiche e culturali, di portata non trascurabile.
Per certi aspetti Haifa può essere considerata una sorta di città globale, perché al suo interno si ritrovano tante rappresentanze sia multietniche che multireligiose. Dunque anche per questo essa può assurgere ad essere un caso esemplare, a cui guardare anche da parte di altre città (non solo d’Israele), più o meno divise da motivi di conflitto e più o meno impegnate nel risolvere i problemi di una difficile coesistenza fra popolazioni eterogenee.
L’esemplarità di Haifa non è casuale. Le deriva da ragioni molteplici che prendono l’abbrivo dalla sua posizione marittima e che si rafforzano con talune esperienze storiche di resistenza ad invasori, ad occupanti, a mandatari, a colonizzatori. Può anche sembrare che i cittadini attuali di Haifa non abbiano una specifica consapevolezza di tutto l’itinerario che ha portato alla situazione urbana attuale. Nondimeno, essi nel momento stesso di scegliere di abitarla hanno manifestato di nutrire fiducia sul suo futuro.
Intanto per ora sta diventando sempre più un caso da studiare, al fine di comprendere se la risposta che essa sta tentando di dare è destinata o meno a rappresentare una best practice da imitare.
Riferimenti bibliografici
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A seguito delle delibere comunali n. 799 e n. 2923 del 1981 e nonostante le vibrate proteste dell’Associazione “Italia Nostra”, nel mese di luglio dello stesso anno una ruspa ha abbattuto casa per casa, baracca per baracca e manufatto per manufatto, anche se ancora in buone condizioni, la borgata romana (atipica, perché non periferica) di Valle Aurelia, sorta vari decenni prima soprattutto per alloggiare i lavoratori delle fornaci attive nella zona, ai piedi di Monte Ciocci e della Pineta Sacchetti. Immagini fotografiche, databili tra la fine del diciannovesimo secolo e gli inizi del ventesimo, mostrano numerose ciminiere svettanti e fumanti, nello scenario di quella che antiche stampe geografiche indicavano in modo appropriato come Vallis Inferior (da cui deriverebbe successivamente il toponimo Valle dell’Inferno) perché posta più in basso rispetto alle colline cretacee circostanti, sfruttate come cave sin dagli inizi dell’era cristiana.
Nel XV secolo le fornaci erano operanti in aree non lontane da piazza san Pietro. Nel 1458 fu Pio II[1] che ne volle lo spostamento oltre il Vaticano, sul lato della via Aurelia. Esisteva una Università (o corporazione) dei fornaciai (i cui statuti furono approvati nel 1484 dal papa Innocenzo VIII[2]), che nel 1552 fece costruire una chiesa detta di sant’Angelo del Torrione o delle Fornaci (od anche di san Michele), posta vicino a Porta Cavalleggeri, appunto in una zona di fornaciai; il piccolo tempio andò poi distrutto nel 1849 per un bombardamento francese. Nel 1568 erano già quindici le fornaci attive fuori delle mura vaticane[3].
Tali straordinari giacimenti di argilla hanno consentito la cottura di molti milioni di mattoni, specialmente per le costruzioni della nuova Roma, divenuta dal 20 settembre 1870 capitale d’Italia, con la contemporanea cessazione del potere temporale dei papi e dunque dello Stato Pontificio.
In precedenza, ai tempi del papa-re, era aperta, lungo le mura del Vaticano, la Porta Pertusa, che immetteva proprio verso la citata Valle Inferiore, da dove erano giunte nei secoli anteriori numerose delegazioni di ogni tipo in visita al pontefice (nel 1655 anche quella della regina di Svezia, Cristina, per la quale la porta venne riaperta).
Fu quello, almeno in parte, anche il percorso seguito il 6 maggio 1527 dai soldati lanzichenecchi, che invasero e saccheggiarono Roma. Invero le porte interessate dall’assedio furono Porta Torrione (Porta Turrionis, oggi detta Cavalleggeri) e Porta Fabbrica o Fabrica, forse voluta dall’antipapa Giovanni XXIII (pontefice dal 1410 al 1415) e detta anche Porta Fornacum ovvero delle fornaci, come documentato in una mappa del 1551 (il che testimonia che la zona era occupata da opifici a carattere edile nel sedicesimo secolo, soprattutto per i lavori di costruzione della basilica di san Pietro, ma la datazione di fornaci in loco rimonta a secoli anteriori). Da Porta Fabbrica passavano i beni ad uso della Fabbrica di san Pietro, ovvero ad usum fabricae, cioè a. u. f., ovvero “a ufo” (espressione ormai di uso comune, ma con un altro significato: gratis, a sbafo).
Porta Pertusa non risulta tuttora lontana dalle altre due porte e risale probabilmente agli inizi del quattordicesimo secolo, proprio come Porta Fabrica (ma Porta Pertusa potrebbe essere ben più antica, databile al tredicesimo secolo). Peraltro Porta Pertusa era così vicina a Porta Fabrica che quest’ultima venne poi chiusa (sotto Martino V, papa dal 1417 al 1431), successivamente riaperta per qualche tempo (da Paolo III, papa dal 1534 al 1549) ed alla fine ostruita del tutto, al termine dei lavori della basilica, nel 1626.
Anche Porta Pertusa ha subito alterne vicende di chiusura e riapertura. Ora è del tutto murata, nei suoi tre fornici, in prossimità della Torre di san Giovanni: si può ritenere che uno degli interventi più consistenti di restauro delle mura vaticane e della medesima porta sia dovuto a papa Pio IV (1560-1565), Angelo della famiglia Medici di Milano, come testimoniano varie lapidi apposte lungo la cinta muraria.
Il legame territoriale fra la Città del Vaticano e Valle Aurelia[4] è quanto mai evidente, come ricorda anche un’iscrizione incisa lungo la facciata della chiesa parrocchiale di san Giuseppe Cottolengo, inaugurata e consacrata dal cardinale vicario di Roma Ugo Poletti il 30 aprile 1979: la scritta, rivolta verso la basilica di san Pietro, recita UBI PETRUS IBI ECCLESIA (Dov’è Pietro c’è la Chiesa). Su un altro lato c’è invece l’iscrizione D. O. M. (Deo Optimo Maximo) IN HONOR. SANCTI JOSEPH COTTOLENGO DICATUM MXMLXXVIII CHARITAS CHRISTI URGET NOS (a Dio ottimo massimoin onore di san Giuseppe Cottolengo dedicato nel 1978. La carità di Cristo ci spinge). Come ricorda una targa in marmo apposta su una parete alla sinistra dell’ingresso nel tempio, Papa Giovanni Paolo II visitò la parrocchia il 18 dicembre 1988, incoraggiando le varie opere presenti, in particolare quella per l’accoglienza dei profughi, dei poveri e degli ex carcerati (sostenuti da un sacerdote, don Germano Greganti, che aveva preso possesso di un locale seminterrato dove in precedenza, a viale di valle Aurelia, era stata provvisoriamente allestita la chiesa parrocchiale), la “Legio Mariae”, la San Vincenzo, il Centro Olimpia “per l’animazione sportiva ai gruppi giovanili”, la Corale Lauretana, i catechisti, il Consiglio Pastorale, tutte testimonianze di una forte propensione all’associazionismo ed alla solidarietà. Il 2 dicembre 1990 si recò poi alla parrocchia di sant’Ambrogio in via Girolamo Vitelli.
I cambiamenti intervenuti
Nei due secoli passati, a pochi passi dalla città in costruzione, con le cave di argilla a cielo aperto lungo i pendii delle colline sovrastanti, a poco a poco sorse la borgata, le cui case erano costruite con gli stessi mattoni prodotti in loco. Diciotto fornaci erano dislocate nella parte centrale della Valle Aurelia. Oggi restano in piedi due sole ciminiere: della fornace Veschi, lungo via Baldo degli Ubaldi, e della fornace Pomilia, posta più all’interno, in via Gavino di Suni, e meglio conservata nel suo insieme perché riutilizzata più volte con varie destinazioni (ultimamente come tipografia). Le altre fornaci, che appartenevano a Vaselli, Bellagamba ed altri, sono del tutto scomparse.
La vita dei fornaciai trascorreva secondo ritmi di vita prestabiliti: lavoro in cava, trasporto dell’argilla, allestimento delle forme per i mattoni, asciugatura, introduzione dei manufatti nella fornace, cottura, recupero, allestimento per la consegna e l’invio e poi a casa o nelle varie osterie tipiche del luogo (famosa, fra le altre con nomi singolari, quella detta “della sposetta”), protette da pergolati di viti che riparavano dai raggi del sole gli accaldati fornaciai, i quali erano soliti spegnere l’arsura delle loro gole con abbondanti bevute di vino.
Sono plurisecolari gli utilizzi di tipo agricolo rilevabili in zona, invece la storia urbana della valle è piuttosto recente. Molto si sviluppò con la “febbre edilizia” che caratterizzò Roma capitale, a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio dello scorso secolo. Fu allora che sorsero le fornaci moderne e le prime abitazioni per i fornaciai (in gran parte d’origine veneta, come testimonia il gergo usato nel loro mestiere).
Don Luigi Guanella, proveniente dalla chiesa del Trionfale, forse su sollecitazione dello stesso papa Pio X, fu uno dei primi ad interessarsi religiosamente di quel luogo, portandovi l’annuncio evangelico nell’estate del 1905. Nel 1917 sorse anche una chiesetta, intitolata poi nel 1921 a santa Maria della Divina Provvidenza.
Molto più tardi, nel 1962, venne istituita la parrocchia con il titolo di san Giuseppe Cottolengo (la sua sede principale solo nel 1979 è stata spostata nel nuovo complesso che affianca la fornace Veschi, dopo una sistemazione provvisoria in un locale a piano terra in viale di Valle Aurelia, ora occupato da uno Studio Fisioterapico); in precedenza la sede ufficiale era stata presso la citata chiesa di santa Maria della Provvidenza in via degli Embrici 32, al centro della vecchia borgata. Fino al 2006 la parrocchia è stata retta dalla Congregazione dei Servi della Divina Provvidenza (detti Guanelliani), ma già qualche anno prima a seguito di un episodio che aveva avuto come protagonista un giovane prete era cominciata a venir meno la fiducia da parte della popolazione residente. Adesso la parrocchia è affidata al clero diocesano, che invero dà l’impressione di un minore attivismo rispetto al passato (anche a livello di oratorio ed attività sportive, un tempo abbastanza fiorenti).
Negli anni Venti del secolo scorso si trovavano nella valle un centinaio di famiglie. In seguito il gruppo andò incrementandosi. Negli anni Cinquanta, alla chiusura delle fornaci (l’ultima, la Veschi, venne spenta del tutto nel 1960), vi erano oltre duemila persone, poi ridottesi a meno di mille negli anni Settanta. Dopo il 1981 nell’area della vecchia borgata sono rimasti la chiesetta e piccoli nuclei di case ad essa adiacenti. Si era previsto di creare un parco pubblico, di cui vennero posti i primi cartelli. Ma non se ne fece mai nulla. Di fatto resta solo un ricordo nel titolo “Parco Regionale Urbano Valle Aurelia”, inglobato nel 1987 nel “Parco Regionale Urbano Pineto”.
Oggi i connotati della zona sono cambiati di molto, sono da tempo sorte nuove case popolari, vi sono numerosi insediamenti. Sono mutati anche alcuni percorsi viari: non esiste più il campo sportivo che bloccava la prosecuzione di via di Valle Aurelia verso il Pineto ed anche l’accesso a via Baldo degli Ubaldi è stato occupato da un parcheggio ad uso degli utenti della fermata della metro A e della stazione ferroviaria (entrambe denominate Valle Aurelia). Funziona ancora un altro campo sportivo di calcio, già in uso negli anni Settanta, ubicato in via Ettore Stampini 36, a ridosso delle case dell’IACP. Dal 2011 vi opera l’Associazione Sportiva Dilettantistica Nuova Valle Aurelia, nata dalla fusione fra la Polisportiva Valle Aurelia e l’Associazione Sportiva Dilettantistica “Nuova Aurelia” e promotrice di un Centro di Formazione ed Educazione Sportiva con una scuola di calcio intitolata al giocatore Giacomo Losi, ex capitano dell’Associazione Sportiva “Roma” e già direttore sportivo della Polisportiva “Valle Aurelia 87”. In anni ancor precedenti erano sorte le squadre di calcio della “Stella Rossa” (di matrice comunista), della “Valle Aurelia”, della “Libertas Valle Aurelia” (d’ispirazione democristiana), dell’Unione Sportiva Dilettantistica “Le Fornaci” (nata nel 2005 ed idealmente ricongiunta alla vecchia “Stella Rossa”).
Dalla borgata sui generis alla gentrificazione sui generis
Nel corso del XX secolo Valle Aurelia era considerata a buona ragione una borgata sui generis perché non si trovava in periferia ma in centro, non era abitata da famiglie in condizioni di povertà ma da operai delle fornaci ed altri operai ed artigiani, non era priva di luoghi di aggregazione ma fruiva di una Casa del Popolo e di una chiesa e di un complesso parrocchiale come pure di campi di calcio ed altri sport (pallavolo, pallacanestro, minibasket, ecc.), non era mal collegata con la città ma godeva di un servizio di trasposto che faceva capolinea al centro stesso del borgo o borghetto che si volesse definire, non era una delle dodici borgate ufficiali sorte nel periodo fascista ma era nata ancor prima, non era segnatamente solo un borgo per la presenza di case o baracche od altre abitazioni accostate fra loro ma non aveva neppure l’aspetto di un paese, non si poteva definire specificamente – nonostante l’uso diffuso del termine fra i suoi abitanti – una vera e propria borgata (in quanto le residenze non erano sparse qua e là sul territorio ma piuttosto compatte fra loro), non era lontana dalla città ma ne faceva parte anche se la percezione che se ne aveva era diversa (non tanto per la distanza reale in termini di misure metriche quanto per la distanza psicologica), non era infine un borghetto in quanto sebbene piuttosto raccolto come insediamento non aveva il carattere di un contesto abitativo piccolo borghese ma piuttosto proletario.
Dopo l’abbattimento delle case e delle baracche della vecchia borgata, una parte dei residenti che erano stati sloggiati è andata ad abitare nei quattro palazzoni costruiti dall’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) in viale di Valle Aurelia, dove sono ospitate, fra l’altro, sia la biblioteca di quartiere che una palestra di addestramento al pugilato. Più di recente un edificio piuttosto simile, salvo nei colori delle facciate (gialle) e degli infissi (che non sono rossi), è stato aggiunto nella medesima area (ancora seguendo una collocazione a scacchiera, come per le costruzioni IACP, al fine di non ostruire più di tanto la vista) ed accoglie anche, alla sua base, un supermercato CONAD-UPIM, che di fatto ha fugato quasi del tutto l’ipotesi, formulata qualche anno fa, di un centro polifunzionale conglobante anche la fornace Veschi e composto da un centro commerciale e un centro direzionale, per un totale di 77.000 metri cubi, servizi per 17.000 metri cubi e due piani interrati di parcheggi per 750 posti auto.
Al n. 286 di viale di Valle Aurelia è ubicata una filiale dell’Azienda Territoriale Edilizia Residenziale del Comune di Roma ed al n. 115/A una sede dell’Azienda Sanitaria Locale “Roma E”.
Molti negozi in viale di Valle Aurelia hanno chiuso i battenti. Ma altri sono subentrati con prodotti diversificati. Il commercio sembra prosperare. In diversi usufruiscono delle agevolazioni fiscali per l’avvio di nuove imprese. Forse anche per questo il turn over degli esercizi commerciali risulta accentuato.Pure il costo delle case in zona è aumentato dappertutto: si va da un minimo di 3300 euro al metro quadro ad un massimo di 4400 (stima alla data dell’11 ottobre 2015). Tra via Umberto Moricca, via Baldo degli Ubaldi e viale di Valle Aurelia è stata incastonata una residenza universitaria, quasi un corpo estraneo giacché gli studenti non hanno alcun rapporto con il contesto che li circonda ed usufruiscono di quanto necessario, compreso un bar, rimanendo all’interno dell’edificio dove abitano.
Nel 1990, in occasione dei mondiali di calcio, si era pensato ad un collegamento urbano via ferrovia con lo Stadio Olimpico. Venne usata una tratta del cosiddetto anello ferroviario o Cintura Nord di Roma. Fu realizzata una deviazione (a binario unico) della linea per Viterbo, poco oltre l’attuale viadotto, all’epoca ancora in via di completamento. La diramazione conduceva alla stazione di Vigna Clara passando sotto la galleria di Monte Mario, al cui interno si costruì una stazione Olimpico-Farnesina (o Farneto). Da quest’ultima si accedeva ad un tragitto di poco più di un centinaio di metri, con prosecuzione fuori dalla galleria verso lo stadio per altri 500 metri circa (ma per attraversare la via Olimpica fu necessario predisporre, da parte dell’esercito, un cavalcavia provvisorio). Il costo dell’intera impresa ammontò a 90 miliardi. L’utilizzo avvenne da parte di quasi 60000 passeggeri. La durata fu di 8 giorni e solo per un ridotto numero di ore. Di conseguenza il costo per passeggero risultò di circa un milione e mezzo di lire italiane.
Nel 1993 sia la stazione Olimpico-Farnesina che quella di Vigna Clara vennero poste sotto sequestro dalla magistratura. Ci fu una richiesta di rinvio a giudizio del direttore generale del Ministero dei Trasporti, di tre dirigenti generali e di due ingegneri delle Ferrovie dello Stato, del capo compartimento delle Ferrovie, del direttore dei lavori, tutti poi assolti nel 1995 per l’insussistenza del reato.
Nella stessa zona un altro intervento rilevante è stato quello della costruzione ed attivazione (nel 2000) della stazione ferroviaria di Valle Aurelia della linea Roma-Viterbo (inaugurata nel 1894). Vi opera il servizio regionale denominato FL3, su doppio binario, con collegamento urbano con Roma Ostiense e Cesano, ma anche suburbano con Bracciano e Monterotondo ed extraurbano con Viterbo. La stazione è sopraelevata. Vi si accede con scale mobili ed ascensori fino al terzo piano. Ampie vetrate, piene di scritte e graffiti, opere di artisti più o meno improvvisati, offrono viste panoramiche verso la Città del Vaticano da un lato e la Pineta Sacchetti dall’altro.
Appena dopo la stazione di Valle Aurelia la ferrovia, in direzione di Viterbo, imbocca un traforo artificiale (ultimato tra il 1994 ed il 1995), che attraversa Monte Ciocci e si dirige verso le stazioni di Roma Balduina (in galleria) e Roma Monte Mario. All’interno stesso della galleria vi è una diramazione che va verso la tratta ferroviaria (dismessa nel 1990) della Cintura Nord di Roma, non completata ed ora del tutto abbandonata: lo spettacolo che si presenta a chi vi accede è quasi spettrale, fantascientifico, perché vi è una strada asfaltata ma non è percorsa né percorribile da autovetture (che non hanno alcuna possibilità di accesso data la differenza di livello, di qualche metro, rispetto al livello stradale). Lungo il percorso sono accatastati vari pali in metallo che presumibilmente facevano parte della rete elettrica aerea per fornire energia ai locomotori. Dopo un intervallo di alcuni metri altri cumuli di materiale richiamano ad un passato di loro utilizzo provvisorio ed estemporaneo. Ma soprattutto colpisce la presenza di piloni con luci semaforiche per dare il via libera o far fermare treni fantasma, senza rotaie e senza traversine. Quella che è stata una strada ferrata è del tutto “sferrata” e quasi sterrata: una vera e propria metafora di una programmazione approssimativa e sprecona, priva di un minimo di progettualità, fosse pure a media gittata e non limitata allo spazio di qualche giro di lancetta di un orologio a brevissima scadenza di funzionamento. Sullo sfondo di questo monumento all’inutilità si ergono gli edifici delle case popolari, in cui sono stati letteralmente intrappolati gli ex residenti della borgata, impossibilitati a muoversi più di tanto perché privi di strumenti che ne facilitassero la mobilità (si pensi soprattutto agli anziani collocati agli ultimi piani). Il tutto appare assimilabile all’inanità di una ferrovia servita a pochissimi, con un vero e proprio record mondiale di brevità nella durata di un impianto ferroviario.
Se la ferrovia in disarmo costituisce un problema, fanno invece tenerezza alcune scritte che si leggono lungo i muri quasi a ridosso della chiesetta intitolata a Nostra Signora della Divina Provvidenza (un tempo sede della parrocchia): “12.9 ti amo”, “anche domani”, “salti tu salto io”, “se siamo sotto lo stesso cielo non saremo mai così distanti ti amo” ed altro ancora, con nomi vari e talune raffigurazioni a contenuto sessuale. In precedenza in quello stesso luogo, all’altezza dell’arcata di un piccolo ponte, campeggiava la scritta “Valle Aurelia ora e sempre resistenza”, apposta da un militante politico di sinistra, al tempo dell’abbattimento della baraccopoli.
Di recente Rete Ferroviaria Italiana (società per azioni al 100% di proprietà delle Ferrovie dello Stato Italiane) e Roma Capitale hanno manifestato l’intenzione di rimettere in funzione il percorso ferroviario che da Valle Aurelia, attraversando il Pineto, arriva alla galleria di Monte Mario e poi alla stazione di Vigna Clara. Il tutto dovrebbe aver luogo nel mese di giugno del 2016.
Il processo di gentrificazione
La fenomenologia della gentrificaziome (termine che deriva dall’inglese gentry ovvero persone di nascita signorile) ha una portata quasi universale perché si ritrova in varie parti del mondo, sia pure con caratteri differenziati. Anche la città di Roma ha da tempo conosciuto tali dinamiche che vedono dapprima l’acquisto di case in cattive condizioni, ma situate in zone appetibili per vari motivi (centralità, vicinanza dei mezzi di trasporto, presenza di verde). Di solito gli acquirenti sono abbastanza danarosi ma sono intenzionati più che altro a trarre notevoli guadagni dall’operazione immobiliare che mettono in atto.
In primo luogo approfittano della fatiscenza delle abitazioni per pagarle poco, comunque al di sotto del prezzo di mercato. Ma una volta entrati in possesso del bene edilizio lo ristrutturano, lo restaurano, lo rendono più pregiato con interventi migliorativi (applicando marmi, pavimenti in legno, infissi in metallo). Dopo di che procedono alla vendita dell’immobile a prezzi ampiamente maggiorati, certamente non accessibili dai precedenti proprietari o dagli appartenenti alle classi meno agiate o dagli immigrati o dagli stranieri non benestanti.
Il termine gentrificazione risale alla sociologa Ruth Glass[5], che lo propose per la prima volta nel 1964 (a partire dal caso di un distretto operaio londinese: Islington) per indicare il passaggio di case modeste da proprietari poveri ad acquirenti ricchi, favorendo così l’incremento di valore degli immobili, dopo l’allontanamento di quanti vi abitavano in precedenza. Avvenuto ciò, la trafila successiva è scontata: la struttura edilizia viene rimessa a posto, rinnovata, aumenta di prezzo, favorisce tutt’intorno la presenza di negozi nuovi ed ulteriori servizi. Insomma inizia una catena incrementale che pur riguardando pochi edifici produce profitti cospicui. Il tutto avviene senza che vi sia un’adeguata conoscenza, da parte dei precedenti possessori, delle trasformazioni messe in atto in quelle che in passato erano le loro abitazioni.
Si deve a London e Palen[6] una serie di caratteristiche tipiche della gentrificazione. La prima riguarda l’ambito demografico-ecologico: aumenta il numero dei componenti il nucleo familiare per cui le nuove generazioni si mettono alla ricerca di una residenza. Sale così la domanda immobiliare. Ma le nuove coppie sono di età più adulta ed ancora senza figli. Dunque tendono a stare in un luogo vicino al posto di lavoro, solitamente al centro della città. Da qui nasce la pressione sulle case abitate da persone più anziane, residenti da lungo tempo ed anche più bisognose di risorse economiche per le necessità in aumento con l’avanzare dell’età (assistenza, accompagnamento, acquisto di medicinali, cure mediche). Pertanto più facilmente sono costoro che cedono ad una proposta di vendita, anche se non sempre vantaggiosa. Tale situazione può avere un suo peso nel processo di gentrificazione dell’ex borgata di Valle Aurelia ma di fatto concerne più spesso una casistica affine, quella di lavoratori, immigrati e non, italiani e/o stranieri, che prendono in fitto locali comprati in precedenza da investitori immobiliari. Alla fine comunque si assiste ad un cambio della stratificazione sociale preesistente, in quanto subentrano soggetti in condizioni economiche meno precarie.
Una seconda ragione può essere culturale e riguarda il cambiamento di stile di vita della classe media e di quella medio-alta che cominciano a preferire il centro della città invece della campagna. Ed allora Valle Aurelia riesce a soddisfare entrambe le istanze urbano-rurali perché essa si trova in un’area non periferica, anzi lontana dal Grande Raccordo Anulare e piuttosto interna alla città. In tal modo si riesce ad usufruire pure di alcune condizioni strategiche come le risorse offerte dalla vita cittadina, la mobilità intraurbana, la vicinanza di luoghi prestigiosi, l’accessibilità dei locai di loisir, una larga gamma di soluzioni per il tempo libero.
Un terzo motivo è di ordine politico-economico. Si registra una propensione ad occupare gli spazi centrali o intermedi del tessuto urbano, anche grazie al venir meno di pregiudizi nei confronti dei nuovi arrivati in quartieri centrali. Pure nel caso di Valle Aurelia si può presumere che da parte dei residenti nelle Case Ciardi sia visto positivamente il cambio di stato sociale degli abitanti dell’ex borgata, non più proletari, sottoproletari, lavoratori precari, disoccupati, manovali, facchini, ex fornaciai. Insomma la gentrificazione in corso rende più omogenea la popolazione che risiede all’interno alla valle con quella che vive ai suoi margini, lungo le pendici delle colline cretacee, a nord ed a sud.
In tal maniera risulta eliminata, dal centro città, l’eccezione di un insediamento operaio o non particolarmente privilegiato economicamente, giacché le classi sociali dei nuovi proprietari e dei nuovi inquilini tendono a coincidere o quasi. Di riflesso la gentrificazione si allarga alle zone circostanti e non consente immissioni di altro genere, che interromperebbero l’attuale continuum socio-economico-territoriale. Va però detto che qualche intervistato di Case Ciardi ricorda con nostalgia i tempi dei vecchi borgatari.
Il trasferimento a Valle Aurelia inoltre può anche attribuirsi alla carenza di appartamenti disponibili nella cintura periferica o più o meno adiacente alla corsia interna del raccordo stradale che circoscrive l’urbe. Nel contempo sono altresì lievitati i costi degli immobili. Tutto questo insieme di andamenti può sembrare casuale ma di fatto non lo è perché deriva pure da una scarsa attenzione alla pianificazione dello sviluppo urbano. Oppure l’amministrazione municipale non si è preoccupata del deterioramento dei nuclei abitati al centro della città e li ha lasciati deperire favorendo, consapevolmente o meno, il successivo intervento speculativo, cioè l’incameramento dei beni edilizi ed in seguito la loro rivendita con incrementi significativi rispetto al prezzo di mercato. Detto altrimenti, quando si capisce che una certa area può produrre guadagni si fa di tutto per spostarne gli abitanti altrove e quindi sopravvenire per trarne profitti notevoli.
Come quarto riferimento c’è la dimensione comunitaria, perduta o salvata. Nel caso di Valle Aurelia è ovviamente chiusa l’esperienza della borgata dei fornaciai. Né è andato a buon fine il tentativo di salvarla con il trasferimento di un certo numero di famiglie borgatare nelle quasi limitrofe case popolari dell’omonimo Istituto. Semmai sono stati gli stessi ex borgatari, in qualche misura, a ricreare lo spirito e la solidarietà del passato istituendo un “Punto d’incontro” di fronte agli edifici dell’IACP.
Quello che è svanito è però proprio il vicinato di borgata, insieme con la mutua frequentazione quotidiana (anzi più volte nella giornata). L’interazione si è ridotta ad un breve saluto di circostanza. Le stesse attività del “Punto di incontro” non riescono a supplire la mancanza di relazionalità intersoggettiva. L’appartenenza ad una comunità non significa quasi più nulla. Né è subentrata un’altra appartenenza di tipo cittadino, di quartiere, di parrocchia, di partito o di altro. In fondo la presenza di nuovi vicini non è motivo di rivitalizzazione, giacché non c’è a monte una esperienza convissuta come quella unica ed ormai non ripristinabile di via dei Laterizi, di via della Ceramiche, di via delle Campigiane e così via. Chi abita adesso in queste strade difficilmente conosce il passato del contesto in cui, forse casualmente, si trova ad abitare od esercitare un’attività.
Da ultimo occorre prendere in considerazione l’ambito dei movimenti sociali. Valle Aurelia ne ha visti diversi e taluni di qualche impatto nella storia romana. Senza volere mitizzare personaggi ed episodi è tuttavia indubbio che in borgata vi è stato un rimarchevole trend socio-politico di sinistra, segnatamente con l’azione del Partito Comunista Italiano. Si ricordano nomi ricorrenti di famiglie impegnate nella militanza politico-sindacale, anche fra le donne. Non sono mancati leaders che hanno difeso strenuamente gli interessi dei fornaciai e dei borgatari.
Lo scontro ideologico è avvenuto con il fascismo dapprima e con il partito democristiano poi, in una realtà largamente connotata da un’adesione agli orientamenti della sinistra. Non si può certo dire che vi sia adesso una solida continuità con il passato. Non è emersa una nuova élite nei partiti progressisti. L’opposizione al governo nazionale ed all’amministrazione cittadina non conosce le manifestazioni di qualche decennio fa, i cortei, le proteste, gli scioperi.
Le stesse istituzioni sono presenti in modo quasi larvato, assopito, dunque con scarso peso. Fatta eccezione per la biblioteca comunale, frequentata ed efficiente, non si segnalano altre sedi influenti in modo percettibile sulla vita sociale a Valle Aurelia. In definitiva pare mancare un’animazione socio-politico-culturale incisiva. Di conseguenza sembrano venute meno le spinte utopiche dei “vallaroli” della borgata. Non si assiste a movimenti ed azioni anti-potere: anche questo è un frutto della gentifricazione che pare appiattire ed annientare ogni tentativo di innovazione e di solidarietà sociale.
Un altro approccio alla gentrificazione è suggerito da Smith e Williams[7], che prendono in esame cinque processi. Il primo chiama in causa l’espansione urbana, dovuta alla ricerca di profitto da trarre da terreni a basso costo. Ciò comporta un abbassamento di prezzo dei suoli nella parte centrale della città, in particolare in relazione ad edifici maltenuti perché abitanti da soggetti indigenti o non in grado di provvedere ai restauri necessari. Né vi provvedono i proprietari perché non hanno alcun interesse a farlo. Dunque la rendita fondiaria si riduce e comunque risulta inferiore a quella potenzialmente ricavabile in considerazione della centralità dell’immobile nell’ambito cittadino.
In proposito viene avanzata la teoria del Rent-gap ovvera della differenza di reddito, la quale si basa sul fatto che esiste un divario fra la rendita capitalizzata di un terreno o di un immobile e le sue possibilità di maggiore reddito in base ad un uso diverso. Detto altrimenti ed in modo chiaro per il caso di Valle Aurelia il proprietario d un terreno o di una casa non spinge per il mantenimento dello status quo ma auspica che la sua proprietà abbia una destinazione diversa. Dunque è conveniente allontanare i residenti per poi ricavare ben di più da una risistemazione dell’immobile da offrire sul mercato, ottenendo redditi ben maggiori dei precedenti. Ovviamente l’intervento avviene quando la differenza fra reddito percepito e reddito percepibile raggiunge un sufficiente livello di convenienza per iniziare l’opera di esproprio o di recupero del bene.
Un secondo motivo della gentrificazione è collegabile ai processi di deindustrializzazione. A Valle Aurelia la chiusura delle fornaci negli anni Sessanta ha segnato l’inizio della fine della borgata. E successivamente ha offerto l’occasione agli investitori immobiliari di far uso del Rent-gap. Venuto a mancare il lavoro nelle fabbriche di mattoni attorno al Vaticano, si è ridotta la consistenza della classe operaia nella capitale. E dunque anche la possibilità di riparare le case è stata inficiata per mancanza di risorse economiche, dovuta alla disoccupazione. A questo punto sono subentrati i detentori di capitale per far fruttare meglio la rendita delle aree industriali dismesse, comperate a prezzi convenienti e fatte fruttare poi con adeguati riaggiustamenti.
La terza maniera della gentrificazione si sviluppa con la globalizzazione, che di solito prevede sedi gestionali al centro delle città. Poiché tale opzione è condivisa dalle società a carattere sia nazionale che internazionale sono esse stesse che favoriscono una centralizzazione delle strutture decisionali, anche per agevolarne la comunicazione fra loro. Dunque si riscopre l’importanza dei centri urbani, verso i quali si convogliano flussi di nuovi abitanti, i quali vanno a sostituirsi ai precedenti e tendono a gentrificare spazi altrimenti adibiti a residenze di famiglie di operai o di lavoratori tuttofare, non specializzati.
La vicinanza ai vertici operativi diventa alla fine necessaria per ridurre i tempi delle scelte da implementare. In pratica sono i colletti bianchi a sostituirsi ai colletti blu. Probabilmente non è esattamente questo il caso di Valle Aurelia ma i processi di gentrificazione sono in atto nel loro insieme e stanno cambiando la composizione sociale della zona.
Nella gentrificazione, come quarto elemento teorico, è importante la tempistica di realizzazione. Dopo lo sfruttamento massiccio delle aree periferiche è cominciato il declino del capitale in termini di profitto. Si è perciò pensato ad investire al di fuori dell’ambito industriale. Da qui nasce il ricorso al già citato Rent-gap, che consente al capitale di recuperare il perduto e di reinvestire.
Infine, come quinto approccio, si fa riferimento all’inserimento delle donne nell’ambito delle forze di lavoro, ai mutamenti intervenuti nel matrimonio, nella famiglia, nell’educazione dei figli, elementi che tuttavia non sono alla base della gentrificazione, semmai la mostrano, la rendono evidente. Nel caso di Valle Aurelia questa forma di gentrificazione riguarda maggiormente i residenti di Case Ciardi e degli edifici IACP, non invece il vecchio insediamento della borgata.
Coloro che adesso vivono negli edifici superstiti della vecchia borgata hanno compiuto una scelta tipica dei processi di gentrificazione: non contenti delle caratteristiche offerte dal nuovo modello di urbanesimo hanno preferito un insediamento old fashioned e che desse lustro, godendo altresì di spazi e di verde in misure non consentite altrove, né economicamente attingibili. Nel caso poi specifico della valle i nuovi arrivati pagano lo scotto dell’assenza di negozi ed altri servizi, ma tutto ciò è facilmente superabile perché, ad un minuto di macchina o poco più, l’area d’incrocio fra viale di Valle Aurelia e via Baldo degli Ubaldi offre ogni sorta di possibilità per acquisti e riparazioni, ristorazione e divertimento. A ciò si aggiunge la convenienza di avere a disposizione molte possibilità di parcheggio davanti casa, se non in garage, o all’interno degli ampi spazi verdi di proprietà privata.
Interessa la valle anche una nuova corrente immigratoria, italiana e straniera, di lavoratori a basso reddito che vi trovano alloggio, a breve distanza dal posto di lavoro, svolto solitamente al servizio di classi medio-alte, che necessitano di varie attività di supporto.
La nuova composizione sociale nell’area che fu già della borgata è variegata: si va dal proprietario di villa con molte stanze ed ampi giardini all’affittuario che paga la sua pigione mensile di varie centinaia di euro (secondo l’ampiezza dello spazio che occupa). Ma vi sono anche proprietari di villette ed appartamenti che godono del privilegio di strutture abitative solide e sicure, in un contesto tranquillo e senza particolari pericoli di subire azioni criminali contro le persone ed il patrimonio.
Una siffatta condizione si situa socialmente entro un livello tendenzialmente medio all’interno di una stratificazione urbana articolata e differenziata. Attualmente è dato verificare che gli estremi della divisione in classi sociali non sono rilevabili in zona. Dunque non vi risiedono famiglie particolarmente ricche e neppure segnatamente povere. Insomma sia la situazione di fatto che quella di immagine sono cambiate radicalmente. Ma permane così la constatazione che la città è al tempo stesso un indicatore ed un mezzo della stratificazione in classi. Risulta inoltre un’incapacità costante da parte della città di ridurre le distanze sociali e di sostenere adeguatamente coloro che soffrono maggiori disagi abitativi ed esistenziali.
Riassumendo si può dire che la gentrificazione è causa ed effetto insieme di vari fenomeni: spostamento di gruppi di cittadini soprattutto anziani, poveri ed appartenenti a minoranze o in transito che non riescono a pagare né le tasse né i costi di ristrutturazione, aumento del reddito dei proprietari terrieri ed immobiliari, riduzione del numero delle case a prezzi accessibili sia per l’acquisto che per il fitto, mobilità e turn over delle strutture commerciali, perdita (o, meno spesso, aumento) della dimensione comunitaria[8], incremento dei conflitti sociali, aumento della pressione sulle aree abitative più povere per adibirle a nuovi investimenti immobiliari, aumento dei prezzi delle case, rientro in possesso dei beni immobili di proprietà anche grazie all’intervento statale, riduzione delle presenze commerciali e dei servizi, aumento (ma non sempre) del mix abitativo fra diverse classi sociali, presenza di famiglie con introiti differenziati per provenienza (lavoro in proprio, artigianato, attività impiegatizia, ristorazione, piccola e media industria), spinte verso ogni forma di sviluppo, incentivazione degli interventi di ristrutturazione, decrescita della criminalità, aumento del reddito fiscale, riduzione del numero di case inabitate o sfitte, aumento del mercato nero delle abitazioni (con contratti non registrati ed atti giuridicamente impropri e somme di denaro pattuite oralmente e consegnate brevi manu)[9].
Intanto i nuovi residenti, fra cui una certa quota di auto-imprenditori e di donne sole, si caratterizzano per modelli di consumo più dispendiosi rispetto ai precedenti abitanti e prendono insieme adeguate misure nel caso di incremento del vandalismo e della criminalità in loco.
In termini di stratificazione sociale vi è un’altra considerazione abbastanza pertinente: la gentrificazione ha come effetto l’allontanamento della classe operaia dal centro della città. Il processo si ripete in varie parti del mondo ma resta identico: si disinveste nelle attività site nei centri urbani e si delocalizza verso la periferia. Le strutture senza più alcuna possibilità si deprezzano ed a poco a poco cadono in rovina (esattamente come è successo con la fornace Veschi, ancora recuperabile negli anni Settanta con il suo ciclo continuo di cottura dei mattoni, ma oggi ridotta ad un cumulo di macerie, di cui si regge solo in piedi la ciminiera, la quale si è conservata sinora per il semplice fatto che non è possibile prelevarne alcun mattone senza correre rischi gravissimi di crollo). Nel frattempo però il territorio circostante è ritornato ad essere sfruttabile come terreno edificabile ed il precedente tessuto abitativo è stato riabilitato in pieno e reso più attraente, sia per ragioni di vetustà che comunque nobilita sia per motivi topografici (rimane pur sempre come il conclamato downtown, largamente preferibile a qualsiasi periferia).
Il capitalismo fondiario-immobiliare ha tutto da guadagnare da un andamento di gentrificazione. Si costruiscono nuove case, quelle più antiche vengono trasformate in beni di lusso, lo spazio industriale diviene un misto lavorativo-residenziale (connotato invero già rilevabile nella borgata dei fornaciai, che avevano casa e bottega o fornace in stretta continuità spaziale), nuovi insediamenti occupano gli spazi finalmente disponibili (per impiantare ristoranti, negozi, bar, boutiques). Le precedenti classi sociali vengono destabilizzate, le culture preesistenti subiscono contraccolpi pesanti, i meno abbienti sperimentano un processo di ulteriore marginalizzazione. Intanto avanza il nuovo sistema FIRE (Finance, Insurance and Real Estate), il nuovo fuoco che brucia e riduce in cenere il pregresso, per lasciare spazio ai profitti finanziari, assicurativi ed immobilari.
In Italia si sarebbe potuto pensare che dopo l’estinguersi del cosiddetto miracolo economico degli anni Sessanta non ci fosse più spazio per i “palazzinari” della Rona del dopoguerra. Ed invece sotto nuove forme lo sfruttamento edilizio è riapparso ed ha avuto ragione di un insediamento secolare come quello di Valle Aurelia. Insomma le classi più ricche e quelle della borghesia medio-alta si sono riprese il centro della città (secondo il modello di Burgess[10] sulla città a cerchi concentrici), anche in un contesto che in precedenza non era neppure pensabile potesse essere utilizzabile per fini speculativi.
Lagentifricazione di Valle Aurelia
Come già avvenuto per lo sviluppo urbano di Chicago, oggetto di studio della cosiddetta Scuola di Chicago, anche nel caso di Valle Aurelia l’apertura di una stazione ferroviaria ha rappresentato un vero e proprio volano per la trasformazione della zona, in misura così evidente che quasi immediatamente l’area circostante è divenuta più appetibile residenzialmente, come mostra anche l’apertura di una sede per gli alloggi destinati a studenti universitari. Ma il cambiamento più significativo sociologicamente concerne la progressiva ed ormai inarrestabile gentrificazione della Valle Aurelia, un tempo abitata prevalentemente da fornaciai e poi da operai più o meno specializzati. Questo salto di qualità riguarda anche l’aspetto esteriore delle abitazioni, specialmente laddove si trovava la borgata, fatta di case fatiscenti ma anche di manufatti nient’affatto disprezzabili e comunque piuttosto resistenti. Ora i borgatari si sono trasferiti nelle case popolari di viale di Valle Aurelia, nei quattro grandi edifici dagli infissi rossi, oppure ancora più lontano, in altri quartieri romani più o meno periferici.
La costruzione della nuova stazione ferroviaria sopraelevata ha separato ancor più, paradossalmente, l’abitato della Valle dal resto della città. Infatti l’accesso diretto da via di Valle Aurelia a via Angelo Emo è stato bloccato da un piccolo parcheggio, angusto (per non più di 26 autovetture), dove è persino arduo far manovra. Pure l’altro capo della via è senza sbocco, verso l’area verde sottostante la Pineta Sacchetti, cui è impossibile accedere con mezzi di locomozione perché una sbarra impedisce il transito per il tratto terminale del percorso, mentre un’ulteriore sbarra non consente di entrare nella parte più verde dell’intera valle, fra la Balduina ed il Policlinico Gemelli.
Quasi sul limitare della zona abitata insistono diversi edifici rimodernati di recente, segnatamente diversificati rispetto al loro aspetto anteriore. Adesso si è di fronte a residenze che appaiono di buon livello, preziose in un contesto verdeggiante tutt’intorno ed invero a pochissimi minuti da piazza san Pietro. Le facciate risultano completamente restaurate, con uso di materiali pregiati. Gli interni sono costituiti da abitazioni private, da piccoli e grandi appartamenti, ed anche da camere d’albergo. Invero sin dagli anni Settanta una residenza denominata “Magnolia” aveva aperto i battenti a qualche centinaio di metri dall’insediamento dei fornaciai, quasi anticipando quello che sarebbe stato il futuro della zona. Le offerte di ospitalità attraverso Internet sono varie e si presentano come abbastanza appetibili per la tranquillità e la silenziosità dell’ambiente, ma pure per la felice collocazione nei pressi della ferrovia e della metropolitana. Quest’ultima, inaugurata il 29 maggio 1999, passa appena sotto il cavalcavia ferroviario. Entrambe le stazioni si denominano Valle Aurelia e sono assai frequentate, specie nelle ore di punta, intorno alle otto del mattino ed alle cinque del pomeriggio, allorquando il via vai è più intenso e l’attività commerciale dell’unico negozio presente in zona diventa più frenetica per le code di clienti che si formano per l’acquisto di biglietti e tabacchi, giornali ed altri generi, nonché per la ricevitoria dell’Enalotto e per la possibilità di effettuare vari pagamenti in rete.
Qualche tempo fa si sono registrate denunce dei cittadini ed inchieste radio-televisive per le condizioni disastrose dell’insieme delle due stazioni, degli accessi, degli ascensori, delle scale mobili, dei percorsi lungo le tre rampe di scale che portano alla stazione ferroviaria, posta al terzo piano del cavalcavia. Ne danno testimonianza anche un video de ilfattoquotidiano.it, un resoconto dello stesso giornale, a firma di Paola Mentuccia (in data 8 marzo 2014)9, il blog dal titolo Romafaschifo ed anche Youtube con Welcome to favelas (“Valle Aurelia… che tristezza”, datato 7 dicembre 2007, con oltre tremila visualizzazioni). In realtà le condizioni delle stazioni di Valle Aurelia non differiscono di molto da quelle delle altre stazioni ferroviarie della cintura urbana di Roma e del sistema delle tre linee della metropolitana. Si è anche parlato di furti continui di portafogli che verrebbero poi abbandonati privi del denaro ma non dei documenti. Anche su questo è difficile effettuare verifiche quantitative, per la carenza di denunce formali alle autorità di polizia.
Un testimone privilegiato di quanto avviene nella zona di confluenza delle due stazioni è il giornalaio, che da mattina a sera tiene aperta la sua edicola per gli avventori di passaggio, che comprano anche bibite tenute al fresco in un frigo in bella mostra. Altri locali vuoti affiancano l’edicola ma sono in stato di abbandono, così come un piccolo giardino pieno di erbacce e separato da una struttura metallica, in pessime condizioni e mai sottoposta a manutenzione.
Un doppio locale è adibito ai servizi igienici con una semplice indicazione di WC1 e WC2, dunque senza l’abituale distinzione di genere. Un altro locale è destinato all’uso da parte di portatori di handicap. C’è pure un lavabo. L’uso dei gabinetti è però a pagamento: 0,50 centesimi di euro per l’accesso, ma senza resto. Occorre disporre del contante esatto.
Per raggiungere o lasciare la stazione ferroviaria di Valle Aurelia ci sono scale mobili sia in salita che in discesa, ma non sono sempre tutte in funzione. Il che costituisce un grave problema specie per gli anziani e per chi ha bagagli od altri oggetti da trasportare. Ma soprattutto rappresenta una brutta sorpresa ritrovarsi al secondo od al terzo piano con le scale mobili guaste. Ci sono ascensori non molto capienti e non tutti a disposizione del pubblico. Alcuni funzionano solo con chiave, verosimilmente a disposizione solamente del personale di stazione, che però non c’è. Sorge persino il dubbio se siano o meno in funzione. Una piantina in alfabeto Braille per non vedenti è affissa ad una parete ma risulta deturpata e di fatto poco leggibile. Vi sono accessi lungo via Angelo Emo e via Baldo degli Ubaldi.
In molte parti della struttura è percepibile un’incuria accentuata: cespugli di vegetazione spontanea, terreni incolti, sporcizia, scritte varie che imbrattano le pareti sino ai punti meno accessibili del cavalcavia. Notevole è la presenza di zanzare ed altri insetti anche piccolissimi e quasi invisibili, a causa dei numerosi focolai di un ambiente abbandonato a se stesso. Il servizio di pulizia è attivo solo nella parte pertinente alla stazione della metropolitana.
Alla base di un pilastro del cavalcavia ferroviario, sul lato che dà verso la fermata degli autobus che provengono dalla zona Prati, in una piccola nicchia rotonda, qualcuno ha collocato un’immagine di san Pio da Pietrelcina. Dinanzi sono posti dei fiori freschi di campo. La collocazione è in bella vista e pare quasi una sorta di buon viatico per chi si accinge a viaggiare. L’uso dello spazio parrebbe improprio ma evidentemente l’immaginario popolare non conosce limiti e non si preoccupa di dover rispettare qualche norma. D’altro canto nessuno ha pensato di rimuovere l’icona, che non crea particolare fastidio ed anzi assume anche una funzione apotropaica.
Sono due i parcheggi ai lati del cavalcavia ferroviario. Quello tra via Angelo Emo e via Anastasio II, retrostante un distributore di benzina IP e servizio di autolavaggio, è più ampio e dunque capiente, mentre l’altro prospiciente la valle ha dimensioni ridottissime, tanto da sollevare il dubbio sull’opportunità e sulla convenienza di tagliare ancora più l’insediamento di Valle Aurelia dal resto della città, ostruendo e troncando la strada preesistente (via di Valle Aurelia). Gli autobus fermano proprio accanto ai parcheggi. Sono il 490 ed il 495 che permettono il collegamento con la Stazione Tiburtina. Vi si ferma anche l’autobus notturno n. 1. Invece lungo via Anastasio II c’è la fermata dell’autobus n. 31 che porta a piazzale Clodio ed alla stazione Laurentina, del n. 33 che va pure a piazzale Clodio e Largo Lenin, del n. 180 corsa espressa festiva che conduce a via Dalla Chiesa ed a via Mazzacurati, del n. 247 che giunge alla stazione Metro Cipro ed alla stazione Aurelia. Creano inoltre problemi gli attraversamenti pedonali di via Angelo Emo e soprattutto della cosiddetta via Olimpica, dove per poter raggiungere l’ingresso del “Parco Pubblico di Monte Ciocci”, inaugurato il 15 luglio 2013 ed aperto anche d’inverno (dalle 7 alle 19), situato vicino ad un altro distributore di benzina della IP, occorre fare qualche centinaio di metri prima di trovare strisce pedonali ed un semaforo sulla via Anastasio II.
Il parco di Monte Ciocci
La valle godrebbe, dunque, di un’altra risorsa, costituita dall’allestimento del “Parco Pubblico di Monte Ciocci” come area verde, recintata, munita di cancelli, tranquilla, accessibile al pubblico ed attrezzata con uno spazio circoscritto da rete metallica e riservato a giochi per bambine e bambini (giostre girevoli, una piccola teleferica, un mini-castello, scivoli, alcune strutture ondulate di colore azzurro, qualche altalena, un piccolo casotto a misura dei minori, alcune strutture coperte con tettoia). Ci sono diverse panchine, un piccolo teatro all’aperto (vicino ad una fontanella), una pista ciclabile doppia e color ocra, che conduce a via Proba Petronia incuneandosi fra via Armando Di Tullio (che incontra via Cesare de Fabritiis in discesa e porta dov’era la borgata di Valle Aurelia) e via Decimo Laberio in direzione di largo Apuleio, un percorso pedonale parallelo ed abbastanza largo, vari “nasoni” di acqua potabile dislocati lungo un percorso asfaltato di colore grigio riservato ai pedoni, spiazzi panoramici, luoghi predisposti per fare esercizi fisici. Recinzioni e cancelli racchiudono tutto l’insieme del parco, che fu aperto il 27 ottobre 2013 (come recita un cartello). Gli abitanti della Balduina (con un accesso agevole e quasi in piano e diverse palazzine che si affacciano direttamente sul parco) più di quelli di Valle Aurelia (da cui si accede mediante numerosi scalini – con mancorrenti ed illuminazione a lampioni – o da una rampa asfaltata, superando un dislivello di non poco conto) usufruiscono in pieno del verde di Monte Ciocci (che quasi costeggia per un tratto la ferrovia Roma-Viterbo), vi vanno a passeggiare, pattinare, fare jogging, sdraiarsi, prendere il sole, giocare a carte, fare picnic, chiacchierare con altri residenti, starsene in silenzio seduti su una panchina, ammirare il tramonto, osservare i tanti animali, in particolare ovini, che pascolano o starnazzano in una parte del parco (che ha assunto il carattere di una vera e propria fattoria, con tanto di pastori, allevatori, nonché autocarri, autovetture, pulmini, roulottes, piccola gru, trattori, macchine agricole, strumenti vari per l’agricoltura, stazzi, pollai, stalle, strutture abitative con antenna televisiva e parabola, il tutto debitamente recintato). Specialmente le capre pascolano ovunque e talora creano problemi anche nelle due stazioni di Valle Aurelia, com’è accaduto il 14 giugno 2015 allorquando una di esse si è arrampicata su una tettoia, per cui è stato necessario l’intervento dei Vigili del Fuoco per riaffidarla ad un pastore. Insomma a due passi da piazza san Pietro e con la vista del cupolone si è in piena campagna. Questa convivenza fra aspetti così diversi della capitale fa dell’insieme Valle Aurelia-Parco di Monte Ciocci un unicum nell’intero territorio comunale di Roma. Ma occorre dire che i residenti della valle non sentono il Parco di Monte Ciocci come qualcosa che appartiene loro, nonostante l’esistenza di un accesso diretto (attraverso la stazione di Valle Aurelia) che fa risparmiare molti scalini da salire. Dunque sono piuttosto gli abitanti della Balduina che apprezzano maggiormente e sentono proprio il verde di Monte Ciocci.
Da quest’ultimo, ricco anche di piccole piante cespugliose ed alberi plurisecolari (specie pini e cipressi), si vedono l’Osservatorio Astronomico di Monte Mario ma anche l’Hotel Hilton e l’antenna-ripetitore di segnali radio-televisivi, nonché lo Stadio Olimpico. La vista arriva sino ai Colli Albani.
Su Monte Ciocci è collocato un istituto agrario che verosimilmente riutilizza la colonia agricola voluta da don Guanella agli inizi del Novecento, fa largo uso di serre agricole ben tenute e dispone di alcuni piccoli campi sportivi polifunzionali (pallavolo, pallacanestro, calcetto, ecc.). Nei pressi è disponibile anche una fontanella.
Nel parco, percorribile anche in bicicletta, c’è qualche manufatto abbandonato. In punti strategici e ben visibili, sul lato che dà verso piazzale Clodio e lo stadio Olimpico, si leggono scritte varie a caratteri cubitali: “e tra le nuvole dove ci si arrampicano gli dei ed ho visto che ci sei…”. “forever in my mind only you”, “hai visto il cielo sopra Roma e hai visto quant’è bello”, “ho iniziato a vivere da quando ti ho incontrata”.
La nuova Valle Aurelia
Lungo il lato nord del cavalcavia, appena dopo il parcheggio minore che ha interrotto via di Valle Aurelia, è stato creato uno spiazzo sufficiente a permettere la conversione degli autobus dell’ATAC, i quali vi fanno capolinea con la linea 906, che porta dalla stazione Valle Aurelia fino a Casale Lumbroso. Due bagni ecologici “TOI TOI” di nuova concezione sono a disposizione dei viaggiatori o degli autisti che vi fanno sosta prima di riprendere le corse. Più in là, sulla destra verso l’interno della valle, due brevi rampe conducono ad un magazzino di materiali da costruzione: Edil Valle Aurelia.
Via di Valle Aurelia conserva la vecchia pavimentazione fatta di sampietrini, le piccole pietre a forma di cuneo in uso anche in piazza san Pietro e presenti nella parte di pavimento che corrisponde all’ingresso nella chiesa parrocchiale intitolata a san Giuseppe Cottolengo. I due lati della strada presentano una folta vegetazione, che nessuno cura. Sono poche le macchine parcheggiate. Questo prova ancor più l’inutilità della chiusura della via per far posto ad un risicato parcheggio. In effetti ben oltre 26 macchine avrebbero potuto parcheggiare lungo via di Valle Aurelia. Sulla sinistra c’è il “Centro anziani” comunale, che dispone di quattro locali, uno dei quali non è agibile per infiltrazioni d’acqua, un altro è adibito ad ospitare gli appassionati dei giochi di carte, un terzo serve per la scuola di ballo ed un quarto è disponibile per altre attività: quasi non si riconosce lo spazio occupato dalla vecchia scuola elementare, bonificata dell’amianto ed anch’essa non più in funzione in loco ma trasferita a via Giacinto De Vecchi Pieralice, mentre per la scuola media si fa riferimento ad un istituto di piazza Pio XI.
Uno spazio successivo, ancora a sinistra, è utilizzato per riparare le carrozzerie di automezzi e fornire altri servizi automobilistici (soccorso stradale, vetture di cortesia, ecc.). Ad un certo punto la strada è sormontata da un cavalcavia ferroviario appartenente alla tratta ora abbandonata che collegava la stazione di Valle Aurelia con lo Stadio Olimpico. All’ingresso di uno dei cancelli, sempre sulla sinistra, una figura di aquila in pietra resta testimone di un passato forse glorioso. Lungo il medesimo lato, c’è un cancello chiuso ma verosimilmente non in uso.
Sulla destra all’altezza del numero civico 100 di via di Valle Aurelia c’è una palazzina condominiale. Vicino, al numero 98a, si trova un casotto in cui, come si deduce da una piccola scritta all’ingresso, era allocata una falegnameria.
Tornando sul lato sinistro, al numero 29 c’è un garage all’aperto. Al numero 31 c’è un deposito di masserizie varie, lamiere, manufatti in legno.
Al numero 116 c’è la residenza “Magnolia”, che si presenta in ottimo stato ed ha una facciata adorna di numerose bandiere di vari paesi.
Poco dopo, lungo il medesimo lato, si vede quella che un tempo funzionava come Casa del Popolo (in via di Valle Aurelia 37), adattata da un preesistente lavatoio, ora occupata da famiglie di immigrati che hanno anche ampliato lo spazio coperto mediante un telone ed una piccola tenda. Dinanzi ad essa è stata posta una “pietra d’inciampo”, che ricorda il fornaciaio anarchico Alberto Di Giacomo (1886-1944) deportato a Mauthausen.
Al piano terra delle Case Ciardi, a partire dal civico 126 e fino al n. 134, erano attive varie attività commerciali, qualche decennio fa. Per esempio proprio al n. 126 ancora si leggono alcune scritte: “olio d’oliva”, “olio di semi”, “aceto di vino”, “margarina”, “formaggio”, ecc., che indicavano la presenza di un negozio di alimentari. Ora molte saracinesche sono chiuse: gli interni appaiono vuoti. Ma qualche locale ha cambiato destinazione d’uso: per esempio è divenuto un laboratorio odontotecnico. Si riconoscono alcuni uffici non meglio identificabili. Più avanti c’era l’esercizio di un bar. Anche il meccanico di auto al n. 130f è andato via, lasciando il posto ad un ufficio. Al n. 132 c’è l’ufficio di una ditta di lavori edili per ristrutturazioni e restauri di edifici monumentali. Come soggiunge un intervistato residente a Case Ciardi, “è cambiato tutto”. E poi indica le case della vecchia borgata: “ora le stanno a ristrutturà. Prima hanno cacciato via quelli che c’erano”. E ricorda il continuo avvicendarsi di persone e famiglie che in passato occupavano quelle medesime case e poi riuscivano a farsi assegnare altre abitazioni. Precisa anche che un costruttore le ha comprate e risistemate per rivenderle. Una tale operazione, non certo abusiva e dunque regolarmente autorizzata, è ancora in atto, come si può notare dalle impalcature e dai lavori in corso. L’intervistato cita anche un ex borgataro che gli ha detto: “ma come? Io stavo lì dentro… io c’ho un pezzo di casa lì, che era la mia, che me la son fatta da solo, m’hanno cacciato via e mo’ se la son venduta loro”. Lo stesso intervistato non manca, infine, di formulare un giudizio sintetico sui borgatari. “erano brava gente”. Intanto in lontananza s’intravedono alcune baracche, quasi ultima reminiscenza della borgata, proprio al disopra della dismessa ferrovia Valle Aurelia-Vigna Clara.
In via dei Laterizi sussistono ancora una fontana ed una struttura a forma di torre, che è ben restaurata e trasformata in villino: nel 1981 venne risparmiata dalla ruspa, insieme con molte altre case, che ora risultano ottimamente ristrutturate e più che dignitose. Soprattutto gli interni sono abbastanza curati. Gli spazi tutt’intorno sono ampi e ripuliti. Un edificio della medesima via funge da residenza, tipo bed and breakfast, per ospiti temporanei. Appositi uffici ne regolano l’afflusso. Il cortile interno è abbellito da molte piante, che adornano anche i balconi che vi si affacciano. All’intorno non esistono problemi di parcheggi: gli spazi disponibili sono più che sufficienti.
Insomma non c’è la baraccopoli di un tempo ma un piccolo, grazioso villaggio. Anche davanti alla chiesetta esiste un grande spiazzo, all’incrocio fra via degli Embrici e via dei Laterizi. Soprattutto però via delle Ceramiche, in particolare nella parte che si inerpica verso la Pineta Sacchetti, è divenuta una zona con molto verde, muri ben intonacati e variopinti, talora arricchiti con marmi e pietre pregiate, come nella casa che fa angolo con via di Valle Aurelia.
Sempre lungo via delle Ceramiche, al numero 56, s’incontra un cancello in ferro battuto con grandi lettere iniziali (probabilmente del nome e cognome del proprietario), una telecamera di sorveglianza, un cartello con la scritta “proprietà privata”. Insomma c’è da restare esterrefatti dinanzi ad un cambiamento così radicale da non lasciare nemmeno immaginare che qualche decennio fa fosse una zona abitata da gente misera, povera. La differenza maggiore è semmai la dominanza di un silenzio diffuso, quasi l’area fosse disabitata. Ci sono anche alberi da frutta, a beneficio dei residenti. Qua e là c’è qualche annuncio di “vendesi” ed “affittasi”. Invero i residenti sono tutti rinchiusi nelle loro magioni e si rendono visibili solo quando ne escono o vi ritornano. Assai diversa era l’atmosfera nel medesimo ambiente agli inizi della seconda metà del secolo scorso: vi ferveva un’intensa attività fatta soprattutto di scambi interpersonali, di incontri continui, di schiamazzi di fanciulli e fanciulle nelle stradine fra le baracche, di un vociare senza sosta. Un intervistato, alla metà degli anni Settanta, parlava dei suoi dirimpettai come se non ci fossero muri e porte, strade e cancelli. La vicinanza, la prossimità, la dimestichezza, la frequentazione erano esperienze quotidiane, diffuse e comuni, nonostante i disagi abitativi, la mancanza di acqua nelle case, l’umidità degli ambienti, la fatiscenza delle pareti e dei tetti.
Ancora lungo via delle Ceramiche, al suo termine, al n. 91, la strada è interrotta da una villa con videosorveglianza e garage. Nella parte bassa e più pianeggiante della medesima strada si accede ad un giardino, denominato enfaticamente da un cartello come “Parco del Maresciallo”, chiuso da un cancello ma di uso pubblico ed al cui interno si ritrova una fontana, probabilmente la stessa che in passato alimentava l’intera baraccopoli e dalla quale tutti riuscivano ad attingere con un sistema semplice ed efficace di tubature in gomma. Tutt’intorno case basse ed edifici ad uno o due piani risultano abitati da soggetti di diversa provenienza: tra gli stranieri è riscontrabile un’importante quota di arabi, come si desume dai nomi e cognomi affissi sui citofoni e sui pulsanti dei campanelli elettrici.
Un residente della valle in via delle Ceramiche, egiziano di origine ed aiuto-cuoco presso un noto ristorante del quartiere Prati, dice di pagare settecentocinquanta euro al mese per un’abitazione di quarantacinque metri quadri, con un regolare contratto di affitto. Aggiunge che in zona si trovano anche diversi libici.
Attualmente l’ingresso alla chiesetta ed al complesso annesso è sbarrato da un pesante cancello comandato elettricamente. Vi hanno sede l’UNITALSI (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali), sezione di Roma, e la Caritas romana. Vi è anche una “Casa Famiglia” della stessa UNITALSI che dispone di una quindicina di letti per alloggiare famiglie forestiere di bambini ricoverati in ospedali romani. Si celebra messa solo di domenica mattina (nella chiesa parrocchiale di san Giuseppe Cottolengo, a viale di valle Aurelia, sono invece quattro le messe celebrate nei giorni festivi, viene svolta anche un’attività di sostegno scolastico in forma di doposcuola e l’oratorio dovrebbe essere aperto per qualche pomeriggio). Non si registrano situazioni difficili, per esempio legate a problemi di tossicodipendenza o di microcriminalità. Sotto questo aspetto non vi sono state modifiche sostanziali. Le interazioni con il contesto umano circostante appaiono serene, non conflittuali, anche perché ridotte forse solo al minimo indispensabile. Il che non era allorquando il complesso parrocchiale ospitava alcuni sacerdoti ed un piccolo gruppo di suore, che intrattenevano rapporti con i residenti, sia offrendo il servizio liturgico, sia curando la formazione dei più piccoli con l’asilo infantile. Il che procurava occasioni di amicizia e solidarietà, ma talora anche di astio e contrapposizione sul piano sia politico che socio-economico.
La valle ha subito cambiamenti cospicui soprattutto sul piano dell’edilizia abitativa. Scomparsa nell’estate del 1981 la vecchia baraccopoli, sono rimaste in piedi solo alcune case ad uno o due piani, adibite ad abitazioni private, come lo erano in precedenza, oppure ristrutturate in parte e riadattate per divenire un piccolo hotel, un residence, un bed and breakfast, un luogo diaccoglienza temporanea, dai nomi più diversi: per esempio Vatican Apartments. Invero la distanza dalle due stazioni di Valle Aurelia non è proibitiva, ma chi deve recarsi in valle è costretto a seguire solo il percorso lungo il marciapiede di destra, perché quello di sinistra si restringe più volte, è ostruito da residui vari, presenta un’intensa vegetazione quasi sin sulla strada.
In linea di massima si può sostenere che siano due i principali poli abitativi principalmente connessi alla storia precedente della valle: da una parte, prospiciente la vecchia borgata, c’è il gruppo di costruzioni denominato Case Ciardi, di “civile abitazione”, dalle caratteristiche tipiche per la piccola e media borghesia, con più piani, molti balconi, posti per le macchine in un garage sotterraneo ricavato fra le fondamenta, una buona presenza di verde; dall’altra parte, quasi di fronte alle due stazioni denominate Valle Aurelia, insistono gli alti palazzi fatti costruire dall’Istituto Autonomo Case Popolari, dove alloggiano sia residenti provenienti dalla borgata di Valle Aurelia sia famiglie giunte da altri luoghi della capitale. Vi fa servizio l’autobus n. 892, che collega via di Valle Aurelia con via degli Aldobrandeschi (posta fra la zona della Pisana e la stazione Aurelia). L’area delle case dell’IACP è molto frequentata ed anche per questo ricca di negozi. Anche in tal modo si è creata un’ancor maggiore separazione dei condomini di Case Ciardi (in via di Valle Aurelia, a partire dai numeri civici 128 e 130). Questi ultimi, comunque, negli anni Settanta avevano sperimentato una certa frequentazione dei borgatari, grazie anche allo spazio d’intermediazione costituito dalla parrocchia, dall’asilo parrocchiale (tenuto da suore), dai locali parrocchiali con cinema, teatro, campo sportivo polivalente, nonché da varie iniziative (spettacoli, gare, gite, scampagnate nel Pineto). Ovviamente la frattura ora in atto ha interrotto definitivamente quel flusso che pure era iniziato nel contesto del vecchio insediamento. Non solo. Il dato di fatto è che neppure tra gli ex borgatari è possibile riallacciare quegli intensi rapporti cui erano abituati fino al fatidico anno 1981.
Ma soprattutto è cambiata la stratificazione sociale, che presenta situazioni più variegate, non agevolmente accertabili tanto sono complesse. A livello politico, in base alla risultanze elettorali dell’unico seggio per l’intera zona, prevale un orientamento di sinistra. Alle famiglie dei vecchi fornaciai sono subentrati i nuovi nuclei di ex borgatari provenienti da altre zone di Roma, di emigranti dal sud o extraeuropei, ma anche di piccoli borghesi (impiegati, commercianti, operai, ecc.). Nondimeno le condizioni di alcuni sono tali da costringerli a recarsi sul tardi al Mercato Trionfale, in via Andrea Doria, per usufruire di prezzi ridotti sull’acquisto di frutta e verdura.
Adesso non si riconosce molto di quello che era la borgata dei fornaciai prima e dei lavoratori manuali poi. Non ci sono le abitazioni fatte di mattoni e lamiere, quasi tutte abbattute; non c’è il campo sportivo: non è in uso la fontana comune a cui da ogni casetta della borgata ci si collegava con un lungo tubo di gomma in qualsiasi ora del giorno (una vera e propria teoria di colori variopinti solcava il selciato); invero una fontana è in funzione ma si trova entro il cosiddetto “Parco del Maresciallo”, recintato, chiuso da un cancello; il capolinea dell’autobus dell’ATAC non vede più arrivare il “mitico” (così lo definisce un giovane intervistato) numero 51, un veicolo a dimensioni ridotte che portava sino a piazza Risorgimento, cioè “a Roma” come si diceva allora, negli anni Settanta ed Ottanta, ma un autobus ATAC della linea 495 giunge sino alla Stazione Tiburtina; non ci sono più i negozi, né al capolinea degli autobus (contraddistinto da una pensilina, con mappa della zona, e dalla presenza di due servizi igienici del tipo “TOI TOI”), né al piano terra delle Case Ciardi; sono stati chiusi il forno con la panetteria, il negozio di alimentari ed il bar con rivendita di tabacchi, nella piazzetta dove faceva capolinea l’autobus ATAC n. 51; non ci sono gli artigiani; non c’è più la scritta “Valle Aurelia ora e sempre resistenza” apposta sull’arcata di una tratta ferroviaria all’interno della borgata; la vecchia sede locale del Partito Repubblicano Italiano indicata con una piccola targa (ora eliminata) non è stata mai più aperta; la Casa del Popolo, nata su un precedente lavatoio e poi valorizzata da una lapide con foto di alcuni martiri delle Fosse Ardeatine, è attualmente divenuta la povera residenza di un paio di famiglie di origine sudamericana; le suore della Congregazione della Divina Provvidenza non accolgono più nel loro asilo parrocchiale i bambini della borgata e delle vicine Case Ciardi; sacerdoti e suore che abitavano nei locali adiacenti alla chiesetta della Divina Provvidenza sono andati via; il falegname ha chiuso la sua bottega; il fabbro-ferraio non fa più sentire il suono del battere del suo martello sull’incudine ed il rumore tipico delle saldature dei metalli. Solo un tappezziere sembra sopravvissuto alle vicende della valle negli ultimi decenni: al n. 132c di via di valle Aurelia.
Il piazzale dinanzi al complesso edilizio Ciardi è divenuto un grande parcheggio a cielo aperto, contornato da molti alberi, sottraendo peraltro spazio vitale al tempo libero dei ragazzi e dei giovani.
La frequenza della parrocchia rappresentava in passato un momento di aggregazione. Oggi la presenza di personale religioso è sporadica e quindi non più in grado di creare motivi di compartecipazione, condivisione, interscambio tra famiglie e tra nuove generazioni.
Anche l’azione militante ed aggregante del Partito Comunista prima e del Partito Democratico adesso non ha certo il peso di qualche tempo fa. La sede della sezione, insieme con quella dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e con altre forme associative (anche sportive), si è spostata in viale di Valle Aurelia 92 (dove ci sono pure tre bacheche che espongono il quotidiano l’Unità), in una palazzina posta quasi di fronte al complesso delle case popolari. Molto attiva è l’Associazione Culturale Villa Carpegna, in viale di Valle Aurelia 129, che collabora anche con la Biblioteca Comunale di Valle Aurelia. Nella medesima sede operano il Cine Club “Il raggio verde” ed un laboratorio teatrale.
Un tentativo di recupero della precedente esperienza comunitaria di borgata è tuttavia nella creazione del “Punto d’incontro”, una struttura ricreativa, culturale, che occupa un ampio spazio sottostante una tratta ferroviaria sopraelevata, da tempo in disuso dopo il breve utilizzo durato una sola settimana durante i campionati mondiali di calcio nel 1990. Il “Punto d’incontro” offre la possibilità di praticare varie attività sportive nei campetti appositamente allestiti, ospita mostre, proiezioni, presentazioni di libri, conferenze, dibattiti, concorsi di diversa natura (riguardanti specialmente la valle). Un’altra struttura operante in zona è il “Centro anziani” (già scuola elementare), situato alla confluenza fra viale di valle Aurelia e via di Valle Aurelia e promosso dal Comune di Roma: presso il Centro Sociale Roma si svolgono attività ricreative e culturali varie, ivi compresi corsi di danza e ballo per adulti.
Conclusione
Se in passato la borgata era considerata atipica per la sua contemporanea centralità (ai confini con la Balduina ed il quartiere Prati) e perifericità (per le sue caratteristiche tipiche di un agglomerato oltre il Grande Raccordo Anulare), oggi l’atipicità è confermata non solo dal nuovo genere di insediamento abitativo che connota l’area che fu della borgata ma anche da un succedersi temporale di diverse fasi di presenza sul territorio. Un segno visibile in tal senso è dato dal fatto che, all’incirca dopo le 20 e soprattutto successivamente, taluni luoghi posti a margini del tessuto abitativo della valle vengono occupati e presidiati da immigrati più o meno giovani e probabilmente senza dimora fissa. Si raccolgono presso un bar posto all’inizio di via Baldo degli Ubaldi e fronteggiante la fornace Veschi oppure lungo gli accessi alle due stazioni di Valle Aurelia od anche nell’area verde a fianco della chiesa parrocchiale di sant’Ambrogio in via Girolamo Vitelli, angolo via Giovan Battista Gandino. Sembrano altrettante sentinelle che nelle prime ore notturne presidiano tutta la valle nei pressi dei suoi accessi più frequentati (ferrovia e metropolitana, traffico automobilistico di entrata in viale di Valle Aurelia, mobilità motorizzata in uscita per riguadagnare l’importante arteria di Baldo degli Ubaldi o, ancora più su, la via Aurelia e la via della Pineta Sacchetti).
Il trattenersi di questi gruppi in tarda serata, per bere birra o vino o, forse, consumare droga diventa quasi un emblema dei contrasti legati alla stratificazione sociale. Se poi si aggiunge anche il gruppo di nomadi od altri abitanti che si celano a mezza costa di Monte Ciocci, in una decina di baracche[11], coperte dal verde lungo i pendii della linea ferroviaria Roma-Viterbo, l’accerchiamento è quasi completo, di fatto efficace perché controlla, per modo di dire, le “vie di fuga”. Dall’altro lato, verso la parte più interna della valle, non sarebbe facile avventurarsi: la strada s’interrompe, comincia il dominio della natura con alberi e verde, le poche case si rarefanno sempre più fino a scomparire del tutto.
La composizione di questi gruppi è varia, ma si nota una costante presenza di rumeni. Si aggregano presumibilmente anche dei rom ma confermare tale dato non è agevole. Ci si deve limitare ad un’osservazione a distanza. Sulla stessa presenza di droga occorre cautela, anche se l si può ipotizzare in altra zona, più separata, a sé stante, forse non lontano dalla piazzetta che si trova in fondo a via di Valle Aurelia, dove fa capolinea e conversione ad U l’autobus 495.
Ma soprattutto c’è da concludere che ormai la borgata di Valle Aurelia non c’è più, anche perché non vi è una percezione di comunità condivisa. Oggi sarebbe inimmaginabile una tavolata comune, come era usanza nella vecchia borgata.
Roberto Cipriani*
* Sono molto grato alla Prof.ssa Laura Tini, già titolare di Sociologia dell’Educazione nell’Università di Roma “La Sapienza”, per aver condiviso con me l’esperienza di ricerca sul campo e per i preziosi suggerimenti relativi alle dinamiche pregresse ed in atto.
[1] Cfr. M. Vaquero Piñeiro, L’università dei fornaciai e la produzione dei laterizi a Roma tra la fine del ‘500 e la metà del ‘700, «Roma moderna e contemporanea», IV, 2, 1996, pp. 471-494.
[2] Cfr. E. P. Rodocanachi, Les corporations ouvrières à Rome depuis la chute de l’empire romain, Paris, Picard, 1894, pp. 433-438.
[3] Cfr. L. Giustini, Fornaci e laterizi a Roma dal XV al XIX secolo, Roma, Kappa, 1997, pp. 16-17.
[4] Cfr. P. Masini, Il Borgo dei fornaciai fuori Porta Cavalleggeri: evoluzione di un territorio suburbano, Roma, Comune di Roma, 1982.
[5] Cfr. R. Glass, London: Aspects of Change, London, Mac Gibbon & Kee, 1964.
[6] Cfr. J. J. Palen, B. London, Gentrification, Displacement, and Neighborhood Revitalization, New York, SUNY Press, 1984.
[7] Cfr. N. Smith, P.,Williams, Gentrification of the City, Boston, Allen and Unwin, 1986.
[8] Cfr. L. Freeman, There Goes the ‘Hood. Views of Gentrification from the Ground Up, Philadelphia, Temple University Press, 2006.
[9] Cfr. A. Collet, Rester bourgeois : les quartiers populaires, nouveaux chantiers de la distinction, Paris, la Découverte, 2015; L. Lees, H. Bang Shin, E. Lopez-Morales (eds.), Global gentrifications: uneven development and displacement, Bristol–Chicago, PolicyPress, 2015; J. Brown-Saracino, A Neighborhood that Never Changes: Gentrification, Social Preservation, and the Search for Authenticity, Chicago, University of Chicago Press, 2010; K. Paton, Gentrification: A Working-Class Perspective, Burlington-Farnham, Ashgate, 2014; G. Bridge, T. Butler, L. Loretta (eds), Mixed Communities: Gentrification by Stealth?, Bristol, The Policy Press, 2012; L. Lees, T., Slater, E. Wyly, Gentrification Reader, New York-London, Routledge, 2010; R. Atkinson, Introduction. Misunderstood Saviour or Vengeful Wrecker? The Many Meanings and Problems of Gentrification, «Urban Studies», 40, 2003, pp. 2343-2350;N. Smith, New Globalism, New Urbanism: Gentrification as Global Urban Strategy, in N. Brenner, N. Theodore (eds.), Spaces of Neoliberalism, Oxford, Blackwell, 2002, pp. 58-79; N. Smith, J. Hackworth, The Changing State of Gentrification, «Tijdschrift voor Economische en Sociale Geografie», 92, 4, 2001, pp. 464-477; C. Hamnett, Gentrification, Postindustrialism, and Industrial and Occupational Restructuring in Global Cities, in G. Bridge, S. Watson (eds.), A Companion to the City, Oxford, Blackwell, 2000, pp. 331-341;T. Butler, Gentrification and the Middle Class, Aldershot, Ashgate, 1997; D. Ley, The New Middle Class and the Remaking of the Central City, New York, Oxford University Press, 1996;N. Smith, The New Urban Frontier: Gentrification and the Revanchist City, London, Routledge, 1996; N. Smith, P. Williams,Gentrification of the City, Boston (Mass.), Allen & Unwin, 1986.
[10] Cfr. E. W. Burgess, The Urban Community, Chicago, University of Chicago Press, 1926.
[11] Di tanto in tanto si assiste ad uno sgombero di queste baracche, ma dopo qualche tempo vengono rimesse in piedi e riutilizzate dagli stessi nomadi di prima o da altri ancora.
Quando Francesca Sacchetti (2012) ha investigato i “percorsi della soggettività tra fenomenologia ed ermeneutica” ha individuato un filone preciso di pensiero che da Husserl (1922, 1929, 1963) conduce a Schütz (1932) e poi a Paul Ricoeur (2002). Ma altrettanto si può dire per quanto riguarda il percorso da Husserl (1922, 1929, 1956, 1963, 1973) a Kurt Wolff (1972a, 1976, 1984, 1984a) come punto di arrivo e di consonanza con Ricoeur stesso, vista la comune matrice fenomenologica e la conoscenza che il sociologo della Brandeis University ha delle opere di Ricoeur (1967, 1970), come si evince dal suo saggio sul rapporto fra “resa e cattura” e fenomenologia (Wolff 1984).
Surrender and Catch: Experience and Inquiry Today (Wolff (1976) è un testo che denota una chiara influenza dovuta all’insegnamento di Karl Mannheim, maestro di Kurt Wolff negli anni Trenta. L’origine della formula “resa e cattura” ha evidenti radici classiche greche nell’idea di ἐποχή, che riguarda l’attesa, la sospensione, una sorta di scetticismo metodologico, ma poi anche nell’espressione latina assensionis retentio (rinvio della decisione). “Surrender and catch” è pure una sorta di “sociologia comprendente” che risale alla nota verstehende Soziologie di matrice tedesca, distinguendo fra “surrender” (resa generica) e “surrender to” (resa a qualcuno o qualcosa). Detto altrimenti non si tratta solo di una teoria ma anche di una metodologia.
La valenza qualitativa della resa e della cattura
Kurt Wolff ha dedicato ben quattro pubblicazioni alla sua inestricabile connessione fra “resa e cattura”. Il primo libro è del 1972 ed ha come titolo Surrender and Catch: A Palimpsest Story (Wolff 1972). Il secondo (Wolff 1976) è pubblicato come volume di una serie di filosofia della scienza. Il terzo (Wolff 1978) è una riedizione in brossura del precedente. Il quarto (Wolff 1995) è una ripresa del tema di “resa e cattura” a suggello di 23 anni di rielaborazioni dal 1972 al 1995, che hanno visto l’autore impegnato su più fronti disciplinari. Soprattutto gli articoli pubblicati su riviste insistono specificamente sulla tematica della resa declinata sotto diverse angolature: fenomenologica (Wolff 1972a, 1984), filosofica (Wolff 1979), conoscitiva (Wolff 1982, 1982a, 1983) ed ermeneutica (Wolff 1984a). Appare difficile individuare un possibile ambito al quale Kurt Wolff non abbia tentato di applicare il suo strumento teorico, rappresentato principalmente dalla disponibilità alla resa, all’avere fiducia nell’altro e nella sua alterità sostanziale (Wolff 1994). Ne consegue che il taglio principale della sua epistemologia e metodologia di fondo rimane appunto la rinunzia ad esprimere posizioni in prima persona, da ricercatore, fatta eccezione ovviamente per la scelta operativa iniziale, che in maniera precipua appare un’opzione dichiaratamente qualitativa (Corradi 1987). Il che è ampiamente documentato anche nei Kurt Wolff Papers, Robert D. Farber University Archives della Brandeis University di Waltham (Massachusetts), che contengono un box intitolato Surrender as a Response to Our Crisis, datato 1962 (Wolff 1962), ed un altro denominato Surrender and Catch, Hermeneutics, Phenomenology, Critical Theory, senza indicazione di data.
A ben considerare, tutta l’esistenza stessa di Kurt Wolff si muove lungo le coordinate della resa da una parte e della cattura dell’altra (Stehr 1981) e dunque la sua sociologia esistenziale è anche un volere la resa prima e la cattura poi ma proprio per sfuggire specularmente, a posizioni rovesciate dunque, al rischio della resa incondizionata al nemico ideologico e politico ed altresì della cattura, cioè della privazione di ogni libertà di pensiero ed azione. Tutto ciò si tramuta per Wolff in una scelta epistemologica e metodologica insieme che riflette da presso il suo stesso itinerario biografico: un continuo arrendersi ad ogni possibile forma di sapere per poi impossessarsene, fosse una lingua straniera, la storia, la filosofia, la poesia e non ultima la sociologia e di conseguenza il pensiero di Mannheim – di cui fu studente attento ed assiduo (Wolff 1991, 57-79) -, Simmel e Durkheim.
La definizione di resa
Wolff è uno studioso poliedrico e quindi anche le sue concettualizzazioni risentono di tale caratteristica. Inoltre il modello della resa è qualcosa che si sperimenta esistenzialmente in vari campi: dalla natura all’indagine empirica, dall’arte alla riflessione teoretica, dalla politica alla poesia, dalla filosofia alla storia ed alla sociologia.
Da un punto di vista strettamente metodologico i dati vanno accettati per quelli che sono, quasi un fatto naturale, scontato, cui affidarsi senza remore. In pari tempo occorre rinunciare a formulare ipotesi previe ed aspettative di qualunque genere. Anzi l’unica aspettativa ha da essere quella dell’attesa degli sviluppi in corso. L’alterità non si coglie a prima vista. Non si può pretendere di capire, “catturare” l’altro appena al primo incontro esplorativo. Altrimenti prevalgono le esperienze dello studioso rispetto a quelle dell’intervistato, il quale a sua volta si lascia catturare solo assai lentamente, comunque parzialmente, anzi molto parzialmente. Pertanto non è lecito e non conviene fare supposizioni sulla natura, sul profilo degli altri.
La cattura arriva ben dopo, allorquando si è instaurato un dialogo che permette la conoscenza e l’esperienza comune fra intervistatore ed intervistato, in una nuova prospettiva reciproca che appare come un nuovo inizio, un nuovo modo di essere nel mondo. Wolff, per completezza di discorso, arriva pure a dire che la cattura non è necessariamente un concetto, perché può essere ben altro: da un’opzione ad un’opera d’arte, da un cambiamento di atteggiamento ad un chiarimento, come pure un avvicinamento alla resa.
La relazione fra resa e cattura è quanto mai complessa, perché ha un andamento senza fine, senza limite alcuno. Invero, come riconosce lo stesso Wolff (1994a, 371), lo spunto iniziale proviene da una distinzione mannheimiana fra interpretazione ideologica ed interpretazione sociologica (Mannheim 1926), poi divenuta rispettivamente, in chiave wolffiana, interpretazione intrinseca, che cioè usa i termini propri di quanto deve essere interpretato senza fare alcun ricorso a risorse esterne, ed interpretazione estrinseca che si serve dell’ausilio di tutto il contesto storico-sociale.
Successivamente, nello sviluppo del pensiero di Wolff, sono diventati cinque gli aspetti della resa. Il primo concerne la massima sospensione della socializzazione ricevuta, facendo tutto il possibile per potere capire qualcuno o qualcosa, un po’ come avviene per uno studente che si cala al massimo nella disciplina che studia, trascurando gran parte di quanto già sa.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che la comprensione anche di un’esperienza unica non può esaurire tutta l’esperienza, che dunque è ancora da acquisire.
Il terzo ambito attiene alla duplice verità: scientifica ed esistenziale. Quest’ultima è la verità della resa, che è in linea con l’esame rigoroso delle più importanti esperienze.
In relazione con la verità esistenziale c’è l’estasi come quarta componente della resa, al di fuori della vita di ogni giorno e con uno spirito che non è molto diverso da quello poetico, nel suo lasciarsi condurre oltre la realtà.
La quinta caratteristica della resa è infine il rispetto per il mistero, nella dialettica fra interminabilità dell’analisi e riconoscimento indefettibile del misterioso. Ne deriva una labilizzazione, cioè un indebolimento o persino una scomparsa di norme, principi, orientamenti o tradizioni, ormai labili appunto. Da qui la necessità di un nuovo inizio della ricerca di ciò in cui credere, dopo aver messo da parte il precedente patrimonio culturale. Ma non ci si può affidare ad un’indagine senza fine senza accettare al contempo l’idea di un’inesauribilità del mistero. E dunque la cattura non pone termine al processo conoscitivo ma anzi presuppone che essa conduca ad un’altra resa e così via. Insomma resa e cattura sono indissolubilmente congiunte fra loro.
Sullo sfondo di questo itinerario è operante il pensiero di Mannheim, emergente anche nell’idea del Sich-Haben, cioè del possedere se stessi, che si realizza nell’azione della resa, la quale si coniuga altresì con il perdere se stessi (è in fondo anche il sé come un altro di Ricoeur). Pertanto il possedersi ed il perdersi fanno parte di un unico e medesimo processo. In tal modo grazie all’esperienza fatta si possono stabilire norme.
Ha ben visto Arlene Goldbard (arlenegoldbard.com/2008/12/13/surrene-and-catch/) nel definire la proposta di Wolff un nuovo paradigma, opera di uno studioso che pratica quel che predica. A suo parere la resa è arte, innovazione, che mira alla comprensione ed all’integrazione. Ma soprattutto si tratta di un “amore cognitivo, che fa vedere, non rende ciechi”, secondo l’espressione di Wolff stesso, che a sua volta individua cinque elementi: 1) il coinvolgimento totale, per cui chi ama si sente tutt’uno con chi è destinatario/destinataria del suo amore, in una situazione del tutto simile a quella della resa, che comporta uno stato di tensione o comunque di concentrazione; 2) il superamento di quanto si è appreso in precedenza; 3) la pertinenza di ogni aspetto che giunga all’attenzione del ricercatore, per cui l’amante si interessa ad ogni cosa che riguardi il suo amato o la sua amante; 4) l’identificazione, per cui chi ama si perde nel suo amore ma per ritrovare se stesso; 5) il rischio di dover subire qualche effetto dannoso, in quanto chi procede alla resa desidera il cambiamento, non senza conseguenze a livello relazionale, intersoggettivo, nonché di stima, per cui insieme con la resa si devono affrontare anche offese di vario tipo.
Il ricorso alla resa è stressante e va controcorrente rispetto alle tradizioni ed alle convenzioni, gestite da chi detiene il potere di controllo su di esse. La resa è secondo Wolff (1977) l’esercizio più radicale della ragione umana. La ribellione è al servizio dell’amore per una società più umana. In fondo l’amore per la conoscenza è la prosecuzione della plurimillenaria azione della filosofia nel corso della storia.
Una metodologia per l’analisi qualitativa
L’esperienza della resa e della cattura è totalizzante anche nel senso di abbracciare più dimensioni, da quella filosofica a quella psicologica, da quella fenomenologica a quella esistenziale, dalla critica radicale all’esistenzialismo e non da ultimo alla metodologia essenzialmente qualitativa.
I materiali di riflessione offerti da Wolff sono molteplici e non tutti riproponibili nel campo dell’analisi sociologica, ma servono a fornire un’aura, un’atmosfera, un atteggiamento di fondo che diventa asse portante, chiave di volta dell’approccio conoscitivo. Nondimeno è possibile rintracciare spunti significativi, suggerimenti operativi, che poi possono rifluire nell’attività di ricerca come veri e propri strumenti d’indagine. Così per esempio la modalità di scrivere riflessioni sui materiali di ricerca non può non rappresentare un prodromo, un’anticipazione di quella che sarà poi una caratteristica dell’analisi qualitativa: scrivere memos sui dati della ricerca in maniera tale da farli diventare ulteriori oggetti di ricerca, veri e propri dati da considerare a pieno titolo come suscettibili di approfondimento. Anche la diaristica, com’è noto, rientra giustamente fra gli elementi abituali sottoponibili ad indagine ed anzi ne costituisce un riferimento spesso imprescindibile e piuttosto fertile di risultati, come mostra fra l’altro, in Italia, il successo dell’iniziativa di una raccolta archivistica appunto di diari, ad opera di Saverio Tutino prima e di Duccio Demetrio (1996) ora ad Anghiari, con la Libera Università dell’Autobiografia, ed a Pieve Santo Stefano, con la Fondazione Archivio Diaristico.
Anche lo studio delle lettere, della documentazione personale, rientra nel filone classico della sociologia qualitativa, a partire dal classico e fondativo lavoro di Thomas e Znaniecki (1918-1920) sul contadino polacco in Europa ed in America. Ma forse il rinvio più emblematico e ricco di convergenze va fatto alla linea metodologica ed allo stile di ricerca contenuti nella Grounded Theory di Glaser e Strauss (1967), in cui la resa nei confronti del dato è altrettanto assoluta come in Wolff.
A dire il vero il taglio degli scritti del Nostro è largamente filosofico, ma anche sociologico in modo non convenzionale. Anzi, in questa scelta di fondo, è da mettere in evidenza lo spirito con cui l’autore affronta la problematica della conoscenza dell’alterità intersoggettiva: egli si serve di una esposizione letteraria, retorica quasi, per addurre prove convincenti sulla praticabilità e sull’affidabilità della sua opzione primigenia: sospendere i giudizi previi, rinunciare alle basi ed ai principi culturali di riferimento, ma con l’obiettivo di riuscire meglio a capire l’altro ed il mondo sociale circostante.
Se anche Wolff non fornisse alcuna indicazione di metodo – il che evidentemente non è – tuttavia il suo messaggio è chiaro: occorre fare tabula rasa dell’abituale modo di procedere (e dei criteri che l’orientano), al fine di rendersi disponibili all’accoglienza di qualunque indicazione provenga dal terreno di ricerca, dalle persone e dalle cose, dalla natura e dall’ambiente, dalle relazioni sociali e dai fenomeni sociali. Peraltro anche la forma scelta da Wolff per entrare in comunicazione con i suoi lettori, come già con i suoi allievi, è tipicamente evocativa più che esplicativa, allusiva più che esplicita, esistenziale più che accademica, colloquiale più che regolativa, aperta più che dogmatica.
Se Peter Berger e Thomas Luckmann (1966) con il loro lavoro sulla costruzione sociale della realtà hanno analizzato in modo sistematico l’influenza dei processi di socializzazione, Kurt Wolff (1976) ne ha stigmatizzato il peso impediente rispetto ad una conoscenza adeguata della realtà sociale. Gli uni e l’altro apportano contributi ormai divenuti classici, ma senza che la considerazione prestata ai primi pregiudichi l’attenzione da rivolgere al secondo. Invero entrambe le prospettive risultano strategiche per ogni impostazione relativa ad una sociologia di tipo qualitativo. Tuttavia è necessario dosare sapientemente i riferimenti alle due correnti di pensiero al fine di trovare un giusto equilibrio tra formule parimenti valide ed accettabili. Ove ve ne fosse bisogno, basterebbe richiamare la circostanza, non secondaria, del rifarsi di tutti e tre al pensiero magistrale di Alfred Schütz (1962-1966, 1996), con la sua fenomenologia di base, segnatamente in riferimento al rapporto con quel che si presenta o meglio si dà come “appresentazione” (Appräsentation) allo studioso-ricercatore (Schütz 1932).
Per un verso Berger e Luckmann segnalano la tendenza a “pensare come il solito” e per un altro verso Wolff proprio a ciò vorrebbe che si rinunziasse, onde permettere una più ampia comprensione dell’alterità, specialmente attraverso l’esperienza della discussione in comune, non a caso tipica di un’altra opzione metodologica di matrice qualitativa, secondo l’approccio ermeneutico di Oevermann (1979). Insomma tutto torna, il circolo virtuoso di una certa tradizione sociologica mitteleuropea si riaffaccia di continuo ed offre risorse essenziali per l’analisi sociologica basata sulla dimensione qualitativa.
Si può dire che quando Wolff pensa ad un’altra persona mette in atto la sua resa alla cattura, in quanto egli parte dal presupposto che la comprensione si raggiunge in misura adeguata solo e se si prescinde almeno inizialmente (e per un po’ di tempo ancora e fino ad un certo punto) dal proprio quadro di riferimento. Però una volta raggiunta la meta della comprensione mediante la cattura questa è da ritenere solo un’ulteriore tappa lungo un percorso mai esaurito e mai esauribile, in quanto rimane sempre sullo sfondo l’imperscrutabilità del mistero.
Questo procedimento di resa è accompagnato da presso da una sorta di “amore cognitivo” che aiuta a superare le difficoltà iniziali della resa e permette di raggiungere la presa, la conoscenza, la comprensione, grazie a dei risultati che sono cognitivi ed esistenziali allo stesso tempo. In altre parole la resa è anche una conversione (che consente peraltro l’estasi), come pure una ribellione verso il passato e la tradizione, per guardare piuttosto al futuro, in chiave creativa ed acquisitivadi ulteriori saperi. Si potrebbe pure dire che si tratta di un’ingenuità necessaria e foriera di esiti imprevedibili. Il “perdersi” nella resa prelude alla salvezza nel momento della cattura, anche se poi è solo una tappa lungo un tragitto ancora lungo.
La resa ha un carattere quasi artistico e religioso, in vista di una procedura cognitiva fatta di amore ed attenzione all’altro. A poco a poco in modo maieutico si fanno venire fuori dall’esperienza i concetti utili per la comprensione (non si può non vedere in questo un processo che appartiene anche ad altre soluzioni metodologiche: la Grounded Theory di Glaser e Strauss come l’ermeneutica oggettiva di Oevermann). L’alternativa è costituita da risultati solo approssimativi e probabili, mentre la “pretesa” di Wolff è di raggiungere ciò che è ineluttabilmente vero, o almeno – a giudizio di altri studiosi – più affidabile di quanto verificabile attraverso la strumentazione classica dell’approccio solo statistico-quantitativo. Sullo sfondo, come obiettivo finale, c’è il desiderio di mutare lo status quo. Dunque la resa non è uno stare fermi ma un altro modo di agire.
Inoltre la distinzione fra offerta ed accettazione della situazione data è solo fittizia, in quanto essa è strumentale per capire la realtà sociale. In effetti la stessa distinzione operata è frutto di quanto avvenuto, del che ci si accorge in un momento posteriore rispetto all’evento in questione.
Il significato della cattura
Alcune anticipazioni sulla dialettica fra resa e presa (o cattura) si trovano sparse in pubblicazioni antecedenti il 1976. Specificamente è il volume dal titolo Trying Sociology (Wolff 1974b, 44-45) che prelude a quello che sarà il libro successivo (Wolff 1976) completamente dedicato al tema della resa e della cattura, quale sviluppo di una particolare concezione della sociologia mannheimiana della conoscenza.
Il termine speculare, rispetto a quello di resa, è cattura (Wolff 1976, 20). Innanzitutto è bene precisare che meglio sarebbe stato da parte di Wolff risalire all’origine latina precisa del termine “concetto”, il quale ha come base il verbo all’infinito cum capere, che letteralmente significa “prendere con”, “prendere insieme”, che esprime compiutamente il pensiero wolffiano in quanto allude direttamente ad una presa congiunta, insieme con l’interlocuzione, l’incontro, l’intervista; ma il cogliere è anche un raccogliere insieme, che può sottendere e sottintendere una messa insieme dei risultati ottenuti con l’opzione iniziale costituita dalla resa, vera e propria finestra sul mondo altro, sull’altrui punto di vista, sui diversi pensieri in atto nella realtà sociale. Il con-prendere è una specie di sintonia creata fra l’io ed il tu, fra due soggetti generalizzati messi l’uno dinanzi all’altro e rispondenti con le loro reazioni, percezioni, attitudini, repliche, deduzioni. La novità delle concezioni, appunto del cum capere continuo messo in moto dalla relazione interpersonale, giustifica ampiamente la decisione iniziale (ed un po’ iniziatica) della resa, dell’affidamento, dell’accoglienza gratuita, senza ricatti né economici, né affettivi o di altra natura. L’esito finale difficilmente non è seguito da un apprezzamento positivo del percorso seguito, nonostante la sua imprevedibilità di fondo e l’assenza di eventuali esperienze previe rassicuranti. Le previsioni non rientrano in questa prospettiva epistemologica e metodologica insieme, altrimenti molto risulterebbe tanto scontato quanto inconcludente, perché non farebbe altro che confermare il già noto, rendendolo ancora più refrattario ad ogni discorso di cambiamento, di trasformazione, di miglioramento dell’esistente.
Conclusione
In fondo la stessa proposta wolffiana mira all’innovazione, alla rivolta di stampo camusiano, al superamento dello status quo. Il sottosopra che è provocato dall’inversione fra resa e cattura prelude ad una trasformazione della società stessa e comunque indica un’alternativa almeno metodologica rispetto ai canoni abituali della ricerca sociologica. Si tratta pure di un cambiamento di mentalità, che comporta l’abbandono delle concezioni pregresse. La coppia resa-cattura funge quasi da vento liberatore e purificatore, che fa cadere pregiudizi inveterati ed apre nuovi orizzonti, anche per quel che riguarda, ad esempio, le relazioni fra ebrei e musulmani. Il ricorso alla soluzione pacifica della resa e cattura potrebbe costituire, fra l’altro, un suggerimento di tipo politico. Così, in definitiva, la resa e la cattura wolffiane portano assai lontano, ben oltre il contesto fenomenologico di origine, comune anche a Paul Ricoeur.
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di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)
Premessa
Si può legittimamente sostenere che alle origini della sociologia sia anche il desiderio di trovare le ragioni della coesione sociale o viceversa della conflittualità. Se Auguste Comte (1852) ebbe a pensare ad una vera e propria “religione dell’umanità”, a carattere universale, per garantire una sorta di tetto protettivo del genere umano, Émile Durkheim (1973) teorizzò un nesso strettissimo fra religione e solidarietà. Non a caso Comte è l’inventore del termine “altruismo” volto a permettere sentimenti di benevolenza e di disinteresse personale, in modo da “vivere per gli altri”. Solidarismo ed integrazione sociale sono i capisaldi del pensiero sia comtiano che durkheimiano, in una visione che pare abbastanza preoccupata ed ansiosa del raggiungimento di un equilibrio sociale senza conflitti e tutto teso a favorire forme di coesione e di collaborazione integrata e partecipata. Comte del resto predicava “l’Amore come principio; l’Ordine come base e il progresso come scopo”: era questo il suo catechismo positivista, che nella prima e nona intervista “fra una Donna ed un Prete dell’Umanità” parla esplicitamente di unità, dunque di integrazione fra individuo e società, a mo’ di sintesi tendente a collegare le diverse soggettività. Ma Durkheim va ancora oltre, se possibile, quasi amalgamando il singolo individuo con la sua società di appartenenza. La sua matrice ebraica lo predispone a fondere insieme connessioni intra-familiari ed inter-familiari, specialmente attraverso le occasioni rituali della religione, che dunque diventa una specie di cemento sociale, anzi un fatto “eminentemente sociale”. Infatti “le rappresentazioni religiose sono rappresentazioni collettive esprimenti realtà collettive; i riti costituiscono modi di agire che nascono entro gruppi costituiti e sono destinati a suscitare, conservare e riprodurre taluni stati mentali dei gruppi stessi. Ora, se le categorie sono di origine religiosa, devono condividere la natura comune di tutti i fatti religiosi: essere anch’esse entità sociali, prodotti del pensiero collettivo. Per lo meno – dato che allo stato attuale delle nostre conoscenze bisogna guardarsi da qualsiasi tesi radicale ed esclusivista – è legittimo supporle ricche di elementi sociali” (Durkheim 1973: 25). Si potrebbe quasi parlare, in merito, di una corrispondenza fra religione e società in termini di embricamento, intreccio inestricabile, non eliminabile. Il sociale è religioso, il religioso è sociale: la loro legittimazione è reciproca. Perciò la collettività è religiosa o non è affatto. L’intersecazione fra società e religione è parallela, si direbbe, a quella fra sociale ed individuale: “l’uomo è duplice. In lui coesistono due esseri: un essere individuale, che ha la sua base nell’organismo e il cui raggio d’azione è, proprio per questo, strettamente limitato, e un essere sociale, che rappresenta in noi, sul piano intellettuale e morale, la realtà più alta da noi osservabile, vale a dire la società” (Durkheim 1973: 31). L’autore ribatte infine il medesimo tasto: la religione si connota come fatto sociale. Le stesse credenze e pratiche non sono che simboli della società. Appunto lo stare insieme è all’origine delle forme religiose.
Acqua e religione
Il rapporto tra acqua e religione è antico, ha radici profonde e si svolge lungo percorsi che appaiono caratteristici per ogni espressione religiosa. Si potrebbe giungere a dire che acqua e religione siano quasi sinonimi: entrambe provengono dal cielo; l’una e l’altra hanno a che vedere con la durata del tempo (misurato anticamente con la clessidra, κλεψύδρα ovvero κλέπτω, chiudo, ‘ύδωρ, acqua, cioè il contenitore d’acqua che scendeva lentamente attraverso una piccola apertura, assegnando così il tempo di parola ad un oratore; analogamente anche la religione contempla di fatto un limite di tempo per la vita) -; la richiesta di acqua rivolta a qualcuno è, secondo lo storico greco Erodoto, un segno manifesto di sottomissione al destinatario della domanda, parimente la religione comporta un rapporto di soggezione alla divinità; inoltre, Francesco d’Assisi scriveva “Laudato si, mi Signore, per sor Aqua, la quale è molto utile e umile e preziosa e casta”, sottolineando dunque il forte legame fra l’acqua ed il Creatore del mondo; ed infine come l’acqua va verso il mare così l’anima religiosa anela al suo Dio (Salmi 42, 2-3) e come l’acqua è necessaria per la sopravvivenza così è la religione che assicura un’esistenza al di là del ciclo terreno.
Ma soprattutto non mancano gli usi strettamente religiosi dell’acqua in quanto componente essenziale di alcune cerimonie quali benedizioni, consacrazioni ed esorcismi, in pratica come un sacramentale, cioè affine ad un sacramento ma non istituito da Gesù bensì dalla Chiesa ed operante in base alla fede di chi lo riceve e non per virtù propria. Si comincia con l’acqua battesimale che, preparata (sia con olio catecumenale che con crisma) e benedetta nella notte della veglia pasquale, si conserva nel battistero delle chiese, ed in particolare nel fonte detto appunto battesimale, per essere usata al momento del battesimo, allorquando viene versata sul capo del neonato (ma vi è anche un rito per immersione – che ricorda la discesa di Cristo nella tomba -, ancora usato dai Testimoni di Geova come pure da esponenti di altre religioni, con un vero e proprio bagno in un corso d’acqua o nello stesso fiume Giordano in cui Giovanni il Battista battezzò Gesù Cristo); l’acqua benedetta (preparata con l’aggiunta di sale, che aiuterebbe a scacciare i demoni) serve ai fedeli cristiani per farsi il segno della croce, attingendola dall’acquasantiera (resa obbligatoria dal papa Leone IV in un sinodo alla metà del secolo IX) quando entrano in un tempio, oppure viene aspersa dal celebrante sul feretro di un defunto od anche usata per benedire oggetti, case, mezzi di locomozione, animali e persone; l’acqua santa o benedetta viene anche bevuta come auspicio taumaturgico (è questa la prassi di religiosità popolare che induce i pellegrini recatisi a Lourdes a riportare con sé dell’acquasanta da dare agli ammalati rimasti a casa, impossibilitati a recarsi nel santuario francese, dove si usa fare un’immersione in una piscina ritenuta miracolosa); infine l’acqua benedetta può avere lo scopo di purificare chi ne viene toccato (come accadeva con l’acqua lustrale degli antichi romani) oppure per liberare un luogo od una persona da una presenza od influenza malefica (come nel caso di coloro che vengono considerati in preda ai demoni). Di altro tipo e destinazione è invece la cosiddetta acqua angelica o degli angeli, che è profumata ed avrebbe potenzialità calmanti. Si conosce anche un’altra acqua detta gregoriana, in uso oltre un migliaio di anni fa mescolata con vino, cenere e sale ed adoperata per la consacrazione dei luoghi di culto.
Una particolare benedizione dell’acqua nella festa dell’Epifania, il 6 gennaio di ogni anno, risulta presente nell’antico rito greco-alessandrino, giunto fino ai giorni nostri in alcune zone italiane (soprattutto al sud) insieme con la sua formula di epiclesi (’επίκλησις, invocazione, dal verbo ’επικαλέω, invoco) che fa memoria del battesimo di Cristo per chiedere a Dio la transustanziazione ovvero trasformazione dell’ostia e del vino in corpo e sangue di Gesù.
L’uso dell’acquasantiera, infine, si è largamente diffuso in ogni parte del mondo cattolico. Ve ne sono esempi artistici illustri di Giovanni Pisano (in San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia) e di Gian Lorenzo Bernini (nella basilica di San Pietro a Roma), ma in alcune zone se ne trovano ai piedi delle tombe od anche in casa.
L’acqua purificatrice
L’acqua lava, pulisce lo sporco e dunque ciò che è impuro, in particolare il peccato. In tal modo l’acqua acquista ed esercita una sua sacralità, un suo potere, soprattutto purificatore. Una volta ottenuta la purificazione, si spera in frutti migliori e quindi in risultati più positivi. Oltre la purificazione l’acqua produce effetti di fertilizzazione, chiaramente evidenti nell’azione del fiume “sacro” per gli egiziani, il Nilo. In pratica l’acqua dà la vita e contribuisce a mantenerla. Se però essa viene a mancare, come nel caso di lunghi periodi di siccità, si provvede ad organizzare cerimonie religiose (o para-religiose) per ottenere la pioggia.
C’è tuttavia un carattere ben peculiare dell’acqua: essa può dare la vita di grazia, non solo liberando uomini e donne – mediante il battesimo – dagli effetti del peccato originale ma anche garantendo il raggiungimento della vita eterna (anche per questo si aspergono i defunti).
Si ritiene d’altra parte che l’acqua sorgiva sia a contatto con la divinità e mantenga perciò qualche carattere divino. A partire da questa considerazione si comprende meglio il significato di alcuni eventi che connettono direttamente acqua e religione. Forse quello di Lourdes è il caso più emblematico. La cittadina francese è ricca di sorgenti minerali ed è attraversata da un fiume sulla cui riva sorge, non lontana, la grotta di Massabielle, dove si narra sia avvenuta l’apparizione della Madonna alla quattordicenne Bernadette Soubirous. Alla fanciulla la Vergine avrebbe detto di scavare davanti alla grotta per trovare una fonte cui lavarsi ed abbeverarsi. Fu così che si venne a scoprire una sorgente, assolutamente sconosciuta prima di allora e che tuttora produce diverse decine di migliaia di litri ogni giorno. Poi si è cominciato a parlare di guarigioni “miracolose” avvenute grazie all’uso della fonte di Massabielle. I casi di presunta guarigione vengono affidati allo studio di un Bureau médical e di un Bureau d’Études Scientifiques, prima di essere segnalati all’autorità ecclesiastica.
Come non ricordare che anche a Gerusalemme c’era una piscina purificatrice, detta probatica perché destinata alle pecore (προβατικός significa riguardante le pecore, πρόβατα) che venivano lavate prima di essere portate al sacrificio. Si riteneva anche che quell’acqua fosse in grado di risanare le persone inferme.
A Vicarello, una località a nord del lago di Bracciano, c’è una sorgente di acque dette Apollinari perché sacre ad Apollo, come documenta peraltro la presenza di oggetti votivi ritrovati nel 1852 in un deposito; nella medesima zona si sono ritrovate anche varie iscrizioni dedicate alla medesima divinità. Fino al 1970 sono state pure in attività le Terme Apollinari di acque minerali bicarbonato-solfato-alcalino-terrose adatte per fanghi, bagni e cure in grotta.
L’abitudine a collegare sorgenti e presenze sovrumane è costante nei secoli e nelle culture. La mitologia è ricca di esseri quali ninfe, naiadi, dei-fiume, che presiedono a corsi d’acqua che rendono fertili interi territori. Alcuni dei-fiume sono considerati figli di Giove o Nettuno o, in origine, di Oceano. La madre può essere anche un’oceanide. Gli dei-fiume sono in genere proteiformi perché capaci di assumere forme molteplici e cangianti, anche nel nome oltre che nella natura: Glauco, per esempio, da essere mortale diventa una divinità, assumendo il nome di Saggio del mare.
L’acqua serve pure per attività divinatorie. Ad esempio nell’ordalía, nel cosiddetto giudizio di Dio, c’era non solo la prova del fuoco ma altresì quella dell’acqua. Com’è noto, si ricorre all’ordalía in caso di incertezza da parte dei giudici nell’emettere una sentenza. L’ordalía dell’acqua consiste, per esempio in India, nel porre immagini sacre in acqua per vedere che cosa succede di esse. In altri casi la prova è effettuata con il ricorso all’acqua bollente oppure a quella fredda. Un’ordalía dell’acqua era usata nell’antica Babilonia, ma una tradizione più cospicua era presso i popoli germanici medievali e particolarmente presso i Longobardi, che la introdussero in Italia.
L’acqua nelle religioni arcaiche
Sebbene vi sia una certa differenza fra l’acqua di terra e quella di mare nondimeno sin dagli albori della storia dell’umanità (e forse della sua preistoria) si sono registrate interconnessioni continue, esplicitate in primo luogo dalle relazioni fra le divinità dell’uno e dell’altro ambito. Secondo la mitologia greca tutti gli dei e gli esseri umani traevano origine da Oceano, il padre, e da Teti, la madre.
Oceano era piuttosto un fiume, prima di essere un mare, mentre Teti aveva un carattere meno definito ma di natura femminile. Dall’unione di Oceano e Teti nacquero tutti i progenitori del genere umano, fra cui Urano e Gaia (il cielo e la terra), genitori dei Titani. Oceano e Teti generarono pure le acque della terra e le sorgenti dei fiumi. Secondo un’altra variante, Cielo e Terra provenivano dalle acque primigenie poste attorno all’universo, di cui delimitavano i confini.
Oceano generava acqua per sorgenti e fiumi grazie a percorsi sotterranei. In seguito i fiumi si gettavano nel mare e riandavano dal padre Oceano, ad est, cioè nel luogo di prima apparizione del sole e dove era collocata la fonte di Oceano. Si aveva dunque una circolarità di flusso. Ma Oceano e Teti ad un certo punto invecchiarono e non generarono più, limitandosi a presiedere l’azione purificatrice svolta dalle acque. Il sole e tutte le stelle infatti si calavano nelle acque oceaniche e ne risorgevano dopo aver goduto di un’azione rigeneratrice.
Nel mare oceanico c’erano due isole: una destinata agli eletti, oramai salvi per l’eternità; l’altra abitata da Zeus ed Era che disponevano di una fonte di ambrosia per purificare chi la bevesse.
Nel frattempo anche Oceano svolgeva la sua azione di catarsi, di liberazione e di rigenerazione. Egli rendeva fertili i corsi d’acqua e favoriva condizioni di abbondanza.
Le acque che scorrevano sotto il livello superficiale finivano nello Stige, altro figlio di Oceano. Anche tali acque erano purificatrici come l’ambrosia. Sullo Stige le divinità giuravano, mettendo in causa la loro stessa origine e la possibilità di avere ancora ambrosia a loro disposizione.
Per Esiodo, al contrario di quanto tramandato dalla prospettiva mitologica delineata sinora, non era l’acqua ma la terra a porsi come base primigenia di tutto il mondo divino ed umano. Infatti Gaia, dunque la terra, era all’inizio di ogni cosa, in quanto procreava in proprio (senza alcun ausilio di genere maschile) sia Urano, ovvero il cielo, sia Ponto, ovvero il mare che circondava la terra. Il rapporto coniugale fra gli dei non era mai ritenuto incestuoso: Ponto era divinità maschile che si univa a Gaia, sua progenitrice, la quale a sua volta si accoppiava con Urano, suo figlio. Ma la stirpe procreata dalla prima coppia era particolarmente numerosa e di carattere divino primario, mentre i figlie le figlie della seconda unione erano pochi e considerati esseri divini minori. Anche dopo l’esito della battaglia detta Titanomachia, conclusasi con i Titani precipitati nel Tartaro, Oceano continuava a dominare le acque attorno alla terra.
Tra i figli del mare, Ponto, c’erano Ceto e Forcide, che era simile a Nereo, figlio di Oceano e perciò suo fratello. Nereo abitava il mare, ne conosceva gli strati più profondi ed aveva sposato una figlia di Oceano, chiamata Doride. I loro figli somigliavano molto a quelli di Oceano, per cui spesso si confondeva fra oceanidi e nereidi, divinità femminili connesse alla vita acquatica e solite apparire durante le tempeste, o nelle risacche e nelle onde che si infrangevano sul bagnasciuga.
Il dio per eccellenza delle acque era tuttavia Poseidone, dio dai molti poteri su ogni genere di acque. Egli era un cronide e dunque nipote di Urano e figlio di Crono. Pur nato da Gaia, la terra, Poseidone restava comunque una divinità marina. Dopo la Titanomachia, Poseidone ottenne il dominio sul mare, Zeus sul cielo ed Ade sugli inferi; tutto il resto apparteneva in comune ai tre. Nondimeno sia Poseidone che Ade erano soggetti a Zeus, che presiedeva l’Olimpo.
Restava dunque a Poseidone la supremazia sul mare, simbolizzata dal tridente che egli brandiva. Il dio abitava, insieme con la compagna Nereide, un grande edificio in fondo al mare, dove riceveva accoglienze regali dagli esseri marini. Ma sovente egli mostrava la sua ira e scuoteva le acque marine, procurando naufragi e facendo sorgere dal mare mostri orrendi (in particolare dalle fattezze di tori), che naviganti e pescatori cercavano di evitare ingraziandosi il dio. Poseidone era anche vendicativo, come dimostrava facendo sgorgare acqua salata dall’Acropoli ateniese. Ma egli poteva far zampillare anche acque di ottima qualità (come Mosè che poté far scaturire acqua dalla roccia), percuotendo la terra con il tridente e creando terremoti. I cavalli che discendevano da lui (e secondo una tradizione turca il mare era madre del cavallo) avevano la proprietà di far scaturire acqua sorgiva, con il semplice tocco del loro zoccolo. Pure la facoltà opposta era attribuita a Poseidone: quella di rendere arida una fonte già copiosa. Egli aveva generato altresì il gigante Polifemo, che venne poi accecato da Ulisse. Infine conviene ricordare che tutti i mari erano collegati fra loro e ricevevano acqua da Oceano
Proteo era il Vecchio del mare, allo stesso titolo di Nereo, Forcide ed altri ancora. Di tanto in tanto egli giungeva sulle rive cambiando di aspetto, dunque mettendo in evidenza – in tal maniera – di possedere il carattere fluido dell’acqua. Ma non vi era certezza assoluta sul fatto che Oceano fosse un dio-fiume e Proteo un dio-mare.
Sovente una divinità non era facilmente riconoscibile perché assumeva nomi diversi, come del resto le acque cui era collegata. La figlia di Cadmo, chiamata Ino, era finita in mare ed era divenuta una nereide di nome Leucotea. Qualcosa di simile era capitato a Glauco, essere dapprima mortale ma poi divinizzato ed indicato come Saggio del mare.
La stessa concezione del Caos originario, da cui successivamente si sarebbero sviluppate la terra e l’acqua, dava l’idea di un grande abisso sconfinato ed incommensurabile, appunto χάος, ovvero baratro, proveniente dal verbo χάσκω oppure χαίνω, cioè mi apro (una voragine sotto i piedi).
L’acqua come genitrice e rigeneratrice
L’acqua è vita, purificazione, rigenerazione. Da qui nascono molteplici possibilità di sviluppo. L’immersione nell’acqua è un ritorno alle origini, con un esito che genera forza e purezza. Le potenzialità dell’acqua sono ampie ed innovatrici. La Pizia, sacerdotessa di Apollo a Delfi, beveva alla sorgente Castalia per poterne trarre ispirazione prima dei suoi vaticini. Ed i pellegrini che si recavano al santuario di Delfi dovevano fare un bagno purificatore nella medesima fonte, come condizione previa per poter consultare l’oracolo.
L’acqua è forma essenziale, creatrice di vita sia materiale che spirituale. Essa può tendere verso il basso o muoversi orizzontalmente. Ai primordi non vi erano confini per le acque sulla cui superficie era stato covato l’Uovo del mondo. L’acqua era stata dapprima caos e poi si era divisa in acque superiori ed acque inferiori (chiuse in un tempio dedicato al re dei Nâga), corrispondenti alla divisione per generi, maschile e femminile. Ne è simbolo la spirale doppia. L’acqua è dunque possanza universale. Essa stessa è soffio vitale: secondo la Genesi biblica, il soffio divino si muoveva sulle acque. Nella tradizione ebraica l’acqua è stata alla base della creazione, per cui la lettera M indica l’acqua come matrice ed ha un connotato ierofanico, è cioè manifestazione del sacro.
Jahvè dà l’acqua alla terra per renderla fertile e creare le condizioni necessarie alla vita. Ma c’è anche un’altra acqua, quella metaforica della saggezza che alberga nel cuore dei sapienti, le cui parole hanno la forza dirompente di un torrente. La stessa Torà, cioè la dottrina religiosa contenuta nel Pentateuco biblico (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), è fonte di saggezza. Lo Spirito Santo delle religioni cristiane dona l’acqua della saggezza, cioè la vita spirituale, e lava le anime: lo dice chiaramente Gesù nel Vangelo di Giovanni al capitolo 4, versetto 14 (“l’acqua che gli darò diventerà in lui sorgente di acqua, zampillante fino alla vita eterna”). Cristo stesso è fonte di vita. Sant’Attanasio (Ad Serapionem, 1, 19) sintetizza il tutto con una bella formula: il Padre è la sorgente, il Figlio il fiume, noi beviamo lo Spirito”. Così facendo si entra nella vita eterna. L’acqua dunque salva, lavando dai peccati. Essa è grazia divina.
L’acqua dà fecondità ed ha un potere medicamentale. Essa serve anche a moderare la forza del vino.
Presso i taoisti cinesi operano tuttora dei maestri dell’acqua consacrata. Presso gli induisti, per l’inizio del nuovo anno si benedicono statue e persone con l’acqua benedetta, che è simbolo della virtù suprema, ha a che vedere con la saggezza ed è libera di seguire l’andamento del terreno. Nella cultura tibetana l’acqua rimanda ai voti espressi da coloro che intraprendono la vita monastica.
Nell’ambito di sistemi contrapposti, l’acqua è il contrario del fuoco ma talora è connessa ad esso ed in particolare alla folgore. Infatti essa può purificare proprio come il fuoco.
Non sempre, tuttavia, l’acqua simboleggia la vita, giacché richiama pure la condizione della morte. Infatti si discende nell’acqua come morti perché gravati dei peccati, tuttavia se ne riemerge vivi, sanati, purificati. Inoltre lo scatenamento delle acque è foriero di grandi catastrofi e dunque di morte, come nel caso del diluvio universale, che però colpì i peccatori e salvò i giusti. Un altro collegamento con la morte si ritrova nell’usanza celtica di porre sulla porta di casa di una persona defunta un contenitore d’acqua lustrale, con cui tutti coloro che si recavano a portare le loro condoglianze si aspergevano, al momento di uscire dalla magione in lutto.
Nel Corano (14, 32 e 2, 164) si parla dell’acqua inviata dal cielo per far maturare i frutti e garantire la sopravvivenza del genere umano. L’acqua è poi fondamentale per il musulmano che deve fare le sue abluzioni prima della preghiera.
Infine l’acqua che scende dal cielo ha un carattere maschile, quella che si trova sulla terra ha invece una connotazione femminile.
Il kumbh mela
C’è una festa nel mondo induista che certamente rappresenta al massimo grado il legame tra l’acqua e la religione. Si tratta del festival induista detto della brocca, ovvero kumbh (brocca) mela (festa).Esso ha luogo nel Sangam, cioè alla confluenza fra il fiume Gange ed il fiume Yamuna. Il rito è duodecennale. Secondo la narrazione mitologica contenuta nei Purana, antichi testi induisti, ai primordi del mondo gli dei ed i demoni fecero ribollire le acque oceaniche per ottenere il nettare di vita eterna. Dalle acque ribollenti emerse una brocca con il prezioso liquido. I demoni presero la brocca ma lo spirito Jayanta riuscì ad impossessarsene a sua volta e la portò in cielo, sennonché durante il trasporto quattro gocce del nettare caddero sulla terra, dando origine a quattro città: Hardwar, Allahabad (l’antica Prayaga, ovvero confluenza), Nasik e Ujjain. Il viaggio verso il cielo durò dodici giorni e perciò ogni dodici anni, a turno in ognuna delle quattro città, si svolge il festival della brocca (dunque il kumbh mela ha luogo ogni tre anni in una delle quattro città). La giornata più importante di tutta la celebrazione è quella della luna nuova, allorquando si celebra il grande bagno rituale dei milioni di pellegrini recatisi al Sangam per liberarsi del ciclo di vita e morte, mediante l’immersione. Le coppie di coniugi fanno il bagno insieme. Ma i primi ad entrare in acqua sono gli asceti Nâga, che fanno il cosiddetto bagno reale, Shahi snan. Anche in giorni diversi dalla festa, ogni sera un bramino compie il rito del fuoco, che consiste nel roteare verso l’altro tre candelabri accesi (cioè i fiumi sacri Gange, Yamuna e l’invisibile Sarasvati) per richiamare l’attenzione delle divinità: il fuoco unisce così uomini e dei. Infine le fiammelle, messe in appositi contenitori, vengono lasciate galleggiare sul fiume, per andare verso il mare, dunque verso l’incommensurabile dello spazio (e del tempo). Un’ultima non secondaria considerazione va fatta: il Gange ha un carattere femminile. Infatti è detto Ganga. Lo stesso dicasi per il fiume Yamuna. Entrambe le dee-fiume sorreggono una brocca od anfora d’acqua: la dea Ganga con la mano sinistra e la dea Yamuna con la mano destra, in modo tale che le due figure poste l’una di fronte all’altra appaiano unite simbolicamente proprio dal contenitore d’acqua, testimonianza eloquente del grande culto che gli indiani e gli induisti riservano ai fiumi sacri per il loro potere purificatore e fecondante.
Di rilevante interesse è un’antica relazione, Datang xiyu ji di Xuanzang, un pellegrino cinese che visitò l’India nel VII secolo dopo Cristo, all’epoca dei grandi T’ang: “Alla confluenza dei due fiumi, ogni giorno ci sono molte centinaia di persone che si bagnano e muoiono. La gente di questo paese ritiene che chiunque desideri rinascere in cielo debba digiunare fino ad un chicco di riso e poi annegare nelle acque. Bagnandosi in queste acque la contaminazione del peccato è lavata via e distrutta; pertanto molti arrivano da varie contrade e da regioni lontane e qui si fermano. Per sette giorni si astengono dal cibo e dopo finiscono la loro vita”.
Le valenze simboliche e religiose
Non è raro che il pellegrinaggio comporti l’attraversamento di un corso d’acqua, specialmente in prossimità del luogo di arrivo. Orbene il fiume (od anche un semplice torrente) evoca immagini e significati che si legano strettamente a quelli del viaggio. Lo scorrere dell’acqua indica che tutto passa (appunto il “tutto scorre”, il tutto procede di antica memoria filosofica, dal presocratico Eraclito in poi) e che tutto si trasforma, mutando attraverso le forme assunte di volta in volta. Le onde, i cicli, si susseguono senza soluzione di continuità, dando luogo ad innovazioni senza sosta, irrorando vaste aree e rendendole fertili, dunque capaci di produrre frutti essenziali per la vita, rinnovando la natura e la capacità produttiva dei terreni. Ma la corrente d’acqua non s’arresta mai e tutto travolge e supera, dando l’idea del transeunte, del passaggio che dura poco più di un attimo. Platone del resto già esprimeva bene questo concetto nel Cratilo 402 a quando ricordava, con accenti eraclitei, che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Dunque l’acqua che scorre dà l’idea di ciò che passa, cambia, muore. Del resto la vita stessa di una persona ha una durata minima, rispetto allo scorrere dei secoli e dei millenni. Un viaggio, un pellegrinaggio, per quanto lungo è appena un momento nel corso di un’esistenza o semmai dura non più di qualche giorno od uno solo, nell’ampio arco di un intero anno.
In molti casi si ricorre all’uso di vasti accampamenti, di estese tendopoli, con problemiigienico‑sanitarifacilmente immaginabili. Fra l’altro uno degli inconvenienti più spesso lamentati dai pellegrini islamici che si recano alla Mecca è lamancanza o comunque la scarsezza di acqua (è sintomatico che i proprietari degli alloggi ricevanoinizialmente solo lametà della sommapattuita per l’ospitalità, mentre l’altra metà resta adisposizione dei pellegrini sino alla finedel soggiorno,perché in caso di insufficienteprovvista di acqua essihanno il diritto di spenderetale somma appunto per l’acquisto dell’acqua, senza dovere più nulla ai locatori). Fra le diverse azioni prescritte nel pellegrinaggio alla Mecca, il pellegrino musulmano deve fare il Sa’y, cioè correre fra le colline di al‑Safa e al‑Marwa, dove Hagar cercò acqua per suo figlio, andando disperata avanti e indietro fra le due alture per sette volte, finché non apparve l’angelo Gabriele a far sgorgare acqua dal suolo. In ricordo del fatto prodigioso anche i pellegrini corrono per sette volte fra le due colline.
L’attraversamento di un corso d’acqua segna anche il limite fra due territori differenziati: tra il profano ed il sacro, tra la morte e la vita. La traversata (o il superamento, eventualmente mediante un ponte) collega la realtà fisica a quella metafisica, la dimensione empirica a quella onirica, il desiderio alla sua realizzazione, l’al di qua con l’al di là. Presso i greci il passaggio di un fiume era accompagnato da riti propiziatori, in omaggio alla divinità fluviale, cui si offrivano anche dei sacrifici animali; inoltre, prima di attraversare, la preghiera ed il lavarsi le mani nello stesso fiume erano considerati atti dovuti.
L’acqua infatti in quanto purificatrice pone il soggetto nella condizione migliore per accedere allo spazio del sacro, allo “stato di grazia” (è appena il caso di ricordare che Giovanni Battista battezzò il Cristo con l’acqua e nell’acqua del fiume Giordano). Nell’antica Cina i promessi sposi usavano attraversare un fiume nell’equinozio di primavera (momento di transizione calendariale e stagionale) come modalità purificatrice e propiziatoria in vista della fertilità matrimoniale.
Un contenitore abituale di acqua è il pozzo, il cui carattere sacro è dato dalla sintesi fra cielo, terra, inferi. L’acqua offerta ad un nomade (e chiesta pregando) è simbolo che procura gioia, perché evita la morte per sete e dunque è come una manna. Lo stesso Mosè ebbe a fermarsi presso un pozzo, quello di Getro, riconoscendolo in tal modo come un centro spirituale, sia pure di livello minore; esso, come tutte le fonti, permetteva la nascita dell’amore mediante l’avvio di storie di innamoramento.
Ogni viaggio o pellegrinaggio dipende dalla disponibilità di acqua, solitamente reperibile in un luogo di pace come l’oasi. Il pozzo è una sorta di microcosmo, che permette altresì la comunicazione con i defunti. Il suo misterioso contesto non ne indebolisce il carattere di crocevia. Va considerato che, a parte la collocazione verticale dell’imboccatura, il pozzo è anche una caverna, di cui condivide molti aspetti sul piano di una lettura metaforica.
La terra degli israeliani e dei palestinesi è costellata da corsi d’acqua. A Gerusalemme è disponibile l’acqua preziosa di Siloe. All’ospite si offre acqua fresca e si lavano i piedi in segno di buona accoglienza. Lo stesso Jahvè è considerato in Osea 6, 3 come una benefica pioggia, sia invernale che primaverile. E l’uomo giusto è come un albero piantato lungo le rive di corsi d’acqua (Numeri 24,6).
Non è raro altresì che un fiume scorra ai piedi di una montagna dove si trova un santuario. In tal modo la pregnanza del significato simbolico è enfatizzata al massimo. Come nel caso di Delfi, nell’antica Grecia, ogni santuario ha di solito una sua fonte, un pozzo d’acqua, una sorgente.
Da un ombelico primordiale sarebbe nato il mondo. E dall’ombelico di Visnù, secondo un’antica tradizione induista, ebbe origine il fiore di loto che schiudendosi costituì la prima comparsa della vita. Il centro del loto era occupato dal monte Meru, asse del mondo. Fiore puro ed incontaminato, il loto è anche simbolo di una capacità di resistenza persino in acque torbide, dunque è un chiaro segno dell’inattaccabilità del bene da parte del male. Infine non è da trascurare il nesso precipuo fra il loto-ombelico e l’acqua, linfa di vita e contenitore di vita (nel grembo materno). Vi è poi il legame con la croce. Infatti “la croce assume i temi fondamentali della Bibbia. Essa è albero di vita (Genesi 2, 9), saggezza (Proverbi 3, 18), legno (quello dell’arca, quello delle verghe di Mosè che fecero sgorgare l’acqua, quello cui è legato il serpente di bronzo). L’albero di vita simbolizza in modo reciprocamente scambievole il legno della croce, da cui l’espressione usata dai Latini: sacramentum ligni vitae” (Chevalier, Gheerbrant 1982: 323).
Inoltre è significativo che nel proemio del Purgatorio ricorra la metafora del viaggio e più specificamente della navigazione, della “navicella dell’ingegno” del poeta che si lascia alle spalle un “mare crudele” e si appresta a percorrere “miglior acque”; tale metafora è ripresa all’inizio del canto II del Paradiso, dove il poeta ammonisce i lettori che hanno seguito il suo “legno” “in piccioletta barca” a non discostarsi dalla scia della sua nave. “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse” può dire con fierezza Dante, protagonista di un’impresa audace, simile a quella degli Argonauti, richiamata nei vv. 16-18 del medesimo canto, o all’ultimo viaggio di Ulisse, celebrato nel canto XXVI dell’Inferno, e però non un “folle volo”, perché intrapreso alla luce della fede” (Rigobello 1997: 21-2).
L’acqua come integrazione fra vivi e defunti
La letteratura sulle divinità dell’acqua è ampia ed approfondita, comprende studi sull’Africa e sull’Asia, sull’Australia e sull’intero continente settentrionale, centrale e meridionale dell’America, nonché su realtà “minori” come quelle dei nomadi e degli Yoruba nigeriani.
Com’è noto più di due terzi del corpo umano è composto di acqua, cioè di un terzo di ossigeno e di due terzi di idrogeno. Non meraviglia dunque la rilevanza attribuita all’acqua in tutte le dimensioni esistenziali, che peraltro hanno nella religione una componente significativa. Soprattutto viene enfatizzato, come si è già detto, il carattere fertilizzante dell’acqua, creatrice di vita. Essa permette anche la transizione dal profano al sacro, il che ha luogo appunto “passando le acque”, cioè andando dal fisico al metafisico, dalla terra al cielo. Anche i pagani aspergevano di acqua lustrale i loro defunti al momento dei funerali. Del resto lo stesso ciclo calendariale annuale è un susseguirsi di cicli legati all’acqua: “primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera”, come suona il titolo di un affascinante film, tutto incentrato sull’acqua e sulle sue varianti da neve a pioggia, da flusso che inonda a flusso che si ritira.
Ma forse uno dei luoghi più intriganti sul rapporto fra acqua e religione si trova in Grecia, nei pressi di Preveza, in Epiro, e precisamente nel Νεκρομαντείο (da νεκρóς, morto, e μαντεία, oracolo), dove è stato ritrovato (nel periodo 1958-1977) un santuario in cui aveva luogo la comunicazione fra vivi e defunti. Il Νεκρομαντείο è antichissimo ed è collocato sulla riva nord del fiume Acheronte, presso le rovine di un monastero del XVIII secolo dedicato a San Giovanni Battista (dunque anche quest’ultimo particolare del santo titolare del tempio cristiano non è affatto casuale e sembra sottolineare chiaramente il nesso con il valore simbolico dell’acqua). Il punto centrale del Νεκρομαντείο è costituito da un’aula sacra la cui volta ha quindici archi: è questo il palazzo di Ade (ovvero Plutone) e Persefone, in cui le ombre dei morti apparivano per comunicare con quanti si recavano a consultare l’oracolo. L’intero complesso risale alla fine del IV secolo avanti Cristo od agli inizi del III secolo. Lungo le spesse mura della sala principale esiste una sorta di passaggio segreto che rendeva possibile al sacerdote vaticinante di muoversi inosservato. Inoltre i pellegrini erano sottoposti ad una dieta di fagioli e lupini che creava le condizioni ideali per la comunicazione con i defunti. Prima di accedere alla zona principale del santuario i visitatori dovevano provvedere alle operazioni di purificazione in un’apposita sala dedicata allo scopo. All’esterno del santuario sono visibili enormi anfore che presumibilmente contenevano l’acqua lustrale da servire per le abluzioni purificatrici. A fianco del Νεκρομαντείο scorre il fiume Acheronte, su cui secondo la mitologia greca Hermes traghettava i morti per farli giungere alle porte dell’Ade, cioè degli inferi, la cui entrata corrisponderebbe appunto al Νεκρομαντείο. Infatti per gli antichi le grotte, le gole profonde, le aperture nel terreno, le fenditure, erano da considerare delle zone di accesso all’al di là. C’era la credenza che i morti, privati del corpo e divenuti ombre, avessero raggiunto l’immortalità e potessero predire il futuro a coloro che avessero seguito talune prescrizioni (alimentazione particolare, sacrifici, lavacri ed altro ancora). Nel Νεκρομαντείο apposite sale più piccole servivano per l’incubazione, cioè la preparazione lenta, meticolosa e ritualizzata per predisporsi ad un’azione sacra come quella dell’interrogare i defunti (anche Ulisse lo aveva fatto, come si legge nell’Odissea). Infine è da notare che l’Acheronte ha una parte sotterranea del suo corso che poi sfocia nella palude detta Acherusia, giusto dove si collocava l’ingresso agli inferi (Odissea X, 513). Per questo presso i Latini il nome Acheronte era sinonimo del regno ultraterreno.
Conclusione
Sullo sfondo rimane tuttavia soprattutto il massimo problema di tipo integrativo, quello che vede ancora un forte divario fra chi dispone di risorse idriche sufficienti e chi invece deve cercare soluzioni alternative, con sforzi enormi e scarsi risultati. Quasi tre miliardi di persone nel mondo non dispongono di adeguati servizi igienici per scarsità di acqua. Ciò pur stimolando soluzioni solidaristiche non permette di dedicare tempo ed attenzione agli aspetti relativi alla condivisione sociale, alla consapevolezza civile, al rispetto dei diritti, all’osservanza dei doveri. Ed intanto permangono insoluti ben altri problemi: la conservazione dell’ambiente, la gestione delle risorse floro-faunistiche, la politica sanitaria, il controllo delle malattie, delle infezioni, delle epidemie, della malaria, delle arbovirosi provenienti dagli animali artropodi (ma non solo) – arthropod borne viruses –, la corretta conduzione dell’acquacultura (Kay 1999).
Il fatto è che spesso sono le minoranze di ogni genere che corrono maggiori rischi perché risiedono vicino ad acque inquinate. Varie ricerche hanno messo in evidenza come la distanza dai luoghi di approvvigionamento dell’acqua è direttamente proporzionale al rischio di ammalarsi, per cui le condizioni ambientali più prossime hanno un’incidenza strategica sulla salute delle persone.
La sociologia dell’acqua (Gambescia 2006) può essere di aiuto a studiare fenomenologie e dinamiche collegate ai tassi di disponibilità idrica, onde studiare impatti e conseguenze ma pure soluzioni e rimedi. Va però anche riconosciuto che si tratta di un’attività scientifica piuttosto ardua perché contrasta con interessi consolidati, privati, privilegiati, rendendo difficile la stessa percezione dell’esistenza di un problema, più di frequente segnalato dagli scienziati sociali che non da altri studiosi di discipline non umanistiche. D’altro canto il confronto è destinato a scontrarsi con criteri facilmente manipolabili da parte di chi avendo il know how specifico è portato in ogni caso a contestare le prove altrui, definite come deboli, non affidabili, non significative, non rappresentative. Neppure di fronte ad elementi di schiacciante evidenza ci si può aspettare un atteggiamento di disponibile consenso. Sul versante opposto si muove la proposta del rispetto dell’ILVA, cioè dell’Indigenous Land Use Agreement, in quanto accettazione – da parte di chi vi risiede – del tipo di uso da fare del terreno disponibile.
Come scrive Gambescia (2006) “il problema della proprietà pubblica dell’acqua (ma sarebbe preferibile definirla ‘collettiva’), come del resto altre grandi questioni ‘ambientaliste’, sta assumendo un’importanza strategica, per un capitale privato, sempre più affamato di profitti. E questo spiega il silenzio del ‘Corriere della Sera’, ‘Repubblica’, ‘Stampa’, per non parlare dei giornali della destra conservatrice e liberale. Tutti dipendono finanziariamente, chi più chi meno, da quei ‘poteri forti’, non solo italiani, che vogliono appropriarsi di un ‘bene comune’, come l’acqua, per trasformarlo, in una ennesima fonte di lucrosi guadagni. Di qui la necessità di opporsi. Ma anche di una spiegazione sociologica del processo in corso. L’idea economicistica di fondo è che non esistono beni collettivi, ma solo beni privati e acquisibili, sul mercato, pagando un ‘prezzo’. L’assioma sociologico sottostante è che l’individuo è tutto e la collettività nulla. Attenzione, si crede nell’individuo autosufficiente in grado di lavorare e acquistare i beni di cui ha bisogno. Si dà, insomma, per scontato che tutti siano in grado di farcela da soli. E che chi ‘non riesce’ sia colpevole, perché non si è abbastanza impegnato. Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo anni Ottanta, ama ripetere nei suoi libri, con autentico sadismo, che nel capitalismo ‘nessun pasto è gratis’: ogni bene ha un prezzo. E soprattutto che nessuno può pretendere di vivere alle spalle dell’altro. Tuttavia, affinché si giunga alla mercificazione totale è prima necessario attribuire al bene un carattere di ‘fruibilità limitata’. La scarsità di un bene determina il suo prezzo, e proprio perché il bene è scarso, e quindi raro, il suo prezzo non deve essere eccessivamente basso. E comunque, sarà il mercato, attraverso la concorrenza a fissare il prezzo ‘giusto’ per produttori e consumatori. Questa, in breve, la vulgata liberista. Che, una volta compresa nelle sue linee di massima, consente però di distinguere le tre principali fasi di un processo ‘idealtipico di privatizzazione’: 1) si dichiara l’acqua un ‘bene scarso’; 2) si danno per scontate l’autosufficienza dell’individuo e la bontà dei meccanismi concorrenziali; 3) si dà il via alle privatizzazioni… L’acqua non è un bene scarso. Ma è un risorsa mal distribuita e poco condivisa (soprattutto tra Nord e Sud del mondo). E anche se lo fosse, in quanto risorsa necessaria alla riproduzione della vita, andrebbe messa gratuitamente a disposizione di tutti, evitando sprechi e razionalizzandone, con investimenti pubblici, la rete di produzione e distribuzione. L’uomo non è un’isola: l’individuo non sempre è autosufficiente, e dunque ha bisogno di un sostegno pubblico e di una rete di solidarietà. E soprattutto di non essere mai privato di quelle risorse, come l’acqua, necessarie alla sua riproduzione fisica. I mercati, oltre a essere imperfetti, escludono coloro che non possono ‘accedervi’, perché privi di lavoro, e dunque di reddito spendibile. Privatizzare il settore significa avviare un processo di concentrazione monopolistica e di conseguente assorbimento delle imprese più piccole da parte di imprese più grandi, e probabilmente straniere. Sono verità “sociologiche” semplici, direi quasi luoghi comuni”.
Con un taglio più scientifico la rivista Worldviews. Global Religions, Culture, and Ecology (volume 17, n. 2, 2013) ha dedicato al tema un suo numero speciale dal titolo “Living Water”: articoli di diversa impostazione e specifico contenuto affrontano il significato ed il ruolo dell’acqua nella vita sociale a partire da una prospettiva buddista (Butcher: 103-114), da una visione estrema quale può essere quella di un contesto artico siberiano ai limiti della sopravvivenza fra liquido e solido (Crate: 115-124), dalla situazione di straordinaria abbondanza di acqua nel Kirghizistan costellato di mazars cioè di luoghi che sono insieme sacri e terapeutici (Bunn: 125-137), dal ruolo dei guaritori-indovini Nguni del Sudafrica impegnati nella ritualità dell’acqua perenne ovvero living water (Bernard: 138-149), dai tre indicatori usati a Boston per testare la qualità delle acque cioè aringhe, batteri e gigli d’acqua (Scaramelli: 150-160), dalle relazioni dei gruppi umani con altre specie a seguito della costruzione di una diga (Strang: 161-173), dalle rapide del fiume Kemi (in Lapponia) chiamato “corrente di vita” (Krause 174-185). Emblematicamente i curatori sostengono che “per molte persone l’acqua compendia le connessioni e l’integrazione di processi vitali: come l’elemento fonte di vita che permette la produzione e la riproduzione, e come un’essenza della comunità e dell’appartenenza” (Krause, Strang: 96). Ed in conclusione “l’acqua può essere sia fonte di vita che minaccia per la vita, e molto dipende dal momento, dalla quantità, dalla composizione, dalla distribuzione spaziale e dal controllo socio-economico dei flussi d’acqua. Concentrarsi sui problemi dell’acqua serve anche ad esprimere le più ampie vulnerabilità ed ansietà delle persone, fornendo una nuova prospettiva sulle relazioni socio-politiche” (Kraus, Strang: 96-97).
Riferimenti bibliografici
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Gambescia C. (2006), Sociologia dell’acqua, Arianna Editrice, www.ariannaeditrice.it
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“Sociological Knowledge of the Other: Wolff’s ‘Surrender and Catch’ Methodology”, The American Sociologist, 47, September, 2016, pp. 1-19.
Otherness as Problem of Sociological Knowledge: Kurt Wolff (1912-2003)
Abstract
From a sociological perspective the “surrender and catch” expression derives, of course, from the experiential and existential basis of Wolff’s epistemology and hermeneutics.
“Surrender” is connected with phenomenology, and Husserl’s (as well as Schütz’s) writings, besides Scheler’s idea of a “relatively natural world view”.
“Surrender and catch” is also a “sociology of understanding” a definition which recuperates the German verstehende Soziologie though it makes a distinction between “surrender” and “surrender to”. It is not just a theory, it is a methodology too, in order to understand the otherness.
Wolff was a multi-facetted scholar and this affected his conceptualizations. Furthermore, his surrender is something one experiences existentially in a number of fields, from the nature of empirical research to the art of theoretical reflection, from politics to poetry, from philosophy to history to sociology.
It must also be pointed out that surrender and catch are a form of protest against the status quo.
Keywords
Surrender, catch, otherness, sociological knowledge, Kurt Wolff
Defining surrender as way of knowledge
There can be no theory without concepts. Therefore, it is fundamental to define concepts when building up a theory, indicating the chosen methodology, stating whether it be constructionist or otherwise, if it begins from hypotheses or data, is quantitative or qualitative, mono-method or multi-method.
A number of concepts appear seminal because they are particularly fertile, that is, they are more productive than others. This is true of the social-class concept in Marx, of solidarity in Durkheim, charisma in Weber, gift in Mauss, structure in Lévi-Strauss, system in Luhmann, field in Bourdieu, liquidity in Baumann, risk in Beck and so on.
Wolff (1912-2003) was a multi-facetted scholar and this affected his conceptualizations. Furthermore, his surrender is something one experiences existentially in a number of fields, from the nature of empirical research to the art of theoretical reflection, from politics to poetry, from philosophy to history to sociology. In the author’s own words, “to surrender means to take as fully, to meet as immediately as possible whatever the occasion may be. It means not to select, not to believe that one can know quickly what one’s experience means, hence, what it is to be understood and acted on: thus it means not to suppose that one can do justice to the experience with one’s received notions, with one’s received feeling and thinking, even with the received structure of that feeling and thinking it means to meet, whatever it may be, as much as possible in its originariness, its itself-ness” (Wolff 1976: 20).
From a strictly methodological point of view this excerpt indicates a precise pathway to follow, that of non-selection of the situations and materials to be investigated, prior to investigation. Data should be accepted for what they are, an almost natural fact, given, to which to entrust oneself without qualms. At the same time one must renounce drawing up preventive, anticipatory hypotheses of any kind. The only expectation is that of awaiting developments, triggered by the dynamics of the situation. Otherness is not grasped at first glance. It is the final result. One cannot expect to understand, to “catch” the other during the first explorative encounter. Otherwise the experiences of the scholar prevail over those of the interviewee, who, on his/her part only allows him/herself to be captured slowly, in any case only partially, very partially, actually. It is not licit and there is no point in making suppositions regarding the nature, the profile of others, without a previous approach of surrending.
Capture (catch) occurs much later, when the dialogue established is such as to permit the interviewer and the interviewee to share knowledge and experience, in a new vision of reciprocation which looks like a new beginning, a new way of existing in the world. Wolff, for the sake of completeness, goes so far as to say that catch is not necessarily a concept, because it can turn out to be much more, from an option to a work of art, from a change of attitude to a clarification, even an encounter with surrender, from which to seek escape (Bennett 1992).
The relationship between surrender and catch is actually highly complex, because it is an endless, limitless process. In fact, as Wolff (1994a: 371) himself admitted, the initial prompt came from Mannheim’s distinction between ideological and sociological interpretation (Mannheim 1926) to become, respectively, for Wolff, intrinsic interpretation, availing of the terms of what is to be interpreted, without recourse to external resources, and extrinsic interpretation which seeks help from the socio-historical context.
Later, developments in Wolff’s thinking came up with the five characteristics of surrender. The first requires maximum suspension of acquired socialization, in an effort to understand someone or something, the other, as in the case of students who delve down deep into their disciplines utmost, laying aside, completely, what they already know.
The second feature is that the understanding of even a sole, unique experience can never exhaust the entire experience, which still remains to be acquired. The otherness is difficult to acquire in sociological terms.
The third point refers to the double nature of truth: scientific and existential. The latter is the truth of surrender, in line with rigorous examination of the most important experiences of other people.
Existential truth is related to ecstasy, the fourth aspect of surrender, which soars above everyday life in a spirit not very unlike that of poetry, as it too leads beyond reality.
The fifth characteristic of surrender is, finally, respect for mystery, in a dialectical rapport between the uncertainty of analysis and recognition of the indefectible nature of the mysterious. This is due to labilization, that is, a weakening or even a disappearance of norms, principles, guidelines or traditions that have become, in fact, labile. From this stems the need to start the quest for what to believe in anew, having laid aside one’s previous cultural heritage. But one cannot surrender to investigation without first accepting the idea that mystery is inexhaustible: the other is an hidden person. Therefore, catch cannot place limits on the cognitive process, as it is catch that actually leads to further surrender and so on. In short, surrender and catch are indissolubly inter-chained with each other, to reach together the level of a sufficient knowledge of otherness.
This pathway is a perfect backdrop to Mannheim’s thinking, emerging also in the idea of Sich-Haben, self-possession which takes place in surrender and which may be equally conjugated with loss of the self, seeing that possessing and losing oneself are part of the self-same process. This way, thanks to the experience, it is possible to establish norms.
Conceptualisation itself, that is, the establishment of concepts is a sort of catching of surrender. Catch is never final, definitive, however, because it may, in turn, become surrender. Analysis is carried out fearlessly, endlessly without any dread even of mystery. All told, possession of the self is not a static condition, but a continuous search for a better knowledge.
It must also be pointed out that surrender and catch are a form of protest against the status quo, at attempt at surpassing and turning the past on its head, to the total advantage of social beings. Surrender has, therefore, a critical, polemical, radical value.
Arlene Goldbard (arlenegoldbard.com/2008/12/13/surrender-and-catch/) appropriately defined Wolff’s proposal for a new sociological paradigm as the work of a scholar who practices what he preaches. In her opinion surrender is art, innovation, aimed at understanding and integration of otherness. It is, above all, an instance of “cognitive love, which enables one to see, does not blind”, according to an expression used by Wolff himself, who outlined its five features: 1) total involvement, because whoever loves feels totally at one with the addressee of his/her love, in a situation totally similar to that experienced during surrender, and which creates a state of tension, or, in any case, of concentration; 2) surpassing what has been learnt to date; 3) the pertinence of every aspect that strikes the researcher’s attention, whereby the person who loves takes an interest in everything regarding his/her beloved/lover; 4) identification, whereby those who love lose themselves in love to find themselves again; 5) the risk of causing damage, because those who proceed through surrender seek change, which is not devoid of consequences at relational, inter-subject level (including esteem) so, with surrender one must take into account having to face hurts and affronts of all kinds.
Recourse to surrender is stressful and goes against the current of tradition and convention, imposed by those who have power over them. Surrender, according to Wolff (1977) is “human reason’s most radical exercise”, rebellion at the service of love for a more humane human society. After all, a love of knowledge is the continuation of the multi-millennial action of philosophers down through the ages.
The significance of surrender and catch
Referring to the diffusion and use of one or more concepts, I recall the satisfaction with which Edward Shils spoke to me about his “centre-and-periphery” conceptual pair (Shils 1975), adopted on a broad scale all over the world and applied to many different contexts. Kurt Wolff too must have been content with the success of his “surrender and catch” binomial, which entered many sociological approaches on both sides of the Atlantic, as the many essays that cite it prove, despite the fact that some critical observations contained a certain vein of irony when dealing with the figure of the researcher who had, they believed, become the “prisoner” of the social reference-interlocutor. It is for this reason, too, that it is well worth our while to come to terms with this extraordinary bi-conceptual intuition of Wolff’s.
Kurt Wolff devoted as many as four publications to the binding connection he saw between “surrender and catch”. The first book, dating from 1972, was called Surrender and Catch: A Palimpsest Story (Wolff 1972). The second (Wolff 1976) was published as one of a series devoted to the philosophy of science. The third (Wolff 1978) was a paperback re-edition of the previous book. The fourth (Wolff 1995) resumed the theme of “surrender and catch” ending 23 years of revisions carried out between 1972 and 1995, and which saw the author involved in a number of disciplinary areas. In actual fact, Woolf had been engaged with the topic years before, seeing that his early essays on the issue date back to the 1960’s (Wolff 1962, 1962a, 1963, 1964, 1965, 1965a) if not before (Wolff N. d.). In the 1960’s, ‘70’s, 80’s and 90’s a further 13 articles containing in-depth discussions of a number of the features of the link existing between “surrender and catch” appeared, not to mention a number of translations and reprints. The idea of “surrender and catch” is applied even to poetry, for example, in his “first love” (Wolff 1986; Ward 1993). It is above all in articles published in reviews and magazines that he dwells specifically on the topic of surrender from a number of angles: phenomenological (Wolff 1972a, 1984), corporeal (Wolff 1974), radical (Wolff 1977; Ludes 1977), philosophical (Wolff 1979), cognitive (Wolff 1982, 1982a, 1983; Feher 1984), theoretical-critical (Wolff 1983a), hermeneutical (Wolff 1984a), methodological (Wolff 1978a), anthropological (Wolff 1994) and Mannheimian (Wolff 1988, 1995a). It is difficult to find an area where Kurt Wolff did not try to apply his theoretical tool, which consisted principally in a willingness to surrender, to trust the other and have faith in his/her substantial otherness (Wolff 1994). It follows that his main epistemological and methodological slant consists, in fact, in surrendering any expression of personal views as a researcher, up-stream, save, obviously one’s initial operative choice, an option which appears basically a declaredly qualitative one (Corradi 1987). This is amply documented in the Kurt Wolff Papers, Robert D. Farber University Archives of the Brandeis University of Waltham (Massachusetts), which contain a box entitled Surrender as a Response to Our Crisis, dating 1962, and another called Surrender and Catch, Hermeneutics, Phenomenology, Critical Theory, which bears no date.
Examining Kurt Wolff’s own life, it appears clear that it too moved along the coordinates of surrender, on the one hand, of catch on the other (Stehr 1981) and that, therefore, Wollf’s existential sociology sought surrender first, catch later, but with a view to escaping, mirrorwise, reversed positions, at the risk of unconditioned surrender to ideological and political enemies and, therefore, of being caught, that is, of being deprived of freedom of thought and action. All this for Wolff meant making an epistemological and methodological choice close to that concerning his own life: a continual surrender to every possible form of knowledge in order to catch it later, be it a foreign language, history, philosophy, poetry and, last but not least, sociology and, as a result, the thinking of Mannheim – whose attentive and assiduous student he was (Wolff 1991: 57-79) -, Simmel and Durkheim.
How the idea of surrender was born
It is not easy to find the original roots of a thought, of the formulation of a concept. It is likely that not even the author himself would have been able to trace the exact way the idea he called surrender was conceived (Ostrow 1990: 365; 1993: 301; Moon 1993: 305; Wolff 1993: 353-355; Wolff 2004: 353); he did provide a fictitious account of it (on the 27th. September 1973, in Florence), although in at least 9 of his previous essays he had already used the term.
Here is an account of the background story:
“Perhaps this book on surrender-and-catch begins thus (or even: thus begins). After this walk. After this — so it might seem — initiatory walk. For it is to walk, between the stones and the walls between which the walking goes, to communicate with the gates and the houses, the ochre paint, or the outrageous red, on the walls around the olive gardens, to greet the forbidding fort, whose walls preclude the view of our cupola, our campanile, our civic tower. And the cypresses: black brush slips in the towering sky — for the weather is not good. The olive trees shimmer, shivering in their own mean colour of graygreen against the dark-gray lumpiness of a sky. And yet: nothing can happen because one returns home, out of the wind that makes itself known as possibly not joking, and there it is still and warming, and soon expectant. Expectant? These words. I can wait a while.” (Wolff 1976: 3). This incipit of the first chapter of Surrender and catch, called “There is a beginning”, appears more like the beginning of a rather poetic literary work, than of a scientific essay on sociology. And yet it was this basically poetic moment, akin to a Mertonian instance of serendipity (Merton 1948), that gave birth to a new, eminently qualitative research style, where adjectives and adverbs prevail over numbers making depth and thoroughness hard to deny and/or contest.
It is no coincidence maybe, that it was Florence, the city of the Medici family, patrons of the sciences and of Michelangelo, that great artist, investigator of the human body and poet, that had such an incisive impact on this great (then emeritus) professor at Brandeis University. Further Florentine references spring to mind: from the dome of Santa Maria del Fiore by Filippo Brunelleschi, the bell tower of the cathedral by Giotto di Bondone, the municipal tower by Arnolfo di Cambio and the Belvedere bastion by Bernardo Buontalenti.
In Wolff’s case, the experience seems to have been triggered by a simple walk through Florence, amid walls and gates, stones and houses, ochres and reds, olive groves and cypresses. Even the wind seems to have played an almost human role by appearing to wait. Await what? In the words of the book, the author emphasizes the idea of waiting itself, at least for a while.
And is that all? Yes, but as someone (Kelly Dean Jolley: kellydeanjolley.com/2012/05/23/immortal-openings-9-kurt-h-wolff-surrender-and-catch/) wrote, here we are talking about an immortal overture, harbinger of extraordinary developments. In actual fact Wolff’s relationship with Florence is a metaphor come true because the city “offered” itself to him and he accepted it willingly and made it “his” in a sole process where there is no fracture between offering and accepting; they are distinguished in order to try and grasp, a posteriori, what actually happened in reality (Wolff 1975: 4).
The long story of surrender and catch
Surrender and Catch: Experience and Inquiry Today, published by Kurt H. Wolff (1976), was the outcome of a long incubation; it, had been originally “formulated” (Wolff’s term) in 1950 and impregnated, long before that, starting, presumably, with Karl Mannheim’s influential teaching “in the early thirties”.
The present essay intends following and exploring this pathway in an effort to understand the true origin of the “surrender-and-catch” formula, which has evident roots in the classical, philosophical approach of ancient Greek culture, where the idea of ἐποχή, implying procrastination and suspension, was an attitude typical of the thinking of the sceptics, later to become the Latin assensionis retentio (postponing a decision) of the Romans. Another source cannot, however, be excluded; one might look, for instance, to the culture and literature of the Arabs where a similar idea was widespread. The same may be said of the Jewish culture, to which Kurt H. Wolff ‘s family belonged. In general, if “surrender” can be defined as a suspension, “catch” is the result of this suspension.
From a sociological perspective the “surrender and catch” expression derives, of course, from the experiential and existential basis of Wolff’s epistemology and hermeneutics. It actually began with a walk, an “initiatory” walk, a common, daily activity that was the starting point from which to “regain meaning for all who are convinced that meaning has been lost” (Wolff 1976: 3).
As a matter of fact Wolff’s book on “surrender and catch” is not an autobiography but, as he himself explains, every statement says something about him and is the result of interaction between subject and object, that is to say the self and the other.
“Surrender” is connected, of course, with phenomenology, and Husserl’s (as well as Schütz’s) writings, besides Scheler’s idea of a “relatively natural world view”. Today “phenomenology asks us not to take our received ideas for granted but to call them into question – to call into question our whole culture, our manner of seeing the world and being in the world in the way we have learned it growing up” (Kurt Wolff 1984: 192).
“Surrender and catch” is also a “sociology of understanding” (other people) a definition which recuperates the German verstehende Soziologie though it makes a distinction between “surrender” and “surrender to”. It is not just a theory, it is a methodology too. It is also viable because it can be practically applied , as a number of scholars have demonstrated through their empirical experiences (Backhaus 2003). Another convincing example comes from a Kurt H. Wolff’s book: Transformation in the Writing. A Case of Surrender and Catch (Wolff 1995; Bakan 1998; Zaner 2000).
The notion of “Surrender and Catch” also makes a fruitful contribution (like a new paradigm) to sociology at large, and to scientific knowledge in general. “Surrender” may be declined as love or “cognitive love” or “total involvement” or “faith”, while “catch” may be considered “a new perception, a flash of insight, a new idea, a work of art and so on” (Arlene Goldbard: arlenegoldbard.com/2008/12/13/surrender-and-catch/).
It is a pity that George Ritzer’s (2007) Encyclopedia of Sociology,published by Blackwell, Oxford, in 11 volumes, does not contain any reference to Kurt H. Wolff’s sociology, namely to the “surrender-and-catch” approach: too innovative for the science or too dangerous (and deviant) for the traditional, classical sociology of quantification?
A methodology for qualitative knowledge of otherness
The experience of surrender and catch is totalizing, also in the sense that it embraces numerous dimensions, from the philosophical to the psychological, from the phenomenological to the existential, from radical criticism to existentialism and, last but not least, essentially qualitative methodology in the framework of sociology of knowledge.
The food for thought provided by Wolff is abundant and manifold; although not all of his ideas are suited, however, to the field of sociological analysis as such, yet all are useful in that they provide an aura, an atmosphere, a basic attitude capable of acting as the mainstay, the keystone of an approach to investigating people and things. It is possible, therefore, to adopt some of the prompts, and of the operative suggestions as true and veritable investigational tools. Thus, for example, the mode of writing about the objects analysed cannot but represent a prodrome, an anticipation of what was to become a salient characteristic of qualitative analysis, like writing memos referring to research data in such a way as to make them the ulterior object of research, veritable data requiring further, full, in-depth investigation. Even diary-entries become, and rightly so, the object of examination, an often indispensable reference capable of yielding fruitful results, as shown by the success in Italy, of the creation of the diarists’ archives, an initiative first undertaken by Saverio Tutino, later by Duccio Demetrio (1996) and now housed at Anghiari, at the Libera Università dell’Autobiografia [Free University of Autobiography], and at Pieve Santo Stefano, at the Fondazione Archivio Diaristico [The Diarists Archives Foundation]. The study of letters, personal documents, belongs to classical qualitative sociology, which began in 1918-1920 with Thomas and Znaniecki’s seminal work on the Polish peasant in Europe and America. But the most emblematic reference and that most charged with convergence is the methodological line and research style contained in Glaser and Strauss’s Grounded Theory (1967), whose surrender to data is as total as that of Wolff.
To tell the truth, the slant adopted by Wolff in his writings is mainly philosophical, though it is also sociological in an unconventional way. It is, in fact, this basic choice of his that foregrounds the spirit with which the author addresses the issue of gaining knowledge of inter-subjective otherness; he avails of a literary, almost rhetorical exposition to provide convincing proof of the practicability and trustworthiness of his primal option, that of suspending all preventive judgements, of relinquishing all references rooted in acquired culture and principles, in order to obtain the best possible grasp of the other and the surrounding social world. Even had Wolff not provided any indication of method, which he evidently did, his message would have been clear just the same; it was that one had to reset, completely, one’s usual way of proceeding (as well as the criteria underscoring it), in order to become available to receiving whatever indications might come from the area of research, from people and things, from nature and the environment, from social relations and phenomena. Furthermore, the form chosen by Wolff to enter into communication with his readers, as with his pupils before that, is evocative rather than explicative, existential rather than academic, colloquial rather than regulated, open rather than dogmatic.
If Peter Berger and Thomas Luckmann (1966) in their work on the social construction of reality systematically analysed the influence of socialization processes, Kurt Wolff (1976) stigmatized the way they impeded an adequate knowledge of the social reality. Both the former and the latter made contributions to approaches regarding qualitative-sociological strategies now considered classics, in such a way that the consideration attributed to Berger and Luckmann in no way jeopardizes the attention paid to Wolff. However, it is necessary to distribute reference to both currents wisely so as to find a proper balance between equally valid and acceptable formulae. When necessary, it can prove useful to recall the, by no means secondary, fact that all three scholars referred to the masterly thinking of Alfred Schütz (1962-1966, 1996), to his basic phenomenology, which referred clearly to relations with what is presented or, rather, what “appresents” itself (Appräsentation) to the researcher-scholar (Schütz 1932).
The main route remains that traced by the German school of the sociology of understanding (verstehende Soziologie) with all its significant variations. On the one hand, Berger and Luckmann showed a tendency to “think as usual” while, on the other hand, Wolff sought to avoid this very same tendency, to provide for a more ample understanding of otherness, especially through shared discussion; so, it is no chance, that this has become a characteristic of another qualitative-type methodology, based on the hermeneutic approach of Oevermann (1979). It all fits; the virtuous circle of a certain central-European sociological tradition is completed and continues to provide resources essential to sociological analyses founded on qualitative principles.
One might say that when Wolff thought of another person he implemented his surrender to catch, in that he departed from the presumption that sufficient understanding may be reached only and if one overcomes, at least, initially (for a while and up to a certain point) one’s own frame of reference. However, once the aim of understanding otherness through catch has been achieved it must be considered simply as a further stage in a persistent, never-ending journey, standing out, as it must, against the inscrutable backdrop of mystery.
This surrender process is accompanied closely by a kind of “cognitive love” which helps one overcome the initial difficulties of surrender and allows one to reach, grasp and understand thanks to results that are at once cognitive and existential. In other words, surrender is also a conversion (which entails ecstasy, besides), as well as a rebellion against the past and tradition, in order to look, instead, to the future, in a creative mode bent on acquisition of further knowledge and know-how. One might also go as far as to say that it is the naïveté required to accede to unforeseeable results. The “loss of self” typical of surrender is a prelude to the salvation of the moment of catch, even if this, in turn, is simply one step on a very long pathway towards the knowledge.
Surrender is almost artistic and religious in character, given the love and attention towards the other implied in this cognitive procedure. Little by little, in a maieutic manner experience is made to yield concepts useful to understanding (one cannot fail to notice in this a process belonging also to other methodological procedures: Glaser and Strauss’s Grounded Theory and Oevermann’s objective hermeneutics, for example). The alternative yields approximate results, while Wolff “claims” reaching what is ineluctably true, or at least, in the opinion of other scholars, more trustworthy findings than those produced by the classical tools of statistical-quantitative approaches. As beneath the surrender-and-catch approach there lies a desire to change the status quo, surrender is active not static.
Furthermore, the distinction between offering and accepting a given situation is fictitious, as it is simply instrumental to understanding the event. In actual fact, the distinction is the outcome of what has occurred, and one becomes aware of it only afterwards.
Finally, one might attribute to Wolff the definition used by David Kettler (1967: 402) to describe Mannheim and his scientific activity, that is, a “style of thought”, an expression coined by Mannheim himself (1953: 75, 165). One might, after due consideration, also hold that we are in the presence of a “moral-philosophical syndrome” (Kettler 1967: 402), which seems to connect the master Mannheim to the disciple Wolff, who has become a maître à penser in his own right.
“The injunction to get inside the other”
Another important connection is that provided by the fil rouge connecting the thinking of Wolff (1991: 47-56) to that of Schütz (1932) and, before that, to that of Husserl (1929). It is in Husserl’s fifth Cartesian Meditation that mention is made of “appresentation”, that is, of a kind of “passive synthesis” whereby “an actual experience refers back to another experience which is not given in actuality” (Schütz 1940: 125, n. 6). According to a quotation by Wolff himself, citing a passage from a Schützian essay referring to Husserl, it is the latter who identifies an “objective world” as “the first form of objectivity”, which has, however, an “intersubjective nature”, so that “the first things constituted in the form of community and the foundation of all other intersubjective common things is the commonness of nature, along with that of the other’s body and psycho-physical ego” (Husserl 1940, 1950: 149).
So, for Schütz it is evident that Husserl “has shown in a masterful way how in the mundane sphere man and fellowman are compossible and coexistent, how within this sphere the Other becomes manifest, how within it concordant behavior, communication, etc., occur” (Schütz: 1948: 195). Ultimately, however, the operation conducted by Husserl remains at epistemological level: “there is the world, there is the other, there are others” (Wolff 1991: 51). But to Wolff all this appears to be discriminating, dispersive, unable to reach living subjects.
In short, both Husserl and Schütz stop short upon the threshold, do not come close to the reality, do not place themselves within it, avoid it, stand outside of it. All told, this is their ascetic way of life, like that of Weber, a forerunner, a precursor, who draws on freedom from values as a means by which to avoid becoming over involved in the relationship with human otherness.
The basic scenario is even clearer if one takes into account that Schütz is practically trapped inside a steel cage of his own making, the bars of which are constituted by an underlying anxiety of his regarding the experience of waiting for death, that is, awareness of the inevitability of that final lethal event. As if this were not enough, he adds the difficulty of the inter-subjective relationship that develops between two people as they both grow older. These issues seem to find no solution, as Wolff emphasizes when indicating the route followed by Schütz in specific writings that address both the issue of fear of dying and the problematic nature of the I-you, or “we-relation”. The very titles of Schütz’s essays are most revealing: “Making Music Together” (Schütz 1951), “Mozart and the Philosophers” (Schütz 1956), “Thou-Problem” (Schütz 1924), “Tiresias, or Our Knowledge of Future Events” (Schütz 1959) and his various interventions on the question of Lebenswelt (Schütz, Luckmann 1973). In the end, however, Wolff distanced himself from Schütz in order to overcome this impasse, proposing his surrender and catch scheme instead. Other scholars too are critical of Schützian thinking ensnared in a number of categories both philosophical and sociological (Sanna 2007: 50-89).
What Wolff (1991: 53) does not totally disdain is the fourfold categorization of the other and others, as “consociates”, “contemporaries”, “predecessors” and “successors”, respectively. But he realizes that it is possible to deal only with the first two categories, or, rather, almost exclusively with the first. With the consociate it is possible to be more familiar. Proximity is more difficult with a contemporary unless the subjects frequent each other.
Physical distance is also affective distance. Wolff criticizes Schütz because he fails to examine this difference and does not favour the relationship between the researcher and the subject being examined. In short, this kind of relationship is sterilized by the high degree of Schütz’s epistemology that almost annuls the real individual. Kurt Wolff proposes avoiding this by bringing all his humanity into play, so as to avoid considering the other an ideal-typical “puppet” that does not embody any specific human being.
In other words, Wolff is more passionate, less algid, less neutral than Schütz or even Weber himself. Naturally Husserl too remains very much in the background, interested as he is in the essence rather than in the real data of existence, of everyday life.
Wolff comes to terms above all with ideal-typical classifications (both Schützian and Weberian) in order to criticize them seeing that “it follows that the other, in both the mundane and the scientific world, can be understood only typically. How then can Schütz speak of grasping another’s subjective meaning, of the ‘genuine understanding of the other’, without at the same time warning us against any expectation, any hope that we can grasp subjective meaning other than typically and thus that ‘genuine understanding of the other’ is a misleading designation? Is there an alternative in my access to the other – my consociate, contemporary, predecessor – that would make possible the actual, genuine, rather than only typical and approximate understanding of subjective meaning?” (Wolff 1991: 49).
Wolff’s answer is already anticipated in the pages that precede these questions. He objects immediately that Schütz has made the analytical procedure unclear. And it is uncertain whether he “can attain direct, rather than typified or typical understanding” (Wolff 1991: 48). Therefore, adds the Brandeis University sociologist, “my understanding of my consociate, my ‘genuine understanding of the other’, of you who are sitting right by me and, furthermore, whom I know as thoroughly as I know anybody, cannot be anything but typical either, though my understanding of you is incomparably more subtle than my understanding even of my letter carrier (if that is all he or she is)” (Wolff 1991: 48). As a result, “you and I are not the same individual; ‘perfect cognition presupposes perfect identity’. We have different biographies, even if we were identical twins, and if only because the world that you see, beginning with the most liberal sense, that you and I cannot be at the same time, for each of us also is a body, which fills space, and by the time we exchange places (recognizing and acting on Schütz’s ‘reciprocity of perspectives’), each of us has changed, if for no other reason, again, because we also are bodies” (Wolff 1991: 48). Similar objections appear well-founded and undermine the solidity of Schütz’s scheme, revealing its flaws and its inability to hold.
But let us get to the core of what Kurt Wolff outlined in his discourse, inspired by Weber and “subjectively intended meaning” or more simply “subjective meaning”. Here the argument becomes more complex, but at least one point appears clear: when an individual produces something he/she bestows subjective significance on the action, which, however, when it reaches another interlocutor, for example, me, the researcher, is transformed into an objective meaning that I try to grasp, understand, capture, independently of the subjective meaning attributed to it by the subject from which it originated, and who produced “a sentence, a cry, a building, a string quartet”. Here, then, is the essential key to the issue: “the subjective meaning, of course, is the aim of understanding in the social sciences and humanities, the hoped-for result of acting on the injunction to get inside the other, to place oneself in another’s shoes, to look at the world from another’s point of view” (Wolff 1991: 47).
It is no chance that Consuelo Corradi (2015: 9), one of the best international specialists on Wolff’s thinking, speaks explicitly of an “injunction”: an “encounter with the subject in an unprecedented situation follows this injunction. It is the same one with which the author articulates surrender-and-catch, another topic that goes through the whole of his intellectual life. To surrender means to meet as immediately as possible our fellow human beings. […] To encounter the subject is a total experience. It completely involves me as a person, my senses, my cognitive and affective capacities, and suspends, puts in brackets, our received notions. To suspend received notions is a human capacity”. Once more the ἐποχή seems a starting point of a scientific process. But this kind of “reason is not the outcome of surrender; it is its precondition” (Corradi 2015: 9).
In actual fact, Kurt Wolff’s goal is to make room for human subjectivity, even by assuming what may be the suffering of a victim of evil (Corradi 2015). This way it is possible to comprehend the duality of the human subject. As Consuelo Corradi (2015: 5) underlines appropriately, “the duality lies in the fact that the social reality, and we human persons in it, can be both explained and interpreted. In the first case, social reality is subjected to the method of the natural sciences which search for regularities of natural phenomena, whereas in the second place it is understood in its own terms. This last modality of knowledge is possible because the sociologist does not study inanimate phenomena but draws near to and observes other fellow human beings. This allows, indeed for Wolff it imposes on the sociology of knowledge, the establishment of an inter-subjective relationship with the specific ‘object’ of study”. And again: “to celebrate the subject means for Wolff to move towards a ‘total experience’, an encounter with human beings outside the routine, in the way that is taught to us by phenomenology, calling into question the received prejudices and notions that lead us to see persons as representatives of this or that, rather than as themselves. Wolff had clarified the special connection between phenomenology and sociology. We approach the world with the notions that we have received in the process of socialization; we usually take these notions for granted, we consider hem ‘natural’. We must, instead, call them into question: not reject or abolish them but bracket, suspend, keep them in abeyance” (Corradi 2015: 9). It is necessary, therefore, to come to terms with Husserl’s (1929) and Patočka’s (1936) “natural conception of the world”.
Behind all this, remains the foremost Wolffian point of view, that is, “the insistence on the subject, the recall, the vindication, the celebration of the subject at a time when the subject has been made into a thing” (Wolff 1991: 7).
The methodological connotations of otherness
A number of anticipations regarding the dialectics of surrender and catch (or capture) are to be found here and there in some of the publications dating before 1976, in particular, in the volume entitled Trying Sociology (Wolff 1974a: 44-45) which acts as a prelude to the book that followed (Wolff 1976), devoted entirely to the theme of surrender and catch, an expansion of a particularly Mannheimian conception of the sociology of knowledge applied to otherness.
The mirror term of surrender is catch, a concept Wolff (1976: 20) defined as follows: “By ‘catch’ I mean the cognitive or existential result, yield, harvest, Fang (catch), Begriff (concept, from con-cipio) of surrender, the beginning (Anfang), new conceiving or new conceptualizing which it is. What is caught (comprehended, conceived), what catching (‘conceiving’) means cannot be anticipated – otherwise surrender would not be as unconditional as it is, and the catch would be no beginning”.
First of all, it is important to point out that Wolff might have done better had he referred to the precise Latin core of the word “concept”, which has as its root the infinitive of the verb cum capere, which literally means “take with”, “take together”, which conveys the Wolffian term even better, as it alludes directly to a joint capture of the interlocutor, of the other, of the encounter, of the interview; but the reaping, collecting, harvesting are also joint actions, which implies and means pooling the results obtained thanks to the initial option of surrender, a veritable window opening onto the world of the other, the other’s point of view, the different mind-sets operating in society. Comprehension represents a kind of syntony established between an I (self) and a you (other), between two generalizations placed face to face and responding to each other through their reactions, perceptions, attitudes, answers, deductions. The novel conceptions, of continuous cum capere set in motion through an inter-personal relationship, is amply justified by the initial (somewhat initiatory) decision to embrace surrender, trust, disinterested acceptance, devoid of any kind of blackmail whether economic, affective or any other type. The final outcome cannot but be followed by a positive appreciation of the route taken, despite being basically unforeseeable and lack of expectedly previous reassuring experiences. Prevision is not a part of this both epistemological and methodological perspective, otherwise much would turn out to be as obvious as it was useless, because it would simply confirm the already known, making it even more impervious to all talk of change, transformation and improvement of the existing.
On the other hand, even the choice of “surrender” as a noun capable of conveying fully what Wolff meant is not devoid of contradiction. Nonetheless, for the Brandeis University scholar “‘surrender’ itself seems best. It is a rich word, implying some of the meanings to be reviewed and some others, including, precisely in its military ring, a fine ironical one that has to do with politics and with some aspects of our moment in history. I begin with this and other connotations. The irony of ‘surrender’ is its opposition to the official Western, and now potentially worldwide, consciousness in which the relation to the world, both natural and human, is not surrender but mastery, control, efficiency, handling, manipulation” (Wolff 1976: 21). Indeed, adds Wolff (1976: 31), “surrender – to broaden our discussion – is extraordinary, not routine”. It is therefore a decided and decisive intervention, which answers the need arising from a given situation, even one of crisis, where surrendering also means catch, that is a coming to terms, due to awareness, which in turn reveals a new beginning, that is, the end of the crisis. All this is possible thanks to the fact that a human being is free to ask (Wolff 1976: 31): “when am I, when is man, in the fullest exercise of his reason and freedom?, and he may find his answer in surrender, finding it as he surrenders and finding further meanings in his answer as he examines his experience. Thus, ‘surrender as a response to our crisis’”.
This leads, at this stage, to a scenario related to religion (Wolff 1976: 37): “religion may well appear as the mood embraced in an effort to come to terms with two unanswerable questions – it is the phase in our history in which we know that these questions are unanswerable. The first is: ‘What am I doing, anyway?’ And its trouble leads to the second: ‘Who am I, anyway?’ In one question: what can I truly believe about my fate?” Wolff means (and the reader agrees with him) that the answers provided by common sense and science are not totally satisfying, because they do not go beyond a certain limit. It follows that common sense and science, in the face of fundamental questions, are useless. “‘What is the meaning of what I’m doing? What is the meaning of my being the person that common sense and science can so well describe and explain?’ And in trying to answer, we may recall what tradition in religion, philosophy, art has to offer, and rest content”.
And the issue does not end here, as, traditionally, one problem opens up fresh ones, when no satisfactory answers are forthcoming. So, religion may be taken up, invented, reinvented, exploited, performing a function similar to that enucleated by Niklas Luhmann in his systemic analysis of society (Luhmann 1977): “‘Invention’ comes from in-venire: as soon as I recall and affirm the meaning of this world, I have recalled and affirmed an element of tradition, gotten hold of a thread that connects this, until a moment ago, discontinuous time with a past time – and a past enormous. I have come upon this past, our past. Religion as the invention of the search for the invention: religion as that which has come upon the search, the search for the path that comes upon whatever it may be that allows us to come to terms with those unanswerable questions” (Wolff 1976: 38).
The quest for answers in religion is linked with the key-theme of Wolff’s sociology which takes up again the Mannheimian concept of labilizing, that is making the relevance of reference points and values labile through reduction, so that the dearth created by labilization is tantamount to an absence of values (Wolff 1976: 49). At this point Wolff establishes a close connection between labilization and surrender (Wolff 1976: 50) in that thinking, feeling, suffering and groping while looking for answers are all actions that connote both experiences and find a concrete answer, at least at empirical level, in what has been defined as the “diffused religion of values” or the “religion of diffused values” (Cipriani 2001).
Wolff also posits a parallel between the concept of rebellion as used by Camus (1956) in The Rebel and that of surrender. The act of rebellion is to everyday life what the Cartesian doubt is to the intellectual. The one and the other bring the individual out of seclusion. The same may be said of surrender, which is a voluntary act of liberation from the status quo, an effort to find different, innovative answers, explanations unlike those accumulated through tradition and socialization. Camus’s and Wolff’s writings are, to a large extent, inspired by a rather similar logic from which emerges a specific meaning of life.
The empirical basis of the new methodology: the Loma research project
The same meaning of life is to be found in Wolff’s long frequentation of Loma, a community in the north of the State of New Mexico, which he studied on several occasions over a period of decades, beginning from 1940, but always at intervals of no more than two years. Emblematically, Kurt H. Wolff surrendered to Loma in order to understand it, capture its broadest sense, its otherness. His continuous returns meant that every catch brought about a subsequent surrender, in a chain bestowing empirical substance on a discourse which risked, otherwise, remaining a mere theoretical-philosophical abstraction. Thanks to this direct experience at Loma Wolff was able, without interrupting the train of his thought, to verify on several occasions the progress of his sociological philosophical and methodological concepts. Loma (Wolff 1964, 1989; Bennett 1992; Bakan 1996; Hinkle 1996) is, in short, like an inexhaustible source on which to draw or an anchor, an inextricable link between surrender and catch. It is here in Loma too that another reversals of perspective, like the many to which Wolff accustoms us, takes place: the important thing is not to define a community, to depend on field notes, on extemporaneous reflections, but to look at the context, the kind of countryside surrounding Loma, the problems that Loma created, asking the questions that being in that place provoked, about what should be done, the type of research to carry out, in short, the overall significance of the entire investigation of the community.
The countryside in Loma inspired and provoked Wolff just as it had in Florence; there “the cypresses: black brush slips in the towering sky – for the weather is not good. The olive trees stimmer, shivering in their own mean color of graygreen against the dark-gray lumpiness of a sky” (Wolff 1976: 3) here “high, calm, yet exciting, with sagebrush rolling wide, rolling up to hills, mesas razed flat, shaking their green brown hues into nothingness buzzing with flowers purple, blue, lemon tufts in the gray circled by rocky tables” (Wolff 1976: 71). In both places one remarks the connotative presence of “hills” and “walls”. Florence and Loma are, therefore, almost on the same plane, as a clearly perceptible connection exists between the contexts, although Wolff himself does not say so explicitly when he speaks of the Medicean city he refers to Loma (Wolff 1976: 4).
Wolff is strongly impressed by the relations between the inhabitants of Loma, by the reciprocal respect existing between them and the wisdom that prevails. So he surrenders, but to tell the truth it is the inhabitants of the community that capture him in actual fact, surrendering to his presence, thus, creating an endless virtuous circle, alternating between “surrender and catch”.
When all comes to all, this is an important first lesson in methodology referred to the spirit of welcome and acceptance among interlocutors who are initially all strangers among themselves and to one another. Can one forget the clear influence that Simmel (1908) and Schütz (1944) had on Wolff, at least as far as their work concerning strangers is concerned?
The crucial phase of the work on Loma coincides with Wolff’s longest stay there, in 1944, when, tracing “culture patterns” Wolff (1976: 72) devoted himself to an almost ruthless investigation of the terrain, his hyper-attentive gaze searching spasmodically for every possible element relating to further knowledge of community life. He followed the traditional rules of sociology, he did not verify hypotheses, was not selective, gathered everything, took note of everything, added notes to notes. His aim was that of reaching truth, something we might call known and not simply presumed. In other words there were no statistical calculations of probability regarding a sample or a result. Probability guaranteed nothing, did not appear scientific and requires supports of a completely different kind. So, all the old implements from the researcher’s toolbox had to be discarded. New explorative horizons had to be sought, or better still, other perspectives were required to examine the social picture. This tendency is also prompted by the kind of attitude that the researcher Wolff avails of during investigation: a love so strong toward otherness that it pushed him beyond appearances. One could not apply to Loma what had been learnt elsewhere, in Frankfurt or Florence, in Ohio or Massachusetts, in Michigan or Texas.
Loma was Loma and could not be other than itself. What conceptual cogency was unable to achieve the heart could. In the end Wolff realized that what had been tested before did not represent the route to follow. The narration which follows, as a form of self-quotation, may be considered obsolete, even if it represents a new surrender and, therefore, a new kind of catch. “I had at once begun to observe and to record my observation, and without any attempt at order or selection. My field notes thus resembled a diary, expanding page by page, immediately typed from short notes, memory, or dictation. As writing accumulated, however, some sort of structuring became imperative. I proceeded to break down my notes by topics. I started with this only after having produced about 80 single-spaced pages of typescript; but once I had completed the classification (at a point when the pages had increased to approximately 140 – I had continued to write down notes even while going on with breakdown), I kept it up to date”.
So much work for nothing? To be abandoned then? Certainly not. It may be considered as an instructive introduction to the much more promising balance between surrender and catch.
Surrender in itself, according to Wolff (1976: 96), is a state of extreme attention, concentration waiting for something to happen.
The very writing of the present article bears witness to this fact. To undertake the task, I have had to renounce my own vision of the issue of methodology to gain deeper insight into and comprehension of Kurt Heinrich Wolff’s essential perspective. This has involved not simply surrendering, but surrendering to. In other words, to discern the prodromes and consequences of this by no means easy thinking, with its simple and enveloping rhetoric, its scrupulous choice of terms, substantives, adjectives, verbs and adverbs, the choice has been that of assuming a stance neither in favour nor against it. At the same time, however, an attempt has been made to seek a rather unstable equilibrium between agreement and understanding, in order to accept, while working, this or that suggestion, while following one’s personal scientific guidelines, which can neither be hemmed in between parenthesis nor totally banished from the mind. All told, the writing of this essay has followed an advance/retreat pattern, drawing close to gain strength and lymph before retiring again, a kind of “trial and retrial” process typical of scientific procedural protocols.
To avoid all misunderstanding, Wolff states clearly that surrender cannot be qualified as aesthetic or artistic, not even as religious, moral or cognitive. One must not forget that, above all, the basic characteristic of surrender to, is veritable attention and no vague glance at the objects and subjects of investigation, the otherness (Wolff 1976: 96).
Conclusion
The kind of relationship Kurt Wolff envisaged, hoped for, between the social researcher and the interlocutory subject, is a kind of cordial intimacy, which refers directly to a word in Arabic relating to the heart (Qalb) (قلب) as a syntonic relational reference-point, a shared and accepted view, devoid of discrepancies and, if possible, of harmful rifts, often lethal to cordial agreement.
In the Arabic culture al-Qalb, relates to the heart, which is not, obviously, the same as the intellect although there is a synergy, a syntony between them that is not simply physical. Applied to the surrender/catch nexus, discourse presents a similar profile. Availing of the river metaphor: it is said that it runs, but it is really the water that runs. Yet we commonly refer to the river rather than to the water it contains. One understands the parallel between heart and surrender, between intellect and catch – it is the case to say so – if the one and the other factor confront each other continually, realising that they belong to the same ambit.
Transposing the issue onto the methodological plane of social science, not only is there no reason for presumed superiority of quality over quantity or vice versa; not even in more explicit terms is there any basis for the claim that numbers prevail over data from continual in-depth dialectic exchange between Wolffian surrender and catch. The truth, providing that one may speak of it, is not the exclusive patrimony of either the quantitativists or qualitativists. From a convergence between them, more convincing indications and more persuasive proof may stem.
In Arabic Qalb indicates something that rotates both clock- and anticlockwise, with an inversion of direction, therefore corresponding to the reversal associated with the connection between surrender and catch, interviewer and interviewee, observer and the observed, self and the other.
Much more is required to achieve purity of heart (Tasfiya-e-Qalb); sixteen characteristics are necessary, many of which recall the spirit of Wolff’s surrender and catch: abstention from wickedness, avoidance of evil, contentment with any and everything, having patience, showing gratitude, seeking happiness, cultivating hope, concentration and recollection (all peculiarly Wolffian themes, especially the last two).
One should add that the stem of Qalb also includes a notion of rapid, frequent change. When all comes to all, Wolff’s proposal aims at innovation, revolt in the Camusian sense, overcoming the status quo. The upturning caused by the inversion of surrender and catch ushers in a transformation of society itself and indicates, in any case, a methodological alternative to the ordinary canon of sociological research. It also involves a change of mentality, which means abandoning previous conceptions. The surrender-catch pair is also like a wind bringing freedom and purification, toppling inveterate prejudices and throwing new horizons wide open, even, for example as far as relations between Jews and Muslims are concerned, and the otherness is emphasized. Recourse to the peaceful solution of surrender and catch might prove, among other things, to be a positive kind of political proposal.
Furthermore, both the written (Koran) and oral (Sunni) texts agree on the meaning of qalb: something appertaining to the mind (Quloob, often pronounced Qalb, of which it is the plural), the psyche, the intellect, mental processes, thinking, reasoning, awareness, intentionality, assumption of responsibility, decision making, long-term vision. So, in the end, Wolff’s surrender and catch goes a long way, far beyond the original context of approaching to the scientific knowledge of otherness.
References
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Si è cominciato a dire che i recenti “fatti di Parigi” sono l’11 settembre francese, come se i tre eventi, quello delle torri gemelle di New York, della redazione di Charlie Hebdo e del mercato ebraico di Parigi, fossero del tutto assimilabili. La realtà è che se diverse sono le vittime delle due Twin Towers e degli aerei che le hanno colpite, parimenti differenziate sono le vicende parigine che in un caso hanno un movente specifico e ben individuato (la reazione alle vignette antislamiche) e nell’altro hanno visto colpire nel mucchio persone casuali non individuabili come un obiettivo predefinito se non per l’appartenenza ebraica.
“Se la sono cercata”
Si è cominciato anche a mormorare, sottovoce, che il ricorso all’ironia se supera un certo limite (ma chi lo stabilisce se non il libero giudizio dell’essere umano?) provoca drammi ed anzi è controproducente per tutti gli attori sociali in gioco, vittime e carnefici.
Orbene è proprio questo il caso di chiamare in causa la questione della laicità, della libertà religiosa, del diritto di stampa, della libera circolazione delle opinioni. Qualche anno fa, nel 2005 per la precisione, in occasione del centenario della legge francese sulla laicità dello Stato, alcuni intellettuali francesi e canadesi dapprima, ma poi anche messicani ed argentini ed altri ancora, avevano redatto e firmato un documento che ribadiva la necessità di uno Stato del tutto libero da vincoli religiosi. Va però ricordato un particolare non trascurabile. La versione originale di quel medesimo documento circolata dapprima in Francia, com’è ovvio, è stata poi modificata su un punto qualificante quando se n’è diffusa una traduzione in lingua spagnola, che ha avuto circolazione in particolare in Messico. Ebbene la versione latino-americana del testo parlava esplicitamente di “diritto alla blasfemia”, sottacendo del tutto che una tale legittimazione del diritto di offesa all’altrui confessione religiosa poteva risultare in palese contraddizione con il valore del rispetto della persona e delle sue idee da cui gli estensori in qualche modo avevano preso le mosse.
Ciò detto, è evidente che una caricatura più o meno artistica rientra nell’esercizio di un diritto di parola, di espressione (anche a matita). Il punto è semmai stabilire i confini entro i quali non solo è opportuno ma è anche doveroso tenersi per evitare conflitti aperti e contrasti insanabili.
Se non si sono conosciuti de visu i redattori ed i disegnatori di Charlie Hebdo e se non si è mai sfogliato quel periodico come sarebbe possibile esprimere un giudizio di valore sul loro operato? Ed intanto prevalgono e prevaricano informazioni generiche, valutazioni sommarie, prese di posizione più emotive che basate su dati accertati e su motivazioni conosciute. Così tutto è ridotto ad un unico, prevalente punto di vista, all’uomo ad una dimensione, di marcusiana memoria (Marcuse 1964, 1991).
Scontro di civiltà?
Ancora una volta è riemerso il riferimento all’opera di Huntington (1996a; 1996b) dal titolo Clash of Civilizations, già apparsa in forma di articolo sin dall’estate del 1993 nella rivista Foreign Affairs (Huntington 1993). A questo proposito si può sostenere, fondatamente, che si è trattato di una specie di profezia che si è auto-avverata in quanto il dibattito sulla contrapposizione fra culture diverse (Occidente ed Oriente, Nord e Sud, Cristianesimo ed Islam) non ha fatto altro che accrescere il divario fra le opzioni in contrasto ed ha invocato e favorito piuttosto il ricorso alla difesa ed all’assalto più che alla discussione ed al confronto, o alla convergenza su interessi comuni ed alla ricerca di soluzioni condivisibili.
Allentata la tensione fra i due blocchi principali, quello marxista sovietico e quello antimarxista ed antisovietico, a seguito della storica caduta del muro di Berlino, gli scenari di guerra si sono spostati altrove, in Iraq come nei Balcani, in Afghanistan come in Siria.
Nel contempo sono anche cambiate le forme della guerra, che ormai si combatte a forza di spots televisivi, di diretta ed immediata efficacia, che fanno leva sulle emozioni forti, sull’omicidio dal vivo, registrato da una telecamera.
E così dinamiche sociali e politiche che in passato sembravano lontane nel tempo e nello spazio si sono ravvicinate sempre più a noi ed ai nostri vissuti, sollecitando un’attenzione sempre maggiore in quanto non possiamo ritenerci fuori da quanto sta avvenendo, specialmente nel nostro contesto europeo caratterizzato da crescenti flussi migratori in arrivo.
“Alì ha gli occhi azzurri”
“Alì ha gli occhi azzurri” è il titolo di un film del 2012 del regista romano Claudio Giovannesi, che si è ispirato alla raccolta di scritti di Pier Paolo Pasolini tra il 1950 ed il 1965 intitolata Alì dagli occhi azzurri (pubblicata dall’editrice Garzanti di Milano nel 1965, 1989, 1999 e nel 2007), contenente una poesia dal titolo “Profezia”, versione modificata rispetto a quella già inserita con lo stesso titolo nel volume Poesia in forma di rosa (Pasolini 1964) e forse scritta nel 1962. Qualche verso di “Profezia” è pure presente nella predica di San Francesco agli uccelli nel film pasoliniano Uccellacci ed uccellini del 1966. Successivamente però Pasolini ha ripudiato tale poesia definendola “capriccio vitale e fecondo della passione politica, un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro”
Nella raccolta del 1965 si comprende, leggendo quanto è scritto nell’“Avvertenza”, la spiegazione del titolo, attraverso le parole di un personaggio di nome Ninetto (presumibilmente Davoli), che narra dei Persiani, i quali “si ammassano alle frontiere. Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati, sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409… Il loro capo si chiama: Alì dagli Occhi Azzurri”. L’origine del tutto è però anche in Sartre, che aveva narrato a Pasolini la storia di una prostituta algerina sfruttata da un francese:
A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato
la storia di Alì dagli Occhi Azzurri
Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio,
essi che cantavano
ai massacri dei re,
essi che ballavano
alle guerre borghesi,
essi che pregavano
alle lotte operaie…
… deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere –
usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno
dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
– distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…
Questa poesia è come un’epopea mitica ed utopica insieme. Il nucleo essenziale è costituito da una massa di persone che transitano dal Nord Africa all’Europa e poi verso il mondo, sino a New York. Provengono da Algeri, ma qui il toponimo è solo emblematico e sta al posto di tutto il continente africano o meglio di tutto il Sud del mondo. La scelta di Algeri peraltro non è casuale e si deve verosimilmente al forte impatto della guerra algerina di indipendenza dalla Francia durata dal 1954 al 1962 e rievocata nel film “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo del 1966. Dunque se la poesia è del 1962 si è proprio in una temperie storico-culturale che è fortemente impregnata dello spirito algerino di liberazione, di rivoluzione.
Ancor più pregnante, evocativa e soprattutto anticipatrice è l’immagine di “navi a vela e remi” che richiamano da vicino i barconi della speranza (ma anche della morte) che in anni recenti hanno tentato di attraversare il canale di Sicilia alla ricerca di una salvezza, di una vita meno travagliata di quella sperimentata nei “Regni della Fame” (o delle guerre). Ma tale immagine diventa ancora più concreta, vivida, con la descrizione di “corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri”. La presenza dei bimbi portati con sé è sin troppo eloquente e rappresenta un legame forte con il presente. Poco importa se poi il punto di approdo è piuttosto Lampedusa ed ancora “Crotone o Palmi” citate dal poeta, che non manca di alludere profeticamente alla globalizzazione già rappresentata da “stracci asiatici” e “camicie americane”.
Soprattutto emerge e si staglia come grido d’invocazione e di riconoscimento l’espressione “Ecco i vecchi fratelli”, afflato compassionevole ed accogliente che mette maggiormente in evidenza la comune appartenenza al genere umano invece del dettaglio assolutamente secondario del colore della pelle o di altro connotato accidentale, fosse pure di tipo linguistico, culturale, religioso.
Le stesse destinazioni citate non sono affatto casuali perché sono quelle canoniche di Salonicco (già approdo di ebrei della diaspora) e di Marsiglia (da tempo punto di arrivo dei pieds-noirs).
Questi soggetti, “anime ed angeli, topi e pidocchi”, sono anche definiti “umili”, “deboli”, “timidi”, “infimi”, “colpevoli”, “sudditi”, “piccoli”, secondo un crescendo martellante che insiste sull’ultima parola del verso quasi sempre trisillaba ma quadrisillaba nell’aggettivazione di colpevolezza, come a sottolineare il peso dello stigma che li colpisce (Goffman 1963). Ben più forte è comunque l’accento sul fatto che “essi sempre” (ripetuto sette volte) sono tali.
Chi li guida, il fantomatico Alì, avrà pure gli “Occhi Azzurri” (con le iniziali maiuscole per ribadirne il carattere esemplare, dell’uno in rappresentanza di tutti) ma tutti hanno “occhi solo per implorare” con lo sguardo triste e peculiare dei “poveri cani” già presentati prima.
C’è però un dettaglio non trascurabile, involontario se si vuole, ma estremamente inquietante: quel “in fondo al mare” non può non collegarsi immediatamente alle tragedie odierne. Inoltre “assassini”, “banditi” e “pazzi” sono collocati nella stratificazione classica dei tre livelli del mondo: “sotto”, “in fondo”, “in mezzo” ovvero “terra”, “mare”, “cielo”. Proprio da questi tre luoghi giungeranno per “uccidere”, “aggredire”, “derubare”, ma alla fine anche e soprattutto “per insegnare la gioia di vivere”, “per insegnare a essere liberi”, “per insegnare come si è fratelli”. Da un atteggiamento bellico nasceranno dunque insegnamenti di gioia, libertà e fratellanza.
Questi esseri umani mostrano altresì una grande capacità di adeguamento, che si esplicita ancora una volta in un andamento plurimo a livello giuridico (“leggi fuori della legge”), subalterno (“un mondo sotto il mondo”), religioso (“un Dio servo di un Dio”), politico (“cantavano ai massacri dei re”), antibellico (“ballavano alle guerre dei borghesi”), mistico-marxista (“pregavano alle lotte operaie”).
Abbandonate le religioni rurali, la fedeltà malavitosa, l’ingenuità barbarica, essi seguiranno le loro guide, i tanti “Alì dagli Occhi Azzurri”. Ed arriveranno a distruggere Roma ma poi procederanno oltre, in compagnia del Papa e di “ogni” corredo religioso, sventolando bandiere trotzkiste in direzione della parte settentrionale dell’Occidente, lungo i percorsi delle popolazioni nomadi, quasi in segno di sfida al capitalismo di Parigi, Londra e New York.
“Alì ha gli occhi azzurri” anche perché porta le lenti a contatto di tale colore: nel film il protagonista si chiama Nader ed è un sedicenne egiziano di religione islamica, immigrato di seconda generazione in Italia, contrario alle tradizioni culturali della sua origine, dedito a rapine e responsabile di un accoltellamento. Ed è uno che fa di tutto per mostrarsi diverso da quello che è: uno straniero. Lo spunto proviene da un precedente film-documentario dello stesso Giovannesi, in particolare dal terzo episodio di “Fratelli d’Italia” del 2009, di cui era protagonista il sedicenne egiziano Nader Sarhan. Il tema dell’immigrato straniero è ripreso anche dalla pièce teatrale intitolata Nessun viaggiatore è straniero (con la regia di Annalisa Bianco), ricavata dal libro Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti (2007), giornalista del settimanale L’Espresso e vincitore del Premio Terzani 2008. Gatti si è travestito da straniero per osservare quanto avviene in una situazione di clandestinità: violenze, soprusi, violazioni di ogni genere. L’ambientazione, fra l’altro, è in un bar siciliano. All’operazione ha contribuito significativamente pure il Centro Culturale Gambidi di Ouagadougou del Burkina Faso.
Le città parallele
La presenza degli stranieri dà luogo al fenomeno delle città parallele esaminato debitamente in un’indagine dell’Istituto Centrale di Statistica nel 2012. Si è chiesto il parere degli italiani sui migranti ed anche quello degli stranieri sugli italiani. Le valutazioni italiane nell’80% dei casi considerano difficile l’inserimento degli stranieri, il 65,2% ritengono che sono troppi, il 55,3% pensano che gli italiani devono avere la priorità nell’assegnazione di case, il 48,7% nell’occupazione. Da parte loro gli stranieri immigrati in Italia nel 16,9% dei casi reputano che vi sia discriminazione sul lavoro, il 12,6% discriminazione nella scuola, il 10,5% nella ricerca di una casa, 9,3% nella ricerca di un posto di lavoro, 8,1% nei luoghi pubblici, 6,2% nel vicinato, il 3,6% nei finanziamenti, il 2,8% nella sanità.
Il fenomeno dell’immigrazione ha interessato nel mondo 232 milioni di persone nel corso del 2013, 34 milioni in Europa, 4.922.085 in Italia. Di questi ultimi il 10,3% possiede una laurea, il 32,4% un diploma. Sempre nel 2013 risultano 802.785 stranieri iscritti nelle scuole italiane e due milioni e mezzo di lavoratori immigrati.
Di drammatica attualità è la vicenda degli sbarchi sulle coste mediterranee: nel solo periodo 1° gennaio 2014-31agosto 2014 sono giunte 112.689 persone. La situazione è ben descritta in una vignetta di Staino in cui si chiede ai migranti “perché vi mettete in mare se sapete che forse morite?” e la risposta è “per il forse”. Il loro destino può essere anche il carcere: al 31 ottobre 2013 su un totale di 64.323 detenuti gli stranieri erano 22.586, per il 18,7% marocchini, il 16,2% rumeni, il 12,4% albanesi ed il 12% tunisini.
Un quarto di tutti gli stranieri presenti in Italia si trova in quattro province: Roma (ve ne sono oltre 500.000 nella sola capitale), Milano (e ben oltre un milione in Lombardia), Torino e Brescia.
In effetti “il meticcio è il futuro”: così suona il titolo di un articolo di Luigino Bruni (sul quotidiano Avvenire), in cui vengono prospettate quattro forme di capitalismo diffuso: finanziario, familiare, di terzo settore (cooperative sociali ed affini), criminale. La prospettiva offerta è dunque intrigante ma anche la retrospettiva può essere parimenti interessante. Basti pensare alla fenomenologia delle cosiddette città parallele nel passato. Ne ha scritto Esther Benbassa (2014) che ha raccolto insieme vari saggi sotto il titolo Salonique. Ville juive, ville ottomane, ville grecque. Di Tessalonica o Salonicco, definita anche “Gerusalemme dei Balcani”, si ricorda la comune esperienza, nel 1909, di ebrei, turchi, greci e bulgari militanti insieme nella Federazione Socialista Operaia, nonché, nel 1913, di turchi, bulgari e greci impegnati nel processo di disottomanizzazione (dopo il lungo periodo dell’Impero Ottomano). Nel 1923 ci fu anche uno scambio fra residenti musulmani e greci. Ma nel 1931 gli ebrei vennero confinati alla periferia della città, preludio alla deportazione, nel 1943, di 56.000 di loro ad Auschwitz, donde tornarono vivi appena 1.350.
Ancor prima di Salonicco era stata Palermo a vivere la realtà di città parallele a mano a mano che le diverse potenze militari straniere l’hanno di volta in volta occupata e governata: dapprima i fenici e poi i romani, sotto i quali gli abitanti arrivarono ad essere 30.000, per poi aumentare fino a 100.000 con la presenza araba. I domini successivi furono di svevi e normanni, aragonesi ed angioini, bizantini e sabaudi, austriaci e borbonici, infine garibaldini ma molto prima erano stati presenti ed attivi gli ebrei ed i cristiani, come pure i musulmani. Il momento forse più significativo ed esemplare fu quello svevo con Federico II che favorì al massimo i contatti fra le diverse culture e religioni operanti in Palermo, che aveva magistrature differenziate: qadi per gli arabi, ἄρχοντεσ per la popolazione greca e iudices per i latini. Al di fuori di Palermo, per esempio a Mazara del Vallo esiste ancor oggi un quartiere arabo, altro esempio di città parallela.
La costruzione sociale dello straniero
Lo straniero è tendenzialmente visto come una minaccia, che proviene da qualcosa di ignoto e che in genere è accompagnato da una condizione di povertà. L’alterità dello straniero è anche vista come ambigua, falsa, mistificatrice. Il suo essere una sorta di “barbaro” deriva anche dal fatto che non conosce bene la lingua del paese in cui è immigrato ed appunto la “balbetta”. Appare altresì come una specie di “barbaro sociale”. Tutto questo insieme di caratteri è socialmente costruito, come direbbero Berger e Luckmann (1966). Sovente non hanno alcun fondamento. Il tutto è messo in atto in forma pregiudiziale, senza alcuna conoscenza previa ed approfondita.
Secondo Simmel (1903) è nelle enclaves urbane che si sviluppa la “sociabilità” (Simmel 1984) di tipo tradizionale, specie quando l’immigrato ricostruisce all’estero il suo villaggio di appartenenza. Così la città diventa il territorio tipico dello straniero che l’attraversa, vi passeggia, se ne impossessa talora anche più e meglio di chi vi abita da lungo tempo. Lo straniero fa della città la sua nuova patria e la usa per la sua mobilità territoriale, sociale e residenziale. Insomma è in città e non altrove che trova le sue maggiori potenzialità.
Dunque il territorio urbano diviene nordafricano ed arabo, filippino ed indiano, cingalese e tamil ovvero costellato rispettivamente di buddisti ed induisti, anche eritreo (per i profughi rifugiati), sudamericano (con una buona scolarizzazione di base), salvadoregno (per cospicue presenze di militanti politici in esilio), cinesi (auto-ghettizzati nella forma più o meno palese di Chinatown), sudsahariano (ovvero particolarmente indigente), ma al pari tempo accentuatamente commercializzato da varie etnie ed a vantaggio di specifiche espressioni culturali. Il che dovrebbe preludere a fenomeni di progressiva integrazione.
Il processo d’integrazione
Émile Durkheim, il sociologo francese della solidarietà sociale, è certamente un punto classico di riferimento per il discorso sull’integrazione, come ricerca di un equilibrio all’interno di un gruppo, di una comunità, di un’intera società. In effetti si verifica che un gruppo si appropri degli individui per favorirne la coesione senza tuttavia ignorare il ruolo dell’individuo stesso (Durkheim 1893).
Dal canto suo il sociologo statunitense Daniel Bell (1973) indica i luoghi specifici in cui l’integrazione avviene e precisamente nella società, nella politica e nelle istituzioni, nonché nella cultura.
Nondimeno l’attività di integrazione comporta una partecipazione volontaria, intenzionale, del soggetto il quale non mostra un atteggiamento tendenzialmente passivo come nel caso della prima socializzazione intra-familiare ma si pone obiettivi di innovazione e cambiamento, in modo da mutare lo status quo pre-esistente al fine di creare nuove condizioni.
Per Dominique Schnapper (2002, 2007, 2008) peraltro si deve distinguere fra l’integrazione degli individui rispetto alla società, come inserimento consentaneo in essa, e l’integrazione della società nel suo insieme, come tale.
Invece per Lapeyronnie (1992, 1993) ogni forma di integrazione rappresenta comunque il punto di vista del dominante sul dominato. Egli ribadisce perciò la centralità del soggetto nella sua pienezza di attore sociale che non è più un infante, un balbettante, ma che come immigrato giunge ed apprende. Dunque non può essere visto come un delinquente, ma piuttosto come un cittadino dell’umanità a pieno titolo. Le stesse rivolte recenti nelle banlieues parigine sono da intendersi alla luce di tutta una serie di processi di esclusione.
Hannah Arendt (1951) aveva ribadito con partecipe passione il “diritto di avere diritti”. Ma le procedure di socializzazione ed integrazione di fatto operano a favore del sistema vigente e non tengono conto delle istanze individuali, messe a tacere dall’impetuoso ritorno del potere statale, dopo le vicende dell’11 settembre 2001, con l’abbattimento delle torri gemelle a New York. Il periodo successivo segna una forte crisi per le nazioni. Resta sullo sfondo appena l’idea di una comunità immaginata, astratta, lontana, irrealizzabile, utopica. La si vorrebbe universale, planetaria, con i medesimi diritti per tutti, senza distinzioni di appartenenza linguistica o culturale o confessionale o ideologica.
A fronte della crisi delle istituzioni, dalla scuola all’amministrazione della giustizia, dalle forze dell’ordine alle strutture religiose, la risposta data dalle organizzazioni non governative e da quelle senza fini di lucro non pare sufficiente.
Ed intanto la globalizzazione avanza in settori sempre più numerosi e consolida il capitalismo finanziario, accrescendo le differenze fra Nord e Sud del mondo, fra quartieri popolari e zone residenziali, fra centri urbani e periferie marginali ed emarginate, fra istituzioni ed individui.
Anche la religione è una scelta sempre più molto personale e poco condivisa, cioè al di fuori di un’appartenenza comunitaria. Come sostiene Charles Taylor (1989, 1992, 2007) la fede religiosa non è più una ascrizione (ascription) quanto piuttosto un guadagno-raggiungimento soggettivo (achievement). In tal modo ci si costituisce in soggetti ma senza passare attraverso un’adeguata formazione di base. Di conseguenza la stessa azione di socializzazione prima e di integrazione poi appare come una forma ideologica repressiva, poco orientata al cambiamento, tesa a confermare l’esistente.
Una gran parte della partita si gioca nelle scuole: nelle diatribe sul crocifisso da affiggere in classe o sulla proibizione del velo o foulard nei luoghi pubblici, sull’uso della lingua nazionale o del dialetto locale, favorendo perciò un trend di de-assimilazione. Ecco dunque prevalere in Germania la funzione del lavoro, insieme con il ruolo del lavoratore straniero, Gastarbeiter appunto. Altrove al contrario si favoriscono processi di assimilazione sino a fare definire l’area londinese come se fosse quella di una sorta di Londonistan, in cui si intrecciano figure di meticci, di creoli, di ibridi. Di fatto l’integrazione diviene regolazione sociale e/o interazione intersoggettiva. Posta questa rete relazionale, diventa più difficile il ricorso al suicidio, già documentato ed interpretato da Durkheim secondo la triplice motivazione di “egoista”, “altruista” ed “anomico”. La rinuncia alla propria vita segnala invero una sfasatura evidente fra le attese del soggetto e le risposte altrui, per cui cade ogni ipotesi di adattamento reciproco e di integrazione. Insomma il coordinamento con gli altri si allenta e si sfilaccia fino a dissolversi del tutto, aprendo la strada alla decisione estrema del togliersi la vita.
Il meticciato come acculturazione
Il concetto di acculturazione come contatto, rapporto fra culture è da preferire rispetto a quello di inculturazione, che in realtà andrebbe riservato solo alla fase di socializzazione primaria in ambito familiare. L’acculturazione è di fatto un processo asimmetrico che interessa due o più culture, venute ad impatto fra loro. Occorre considerare comunque che la dinamica socio-antropologica in atto è sempre a due vie, quale che sia la superiorità ovvero la capacità d’influenza dell’una sull’altra o sulle altre. Si verificano nondimeno modifiche reciproche, cambiamenti embricati fra loro, innovazioni mutue. Di solito però è la cultura dominata che muta ben di più di quella prevalente, dominante. C’è quindi da fare i conti con culture deboli e culture forti, con strutture flessibili e strutture solide. Per capire come le culture evolvono conviene partire da un punto zero, cioè da un momento prefissato nel tempo, in modo da poter constatare e soppesare i mutamenti avvenuti in corso d’opera.
Il rapporto acculturante può concernere diversi ambiti: quello tecnico e quello artistico, quello linguistico e quello giuridico, quello politico e quello religioso. Orbene quando un fenomeno migratorio ha luogo si mettono in moto vari contesti di riferimento, che si trasformano via via, in progressione.
Anche gli eventi bellici sono un motivo di acculturazione fra popoli diversi. In tempi di pace è il turismo che favorisce incontri e confronti. Per non dire della comunicazione televisiva: Italia meridionale ed Albania, Corfù e Tunisia sembrano fare parte di un unico grande Paese mediterraneo. Ed il nostro territorio appare come un paradiso, stando ai messaggi e soprattutto alle immagini che traversano l’etere ed i mari.
Ma l’acculturazione dà luogo pure a varie dissonanze cognitive (Festinger 1957), cioè a diversi punti di vista su un medesimo argomento od elemento di discussione o di analisi empirica. Quando un soggetto affronta contemporaneamente diversi oggetti di conoscenza che sono fra loro discordanti a livello comportamentale, confessionale, ideologico, legislativo, premiale o sanzionatorio, tende allora a risolvere la dissonanza eliminandola con un’operazione di riduzione della diversità, cioè della dissonanza stessa. Detto altrimenti si cercherà una via di uscita nel compromesso o nella semplificazione, nell’affermazione dell’uno o dell’altro aspetto o nella sua negazione. Lo stato di tensione viene pertanto superato, vanificato. Un nuovo equilibrio è raggiunto. In altre parole la condotta sociale si connette direttamente alla procedura conoscitiva. D’altra parte la dissonanza può derivare da decisioni assunte, dalla conseguenza di uno sforzo, da una sudditanza forzata, da una minaccia pronunciata o solo temuta.
Il collegamento dell’individuo con un suo gruppo di appartenenza è un efficace antidoto ai problemi sollevati dalle dissonanze di vario genere, da quelle culturali a quelle religiose. Se poi il disagio rimane all’interno della struttura psichica individuale la via d’uscita è la comparazione della condizione soggettiva con quella di altri attori sociali, con le loro azioni, influenze, valutazioni, opinioni, prese di posizione. Nel paragone si riesce a trovare il modo di diminuire il peso della differenza conoscitiva e si ha la possibilità di mutare atteggiamento. Ovviamente se tale modalità non funzionasse si potrebbe pensare al modello del rafforzamento e dell’incoraggiamento di un agire libero e non condizionato. Oppure si potrebbe fare leva su opzioni di tipo razionale, non assoggettabili ad emozioni estemporanee ma capaci di resistenza di fronte alle dissonanze cognitive. Per non dire infine della possibilità di relativizzare, minimizzandola, la differenza superando così l’impasse, specialmente evitando di enfatizzare un singolo particolare, un dettaglio, una peculiarità che sia all’origine della dissonanza stessa.
Nell’Andalusia del XII e XIII secolo le dissonanze politiche e religiose, intellettuali e filosofiche, culturali e linguistiche erano numerose e nondimeno venivano superate, risolte, grazie ad una lunga consuetudine di acculturazione fra mondo iberico e mondo arabo (la dominazione omayyade dei califfi di Cordoba e Granada durava già da oltre cinque secoli, a partire dall’VIII e precisamente dal 711). Lo scienziato-filosofo arabo-spagnolo Averroè (1126-1198), commentatore-interprete di Aristotele ma pure polemico nei riguardi dell’intellettuale arabo al-Ghazali, costituiva un esempio classico delle possibilità di sciogliere le vecchie dissonanze, attraverso nuovi saperi ed in nuovi approcci cognitivi. All’incirca nello stesso torno di tempo, come si è detto, anche Palermo affrontava le medesime problematiche di dissonanze cognitive, emblematicamente rappresentate dal nuovo quartiere della Kalsa ben diverso dal vecchio centro storico del Cassaro.
Insomma l’acculturazione fra culture separate è in grado di promuovere nuovi scenari, nuove transizioni culturali. L’assimilazione non passa solo attraverso l’acculturazione ma diventa a poco a poco un processo consapevole a livello individuale e comunitario. C’è sempre, è vero, un differenziale di potere fra gli attori in gioco. L’esito dipende dal tipo di impegno che si profonde nel voler ottenere un certo risultato, anche a dispetto di una sorta di presunzione di “inferiorità inerente” che accompagna ogni agire nei riguardi altrui.
Edward Franklin Frazier (1932, 1957) distingue fra acculturazione materiale, costituita da lingua e cultura, ed acculturazione ideazionale, basta sulla morale e sulle norme. L’acculturazione in genere favorisce soluzioni piuttosto inclusive, impedendo invece esiti tendenti ad escludere qualche componente.
Invero diversi tentativi programmatici sono stati posti in essere specialmente negli Stati Uniti per creare occasioni acculturative ed inclusive. Già nel 1908 in forma teatrale nella pièce dal titolo Melting pot, scritta da Israel Zangwili, si era tentata una forma includente di acculturazione attraverso la messa in scena di un protagonista ebreo di nome David che incontra una slava di religione ortodossa di nome Vera. Ed in Brasile era andata in voga la leggenda di Iracema (anagramma di America) nata da un portoghese e da un’indiana.
Operativamente le proposte avanzate hanno riguardato dapprima la soluzione del melting pot, dove i componenti si mescolano fra loro senza mantenere una propria identità. Invece nella soluzione chiamata salad bowl tutti gli elementi sono distinguibili e facilmente rintracciabili. Da ultimo nel modello del mosaico ogni pezzo rimane al suo posto ed è intelligibile, sia nel dettaglio che nell’insieme.
Nel pluralismo culturale debitamente praticato, d’altronde, si ignora l’antagonismo e si tende ad annullare le differenze creando situazioni straordinarie di interscambio. Basti pensare a quanto è avvenuto tra individui di pelle bianca e quelli di carnagione nera, gli uni e gli altri coinvolti in un mix che non conosce confini e che alla fine mescola le provenienze sino a far dimenticare chi in effetti abbia dato origine a che cosa: al jazz (elaborazione di musicisti neri ma mettendo insieme elementi africani e pure europei) od alla danza (originalmente “folclorica” in Africa, come in Australia, ma riproposta come breaking da giovani afro-americani del Bronx di New York), allo sport (con campioni e campionesse sia bianchi/e che neri/e come protagonisti/e nelle diverse specialità ed una singolare squadra “comica” afro-americana di pallacanestro come gli Harlem Globetrotters, vincitori del premio Eddie Hamel 2013 per la lotta contro il razzismo) od alla moda (che vede sfilare congiuntamente in passerella modelli e modelle senza alcuna particolare importanza attribuita alla differenza di colorazione dell’epidermide), al cibo (frutto di caccia e/o pesca ma altresì di coltivazione e poi ingerito crudo o cotto secondo le abitudini dell’una o dell’altra etnia) od alla religione (che presenta, ad esempio, soggetti africani i quali praticano una modalità confessionale tipicamente contemporanea e non autoctona, dal cristianesimo all’islam, ma che non rinunciano a culti ancestrali indigeni di matrice immanentistica).
In questa variegata complessità dell’acculturazione può essere utile adottare, per orientarsi, la tipologia instaurata da Spindler (1963) che prevede un atteggiamento passivo sostanzialmente di ritiro, oppure reattivo (in termini di risposta sia difensiva che offensiva), od anche compensatorio (con il rifugio in altre pratiche comportamentali che rimettono equilibrio ad una situazione altrimenti di svantaggio), od invece adattativo (di adeguamento all’esistente, che pure viene rigettato), od infine revisionista (nel senso di accogliere una diversa visione della realtà, comportandosi di conseguenza). Dunque l’acculturazione può essere vista sia come aspetto positivo sia come negativo. Nondimeno se essa procede, si estende, si riscontra un minore grado di conflittualità nella società in questione.
Conviene tuttavia precisare che il colore della pelle non è sempre collegabile al successo o, al contrario, all’insuccesso di un processo acculturativo. Se è vero che gli ebrei statunitensi sono bianchi non è detto che essi non riscontrino alcuna difficoltà in un contesto che è fatto prevalentemente di bianchi. E d’altra parte non è da escludere che la diversità cromatica dell’incarnato e/o dell’appartenenza religiosa impedisca una buona riuscita dell’acculturazione. Lo dimostrano in pieno l’efficace inserimento di musulmani in Francia, di turchi in Germania e di caraibici ed asiatici nel Regno Unito.
Piuttosto complicato è stabilire, infine, una classificazione del meticciato tant’è vero che in qualche caso si preferisce ricorrere alla stessa auto-collocazione degli interessati che a fronte di una serie ben diversificata di immagini stabiliscono in proprio quella che più si addice alla loro percezione personale. Comunque va detto che le differenti aggettivazioni che connotano la scala di meticciato hanno più a che vedere con una procedura socio-linguistica che non con i dati di fatto reali. Fra l’altro si deve soppesare anche il peso valutativo di ciascuna definizione, che può essere in senso peggiorativo ed anche degenerativo sino a vere e proprie manipolazioni-mistificazioni.
Ad ogni buon conto rientrano nel novero di una tassonomia peculiarmente biologica fondata sulla pelle le tre varianti che rispondono rispettivamente al concetto di mulatto (figlio di un genitore nero e di uno bianco, solitamente di madre spagnola e padre africano oppure viceversa), sanguemisto (figlio di genitori con un tasso differenziato di presenza di sangue originariamente appartenente a persona bianca, per cui nelle Antille ad esempio si poteva accedere a certi gradi dell’amministrazione pubblica solo se la percentuale di sangue di genitore bianco raggiungesse una certa soglia pre-definita), creolo (figlio di un europeo e di un indigeno oppure nato nelle colonie da genitori entrambi spagnoli od entrambi portoghesi cioè peninsulares, nati nella penisola iberica, ma piuttosto propensi a difendere i loro diritti di “indigeni” contro le pretese della lontana madrepatria). Le altre tre classificazioni hanno un carattere più vago: meticcio (figlio di genitori differenziati per origine bianca o nera e senza essere né amerindo, né spagnolo, ma invece l’uno e l’altro insieme), ibrido (genericamente figlio di una unione fra un bianco ed un amerindiano), misto (appellativo di tono stigmatizzante nei riguardi di un soggetto figlio di genitori appartenenti a matrici etniche e/o cromo-epidermiche diverse).
Forme del multiculturalismo
Stati Uniti e Canada sono probabilmente i Paesi in cui maggiormente sono state studiate e messe in atto le politiche sociali sul multiculturalismo. Non a caso nel continente nordamericano non è diffuso il concetto di meticcio, dando per scontato il fatto che le società sono spesso composite, stratificate per etnie. Nel contempo si registrano due opposte tendenze: quella specificamente razzista dell’intolleranza e quella paternalista del laisser faire. Il che non impedisce la diffusività della cosiddetta ossessione cromatica che associa il nero a tutto ciò che è negativo e pericoloso. Anzi a tale proposito è persino dato stabilire un tasso di minaccia per lo status quo correlato con la stessa graduazione di tipo cromatico: dal meno nero al più nero, ovvero dal meno temibile al più temibile.
Lì dove poi il termine di meticcio è presente, per esempio in Messico, esso incontra un atteggiamento particolarmente sfavorevole: il meticcio infatti diventa il capro espiatorio in diverse occasioni ed è identificato con una persona indolente, indisciplinata, imprevedibile, anche ritardata mentalmente (si presume).
Qualcosa di simile avviene nell’ambito della teoria della “degenerescenza” di Gobineau (1853) (sposato con una creola) il quale vedeva una degenerazione nel passaggio dall’una all’altra etnia (o razza, a suo dire). Quasi coeva è l’ipotesi comtiana (Comte 1830-1842) relativa ad un imbianchimento della razza.
Di bel altro avviso è Gilberto Freyre (1933) che parla invece di “misgenazione”, che risulta in contrapposizione alla “degeneresceenza” di Gobineau perché evidenzia la novità dell’incontro fra indios, africani e portoghesi, che mescolati fra loro rappresentano una vera e propria avventura “splendida” di dissoluzione, in cui esattamente il meticciato – termine rifiutato nella parte settentrionale del continente americano – viene invece rigenerato ed enfatizzato divenendo il pride, ovvero orgulho,orgoglio dell’esperienza brasiliana, assurgendo altresì a simbolo della nazionalità e prolegomeno di un futuro mondiale largamente meticciato. Dal tropicalismo al negativo delle considerazioni di Claude Lèvi-Strauss (1955) si passa così al lusotropicalismo, che valorizza la prospettiva lusitana delle culture portoghese e brasiliana e va oltre il mero “differenzialismo etnico”, pensando piuttosto a dar lustro all’integrazione delle minoranze, come già avvenuto in passato in Brasile, con i flussi migratori italiani nello stato di San Paolo e tedeschi nello stato di Santa Catalina. Sulla stessa scia si è posto anche l’antropologo francese Roger Bastide (1971, 1980), profondo conoscitore della realtà sociale paulista.
Un altro sostenitore della peculiarità multiculturale dell’America Latina è il cubano Ortiz (1947) che parla esplicitamente di transculturalità come frutto della transculturazione (in opposizione all’idea dell’acculturazione di matrice statunitense), ben edotto dalla lezione di Bronislaw Malinowski (1945) secondo cui si registra sempre qualcosa in cambio di quel che si riceve. In effetti la transculturazione è un insieme di trasmutazioni constanti ed è creativa senza sosta ed irreversibile. Le due parti in causa si modificano. Emerge allora una nuova realtà che non è più un mosaico di caratteri quanto piuttosto un fenomeno del tutto nuovo, originale e indipendente. Con tale motivazione è legittimata la visione transculturale e si apre la strada alla mixità, ovvero all’ibridazione, poi ripresa da Néstor García Canclini (1989).
Le proposte interpretative di Freyre, Ortiz e di García Canclini sono dunque assai diverse dalle idee di bricolage ed assemblaggio suggerite da Lévi-Strauss (1962). Diversamente dall’andamento che prevede una transizione dal puro all’impuro e dall’omogeneo al disomogeneo il meticciato rappresenta una terza via che prelude ad un futuro dell’umanità ben più articolato del presente. Già nell’India colonizzata dagli inglesi il meticcio ha avuto, attraverso le generazioni, una legittimazione quasi totale. Ma è stato soprattutto nel Brasile degli anni Trenta sotto Getulio Vargas (presidente dal 1930 al 1945 e poi dal 1951 al 1954) che l’idea di “purezza meticcia” ha raggiunto la sua piena cittadinanza, ribaltando gli andamenti abituali di progressiva purificazione della razza (o dell’etnia). Dunque si è parlato debitamente di un “estado novo”, di uno stato nuovo inteso sia come condizione sia come istituzione politica. Ed allora in chiave metaforica anche un ballo come il samba ha assunto un carattere egemonico, di connotazione patriottica ed in chiave difensiva del meticcio come riferimento ideale per tutti. Il che è avvenuto in Brasile come nei Caraibi, nelle Isole Mauritius come nell’Île de la Réunion. Il risultato finale è quello di un’embricazione-sovrapposizione che dà origine ad una sorta di unico grande fiume derivante da tanti affluenti.
Multidimensionalità e accommodation
Nel filone statunitense di studi sull’emigrazione ha avuto un’influenza notevole il punto di vista espresso da Milton Gordon (1964), esponente della cosiddetta Scuola di Chicago e promotore di una sorta di ideologia popolare, ad uso degli Stati Uniti d’America. Gordon si sofferma soprattutto sulle tensioni in atto tra le nuove generazioni e tra i nuovi immigrati e vede nella guerra in Vietnam l’origine di una riemersione di forme tipiche, tradizionali, di razzismo.
Per Gordon esistono sette forme di assimilazione: culturale, strutturale, maritale (coniugale-matrimoniale), identitaria, pregiudiziale, discriminatoria, civica. Ognuna di esse presenta vantaggi e svantaggi ma ognuna favorirebbe l’integrazione nella società statunitense. Di fatto però esistono ed operano intensamente diverse altre forme di assimilazione: socio-economica, educazionale, reddituale, occupazionale, legata al capitale umano (o culturale o sociale o relazionale o di altri tipo ancora), spaziale. Quest’ultima in particolare è richiamata da Massey (Massey, Mullan 1984; Massey, Denton 1985) appunto come spatial assimilation in quanto prevede la possibilità di acquisto di residenze sempre più lussuose e vantaggiose per la presenza di urbanizzazione avanzata, di scuole prestigiose, di strade agibili e curate al massimo e così via. L’assimilazione peraltro può favorire la partecipazione in gruppi etnici estemporanei, non duraturi, giacché i singoli soggetti e/o i gruppi già coesi per conto proprio tendono a conservare le loro radici di origine, nonostante le nuove conclamate appartenenze. Pertanto le diversità persistono nel tempo e non si annullano del tutto. Non è un caso che chi ha studiato approfonditamente le dinamiche reali in atto ha accertato che solo dopo sei generazioni si può essere sicuri di un superamento delle matrici originarie e di un buon tasso di assimilazione compiuta (Warner, Srole 1945).
In pratica l’assimilazione, anche se realizzata, assume un carattere comunque flessibile e soggetto a modifiche in progress. Come ricorda Brubaker (2001) sebbene l’assimilazione comporti che un gruppo divenga simile ad un altro nondimeno l’etnicità perdura, le basi culturali non scompaiono. Semmai sono i confini fra l’una e l’altra cultura che si assottigliano, tendono a rendersi meno evidenti, grazie ad un lento e graduale cambiamento. Ma l’assimilazione non ha luogo immediatamente e senza conseguenze. In effetti la tendenza è verso una certa segmentazione per cui è a partire dalla seconda e principalmente dalla terza generazione che si notano le prime significative differenze (Portes, Zhou 1993): sono tre sostanzialmente i modelli che si presentano: quello dell’assimilazione tout court, quello dell’esclusione razziale (anche auto-proclamata e sostenuta ad ogni costo come nel caso delle comunità cinesi), quello del pluralismo culturale promosso dalle minoranze etniche. Negli ultimi due modelli vige comunque il sistema di enclaves etnico-economiche costituite a propria difesa.
Fra le risposte dialettiche rispetto a Gordon è da annoverare quella fornita da Nathan Glazer (1993) che obietta non essere l’assimilazione l’unica modalità praticabile, giacché sono possibili altre soluzioni: o il pluralismo culturale o l’esclusione delle culture “altre”. Intanto la cultura WASP (White Anglo-Saxon Protestant) continua a prevalere negli Stati Uniti. Con essa vanno fatti i conti. Le minoranze lo sanno bene. Solo le denominazioni religiose riescono più agevolmente a sfuggire alla “cappa” WASP.
Altrimenti vi è la soluzione detta accommodation, una delle quattro maniere intraviste da Park e Burgess (1921) per l’interazione sociale, in quanto si riferisce ad una procedura atta ad evitare conflitti ed a favorire rapporti in quelle situazioni in cui si riconosce la presenza dominante altrui e dunque si è costretti ad una sorta di “vivi e lascia vivere”, nella misura in cui anche chi domina consenta tale soluzione.
Molto dipende dal livello di potere esercitato da chi si trova in condizioni di superiorità e dalle capacità di risposta di chi è deprivato di una uguale potenzialità. Un conto è trattare alla pari o quasi, un discorso diverso è operare invece in condizioni di sudditanza, allorquando è necessario far ricorso a strategie provvisorie in attesa di tempi migliori, più favorevoli. Per questo si scelgono vie piuttosto pacifiche, anche per non danneggiare altri soggetti e conservare una certa credibilità per future azioni. Ecco dunque che si offrono compromessi e tregue, si cerca di guadagnare spazio in un ambito e magari se ne perde altrove. Naturalmente occorre mantenere una dirittura comportamentale che non denoti eccessiva debolezza né altrettanta sfrontatezza. Molto dipende però da persone e circostanze, occasioni ed incertezze, difficoltà e squilibri anche temporanei da cogliere oculatamente. Chi ha minori possibilità cerca di sistemarsi in qualche modo a fronte di uno sbilanciamento che può arrecare danni anche irreparabili. Più che alla conflittualità conviene allora ricorrere alla negoziazione, ad una politica del trattare e non del contrastare ad ogni costo. Può pure convenire qualche “devoluzione” o concessione, in vista di un recupero di agibilità. Oppure conviene fare riferimento ad altri per alleanze di reciproca utilità.
Più agevole risulta ovviamente l’agire in un contesto in cui vi è un tendenziale equilibrio tra le forze sociali in campo. In questo caso è importante mantenere un buon grado di indipendenza, cercare accordi per alternanze di gestione o cooperazione su obiettivi di comune interesse. Le forme di accommodation possono andare dalle questioni etniche a quelle religiose, da quelle politiche a quelle territoriali, da quelle normative a quelle economiche. In ogni caso appare opportuno cercare intese, attraverso una divisione di competenze ed ambiti di intervento. Di comune interesse è poi l’evitare disordini e svantaggi.
Infine non è detto che l’accommodation porti ad un’assimilazione totale o quasi; può anche essere una prima fase esplorativa in attesa di un momento più conflittuale. Insomma l’accommodation appare più che altro come una strategia momentanea per sopperire ad un disagio. E certamente si basa su un sapiente uso del tempo, senza risentirne molto in chiave di auto-stima e di fiducia nelle proprie chances.
Conclusione
Se si guarda al futuro delle problematiche concernenti le migrazioni e l’impatto fra le culture torna utile riprendere quanto suggerito da Howard Gardner (2006), lo studioso noto per la formulazione della teoria sulle intelligenze multiple. Ebbene, in chiave prospettica si può ritenere che vi siano almeno cinque potenziali utilizzi delle nostre menti: il primo riguarda un modo disciplinato, a carattere scientifico, possibilmente non valutativo; il secondo concerne la capacità di sintesi ma anche di accuratezza, efficacia e significatività delle nostre analisi; il terzo ha a che fare con la creatività e quindi con una opzione metadisciplinare, oltre gli steccati delle appartenenze accademiche e con grande disponibilità nel cercare di innovare l’esistente; il quarto investe l’aspetto comportamentale in senso stretto, cioè un atteggiamento fortemente rispettoso degli altri, al disopra pure della tolleranza per mostrare qualcosa di più e meglio della semplice “sopportazione”, mirando perciò all’accoglienza ed all’empatia quanto più ampia possibile; infine non può mancare un afflato etico, fatto di onestà e volontà cooperativa e costruttiva, prioritariamente comunitaristica e disinteressata.
Non si tratta di un’utopia astratta e lontana. Qualche segnale in questa direzione ci viene anche dalla cronaca più recente. Questa volta non si tratta di raccontare l’ennesimo dramma quanto piuttosto un evento che parrebbe straordinario eppure potrebbe entrare a fare parte della quotidianità. Di recente a Berlino (alla fine di febbraio del 2015), per la rappresentazione dell’opera lirica “Così fan tutte” di Mozart, sono entrati a far parte del coro 73 rifugiati siriani, che sono apparsi sulla scena proprio nel momento in cui i due protagonisti lasciavano le rispettive fidanzate. Il canto eseguito dai profughi inneggiava al paradiso (janna) ed era opera del cantante Ibrahim Qashush, ucciso il 4 luglio del 2011 ad Hama, per le sue proteste antigovernative. Al termine i coristi hanno mostrato le scritte sulle loro magliette che indicavano il luogo della loro provenienza: Damasco, Aleppo, Daraa, Homs, Lattakia…
Riferimenti bibliografici
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di Sabino Samele Acquaviva (29.4.1927-29.12.2015),
antesignano della sociologia della secolarizzazione
Premessa
L’otto dicembre 2015 papa Francesco ha aperto la Porta Santa della basilica di San Pietro in Vaticano per dare inizio all’anno santo della misericordia. In verità l’apertura “ufficiale” aveva avuto luogo una settimana prima proprio in quel continente dove sempre più viene provato che abbia avuto origine la nostra compagine umana. La scelta dell’Africa come incipit non è di natura geo-antropologica ma di carattere socio-economico: partire da un paese tra i più poveri al mondo per segnalare a tutti la necessità di farsi carico di un problema basilare, correlato allo sfruttamento delle persone e dell’ambiente. Questo certamente fa riguadagnare terreno e credibilità ad una Chiesa come quella cattolica scossa da vari traumi: dalla pedofilia all’uso improprio delle risorse finanziarie, dal carrierismo all’invadenza in campo politico. Il tutto, invero, si colloca entro una cornice che da secoli ha un carattere ed un andamento difficili da definire ma innegabili sul piano sociologico: il processo di secolarizzazione, in atto a partire ancor prima del periodo illuminista e della contrapposizione tra la “dea” ragione ed il divino della religione (o delle religioni).
Le origini della secolarizzazione
Nella lingua latina antica non esisteva una parola corrispondente al termine italiano “secolarizzazione” per indicare un processo di progressivo ridursi dell’esperienza religiosa nelle società. Nondimeno il termine secolarizzazione deriva dal latino saeculum, che significava la durata della vita di un uomo oppure il periodo di tempo legato ad una generazione. Ma esso poteva anche designare la situazione della vita sociale in un dato momento storico, così come si può capire da quanto scriveva Cicerone nelle sue Orationes Philippicae (9, 13) a proposito di Servio Sulpicio il quale disprezzava l’insolenza appunto del tempo (saeculi). “Mirifice enim Servius maiorum continentiam diligebat, huius saeculi insolentiam vituperabat”.
Ma un’altra derivazione va aggiunta: è quella dell’opposizione, già presente nella lingua latina, fra sacro (sacer) e secolare (saecularis), cioè fra ciò che era consacrato ad una divinità e che era intoccabile e venerato e ciò che invece non apparteneva alla religione e che era dunque profano (letteralmente: posto fuori dal tempio). Il profano, il secolare, è tutto ciò che non si trova nel recinto sacro ed appartiene al mondo. I profani, i secolari, sono anche i “non iniziati”, i non consacrati alla religione, cioè a1 rapporto privilegiato con la divinità ed in particolare al ruolo sacerdotale.
Più tardi Lattanzio, scrittore latino cristiano del IV secolo dopo Cristo (circa 250-dopo 317 d. C.), definì (nel De mortibus persecutorum: 10, 3) profani, cioè non iniziati alla verità, i lontani dalla “vera” religione: “verum identidem mactatae hostiae nihil ostendebant, donec magister ille aruspicum Tagis seu suspicione seu visu ait idcirco non respondere sacra, quod rebus divinis profani homines interessent”. Sant’Avito (450-circa 530 d. C.) due secoli dopo definì saecularii gli autori pagani, cioè non cristiani, ma già prima di lui Eustazio Afro nel V secolo aveva chiamato saecularii proprio tutti i pagani. Altrimenti l’aggettivo “secolari” era attribuito ai non monaci, a quanti cioè non avevano fatto professione di dedizione completa alla vita religiosa (tale testimonianza ci viene da San Girolamo, padre della Chiesa, vissuto fra il 340 circa ed il 420 d. C.).
Di fatto si nota che sovente quando si parla di saeculum, saeculare, lo si fa con una connotazione piuttosto negativa, che mette in luce la superiorità del sacro rispetto al secolare, del cristiano rispetto al pagano, del religioso rispetto al mondano. È sintomatico che quando San Cipriano (circa 210-258 d. C.), vescovo di Cartagine nel III secolo, deve condannare un certo modo di vestirsi (e non solo) ricorre più volte proprio all’avverbio saeculariter (cioè alla maniera del mondo, in modo mondano, secondo la moda del tempo) per mettere in rilievo la differenza fra un abbigliamento o costume o comportamento opportuno, lecito, e quello invece non adatto, non coerente con la condotta cristiana: “has divitias possidere non potest quae se divitem saeculo mavult esse quam Christo” (De habitu virginum, capitolo X); “a Deo per saeculi delitias recedentes” (De habitu virginum, capitolo XIII); “apud martyras non est carnis et saeculi cogitatio” (De habitu virginum, capitolo XXI); “vos resurrectionis gloriam in hoc saeculo iam tenetis, per saeculum sine saeculi contagione transitis” (De habitu virginum, capitolo XXII); “nemo quicquam de saeculo iam moriente desideret, sed sequatur Christum” (Epistulae, 58, 2).
Ma tale carattere negativo non è tipico solo dei cristiani, perché già Virgilio nelle Georgiche (verso 468) definiva perversi i tempi (“impiaque aeternam timuerunt saecula noctem”) e Tacito vi accennava scrivendo della corruzione: “nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur (De origine et situ Germanorum, 19). Dunque l’espressione di Tertulliano, l’apologista cristiano che scriveva “accedunt etiam saecularia exempla” (Exhortatio ad castitatem, 13), non rappresenta un fatto nuovo rispetto all’uso precedente del termine “secolo”, quasi sempre assimilato al male, al non auspicabile, a ciò che reca danno e corrompe.
L’altro senso di solito attribuito a saeculum è più neutrale, in quanto si riferisce – come già sottolineato – alla durata, alla serie di anni, all’età più che allo spirito dei tempi, alla moda del momento, alla vita mondana, od al paganesimo. È importante notare come attraverso i secoli si sia mantenuta quasi intatta la tendenza a giudicare negativamente il secolo e tutto quanto vi è collegato come costume, usanze, atteggiamenti e comportamenti. Occorre però ribadire che nella lingua latina non esisteva affatto il termine secolarizzazione, usato per la prima volta solo assai più tardi.
Il primo uso del concetto
Molti studiosi sono concordi nel ritenere che il termine secolarizzazione[1] sia stato utilizzato per la prima volta oltre oltre tre secoli e mezzo fa, esattamente nel 1648, in occasione delle trattative per la pace detta della Westfalia perché firmata a Münster e Osnabrück, due centri di quella regione. I tre trattati di pace concludevano la cosiddetta guerra dei trent’anni (1618-1648), che era scoppiata, fra l’altro, anche per motivi di ordine religioso: nell’impero asburgico vi era stata una forte pressione cattolica, in chiave controriformistica, per contrastare la diffusione del protestantesimo; in Germania, in particolare, le lotte fra protestanti e cattolici erano divenute sempre più aspre, giacché i calvinisti intendevano godere di una certa libertà (già concessa peraltro ai luterani dall’imperatore con la pace di Augusta); taluni esponenti ecclesiastici cattolici erano passati al protestantesimo senza perdere i loro precedenti benefici, contravvenendo così agli stessi principi della suddetta pace; erano fieramente avverse fra di loro una “lega cattolica” da una parte ed una “unione evangelica” dall’altra; in Boemia era stato impedito ai protestanti di organizzassi e di professare liberamente la loro fede, sicché si era giunti alla famosa “defenestrazione di Praga” ( 1618), con i messi dell’imperatore buttati fuori delle finestre del castello reale perché minacciavano l’esercizio della libertà religiosa; con l’avvento del nuovo sovrano Ferdinando II (1619-1637), fervente cattolico, i dissapori erano aumentati per cui i boemi elessero loro signore il capo dell’unione evangelica, Federico, ma questi fu sconfitto e sostituito dal capo della lega cattolica, il che ovviamente non fu gradito agli stati protestanti; la Spagna aveva aiutato gli imperiali cattolici e si era inimicata la Francia, che cercava ogni motivo per contrastare gli Asburgo; in Valtellina, infine, i cattolici avevano fatto scempio di protestanti con il “sacro macello” dei Grigioni.
Le sorti sembravano capovolgersi con la discesa di Gustavo Adolfo re di Svezia, protestante, che giunse fino in Baviera con l’idea di radunare intorno a sé tutto il mondo luterano e calvinista. Nella battaglia di Lützen nel 1632 gli svedesi vinsero ma persero il loro re e subito dopo furono ricacciati verso le loro terre.
Intanto la Francia di Richelieu aiutava i protestanti. Tale politica del celebre cardinale fu proseguita dal suo successore, il Mazzarino, che ebbe ragione degli imperiali costringendoli appunto alla pace della Westfalia. Così gli Asburgo videro fallire il loro sogno di soffocamento del protestantesimo, al cui interno peraltro ebbe a diffondersi il principio “cuius regio eius et religio” che consacrava le differenze territoriali esistenti.
Ma, soprattutto, la pace della Westfalia riconosceva le secolarizzazioni, cioè le usurpazioni dei beni ecclesiastici avvenute prima del 1624. Il termine secolarizzazione fu un’invenzione del legato francese, Enrico II d’Orléans, duca di Longueville, che voleva così designare l’espropriazione dei possessi religiosi appartenenti alla chiesa cattolica. In pratica anziché dire in termini troppo espliciti che ai cattolici si sottraevano alcuni beni, domini, vescovadi, edifici, conventi, terreni, si escogitò la parola secolarizzazione per attenuare nominalisticamente il senso reale dell’operazione. In effetti la secolarizzazione poteva suonare meno pesante che non l’esautorazione, la soppressione, l’espropriazione.
I cattolici partecipanti alle trattative per la pace si accorsero ben presto della sottigliezza terminologica e contestarono come non legittima la perdita delle proprietà ecclesiastiche.
La questione era nata dal fatto che occorreva dare all’elettore di Brandeburgo una ricompensa per aver ceduto alcune sue terre agli svedesi. Si pensò allora ad alcuni territori ecclesiastici, che però erano già abitati da protestanti. Per evitare di far decadere la qualifica di principati ecclesiastici come parte del Sacro Romano Impero si pensò proprio al termine séculariser (secolarizzare), che avrebbe mascherato la reale natura dell’operazione, cioè l’abolizione del dominio ecclesiastico. Ecco dunque che la secolarizzazione rientrava nel contesto del vocabolario di matrice religiosa e non negava completamente la qualifica religiosa originaria. In altri termini secolarizzazione doveva voler dire che si rispettava formalmente lo statuto dei territori ecclesiastici, anche se di fatto essi venivano del tutto laicizzati passando sotto il possesso di altri.
Il più acuto studioso di questo processo storico-linguistico fondamentale è Martin Stallmann[2] che così scrive in proposito: “quel che è secolare può anche servire a fini ecclesiastici e ricevere una ratifica religiosa. La parola secolarizzazione era particolarmente indicata perché così la trasformazione dei domini religiosi non appariva come alienazione del loro patrimonio dai fini cui era destinato, o sovvertimento violento del loro statuto, ma anzi faceva pensare ad una utilizzazione temporanea e non tale da mettere in questione la possibilità di un uso diverso della proprietà”. Si trattava dunque di un raggiro terminologico sotto le parvenze del provvisorio e del formalmente corretto, ma celava in verità ben più pesanti conseguenze, dato che il cambio della proprietà significava una perdita completa di diritti. La stessa possibilità della ratifica religiosa, del resto, era solo ipotetica ma soprattutto inefficace – in generale – sul piano politico ed economico. Secolarizzazione dunque equivaleva in concreto ad appropriazione indebita e come tale fu intesa dai cattolici. In realtà “il concetto di secolarizzazione serviva meno per chiarire che per velare i veri motivi. Secolarizzare significa laicizzare – aggiunge ancora Stallmann – ma si era contenti di poter parlare di questa laicità con una terminologia che sembrava rappresentare ancora e di nuovo, almeno giuridicamente, il sistema sacrale dell’ordine medievale dell’impero che proprio dalla guerra dei trent’anni era stato distrutto”. Vi era dunque la convinzione di cambiare la sostanza dei fatti, pur nel rispetto di un formalismo religioso di facciata, e che quindi i principati potessero continuare ad essere definiti ecclesiastici (cioè cattolici) pur appartenendo in realtà a “signori” protestanti.
Non sembra dunque accettabile l’interpretazione di Larry Shiner[3], secondo cui anche nel trattato di Westfalia il concetto di secolarizzazione aveva un significato neutro. Anzi, a voler sottilizzare, esso aveva piuttosto un carattere neutralizzante solo nel senso di camuffare un mutamento di possesso, che nel caso specifico rappresenta in effetti un’alterazione dei possedimenti ecclesiastici.
Shiner ha ragione di ricordare la duplice versione del termine latino saeculum, come nozione di tempo e come “mondo” nelle mani di Satana. Ma l’annotazione prevalente pare essere quella negativa così come si è storicamente determinata. E se anche le dizioni di “clero secolare” e “braccio secolare” non risultano a prima vista in opposizione con 1’istituzione religiosa, anzi vi si collegano direttamente, nondimeno esiste una latente differenziazione che attribuisce superiorità e maggiore dignità a tutto ciò che secolare non è.
Che poi la Chiesa stessa decida di fare interventi di secolarizzazione non può sembrare singolare, specie se ai considera che tale scelta è strumentale in vista di ulteriori sacralizzazioni. Così avviene nel caso della fondazione dell’Università di Münster: secolarizzati, sì, un convento benedettino ed alcuni possessi gesuitici ma in vista dell’istituzione di un ateneo al cui interno avrebbe trovato spazio più che adeguato l’insegnamento religioso. Dunque non desta meraviglia che il pontefice dell’epoca (1773), Clemente XIV, abbia dato il suo consenso a tali secolarizzazioni, favorite altresì dalla soppressione dell’ordine dei gesuiti.
In definitiva, la secolarizzazione non cessando di portarsi dietro i suoi connotati tendenzialmente negativi assume talora la dimensione di male minore o di mezzo per raggiungere obiettivi rilevanti.
Lo stesso può dirsi della secolarizzazione intesa come passaggio dal clero “regolare” a quello “secolare”: pur di mantenere il religioso all’interno della struttura organizzativa di Chiesa gli si concede una normativa meno rigida, meno restrittiva, più accondiscendente nei riguardi delle esigenze di tipo secolare.
L’uso del termine secolarizzazione nei trattati di Westfalia non segna dunque una frattura rispetto al passato ma mantiene quasi intatte talune caratteristiche negative di fondo, pur nelle sfumature delle vicissitudini e delle ermeneutiche diplomatiche che assai spesso giocano proprio sulle possibili ambiguità dei concetti ma non possono d’improvviso capovolgere significati ed interpretazioni già fissate nell’arco della storia.
La secolarizzazione secondo le trattative condotte dal delegato Monsignor duca di Longueville non si diversifica affatto dal modo di concepire il “braccio secolare”, il “clero secolare”. In tutti questi casi più che di neutralità concettuale si deve parlare di continuità dell’uso tendenzialmente negativo o quanto meno riduttivo del concetto di “secolare”. L’astuzia di Monsignor di Longueville non riuscì ad ingannare i cattolici, i quali – come si è detto – ben afferrarono la vera portata della proposta.
E non è neppure casuale che la stessa, anzi più dura reazione si ebbe con la grande secolarizzazione del 1803, allorquando in diverse parti d’Europa si provvide a tutta una serie di incameramenti e di espropri dei beni ecclesiastici. Fu allora che la dimensione negativa latente emerse con chiarezza ed il lemma secolarizzazione cominciò a significare per i cattolici ingiustizia, oppressione, usurpazione, confisca, appropriazione illegittima. Ciò fu possibile perché in tale caso non era più la Chiesa stessa a gestire e controllare i limiti della secolarizzazione, ma altri, assolutamente estranei ad essa, del tutto laici, “secolarizzati” al massimo, senza più alcun legame con l’istituzione religiosa: era principalmente lo Stato, stavolta avversario e non più “braccio secolare”, a stabilire le regole del procedimento, senza più alcuna interferenza ecclesiastica.
Lo sviluppo della secolarizzazione
Se il 1648 è la data presunta d’inizio dell’uso terminologico, sono i secoli successivi a vedere gli esiti di eventi cruciali che hanno favorito o rallentato lo sviluppo del fenomeno sociologico definito come secolarizzazione.
Il sociologo inglese David Martin[4] individua alcuni fattori storico-geografici fondamentali sotto questo aspetto. Egli accenna alla relativa sicurezza
del protestantesimo inglese, nonché del protestantesimo nordeuropeo, protetto dalla grande distanza rispetto alle zone cattoliche più tipiche. A ciò occorre aggiungere l’influenza di altri fatti strategici: l’esito della guerra civile inglese (1642-1660), della rivoluzione americana (1776), di quella francese (1789), russa (1917), nonché della Riforma protestante in Svizzera e in Scozia e da ultimo la mancata rivoluzione politica nelle zone luterane (fatta eccezione per la Germania dell’Est).
Da tutti questi avvenimenti derivano differenti modelli di secolarizzazione. In quello americano prevale l’aspetto etico anziché quello relativo alle istituzioni ed alle credenze. Nel modello britannico c’è un’erosione a livello istituzionale ma le credenze restano salde. Nel caso franco-latino vi è uno stretto rapporto fra politica e religione, con una diffusione del secolarismo che minaccia istituzioni e credenze. In Russia si assiste alla privatizzazione della fede religiosa, in seguito anche al massiccio contrasto tra ortodossia marxista da una parte e istituzioni e/o credenze religiose dall’altra. Nel sistema calvinista poi c’è una parziale secolarizzazione dei principi morali, ma le istituzioni religiose reggono meglio di quelle luterane e anglicane ma non di quelle cattoliche. Nel modello luterano solo il connubio secolarismo-marxismo riesce a scalfire le istituzioni religiose. Nel contesto latino-americano infine vi è un incontro tra socialismo/comunismo e religione.
Ma come definire in termini correnti il fenomeno della secolarizzazione? In questo ci aiuta Charles West[5], il quale sostiene che “la secolarizzazione è la sottrazione di settori della vita e del
pensiero al controllo del religioso e del metafisico, e il tentativo di comprendere quei settori e di viverci in termini che rispondono a ciò che essi sono in se stessi”. Questa spiegazione non si discosta molto, in sostanza, dall’uso del termine “secolarizzazione” in vista della pace della Westfalia. Ancora oggi infatti secolarizzazione significa togliere qualcosa al predominio ecclesiastico, con la sola differenza che mentre nel passato si trattava di beni materiali ora invece l’oggetto del trasferimento è costituito da aspetti più impalpabili ma anche più influenti quali sono i valori, i principi dell’azione, gli orientamenti di vita, le scelte etiche, gli atteggiamenti ideologici. La vecchia frase usata durante la rivoluzione francese “tutti i beni ecclesiasti a disposizione della nazione” oggi va intesa nel senso che i settori appartenenti un tempo all’egemonia della chiesa (morale, politica, economia, ecc.) passano nelle mani stesse dei cittadini che provvedono in prima persona ad assumere decisioni ed a stabilire le azioni considerate più opportune in campo familiare, comunitario e statale.
Secolarismo e secolarizzazione
È importante sottolineare quali siano le convergenze e le differenze fra secolarismo e secolarizzazione[6]. Di quest’ultimo termine si è indicata in qualche modo, e per così dire, la data di nascita (1648). Per secolarismo invece la questione è più complessa ma almeno si può far riferimento a George Jacob Holyoake[7] che nel 1846 fondò la Londoner Secular Society. L’idea del fondatore di tale società fu che si potesse fare completamente a meno della Chiesa e della religione. Egli parlò infatti del secolarismo come filosofia pratica del popolo. E si battè per l’emancipazione assoluta da ogni forma religiosa, sostenendo che gli affari non pertinenti alla chiesa andassero trattati come completamente secolari. Il suo obiettivo fu pertanto di diffondere il secolarismo ad ogni possibile livello: nelle scuole, nella politica, nella cultura.
Tale azione non fu senza conseguenze, come spiega A. J. Nijk[8] che sintetizza compiutamente la questione: “nella introduzione del termine séculariser vi sono aspetti che ci ricordano la parte che ebbe la parola séculariser nelle trattative di Westfalia. Anche nel termine séculariser è racchiuso sia un attacco alla religione dominante sia un riconoscimento di essa. Il termine suggerisce da una parte che ci sono vasti settori della vita umana nei quali si tratta soltanto di cose ‘secolari’ e non c’entra affatto la confessionalità, dato che la religione si occupa di cose che trascendono la sfera secolare. Con ciò non solo il profano diventa più profano, ma anche lo spirituale diventa più spirituale”.
Dunque si riconosce il valore della religione dominante, tanto che Holyoake ebbe anche ad affermare che il secolarismo non comporta necessariamente un atteggiamento ostile verso la teologia. Ma i suoi seguaci superarono tale posizione e resero più conflittuale il loro atteggiamento nei confronti della religione, considerandola in ogni caso un inganno.
Poste queste premesse, la conseguenza è stata che successivamente ogni forma di secolarismo sia stata avversata dalle Chiese cristiane, che hanno visto in esso un fenomeno pericoloso. Ma col passar del tempo anche nei confronti del secolarismo si sono registrate prese di posizione più caute.
La teologia della secolarizzazione
Proprio a partire dalla differenza fra secolarizzazione e secolarismo il teologo Friedrich Gogarten, in un suo saggio del 1953[9], riconobbe alla secolarizzazione un ruolo positivo, in quanto modalità per conoscere il mondo nella sua realtà concreta. Anzi la secolarizzazione era da considerare, secondo lui, uno sbocco naturale della religione, perché la natura stessa del cristianesimo impone il rapporto con il mondo. Il secolarismo sarebbe invece la degenerazione della secolarizzazione. Ma questa, mantenuta entro certi limiti, consente di vivere la propria fede pure in un contesto profano.
Dice Lübbe[10] in proposito: “il fatto di considerare la secolarizzazione come una condizione e una conseguenza della fede rendeva più facile alla chiesa il compito di ‘ammodernarsi’ nella sua veste esteriore”. In altri termini, e per fornire una immagine esemplificativa, la secolarizzazione appare come uno strumento, quasi un cordone ombelicale che permette di formare e alimentare qualcosa che è differente ma non del tutto estraneo. La recisione, il distacco di tale cordone dà luogo al secolarismo, cioè all’allontanamento definitivo dalla “madre Chiesa”.
Gogarten non si limita a queste affermazioni ed è ancora più esplicito. Per lui la secolarizzazione sta ad indicare anche la libertà del cristiano nel mondo contemporaneo. Ciò significa in pratica che il credente è libero di rinunziare all’ipotesi di una cristianizzazione della politica attraverso la creazione di un partito cristiano che abbia come obiettivo una strutturazione della società secondo principi rigidamente confessionali.
Precisa inoltre Lübbe: “il compito della fede in rapporto al mondo è dunque quello di vegliare affinché nelle sue istituzioni e nei suoi ordinamenti secolari ci sia posto per quel senso dell’umano che è minacciato dalla pretesa totalitaria di dominio politico e sociale delle varie ideologie…, compresa la cristiana”. Così il mondo secolare risulta legittimo e la Chiesa può aprirsi ad esso senza molte remore.
In verità ancor prima di Gogarten un altro teologo aveva aperto la strada a tale interpretazione: Dietrich Bonhoeffer[11] con la sua “interpretazione non religiosa dei concetti biblici in un mondo diventato adulto”. La sua convinzione profonda è che si debba vivere come se Dio non ci fosse[12]: “non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere come uomini che sanno cavarsela con una vita senza Dio. Iddio che è con noi è Iddio che ci abbandona (Vangelo di San Marco, capitolo l5, versetto 34). Davanti a Dio e con Dio noi viviamo senza Dio. Dio si lascia spingere fuori dal mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e proprio e soltanto così è con noi e ci aiuta”.
Vi è quasi una difesa della secolarizzazione da parte di Bonhoeffer che se la prende con certi teologi nemici giurati di ogni elemento secolare, di ogni realtà del mondo profano. Egli considera i loro interventi senza senso, poco nobili e poco cristiani. E si esprime con queste puntuali riflessioni in proposito: “senza senso, perché mi pare il tentativo di riportare uno che è diventato uomo al periodo della pubertà, cioè di renderlo dipendente da cose dalle quali di fatto egli non dipende più, di imporgli dei problemi che di fatto per lui non sono più problemi. Poco nobile, perché si cerca di approfittare della debolezza d’un uomo per fini a lui alieni, da lui non liberamente accettati. Poco cristiano, perché si scambia Cristo con un determinato gradino della religiosità dell’uomo, cioè una legge umana”.
Un altro contributo importante per un approccio non negativo nei confronti della secolarizzazione è quello del vescovo inglese John A. T. Robinson[13], autore nel 1963 di Honest to God (tradotto poi in italiano col titolo Dio non è così). Secondo questo teologo “ciò che oggi si richiede… è una revisione ben più radicale, che non esiti ad affrontare rinnovandole, anche le categorie fondamentali della nostra teologia, come i concetti di Dio, di soprannaturale, e perfino di ‘religione’… Vi è ormai una frattura, sempre più ampia, tra il tradizionale soprannaturalismo ortodosso e le categorie che il mondo ‘laico’… reputa valide e vitali… Molti cristiani si trovano dalla parte di quelli che non lo sono e… fra i nostri amici non cristiani molti sono ben più vicini al Regno dei Cieli di quanto essi stessi probabilmente immaginano. Essi pensano infatti di aver rifiutato il Vangelo, ma in realtà hanno respinto soltanto una concezione del mondo che, giustamente, ritengono ormai inaccettabile”.
Nel corso della storia religiosa molti concetti si sono così logorati sino a non significare quasi nulla per molti uomini. Per questo occorrerebbe una revisione, una reinterpretazione di tali termini di riferimento. La lettura tradizionale del Vangelo non appare più soddisfacente; sono necessari nuovi schemi interpretativi; va auspicata una diversa sensibilità umana, più secolare.
Due anni dopo il fortunato volume di Robinson esce The Secular City (La città secolare) di Harvey Cox[14], un libro che ha segnato un’epoca, quella della riflessione – non solo teologica – sulla secolarizzazione. Indubbiamente il successo di quest’opera – non paragonabile affatto al più difficile e complesso saggio (1963) di Paul van Buren[15] dal titolo The Secular Meaning of the Gospel (Il significato secolare del Vangelo) – è dovuto non solo ad una certa novità del discorso sulla secolarizzazione quanto piuttosto al felice intreccio creato con un’altra importante tematica sociologicamente rilevante quale è quella dell’urbanizzazione ed in particolare della cosiddetta tecnopoli.
Cox ritiene che Dio stesso non sia interessato alla Chiesa ed alla religione ma in primo luogo al mondo ed alla politica. A suo giudizio la soluzione migliore è “stare con un piede nell’Antico Testamento e con l’altro nella lotta politica del nostro tempo”. Non si deve perciò partire dalla Chiesa per andare nel mondo, ma cominciare da quest’ultimo per giungere poi alla Chiesa e capire il suo ruolo nel mondo.
Il teologo battista di Harvard pensa inoltre che la scomparsa delle religioni, nella loro forma tradizionale, è l’ultimo ostacolo oltre il quale i cristiani potrebbero presentarsi al mondo con un volto nuovo, nella realtà secolarizzata che ha l’uomo come protagonista.
La secolarizzazione altro non sarebbe allora che la lotta contro gli appesantimenti e le scorie di ordine metafisico, trascendente. L’uomo va liberato da tutto ciò, come già avvenne con la creazione, l’esodo, l’alleanza sul monte Sinai.
Lungi dall’essere un esponente della cosiddetta “teologia della morte di Dio”, che ha spesso accompagnato il dibattito sulla secolarizzazione, lo studioso statunitense considera innegabile la presenza di una realtà superiore all’uomo, nonostante la continua caduta di miti e di simboli sacri che caratterizza la società contemporanea.
La storia è concepibile allora come opera dell’uomo e non più come fatalità; il mondo stesso è il campo di azione degli uomini secolarizzati le cui prospettive di azione sono totalmente “profane”.
Nonostante l’affossamento di molti valori religiosi, la secolarizzazione e la crescente urbanizzazione non porterebbero al crollo del cristianesimo. In particolare “la secolarizzazione, fenomeno caratteristico dell’epoca, segna un mutamento nella maniera in cui gli uomini concepiscono e intendono la loro vita in comune, e si è verificato solo quando le possibilità di confronto cosmopolita offerte dalla vita delle grandi città hanno reso evidente la relatività dei miti e delle tradizioni che gli uomini un tempo ritenevano indiscutibili”.
L’uomo secolare inoltre pensa l’universo come la sua città, da cui è scomparsa ogni forma di religione. In effetti “l’uomo contemporaneo è divenuto il cosmopolita, il mondo è divenuto la sua città e la sua città si è estesa fino ad includere il mondo. Il nome del processo mediante il quale ciò è avvenuto è ‘secolarizzazione’”. Per di più proprio la “secolarizzazione è l’uomo che distoglie la sua attenzione dall’oltremondo e la rivolge a questo mondo e a questo tempo (saeculum = ‘questo tempo presente’)”.
L’immersione nel secolo consente al cristiano di continuare a nutrire la sua speranza per il futuro. E questo avviene anche al di là dell’insistenza di taluni teologi ancora propensi a parlare di Dio solo in termini metafisici, dunque con un linguaggio del tutto inadeguato agli uomini di un’era secolarizzata. Cox invece propone di parlare di Dio come protagonista della storia della metropoli secolare.
Questo autore non è chiaramente un sociologo ma la sua attenzione al dato sociale è tipicamente sociologica e denota una solida capacità di analisi. Forse la sua visione appare piuttosto ottimistica, ma non manca di cogliere nel segno, almeno negli aspetti di carattere generale. Qualcuno lo ha persino accusato di “ingenuità sociologica”, ma certo non sarebbe stato facile per questo teologo districarsi abilmente fra la lunga serie di teorie sociologiche sul fenomeno della secolarizzazione.
La sociologia della secolarizzazione
L’analisi sociologica della secolarizzazione ha visto una folta schiera di studiosi impegnata sul tema. Renderne conto in breve è un’impresa quanto mai ardua. Per questo è più opportuno partire da qualche tentativo di sintesi del discorso, in modo da coglierne gli aspetti essenziali. Uno degli approcci più attenti e riusciti per definire secondo categorie sociologiche il processo di secolarizzazione si deve a Larry Shiner[16], che esamina sei ambiti concettuali.
Il primo contesto riguarda il venir meno della religione, che perde vieppiù significato dato che i suoi simboli e le sue istituzioni non farebbero adeguata presa sulle masse.
La seconda categoria si riferisce all’adattamento delle Chiese al mondo, con una attenzione maggiore ai problemi morali del presente. Le nuove condotte di vita avrebbero cancellato gli schemi tradizionali di comportamento, favorendo al massimo soluzioni di tipo concreto, pragmatico, operativo.
Il terzo tipo ha a che vedere con l’allontanamento stesso della società dalla religione: si cerca così un’autonomia di azione nel settore pubblico, ritenendo la credenza tutt’al più un fatto privato, individuale, non influente. La religione non può esercitare quindi alcun potere in campo profano. Pure la filosofia e la scienza acquistano una propria dimensione che prescinde da premesse di fede.
A proposito del quarto significato della secolarizzazione Shiner parla di un superamento della interpretazione solo religiosa di tutta la realtà. L’uomo secolare si rende conto di essere il protagonista del suo mondo e contesta la fondazione divina di strutture e istituzioni sociali. La religione viene pertanto antropologizzata, cioè ridotta a misura umana. Il caso più esemplare è dato dall’analisi di Max Weber sull’etica protestante[17], la cui secolarizzazione avrebbe favorito lo sviluppo dello spirito capitalistico.
L’eliminazione di ogni intrusione a livello di mistero e di mito caratterizza la quinta alternativa. La società appare desacralizzata, poiché tutto è spiegato in chiave razionale, causale, senza rimandare al carattere sacrale della vita umana. Così il mondo subisce un’opera di disincantamento, che libera l’uomo dalla sudditanza verso ciò che è ritenuto sacro.
L’ultima categoria si ricollega al mutamento sociale, che registra il passaggio dalla società di tipo sacrale a quella secolarizzata. Quanto più la società è razionale e utilitaristica tanto più essa si secolarizza.
Queste sono le linee generali del fenomeno, lungo le quali numerosi cultori di scienze sociali si sono mossi con proposte teoriche e tentativi di verifica empirica.
La teoria più nota e discussa è senz’altro quella di Thomas Luckmann[18] sulla “religione invisibile”, non istituzionalizzata, priva di qualsiasi modello ufficiale. In particolare sarebbero alcuni “nuovi temi” a stabilirsi come alternative immediate alla religione tradizionale. Essi sono soprattutto l’autonomia individuale, l’auto-espressione, l’auto-realizzazione, la sessualità, il familismo, il tempo libero. Questi spazi del vissuto sociale si sono resi sempre più autonomi nei confronti del sistema religioso sicché “il declino della religione ecclesiastica tradizionale può essere visto come una conseguenza della diminuita rilevanza dei valori (istituzionalizzati nella religione ecclesiastica) favorevoli all’integrazione e alla legittimazione della vita quotidiana nella società moderna”[19].
Ma erosa la struttura istituzionale religiosa emerge una nuova forma sociale di religione. Scomparsi i valori sacri tradizionali altri significati si affacciano sulla scena sociale. Il nuovo cosmo sacro è dato appunto dai nuovi temi “religiosi”, di cui si è già detto. Senza più alcun modello ufficiale da seguire, la scelta avviene fra elementi diversi non riconducibili alle forme religiose preesistenti. Questo nuovo sistema di valori assolve la stessa funzione della religione di vecchio tipo. Si tratta inoltre di un fatto sempre più interiorizzato ma presente, una sorta appunto di “religione invisibile”.
Anche in Italia il dibattito sulla secolarizzazione è stato piuttosto vivace. Lo spunto iniziale è venuto, sin dal 1961, a partire dal volume di Sabino Acquaviva[20] su L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, una ricerca a livello internazionale basata soprattutto sulla pratica religiosa, cioè sul numero di coloro che andavano a messa e assolvevano altri obblighi rituali. L’autore ha in più luoghi ed in diverse occasioni modificato il suo punto di vista sulla secolarizzazione ma, pur fra dubbi ed incertezze[21], la sua ipotesi è che “l’eclissi del sacro è connessa con una svolta nello sviluppo della società e della psicologia umana, come tale non può essere considerata contingente, ma destinata a trascinare nella rovina, temporanea o definitiva che sia, una serie di tradizioni, di culture, di valori religiosi”.
Su posizioni diverse si è collocato successivamente Franco Ferrarotti[22]. Questi rifiuta ogni tentativo di operare suddivisioni dicotomiche nella realtà sociale, per esempio fra razionale e irrazionale, fra sacro e secolare e così via. A suo giudizio dietro questo modo di procedere si cela il desiderio di mantenere la situazione esistente e di “aggredire” ogni possibile sviluppo diverso, nuovo, non ortodosso. Richiamandosi a Weber ed al suo superamento di ogni contrapposizione netta, Ferrarotti accusa di etnocentrismo, e di eurocentrismo nella fattispecie, le tesi sulla secolarizzazione quasi sempre impostate tenendo conto del contesto europeo, occidentale, se non solamente cattolico e italiano. Pertanto “lungi dall’essere in eclissi, il ‘sacro’ mostra di avere una funzione sociale vitale, benché complessa e di ardua interpretazione. Nuove forme di razionalità premono dietro la facciata chiusa e dogmatica delle strutture istituzionali formali della tradizione. Solo un ragionare dicotomico e aprioristico può espungerle ed esorcizzarle come ‘opera del demonio’. La crisi della religione di chiesa e l’eclissi del sacro come materia prima amministrata dalle strutture ierocratiche formali non toccano, anzi paradossalmente stimolano il sorgere e l’affermarsi di nuove forme associative di base, extra-ecclesiali ed anti-ecclesiali, in cui si va riscoprendo nel profondo l’esperienza religiosa come religiosità personale, contatto irriducibile del singolo con l’extra-quotidiano, 1’‘irruzione di grazia’ come dono non mediato, carisma gratuito, razionalmente inesplicabile ma non per questo privo di sue funzioni razionalmente intellegibili e socialmente importanti”.
La religione-di-chiesa non esaurisce perciò tutte le possibilità del sacro, giacché altre esperienze, personali e responsabili, sembrano contraddire le tesi della secolarizzazione. Ferrarotti conclude sostenendo la possibilità di una concezione non religiosa del sacro, per cui non vi sarebbe un’eclissi del sacro dato che “la crisi della razionalità burocratico-funzionale allarga lo spazio del sacro, lo esalta come alternativa, occasione e strumento di sopravvivenza umana”.
E non è neppure detto che la secolarizzazione qualora sia collegata ad esempio al fenomeno di urbanizzazione comporti sempre un declino della pratica religiosa. In alcuni paesi il numero dei credenti dichiarati è andato aumentando, con una maggiore diffusione della pratica festiva, dei matrimoni religiosi, della partecipazione in generale ai riti. È probabile che altre ragioni, non sempre di natura puramente socio-religiosa, abbiano influito su tale fenomeno, tuttavia è importante rilevare come la crescita delle città – fattore tipico di secolarizzazione – può persino favorire un più intenso attaccamento alle forme religiose tradizionali, specie fra le religioni minoritarie in ambiti dove prevalgono altre religioni più diffuse e storicamente consolidate[23].
Ciò può avvenire anche in taluni contesti (per esempio negli Stati Uniti ma anche a Roma) dove le città pullulano di gruppi e movimenti religiosi con un pluralismo di esperienze che non fanno certo pensare ad un declino della religione. Vi è persino chi asserisce che “una base essenziale per il rapido sviluppo della Chiesa in America nella nostra epoca è la crescente secolarizzazione della società americana” (David O. Moberg[24]), precisando che i membri stessi delle Chiese sono fautori e protagonisti del processo di secolarizzazione. Anche Howard Becker[25] sin dagli anni ‘50 aveva parlato della secolarizzazione come via per una rinascita della religione. Nonostante queste ipotesi e verifiche, non mancano in verità altre risultanze che inducono a credere che la società contemporanea ritenga sempre meno indispensabile la religione.
Il fatto è che il concetto di secolarizzazione è multidimensionale, ha cioè molte particolarità di uso, come è stato sostenuto (1981) nel più completo studio sul fenomeno, curato da Karel Dobbelaere[26], il quale ha consultato ben 248 pubblicazioni al riguardo, in una rassegna internazionale di teorie e ricerche sulla secolarizzazione, che vanno dal Belgio agli Stati Uniti, dalla Francia all’Italia, dal Giappone ai paesi dell’est europeo.
Dobbelaere rileva una prima significativa peculiarità. Il termine secolarizzazione è usato più spesso nella lingua tedesca, italiana, olandese e inglese che non in quella francese, dove di solito si preferiscono altri termini quali “laicizzazione”, “scristianizzazione”, “mutamento religioso”.
È davvero uno strano destino quello di questo concetto. Nato come tale proprio in lingua francese (per opera del già citato Monsignor duca di Longueville, inviato per le trattative preliminari della pace della Westfalia), il lemma viene continuamente surclassato da altri sinonimi. La spiegazione è forse nel fatto che esso è troppo ambiguo, abbastanza carico di significati, assai impreciso per poter essere utilmente adoperato senza dar luogo ad equivoci.
Al di là di questa riserva di fondo, è comunque possibile rintracciare, con Dobbelaere, varie dimensioni del concetto, che pertanto si presenta con una connotazione appunto pluridimensionale.
Innanzitutto la secolarizzazione appare connessa ad un processo di autonomizzazione delle istituzioni sociali, le quali si diversificano fra loro e assumono – ciascuna per sé – un proprio cosmo sacro, non più unico per tutte le realtà sociali. In tal modo la religione, pur non cessando di essere anche un’istituzione, si trova sullo stesso piano di altre forme di organizzazione sociale, senza avere più l’egemonia esercitata nel passato. È questa la laicizzazione delle istituzioni sociali.
Un altro fenomeno legato al concetto di secolarizzazione è quello della riduzione del numero del fedeli praticanti e degli iscritti ad associazioni di ispirazione religiosa, insieme con il calo di credibilità delle istituzioni religiose e delle loro dottrine. Questi risultati si avrebbero in conseguenza del già ricordato processo di laicizzazione, che in questo caso prende il carattere di scristianizzazione. È un indebolimento, in realtà, dell’integrazione e dell’appartenenza religiosa.
Vi è poi da spiegare il caso, citato sopra, degli Stati Uniti (ma anche di altri paesi) in cui la società appare abbastanza secolarizzata nel senso di una laicizzazione delle istituzioni sociali ma nello stesso tempo risulta anche fra le meno secolarizzate dal punto di vista della pratica religiosa (mettendo altresì in evidenza la cosiddetta eccezione europea[27]). Per superare tale contraddizione si è anche parlato di una “secolarizzazione interna” o dall’interno. Si tratterebbe in pratica di un mutamento religioso che si attuerebbe nel solco stesso del fatto fideistico, senza dar luogo a gravi fratture, anzi favorendo un recupero sostanziale dei livelli di credenza.
La secolarizzazione in Italia, a partire da un’analisi sulla realtà giovanile del passato
Di solito si guarda ai giovani per scoprire quali siano le tendenze in atto nella società. Anche nel campo dell’analisi socio-religiosa applicata alla secolarizzazione sono stati condotti numerosi studi per accertare quale sia lo sviluppo delle credenze, della pratica, dei comportamenti, degli atteggiamenti. Un confronto intergenerazionale, poi, consente di fare comparazioni fra andamenti registrati alcuni lustri fa e la situazione attuale, in modo da individuarne convergenze e divergenze, evidenze e latenze.
Una vasta indagine sulle classi di età giovanile, abbastanza anticipatrice di futuri sviluppi, era stata condotta da Giancarlo Milanesi e completata nel 1981. I risultati vennero raccolti nei due volumi che hanno per titolo Oggi credono così[28]. La ricerca era iniziata nel 1977 ed aveva interessato tre campioni di giovani dai l8 ai 25 anni, con un primo insieme di 4020 soggetti appartenenti a 320 gruppi. Un secondo campionamento aveva riguardato 905 giovani non appartenenti ad alcuna organizzazione. Altri 50 avevano poi raccontato la loro “storia religiosa”. Da tutto questo universo erano emerse alcune indicazioni in tema di secolarizzazione.
Un primo dato riguardava la “domanda di religione”, che apparve piuttosto scarsa nell’ultima generazione di allora. Solo il 9% dei giovani legati a qualche forma di associazionismo e meno dell’1% di tutti gli altri dichiararono esplicitamente di sentire un bisogno religioso. Anche i “valori religiosi” non attraevano molto, perché al meglio interessavano meno del 20% degli intervistati.
Il far parte di un’associazione sembrava aiutare lo sviluppo della componente religiosa, che in verità era assente in media fra il 67% e l’85% dei casi. Prevalevano invece i temi di portata personale (cioè autonomia, autorealizzazione, individualismo) e di carattere solidale ristretto (cioè famiglia, gruppo di amici, compagni di scuola). Anche la “domanda di religione” risentiva di queste condizioni.
Il “vissuto religioso” come tale offriva invece risultati più consistenti. La pratica religiosa aveva una certa diffusione e confermava un attaccamento alle forme tradizionali di religiosità. Il che smentiva le ipotesi di una larga presenza di nuove aggregazioni religiose.
Persino fra i non affiliati a nessun tipo di aggregazione la pratica regolare della messa toccava percentuali non trascurabili (il 26%), se si considera che non si discostavano molto dalla media generale della popolazione.
Al contrario il senso di appartenenza alla Chiesa era piuttosto debole e talvolta problematico. Ciò si manifestava soprattutto nella mancata adesione all’insegnamento ecclesiale in materia di morale sessuale, campo in cui il 70% dei giovani non accettava la visione del magistero ecclesiastico.
In definitiva si trattava di una religiosità giovanile piuttosto soggettivizzata e frammentaria, privatizzata e soprattutto incoerente perché faceva registrare diversità notevoli fra credenza e pratica.
Così concludeva l’autore del vasto studio empirico: “esiste tra i giovani di questa generazione un’esplicita domanda di religione, anche se essa non si può considerare maggioritaria; il ‘ritorno al sacro’ e la ‘ripresa della religione’ sono fenomeni rilevanti più sul versante qualitativo che su quello quantitativo, cioè più per quello che viene espresso dal bisogno di protagonismo e di radicalità evangelica dei pochi che per quello che viene evidenziato nel tradizionalismo religioso della maggioranza relativa dei praticanti”.
La religiosità secolare diffusa
Si deve ad Ulrich Beck[29] l’aver corso il “rischio” di una nuova proposta interpretativa della diffusione della religione sotto forma di esperienza di un Dio personale. In fondo anche in questo caso si tratta di un effetto indesiderato, che però ha una sua rilevanza sociologica. Chi vuole sottrarsi alle gerarchie, ai dogmi, alle pratiche, alle credenze ufficiali, alle valutazioni ideologiche, all’autoritarismo delle strutture stabilizzatesi nel tempo, si costruisce un suo modo di essere religioso (o non religioso) – che nondimeno si rapporta alla religiosità proposta da Chiese e da movimenti e gruppi, da comunità ed organizzazioni – e fa i conti con le verità pretese e propagate dalle diverse confessioni religiose, sia a livello locale che globale. L’opzione che ne deriva, quella di un Dio personale, sembra molto funzionale alle esigenze individuali di attori sociali alle prese con problematiche molteplici e complesse, rischiose ed imprevedibili, che non sempre trovano risposte adeguate nelle ricette proposte dalle religioni storiche, tradizionali, consolidate.
Si apre così uno scenario che fa intravedere un caleidoscopio di variazioni sul tema religioso, non necessariamente in conflitto fra loro e neppure con i modelli classici, che tuttavia restano sullo sfondo a rappresentare un orizzonte a largo raggio, dove continuano ad operare sistemi di socializzazione più o meno efficaci nei risultati. Questi utlimi seppure sembrano ridursi nel tempo restano comunque influenti, magari a distanza di anni ed in circostanze-chiave a livello esistenziale.
Il precipitato storico di tutto questo è il ritorno di una sorta di politeismo di matrice weberiana[30] ma riproposto da Beck secondo la chiave interpretativa di un individualismo religioso che sfocia in un duplice orientamento, favorevole sia alla soluzione religiosa sia alla sua negazione, senza rinunciare per questo alla ricerca di una trascendenza, presumibilmente declinabile anche per categorie fra loro differenziate, secondo la lezione offerta da Luckmann[31].
E qui l’intento di Beck pare congiungersi appunto con quello di Luckmann[32], per cui l’“individualizzazione della religione” di Beck quasi coincide con l’idea della religione cosiddetta “invisibile” di Luckmann, basata su “temi religiosi moderni” da considerare tipicamente individuali per il riferimento, come già ricordato, alla sfera privata, all’autonomia, all’indipendenza, all’autoespressione, all’autorealizzazione, alla sessualità, al familismo, alla mobilità personale.
La morte invece si sottrae a questo genere di considerazioni e non viene fatta rientrare nel novero di ciò che si qualifica come “significanza ultima”, attribuita piuttosto al mondo privato, individuale. Sulla medesima lunghezza d’onda pare muoversi Beck, che a sua volta ha dovuto scontrarsi con la realtà dell’evento ultimo proprio un anno prima di queste riflessioni sul suo pensiero (è venuto a mancare il 1° gennaio 2015).
Occorre dire che per Beck l’individualizzazione della religione si presenta come un paradosso, giacché la religione promuove memoria, rinsalda legami, favorisce identità collettive, diffonde riti fortemente socializzanti. Ma è dalla stessa religione che prende le mosse l’individualizzazione, in quanto essa si fonda sulla fede del singolo soggetto e sulla sua libertà di scelta.
La stessa promessa di una vita eterna come forma di sconfitta per la morte fisica è definita da Beck un’invenzione inquietante ed isolante al medesimo tempo. Inoltre essa è una sorta di esame che conduce o meno alla vita eterna, secondo il tipo di vita vissuto. Conviene sottolineare, ad ogni buon conto, che l’individualizzazione della religione quando e se approda alla religiosità del Dio personale non solo è ben diversa dall’individualizzazione nella religione protestante di cui parla Weber[33] ma potrebbe peraltro creare problemi alle forme religiose istituzionalizzate, a meno che queste ultime non cerchino soluzioni di compromesso, adattamento, conciliazione.
Per rendere ancora più esplicita la sua lettura della realtà religiosa Beck propone dieci tesi fondamentali che ben si attagliano al tema della religione diffusa[34]: in primo luogo la diffusione della fede religiosa è direttamente proporzionale alla presenza di motivi di incertezza nei percorsi esistenziali; senza andare verso la scomparsa della religione, si affaccia all’orizzonte una nuova modalità anarchica di religione irrispettosa dell’esistente e delle sue norme abituali; l’individualizzazione della religione si collega a quella della società tutta: famiglie e classi e sociali; perdono rilevanza le immagini istituzionali, che cedono il posto a nuove parole ed a nuovi simboli; mentre cala la pratica religiosa si amplificano nuove forme più fluide, liquide, sfuggenti direbbe Bauman[35]; c’è una privatizzazione della religione ma allo stesso tempo essa recupera terreno nello spazio pubblico (Casanova[36]); la cosiddetta verità religiosa si trasforma sia a livello istituzionale che individuale; la religione individualizzata ripercorre i medesimi sentieri simbolici della sfera religiosa istituzionale in un evidente continuum sostanziale; lo stesso Dio personale giunge al termine di un itinerario che è stato istituzionale, tradizionale, quasi senza soluzione di continuità con il passato; il futuro presenta vari scenari, tra i quali l’avversione alla religione individualizzata, l’affermarsi della religione nella sfera pubblica (Habermas[37]) ed una prospettiva inclusiva di ciascuna religione, che si mette in relazione con le altre confessioni, ne riconosce l’apporto ed accetta un confronto continuo ed aperto.
In tal modo le religioni acquisiscono una cittadinanza universale mai sperimentata prima. La maggiore diffusività delle religioni legittima poi la stessa espressione di “universalismo religioso” e conferma la propensione segnatamente cattolica (ma non solo tale) verso il cosmopolitismo.
Ancora una volta il processo di secolarizzazione mostrerebbe dunque il verificarsi di un andamento inverso rispetto a quello prospettato di solito. Del resto è un proprium della religione superare i confini, debordare, allargarsi.
La diatriba teorica
Fra gli studiosi della secolarizzazione vi è chi pensa ad una totale riduzione dell’importanza della religione nell’ordine sociale (Bryan Wilson[38]). Pertanto le chiese sarebbero in declino, specie nel mondo occidentale. Tale incremento della secolarizzazione sarebbe da spiegare pure con la crisi del senso comunitario e l’aumento
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della mobilità sociale e della impersonalità dei rapporti interpersonali. Né sarebbe da credere che i nuovi culti, soprattutto fra i giovani, abbiano particolare rilievo e influenza. Essi sarebbero piuttosto marginali e non del tutto significativi.
Altri autori parlano invece di una persistenza della religione, anzi si dicono certi della sua sopravvivenza (G. Baum[39]): “la nuova esperienza religiosa dell’umanità, così largamente diffusa tra diversi gruppi, ha rivelato una notevole vitalità sociale ed è diventata una sorgente di rinnovamento entro le Chiese cristiane. Sta qui il segno che indica lo sviluppo futuro della religione”.
Per altri scienziati sociali la questione della secolarizzazione si pone in termini ancora più problematici, sulla base dell’osservazione che ad una teorizzazione del fenomeno pur ampia e convincente non sempre corrisponde un’adeguata verifica empirica con dati probanti. La secolarizzazione altro non sarebbe allora che una specie di mito sociale – dice Peter E. Glasner[40] – costruito e sostenuto da motivi ideologici.
Una chiarificazione di carattere generale viene da Talcott Parsons[41]: “se il concetto di secolarizzazione ha un significato generale, esso probabilmente è quello di un mutamento…
Nel mondo occidentale, e specialmente nelle cerchie religiose, il concetto è stato ampiamente inteso come un cambiamento a senso unico, cioè come il sacrificio di esigenze, obblighi e impegni religiosi a favore di interessi ‘secolari’. Non si dovrebbe tuttavia dimenticare l’altra possibilità, e cioè che l’ordine ‘secolare’ possa mutare nel senso di una maggiore approssimazione ai modelli normativi forniti da una religione, o più in generale dalla religione”. In termini più espliciti e con riferimento fra l’altro al contesto nordamericano Parsons puntualizza: “io assumo in parte una posizione deliberatamente paradossale quando attribuisco al concetto della secolarizzazione ciò che spesso è stato ritenuto il suo contrario, e cioè non la perdita di devozione nei valori religiosi e simili, ma l’istituzionalizzazione di tali valori e di altre componenti dell’orientamento religioso in sistemi socio-culturali in evoluzione”. La secolarizzazione sarebbe in pratica l’istituzionalizzazione di categorie religiose nel mondo profano. Tuttavia – aggiunge ancora Parsons – “i ‘modelli’ vecchi non scompaiono, ma continuano a funzionare, anche se in forma modificata, il che spesso significa entro limiti più ristretti di prima”.
Piuttosto contrario alla teoria della secolarizzazione è infine Robert N. Bellah[42], il quale esprime l’opinione che “la religione, anziché divenire sempre più periferica e obsoleta, stia tornando al centro delle nostre preoccupazioni culturali”.
Ma, al di là di queste ipotesi, sono ancora molti gli interrogativi che restano aperti. La secolarizzazione, in generale, è un fenomeno irreversibile? È proprio vero che ogni forma religiosa è destinata a finire? Anche per il sacro vale lo stesso discorso?
Sostiene Luca Diotallevi[43], attento e costante osservatore ed analista della religione e della religiosità in Italia: “il mutamento in corso è tanto radicale che anche laddove si ripercorre la strada della riproposizione di modelli di religiosità confessionale o non confessionale lo si fa con la consapevolezza di proporre qualcosa di non scontato e se ne affida il successo non ad una superiore legittimità ma al gradimento del pubblico. Anche le autorità religiose ecclesiastiche accettano l’assioma che l’offerta di una religiosità confessionale o neo confessionale per avere una qualche chance di successo deve avvenire in forme simili a quelle con cui viene proposta la religione post- ed anti-confessionale. Anche in campo religioso il ‘vecchio’ deve essere riproposto come il ‘nuovo’, divenendo esso stesso qualcosa di diverso dal passato e dunque qualcosa di ‘nuovo’”. In tal modo il sociologo dell’Università Roma Tre traduce l’idea di “religione a bassa intensità” (low intensity religion) di Bryan S. Turner[44], secondo il quale vi sarebbe un adattamento della religione alle modalità dello stile di vita contemporaneo ovvero una commodification (propensione alla commercializzazione ed alla mercificazione) rispetto alla cultura consumistica segnatamente di matrice statunitense, già stigmatizzata da George Ritzer[45] con la sua ripresa weberiana della tesi sulla razionalizzazione, declinata emblematicamente nel sistema del fast food in chiave di predittività, calcolabilità, efficienza e controllo. Qualcosa di simile è adombrato anche nella “teoria della scelta razionale” (rational choice theory) che, avallata in campo socio-religioso soprattutto da Rodney Stark[46], fa leva sull’idea di scambio e quindi di “compensatore” in quanto attesa di un compenso futuro, rinviato. I soggetti umani operano in base a scelte razionali, per cui soppesano e mercificano i “compensatori” secondo la propria convenienza del momento, appunto in base ad una scelta motivata, ragionata e perciò razionale, come superamento del modello tradizionale, ormai obsoleto ed inefficace. In pratica la teoria della scelta razionale applicata al fenomeno religioso frena ed allontana sempre più la dinamica tendente alla secolarizzazione, mentre favorisce l’affermarsi della tesi sulla persistenza della religione, come sostituto funzionale del prestigio e del privilegio. Il tutto confluisce in un mercato religioso in cui i credenti sarebbero i clienti, le organizzazioni religiose sarebbero le aziende, pronte a servire il mercato, ovvero a fornire i prodotti adatti ad esso, facendo nel contempo crescere la domanda. Lo stesso pluralismo che ne deriva non indebolisce la religione ma la rinvigorisce. E soprattutto non sarebbe debole la domanda religiosa bensì l’offerta di provenienza ecclesiale.
La situazione italiana: i dati precedenti (fino al 2003)
In Italia è anche l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti a raccogliere e diffondere dati ed informazioni sull’andamento della religiosità e dell’ateismo (http://www.uaar.it/ateismo/ statistiche/religiosita/) sulla scorta di varie indagini. Fra le risultanze fornite dalla Fondazione Italiana per il Volontariato nel 2001 compare la percentuale di associazioni cattoliche di volontariato, scese dal 40,4% del 1993 al 36,3% del 1997; gli atei sarebbero aumentati dal 5,2% del 1987 (secondo un’indagine della Fondazione Agnelli, pubblicata nello stesso anno) al 18% del 2003; le coppie che usano metodi contraccettivi permessi dalla Chiesa cattolica passano dal 14% del 1980 al 5% del 1998; il tasso dei matrimoni civili è cresciuto dal 13,9% del 1985 al 26,8% del 2001; sono in decremento i messalizzanti regolari (ogni domenica), giacché sono il 36% nel 1981 (indagine European Value System, 1981), il 32,5% nel 1985 (indagine su I consumi culturali degli italiani, a cura dell’Università di Trento, 1985), il 29,8% nel 1987 (indagine della Fondazione Agnelli, 1987), il 25,8% nel 1999 (Rapporto ISTAT, 2000).
Il 69% degli italiani non condanna, o condanna poco, i rapporti sessuali prematrimoniali (studio IARD, 2000). Nel medesimo studio il 68,9% dei credenti attribuisce la propria fede all’ambiente di vita di provenienza. Ancora lo stesso gruppo degli intervistati dallo IARD dice di preferire, nella misura del 61%, un’unica religione con poche credenze condivise da cristiani, musulmani, buddisti ed altri e non ritiene, nel 58,5% dei casi, vi sia un’altra vita dopo la morte.
Una ricerca Eurisko del 2000 ha accertato che il 50% dei sacerdoti intervistati ritiene che “il prete non lo vuole fare più nessuno”.
Nel 2003 il 51,6% degli intervistati riconosceva ad una coppia gay il diritto di sposarsi con rito civile.
Un’inchiesta del Pontificio Consiglio della Cultura (2004)
In Italia la non-religione risultava toccare il tasso dell’8,9% nel 1995[47], cui si accompagnava un livello di religiosità assente per il 10,0% della popolazione intervistata. La non-religione riguardava l’11,4% degli uomini ed il 6,3 % delle donne. I tassi per classi di età andavano dal 12,3% (18-21 anni) al 12,8% (22-29 anni), per poi scendere al 10,0% (30-49 anni), 4,7% (50-64 anni) ed al 4,1% (65-74 anni). Un’indagine successiva[48] concerneva il pluralismo religioso e morale ed accertava una dichiarazione di cattolicità da parte del 97,5% degli intervistati, ma il 7,8% di essi era su posizioni negative rispetto alla religione. Se però si guardava all’appartenenza il 79,3% si diceva cattolico ed il 18,8% si dichiarava non appartenente ad alcuna religione.
I non-credenti in Italia hanno un carattere prevalentemente individuale. Sono pochi i gruppi organizzati di ateismo, non-credenza, indifferenza religiosa. Esistono movimenti miranti allo “sbattezzo”, cioè a far cancellare il proprio nome dai registri parrocchiali dei battezzati. La Chiesa cattolica italiana ha stabilito le norme per provvedere a questa cancellazione. La richiesta di “sbattezzo” viene, fra l’altro, dalla già citata Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.
Tra i fattori che alimentano la non-credenza è da annoverare una serie di atteggiamenti sfavorevoli alla morale cattolica, insieme con il rifiuto di subire costrizioni e controlli ideologici da parte della religione istituzionale.
Un ruolo decisivo è svolto dall’educazione religiosa. Sovente il suo peso poco rispettoso della libertà individuale può avere creato insofferenze nei riguardi di ogni forma istituzionalizzata e di ogni principio imposto dall’alto.
L’influenza, poi, della fine dei regimi comunisti non è facilmente valutabile. Forse un peso maggiore può essere esercitato dalla globalizzazione con le sue aperture verso altri mondi ed altre realtà non tradizionali.
L’opposizione più marcata è quella di soggetti già credenti e già praticanti che però ad un certo punto della loro vita hanno deciso di prendere le distanze dalla Chiesa cattolica e dalla credenza religiosa. Va sottolineata, fra l’altro, la forte resistenza in ambito universitario, statale e laico, verso l’attivazione di insegnamenti a contenuto religioso, pur in una prospettiva essenzialmente scientifica.
Nonostante qualche dichiarazione altisonante di sociologi poco avvertiti, la fenomenologia dei nuovi movimenti religiosi è abbastanza contenuta in termini numerici e scalfisce poco la religione cattolica dominante in Italia. Si tratta di situazioni marginali alle cui origini sono vicende del tutto singolari legate a caratteristiche individuali e non invece di cultura generalizzata. Poiché è difficile accertare la reale portata di questi movimenti, se ne deduce che non rilevandosi fatti eclatanti e vistosi le linee di tendenza in atto siano piuttosto stazionarie, senza incrementi e senza decrementi apprezzabili (http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/cultr/documents/rc_pc_cultr_20021612_doc_iv-2002-ple_en.html)
Alcuni dati generali al 2010
L’Annuario Statistico Italiano consente di conoscere l’andamento di un importante indicatore di secolarizzazione: il rapporto fra matrimoni religiosi e civili. I dati sono disponibili a partire dal 1930, con una lacuna in parte del periodo bellico e di quello immediatamente postbellico, tra il 1943 ed il 1947. I matrimoni civili erano 3,1% nel 1930 e 0,8% nel 1942. Dal 1948 fino al 1970 il tasso dei civili si è mantenuto sotto il 3%. Dopo è andato aumentando: dal 3,1% del 1971 al 12,4% del 1980 ed al 37,2% del 2009. Se il trend permane anche negli anni futuri, vi sarà quasi un appaiamento fra le due percentuali di riti civili e religiosi. In pratica la secolarizzazione sarà sempre più evidente.
Fonte: ISTAT
Dati ancora più recenti mostrano che vi è una certa stabilizzazione dei matrimoni civili, pur a fronte di quelli religiosi che continuano a diminuire. I matrimoni con rito religioso dal 2008 al 2014 sono stati nell’ordine degli anni: 155.972; 144.842; 138.199; 124.443; 122.297; 111.545; 108.054. Quelli con rito civile, sempre dal 2008 al 2014, sono stati rispettivamente: 90.641; 85.771; 79.501; 80.387; 84.841; 82.512; 81.711. Nel 2014 al Nord (55%) e al Centro (51%) i matrimoni civili hanno superato quelli religiosi.
Fonte: ISTAT
Secondo l’Annuarium Statisticum Ecclesiae i dati degli anni dal 2000 al 2009 sono tali per cui in Italia i sacerdoti diocesani sono diminuiti dell’11% ed i religiosi del 14%.
Fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae e https://dallapartedialice.wordpress.com/
Per quanto concerne le ordinazioni dei sacerdoti diocesani i dati vanno dal 1969 al 2010. Non risulta una dinamica costante. Si registrano alti e bassi che non servono da indicatori di un processo di secolarizzazione.
La linea sovrapposta indica il valore medio.
Fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae e https://dallapartedialice.wordpress.com/
I sacerdoti diocesani dal 2002 al 2012 sono passati da 34.376 a 32.619 (- 1757); i sacerdoti religiosi (ordini, congregazioni) dal 2002 al 2012 sono passati da 18.501 a 15.672 (- 2829). La tendenza è più stabile fra i preti diocesani. Le religiose (suore) dal 2002 al 2012 sono passate da 108.175 a 86.431 (-21.744). Le ordinazioni dal 2002 al 2012 sono passate da 502 a 376 (- 126).
Le previsioni per il futuro variano di molto soprattutto in base alle capacità di reclutamento, ma in linea di massima si pensa che verso il 2025 i sacerdoti diocesani in Italia possano essere circa venticinquemila (ma anche quasi trentatremila se si mantiene una densità costante di ordinazioni). Si ritiene anche che a quell’epoca sarà possibile contare su circa 1500 giovani sacerdoti in più rispetto a quelli computabili con un tasso costante di reclutamento. Insomma se le regioni pastorali ora in sofferenza per carenza di vocazioni (e dunque di ordinazioni) dovessero impegnarsi maggiormente nella loro azione si potrebbero registrare risultati ancora più cospicui a livello complessivo. Molto, come nel passato, dipenderà dagli andamenti ciclici nel numero annuale delle ordinazioni (per esempio si sono avuti picchi numerici dal 1963 al 1971 e cali notevoli dal 1979 al 1983, ma poi qualche ripresa nel 1999 e nel 2000). In media nel ventennio 1983-2002 vi sono state 461 ordinazioni annue di sacerdoti diocesani in Italia, ma se si considera il solo decennio 1993-2002 la media è stata leggermente più alta: 494 nuove ordinazioni per anno.
La religione all’italiana secondo Garelli (2011)
Da molti anni le ricerche di Franco Garelli sulla religione e sulla religiosità in Italia sono un punto di riferimento imprescindibile. Tra i diversi contributi pubblicati rimane ancora valido quanto contenuto nel testo intitolato, non casualmente, Religione all’italiana[49], frutto di un’inchiesta svolta nel 2007 su 3160 soggetti fra i 16 ed i 74 anni. Il punto di vista sulla secolarizzazione è espresso in modo chiaro, inequivocabile. Non si è di fronte ad un processo irreversibile. I cambiamenti sono innegabili ma gli andamenti sono incerti. Infatti[50] si tende ad ipotizzare che “il processo di secolarizzazione sarebbe così profondo da aver cancellato dalle coscienze il dilemma della fede, il dubbio che Dio esista, l’interrogativo se la religione sia una risorsa o un condizionamento, un retaggio della tradizione o un principio di convinzione. Eppure i dati della presente ricerca indicano che i giochi non sono affatto chiusi, che la questione se aderire o meno a un orizzonte di fede coinvolge ancora ampie quote di popolazione, dal momento che il vissuto religioso delle persone è altalenante, si compone di momenti di luce e di buio, di crisi e di allontanamento. Come sì è visto, non sono pochi gli italiani che hanno mantenuto una posizione religiosa stabile nella propria biografia, ma i più l’hanno modificata, in rapporto alle circostanze della vita, foriere quindi di riflessioni, ripensamenti, tensioni interiori, andirivieni: dunque, stati d’animo che cambiano, si modificano, che non si spiegano con la semplice categoria dell’indifferenza religiosa. L’indifferenza semmai è il risultato di un processo di maturazione e di distacco da un orizzonte religioso, non la condizione base o di partenza che nega l’interesse per le questioni della fede”.
Ecco, appunto la categoria dell’indifferenza sembra cruciale in questo discorso e pare rievocare una vecchia polemica nell’ambito della sociologia italiana della religione, a proposito dell’indagine svolta da Silvano Burgalassi[51] sulle cosiddette cristianità nascoste. All’epoca si contestò[52] al prete-sociologo pisano di aver allargato troppo la categoria dell’indifferenza sino ad attribuire una percentuale inusitata, intorno al 55%, che omologava diversi atteggiamenti e comportamenti senza riconoscerne le fratture interne, le diversità intrinseche, le opzioni multiple. In effetti non ci si può rifugiare in una generica categoria dell’indifferenza mentre la realtà empirica offre sfaccettature molteplici delle azioni sociali possibili e rilevabili.
Dunque ha ragione anche Garelli quando osteggia l’uso improprio del concetto di indifferenza. D’altro canto i dati non offrono spazio a dubbi, se sono soprattutto le condizioni di vita e vari altri fattori a creare situazioni problematiche e difficoltà nei rapporti con la Chiesa. In effetti gli intervistati parlano di “esperienze e problemi personali” (40%), “maturazione di nuove posizioni e cambio di idee” (32,7%), come elementi che sono all’origine delle loro crisi di fede. Non si tratta dunque precipuamente di “disaccordo con la morale religiosa” o di “difficili rapporti con la chiesa”, che invece si attestano come motivi addotti entro un range quasi dimezzato, cioè fra il 18% ed il 23%. Sintomatico è il fatto che appena il 6,1% degli interpellati assegni al “venir meno del bisogno di Dio” l’origine della propria incertezza o negazione della fede.
Inoltre, in consonanza con i risultati di altre ricerche empiriche, si verifica una certa anticipazione dell’età in cui si manifestano i primi dubbi, le prime crisi in materia religiosa[53]: “di generazione in generazione l’esposizione alle crisi religiose diventa sempre più precoce, a testimonianza del fatto che via via che ci si addentra nella modernità avanzata aumenta la riflessività anche sulle questioni religiose”.
La secolarizzazione dell’Italia cattolica secondo Cartocci (2011)
Roberto Cartocci[54], ordinario di Scienza politica nell’Università di Bologna, ha messo insieme diverse fonti di dati, dalla Conferenza Episcopale Italiana all’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto ed all’Istituto Centrale di Statistica, per procedere ad una serie di elaborazioni statistiche anche raffinate che lo inducono a vedere un “intreccio tra processi di secolarizzazione e desecolarizzazione in un contesto come quello italiano, segnato dalla presenza del centro della chiesa cattolica”[55]. Sulla correttezza procedurale dell’analisi non è qui il caso di ritornare, avendo espresso altrove varie riserve[56]. L’approccio di Cartocci parte da un presupposto: il calo della pratica religiosa è caratteristica principale del processo di secolarizzazione[57]: “intendiamo rilevare la secolarizzazione come recessione della pratica religiosa cattolica”. Poi specifica meglio, ove fosse necessario[58]: “dunque ‘secolarizzazione’ e ‘cattolici’ sono termini che possiamo definire operativamente in maniera coerente: il grado di secolarizzazione che intendiamo rilevare, sia a livello nazionale sia a livello regionale e provinciale, consiste nel circoscrivere l’area dei cattolici, intendendo questi come coloro che hanno un legame significativo, anche se con gradi di intensità differenziati, con la chiesa. Maggiore è la diffusione di questi legami, minore è il grado di secolarizzazione, intesa stricto sensu. Minore la diffusione di questi legami con la chiesa-istituzione, maggiore il grado di secolarizzazione”. L’andamento sarebbe per cerchi concentrici più o meno distanti dal centro che è rappresentato dalla Chiesa: i più vicini sono i devoti (o militanti) che costituiscono circa il 10% della popolazione e sono seguiti da presso da un altro 20% di praticanti regolari, nell’insieme dunque assommando ad un 30% di cattolici di minoranza. Vi è poi il mondo dei cattolici di maggioranza, intorno al 50% (ma invero le stratificazioni interne sono anche abbastanza differenziate). Rimane un 20% di non cattolici, che non vanno mai in chiesa e che annoverano in modo disomogeneo figure contrarie al cattolicesimo: un 10% di non praticanti ma rispettosi della Chiesa come istituzione ed un 10% di fedeli di altre religioni, atei, indifferenti, anticlericali, agnostici, non credenti, insomma un’area di “piena secolarizzazione” come la definisce Cartocci[59], che la collega al ridursi della pratica religiosa, dei matrimoni con rito religioso e della fiducia nella Chiesa.
La ricerca sui valori (2011)
Uscire dalle crisi. I valori degli italiani alla prova[60]è un volume che presenta i dati della ricerca svolta nel 2008 e nel 2009 sugli orientamenti di valore dei cittadini italiani, nell’ambito del programma European Values Study. Risulta che il 78% degli intervistati si dichiara cattolico ma dubita dell’inferno, del paradiso e di una vita ultraterrena. “La religiosità in Italia: ascesa o declino?” è il capitolo redatto da Clemente Lanzetti, che dopo aver rilevato un calo del 3,1% fra i cattolici, in un decennio, mette in evidenza che i problemi insorgono quando si affrontano temi dottrinali e morali. Il 59% degli italiani crede in un Dio personale e creatore che ama l’essere umano ed il 24,6% in un Dio come spirito o forza vitale. Inoltre il 14,8% non si esprime. Il 20,1% crede in una sola vera religione, il 26% reputa che anche altre religioni contengono elementi di verità. Per il 40,6% non c’è una sola religione vera, ma tutte le grandi religioni contengono alcune verità fondamentali. Tra i soggetti religiosi il 67,3% crede nella vita dopo la morte. Tra i praticanti ci crede il 75,5%. Sempre tra i praticanti credono il 70,5% al paradiso ed il 58,3% all’inferno. Tra i soggetti orientati religiosamente il 60,6% al paradiso ed al 49,7% all’inferno. Infine il 17,1% dei praticanti crede nella reincarnazione.
“Il processo di individualizzazione del credere non sta portando a una progressiva irrilevanza della dimensione religiosa, ma ad un diverso modo di rapportarsi a essa”[61]. L’importanza che le persone danno alla religione è molta nel 32,8% dei casi ed abbastanza per il 38,9%.
Gli italiani non appaiono comunque molto secolarizzati, anche per quanto concerne la partecipazione ai riti religiosi. Nondimeno “la sicurezza e la fiducia nella propria religione viene sempre più radicata nella sua ‘validità’, aspetto che anche il comune fedele può cogliere sia nel proprio vissuto religioso, sia nei messaggi veicolati dalla sua e dalle altre religioni”[62].
I giovani del Nord Est (2011)
L’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto ha condotto nel 2011 un’ampia indagine nel Nord Est su un campione di 2136 intervistati. Ne dà conto Alessandro Castegnaro, con Giovanni Dal Piaz ed Enzo Biemmi[63], quasi riecheggiando gli esiti della già citata inchiesta di Milanesi sui giovani[64]: “la religiosità trova oggi più di un tempo altre vie, la preghiera ad esempio. I giovani pregano molto meno degli adulti e degli anziani, soprattutto se maschi, ma quelli che lo fanno sono più numerosi di quelli che dicono di andare a messa tutte le domeniche. Nel Nord Est questi ultimi sono il 13,4%, ma quelli che sostengono di pregare qualche volta durante la settimana o anche di più sono il 17,6%. Due terzi di questi a messa non ci va che assai raramente. Se mettiamo insieme quelli che ci vanno con regolarità e quelli che pregano con una certa frequenza otteniamo ancora una minoranza (31%), ma di un certo peso e di un’entità maggiore di quella percepibile. Molti di loro infatti sono poco visibili perché, come abbiamo detto, in chiesa si fanno vedere poco. Essi manifestano una religiosità personale, a sostenere la quale può bastare essere presenti in qualche occasione particolare. E per il resto ‘ce la vediamo noi direttamente con Dio’. Di loro i preti e i parroci sanno ben poco”[65]. Ma anche sulla pratica religiosa emerge qualcosa di significativo[66]: “chi dice di andare a messa con una certa frequenza (almeno una volta al mese) passa dal 47% al 26%; chi prega almeno qualche volta durante la settimana dal 58% al 28%. Se si fa la differenza tra chi dice di avere visto crescere il proprio interesse per le cerimonie religiose e chi indica invece un calo, otteniamo un valore negativo anche tra i ‘genitori’ (meno 6 punti percentuali). Ma tra i ‘figli’ il saldo è straordinariamente passivo (meno 43 punti percentuali)”. L’incidenza sui mutamenti è segnatamente femminile[67]: “le donne, a dirla tutta, avevano già cominciato a modificare il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica con la generazione delle madri, pur essendo i giudizi critici nei confronti di essa assai meno frequenti che tra le figlie. Già in loro gli atteggiamenti di disaffezione per la Chiesa erano diffusi tra le donne quanto tra gli uomini”. Ne scaturisce una conclusione che appare fondata[68]: “il fatto che i mutamenti in corso interessino soprattutto le donne è la principale ragione per cui siamo indotti a pensare che quei ‘riavvicinamenti’, dopo il passaggio alla vita adulta, che in passato avvenivano di frequente, contribuendo a riempire le chiese, saranno d’ora in avanti meno numerosi”. In definitiva si prende atto che “c’è in sostanza un distacco in atto di una parte non trascurabile del mondo giovanile dall’universo religioso che la Chiesa cattolica rappresenta”[69].
I dati sulla scuola e la socializzazione religiosa (2014)
A livello giovanile religione e religiosità sono sempre apparse problematiche, anche sul piano dell’approccio sociologico sia a livello teorico che metodologico. L’avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica a scuola è un indicatore usato di frequente nell’analisi del fenomeno religioso e della secolarizzazione in particolare, come prova anche un articolo di Lorenzo Di Pietro per L’Espresso in data 10 luglio 2015
Si riferisce che sono oltre un milione (soprattutto al Centro-Nord e nelle secondarie di secondo grado) gli studenti non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica, dunque il doppio di circa due decenni fa. Un incremento si ha invece nelle scuole dell’infanzia e primarie: dal 2,7% al 9,2%. Specialmente in Emilia Romagna e Toscana è circa il 20% a non seguire l’insegnamento della religione cattolica.
Estratto da: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238
La presenza della scuola cattolica in Italia, nonostante difficoltà gestionali ed economiche, è tuttora rilevante, come emerge dalla tabella che segue.
Dati statistici scuola cattolica 2013
Infanzia
Primaria
Sec. 1° grado
Sec. 2° grado
Totale
Numero di scuole
7.049
1.133
588
601
9.371
Numero di classi o sezioni
19.573
7.618
2.926
3.362
33.479
Numero di alunni
453.757
156.687
66.325
63.867
740.636
Rapporto alunni/scuola
64.4
138.3
112.8
106.3
79.0
Rapporto alunni/classe o sezione
23.2
20.6
22.7
19.0
22.1
Rapporto classi o sezioni/scuola
2.8
6.7
5.0
5.6
3.6
Fonte: FIDAE e MIUR
Il mancato ricorso alla formazione religiosa dei figli è un altro punto cruciale per stabilire quale sia il livello di secolarizzazione in atto. Le percentuali disponibili vanno dal 1994 al 2013: il battesimo è ancora molto praticato, pur facendo registrare diminuzioni significative. È dal 1995 che comincia il calo, fino a giungere al 79% nel 2013. In crescita appare il numero dei battezzati dopo i sette anni di età. Il cospicuo dato relativo al 2000 è da considerarsi un’eccezione, legata alla celebrazione dell’anno santo. Sono in diminuzione pure le comunioni (-15%) e le cresime (-27%).
Estratto da: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238
In base ad un’indagine dell’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica), condotta nel 2014 su 4000 giovani fra i 13 e i 19 anni, si dice cattolico praticante un giovane su quattro. Dal 1986 al 2014 vi sono 10 punti percentuali in meno tra le ragazze. Invece è costante il tasso maschile. Risulta cattolico non praticante circa il 36 per cento di tutti i giovani intervistati, ma nel 1986 erano quasi il 50%. Nel 1986 gli indifferenti nei riguardi della religione risultavano il 21% dei maschi ed il 14% delle femmine, ma nel 2014 sono il 31% ragazzi e 33% ragazze.
Estratto da: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/07/07/news/meno-religione-a-scuola-e-niente-piu-chiesa-come-cambiano-i-giovani-italiani-di-poca-fede-1.220238
L’indagine Doxa (2013-2014)
L’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) ha commissionato alla DOXA un’indagine su religiosità ed ateismo svolta tra il 30 novembre e l’8 dicembre 2013 e tra il 17 ed il 31 gennaio 2014 (www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/).
Sono state 2.016 le interviste svolte a casa degli intervistati (da 15 anni in su). Si è usato il sistema Doxabus ® C.A.P.I. (Computer Assisted Personal Interviewing), attraverso intervistatori specialisti, debitamente addestrati e controllati. Il campione nazionale era rappresentativo della popolazione italiana residente in vari tipi di comune e di ogni classe sociale.
Si sono definiti cattolici circa 3 italiani su 4. Inoltre il 10% è risultato di credenti senza riferimenti, il 5% di credenti in altre religioni ed il 10% di agnostici e di atei (entrambe queste due ultime categorie risultano quasi alla pari percentualmente). Circa il 25% degli italiani non è cattolico ed il 20% non è religioso. Più o meno il 10% non è credente.
Vi sarebbero due Italie: le donne sono più cattoliche, specie se anziane e meridionali, tutti gli altri sono più spesso uomini, giovani e settentrionali. Atei e agnostici appartengono più di frequente a classi sociali alte. Il 62% dei cattolici si dichiara più o meno praticante, chiaro segno di una religione diffusa prevalente. Il 36% pensa di poter vivere bene anche senza Dio. Il 61% è d’accordo nel battezzare i figli. Il 54% non è favorevole alla modalità attuale d’insegnamento.
Il dato sui credenti che non appartengono a nessuna religione è piuttosto nuovo. I nones (categoria sociologica di vecchia data[70] ora riemersa come problematica di grande interesse) sono credenti senza una specifica religione e non credenti.
Estratto da: www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/
Estratto da: www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/
Estratto da: www.doxa.it/news/religiosita-e-ateismo-in-italia-nel-2014/
La situazione attuale: il Dossier Statistico Immigrazione ed il Rapporto Eurispes 2015
Secondo le stime del Dossier Statistico Immigrazione del Centro Studi e Ricerche IDOS (vedi tabella finale: Stima dell’appartenenza religiosa degli immigrati residenti: valori assoluti e percentuali al 31.12.2014), nel periodo 1991-2014 in Italia si è passati da circa 800.000 a 5.000.000 di immigrati[71] e da 256.000 a 1.613.500 di musulmani (con una consistente presenza femminile[72]). Per i seguaci di religioni orientali l’aumento è stato maggiore: da 19.000 a 335.400 unità. Non vi sarebbe dunque un’invasione di musulmani, che rappresentano in Italia il 2,7% (ma in Europa il 4,6%). Peraltro l’appartenenza religiosa degli immigrati che risiedono in Italia è molto variegata e non contribuisce certo ad un ulteriore processo di secolarizzazione.
ITALIA. Stima dell’appartenenza religiosa degli immigrati residenti: valori assoluti e percentuali (31.12.2014)
Regioni
Cristiani
ortodossi
cattolici
protestanti
altri cristiani
Musulmani
Ebrei
Induisti
Buddhisti
ALTRE
RELIGIONIORIENTALI
Atei/
AGNOSTICI
Religioni
TRADIZIONALI
ALTRI
Totale
%su
Italia
Italia v.a. 2.699.000
1528.500
917.900
216.000
36.600
1.613.500
6.700
146.800
108.900
79.700
221.300
54.700
83.800
5.014.400
–
Italia %
53,8
30,5
18,3
4,3
0,7
32,2
0,1
2,9
2,2
1,6
4,4
1,1
1,7
100,0
100,0
Piemonte
59,0
38,3
15,6
4,6
0,5
31,7
0,1
1,0
0,8
1,3
3,8
0,9
1,4
425.448
8,5
Valle d’Aosta
53,0
32,1
16,3
4,3
0,3
38,9
0,1
0,8
0,7
0,9
3,6
0,6
1,4
9.075
0,2
Liguria
56,6
18,9
32,8
4,5
0,4
32,8
0,1
1,4
1,5
1,0
3,9
0,5
2,3
138.697
2,8
Lombardia
47,7
21,0
21,9
4,1
0,8
36,4
0,1
4,1
2,7
1,7
4,4
1,1
1,8
1.152.320
23,0
Trentino A.A.
51,1
26,8
18,7
5,3
0,3
38,5
0,1
1,9
0,7
0,7
3,8
0,5
2,8
96.149
1,9
Veneto
52,3
35,3
12,2
4,0
0,8
32,0
0,2
3,1
2,5
1,9
4,6
1,7
1,8
511.558
10,2
Friuli V.G.
58,7
35,5
17,8
4,4
0,9
29,8
0,1
2,2
0,6
1,0
3,9
1,6
2,3
107.559
2,1
Emilia R.
47,0
28,1
14,4
3,7
0,9
39,4
0,2
3,0
1,5
1,6
4,2
1,6
1,6
536.747
10,7
Toscana
49,8
26,6
18,1
4,5
0,6
32,9
0,1
1,6
2,3
3,2
7,4
0,9
1,7
395.573
7,9
Umbria
59,3
35,7
18,3
4,7
0,6
32,2
0,1
1,4
0,5
0,7
3,4
0,8
1,6
98.618
2,0
Marche
48,1
28,3
15,4
3,9
0,5
37,1
0,1
2,8
1,3
2,0
5,8
1,1
1,7
145.130
2,9
Lazio
68,2
39,0
23,1
5,2
0,8
19,4
0,1
3,8
1,8
1,0
3,5
0,7
1,5
636.524
12,7
Abruzzo
58,9
38,9
15,5
3,9
0,5
31,6
0,1
0,9
0,7
1,4
3,4
0,5
2,5
86.245
1,7
Molise
63,4
42,0
16,3
4,5
0,7
26,7
0,1
3,9
0,4
0,8
3,1
0,5
1,1
10.800
0,2
Campania
57,2
36,2
16,2
3,9
0,9
24,4
0,2
3,1
5,6
1,8
5,1
1,3
1,3
217.503
4,3
Puglia
54,2
34,4
15,0
4,0
0,9
34,4
0,1
2,8
1,4
1,3
3,8
0,7
1,2
117.732
2,3
Basilicata
64,3
47,5
11,8
4,3
0,7
24,5
0,1
4,2
0,6
1,4
3,3
0,7
0,9
18.210
0,4
Calabria
62,3
43,1
14,1
3,9
7,2
27,2
0,1
3,8
0,5
1,0
3,4
0,5
1,2
91.354
1,8
Sicilia
48,1
28,6
14,3
4,3
0,9
35,2
0,1
2,9
6,4
1,3
3,5
1,3
1,4
174.116
3,5
Sardegna
57,6
32,6
18,4
6,0
0,6
28,1
0,2
1,3
0,9
2,1
6,7
0,9
2,1
45.079
0,9
FONTE: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati di fonti varie
Secondo il rapporto Eurispes del 2015[73], l’89,6 per cento dei 1041 italiani intervistati valuta come positivo il nuovo pontificato di Bergoglio, papa Francesco. Nel frattempo il favore nei confronti della Chiesa è passato dal 36,6% nel 2013 al 49% nel 2014 ed al 62,6% nel 2015. Il consenso è cresciuto fra i giovani, ed in particolare dal 27,1% al 51,1% fra coloro che hanno da 18 a 24 anni e dal 34,3% al 53,5% tra quanti si trovano fra i 25 ed i 34 anni di età. Spicca soprattutto il seguito che la Chiesa ottiene fra le vedove al 77,3%, gli sposati al 69,9% ed i separati-divorziati al 63,6%. Sui temi etici il papa raggiunge il 79,2% del gradimento dei fedeli, rispetto ai quali il pontefice appare più avanti. Papa Francesco è percepito dall’89% degli intervistati anche come più progressista delle gerarchie ecclesiastiche, le cui resistenze riuscirà a superare secondo il 55,6 dell’universo campionato, mentre il 44% degli interrogati ritiene che non ce la farà ad avere ragione dell’establishment istituzionale.
Per avere, infine, altri termini di paragone: è minore il consenso per la scuola, al 62,1%, ma maggiore quello per il volontariato, al 78,8%, e per la protezione civile, al 70%.
L’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) ha rilevato inoltre, dal 1995 al 2010, che i giovanissimi fra i 6 ed i 13 anni frequentanti la “messa della domenica” si sono ridotti del 25%, mentre tra gli adolescenti dai 14 ai 17 anni il decremento ha raggiunto il 40%.
Infine occorre notare che la Chiesa sempre più si sta rivolgendo alle nuove tecnologie, diffondendo con successo alcune applicazioni per smartphone: Laudate, per leggere i testi della messa quotidiana, della Sacra Bibbia e del Sacro Rosario; Bibbia CEI, invece, per leggere la Bibbia ufficiale 2008 della Conferenza Episcopale Italiana, con relativo apparato critico; 8xmille, per seguire gli utilizzi e gli sviluppi di una donazione, di un’offerta.
Notevole è anche la presenza in Internet[74], ormai irrinunciabile dato il successo riscontrato: il 69,9% dei parroci si connette ad Internet, il che avviene “sempre” nel 36% dei casi, “spesso” nel 41,9%. Occorre peraltro tenere presente che la rilevazione è già abbastanza datata (risale al 2007) e dunque risente ancora del peso di un largo numero di sacerdoti anziani poco abituati ad avere a che fare con strumenti tecnologicamente avanzati. Si può facilmente desumere che a distanza di quasi un decennio le percentuali siano aumentate di molto, anche in considerazione dell’ingresso di nuove generazioni di preti più avvezzi ad avere dimestichezza con il computer. Tale specifico strumento invero era in possesso in larghissima misura (85,7%) dei parroci intervistati nel 2007, con un uso costante da parte del 56,2% di essi. Ovviamente i più giovani facevano segnare livelli più alti: quelli di età fino a 40 anni possedevano un computer nella quasi totalità: 96,6%.
Conclusione
Ai sociologi contemporanei non rimane che continuare le loro ricerche nei singoli contesti per fornire previsioni scientificamente corrette sul futuro della religione. Qui non resta che una riflessione conclusiva: sul destino delle religioni sono in fondo i singoli attori sociali a decidere, in base a quanto è concesso alla libertà di ognuno. Appunto tali dati di fatto si spera di accertare ed approfondire in una indagine nazionale quali-quantitativa ormai prossima ventura, ad oltre venti anni da quella del 1994-95 su La religiosità degli italiani[75].
[1] Olivier Tschannen, Les théories de la sécularisation, Genève, Droz, 1992.
[2] Martin Stallmann, Was ist Säkularisierung?, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1960, p. 7.
[3] Larry Shiner, The Concept of Secularization in Empirical Research, «Journal for the Scientific Study of Religion», 6, 1967, pp. 207-220.
[4] David Martin, The Religious and the Secular, New York, Schocken Books, 1969; on Secularization: Towards a Revised General Theory, Burlington, Ashgate, 2005.
[5] Charles West, The Meaning of Secular, Bossey, Report on the Consultation of University Teachers, The Ecumenical Institute, 1959; The Power to be Human. Toward a Secular Theology, London, Macmillan, 1971; Power, Truth, and Culture in Modern Community, Harrisburg, Trinity Press International, 1999.
[6] Gabriele De Rosa, Secolarizzazione e secolarismo, «Civiltà Cattolica», 287, 1970, pp. 417-441; Piersandro Vanzan, Decantazione semantica-ideologica della secolarizzazione, «Civiltà Cattolica», III, 1976, pp. 209-221.
[8] Arend J. Nijk, Secolarizzazione, Brescia, Queriniana, 1973, p. 33.
[9] Friedrich Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit. Die Säkularisierung als theologisches Problem, Stuttgart, Friedrich Vorwerk Verlag, 1953, ed. it., Destino e speranza dell’epoca moderna: la secolarizzazione come problema teologico, Brescia, Morcelliana, 1972.
[10] Hermann Lübbe, Säkularisierung, Freiburg-München, Verlag Karl Alber, 1965; ed.it., La secolarizzazione, Bologna, il Mulino, 1970.
[11] Detrich Bonhoeffer, Letters and Papers from Prison, London,S. C. M. Press, 1954; ed. it., Resistenza e resa. Lettere ed altri scritti dal carcere, Brescia, Queriniana, 2002, pp. 475 e 494.
[13] John A. T. Robinson, Honest to God, London, SCM Press, 1963; ed. it., Dio non è così, Firenze, Vallecchi, 1965.
[14] Harvey Cox, The Secular City, Macmillan, New York, 1965; ed.it., La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968.
[15] Paul van Buren, The Secular Meaning of the Gospel: Based on an Analysis of Its Language, New York, Macmillan, 1963; ed.it., Il significato secolare del Vangelo, Torino, Gribaudi, 1969.
[17] Max Weber, Die protestatische Ethik und der Geist des Kapitalismus, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 20-21, 1904-1905; ed. it., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965.
[18] Thomas Luckmann, The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, New York, Macmillan, 1967; ed. it., La religione invisibile, Bologna, il Mulino, 1969.
[20] S. S. Acquaviva, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Comunità, Milano, 1971; Mondadori, Milano, 1992.
[21] Sabino S. Acquaviva, R. Stella, Fine di un’ideologia: la secolarizzazione, Roma, Borla, 1989.
[22] Franco Ferrarotti, Il paradosso del sacro, Roma-Bari, Laterza,1983; Una teologia per atei, Roma-Bari, Laterza, 1983; Una fede senza dogmi, Roma-Bari, Laterza, 1990.
[23] Roberto Cipriani, Values Heritage and Diffused Religion, in F.-V. Anthony & H.-G. Ziebertz (eds.), Religious Identity and National Heritage. Empirical-Theological Perspectives, Leiden-Boston, Brill, 2012, pp. 213-25.
[24] David Moberg, Die Säkularisierung und das Wachstum der Kirchen in den Vereinigten Staaten, «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», 10, 1958, p. 436.
[25] Howard P. Becker, Through Values to Social Interpretation, Durham, Duke University Press, 1950; ed. it., Società e valori, Milano, Comunità, 1963.
[26] Karel Dobbelaere, Secularization: A Multi-Dimensional Concept, «Current Sociology», 29, 2, 1981.
[27] Grace Davie, Europe: the Exceptional Case. Parameters of Faith in the Modern World, London, Darton, Longman and Todd, 2002.
[28] Giancarlo Milanesi (a cura), Oggi credono così. Indagine multidisciplinare sulla domanda religiosa dei giovani, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 2 voll., 1981.
[29] Ulrich Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Roma-Bari, Laterza, 2009; ed. or., Der eigene Gott. Von der Friedensfähigkeit und dem Gewaltpotential der Religionen, Frankfurt am Main-Leipzig, Verlag der Weltreligionen, im Insel Verlag, 2008.
[30] Max Weber, Science as a Vocation, in H. Gerth, C. W. Mills (eds.), From Max Weber, New York, Oxford University Press, 1958, pp. 148-149.
[31] Thomas Luckmann, Rétrécissement de la transcendance, diffusion du religieux?, «Archives de Sciences Sociales des Religions», 59, 167, 2014, pp. 31-46.
[32] Thomas Luckmann, The Invisible Religion, op. cit.
[33] Max Weber, Die protestatische Ethik und der Geist des Kapitalismus, op. cit.
[34] Roberto Cipriani, La religione diffusa. Teoria e prassi, Roma, Borla, 1988.
[36] José Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica,Bologna, il Mulino, 2000; ed. or., Public Religions in the Modern World, Chicago, The University of Chicago Press, 1994.
[37] Jürgen Habermas, Religion in the Public Sphere, «European Journal of Philosophy», 14, 1, 2006, pp. 1-25.
[38] Bryan Wilson, Religion in Sociological Perspective, Oxford, Oxford University Press, 1982; ed. it., La religione nel mondo contemporaneo, Bologna, il Mulino, 1996.
[39] Gregory Baum, Religion and Alienation, Ottawa, Novalis, 2006.
[40] Peter E. Glasner, Sociology of Secularisation: A Critique of a Concept, London, Routledge & Kegan Paul, 1976.
[41] Talcott Parsons, Sociological Theory and Modern Society, New York, The Free Press, 1967; ed. it., Teoria sociologica e società moderna, Milano, Etas, 1979.
[42] Robert N. Bellah, Beyond Belief. Essays on Religion in a Post-Traditional World, New York, Harper & Row, 1970; ed. it., Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale, Brescia, Morcelliana, 1975.
[44] Bryan S. Turner, Post-Secular Society: Consumerism and the Democratization of Religion, in P. S. Gorski, D. K. Kim, J. Torpey, J. van Antwerpen (eds.), The Post Secular in Question. Religion in Contemporary Society, New York, New York University Press, 2012, pp. 135-158, in particolare p. 138.
[45] George Ritzer, Expressing America: A Critique of the Global Credit Card Society, Thousand Oaks, CA, Pine Forge Press, 1995; Explorations in the Sociology of Consumption: Fast Foods, Credit Cards, and Casinos, London, Sage, 2001; Enchanting a Disenchanted World: Continuity and Change in the Cathedrals of Consumption, Thousand Oaks, CA, Sage, 2010; The McDonaldization of Society, 7th ed., Thousand Oaks, CA, Sage, 2013 (ma la formulazione è ben più remota: cfr. «Journal of American Culture», VI, 1, 1983, pp. 100-107).
[46] Rodney Stark, Economics of Religion, in R. A. Segal (ed.), The Blackwell Companion to the Study of Religion, Oxford, Blackwell, 2006, pp. 47-67.
[47] Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, Milano, Mondadori, 1995.
[48] Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (a cura), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, Bologna, il Mulino, 2003.
[49] Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, Bologna, il Mulino, 2011.
[70] Glenn M. Vernon, The Religious ‘Nones’: A Neglected Category, «Journal for the Scientific Study of Religion», 7, 2, 1968, pp. 219-229.
[71] Ivana Acocella, Stranieri in Italia. Fonti e indicatori, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014; Maurizio Ambrosini, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Assisi, Cittadella, 2014.
[72] Ivana Acocella, Renata Pepicelli (a cura), Giovani musulmane in Italia. Percorsi biografici e pratiche quotidiane, Bologna, il Mulino, 2015.
A ben considerare, quella che da tempo è stata definita come religione diffusa (Cipriani, 1983, 1984, 1988, 1992, 2001), cioè come set di valori, pratiche, credenze, simboli, atteggiamenti e comportamenti non del tutto conformi al modello ufficiale della religione-di-chiesa, quasi corrisponde o almeno corrisponde in buona misura ad una parte significativa della società civile. Non si sovrappone perfettamente a quest’ultima ma certamente ne costituisce una quota statisticamente rilevante. In altri termini la religione diffusa abbraccerebbe un ampio ambito della società civile e ne rappresenterebbe il trend principale in chiave di orientamento, almeno nei riguardi della chiesa (o delle chiese). Non tutta la società civile, quindi, collima con il modello della religione diffusa, in quanto essa comprende anche la religione-di-chiesa come pure la dimensione dell’ateismo, dell’indifferenza, dell’agnosticismo. Intanto però la religione diffusa sembra interpretare le istanze portanti ed importanti come peso esercitato all’interno dell’intera società.
In particolare la religione diffusa va comunque distinta dalla religione civile. In essa non si tratta di recuperare la vecchia idea di Rousseau (1712-1778) nel Contratto sociale (cap. VIII, libro IV) o quella più recente di Bellah (1967). Né l’una né l’altra si adattano al caso italiano. Il contesto della prima era settecentesco e pedagogico-filosofico, quello della seconda – pur sociologico – è tuttavia riferito al territorio statunitense con caratteristiche per nulla rinvenibili sulla penisola italica (dal concetto di popolo eletto a quello di centralità dei testi biblici). Soprattutto non è legittimo sostituire la stessa idea di religione a quella di società. Un conto è la religione un altro conto è la società, almeno sul piano dell’analisi sociologica. Insomma non è equiparabile la religione civile alla società civile, perché sono due elementi a parte. Semmai si può parlare di una religione diffusa all’interno della società civile ed eventualmente di una religione civile (da definire di volta in volta) all’interno della società civile.
D’altro canto il ruolo della religione diffusa è precipuamente di auto-difesa dei credenti non allineati, non sintonizzati sulla lunghezza d’onda del magistero ecclesiale e delle direttive della gerarchia ecclesiastica. Ovviamente non è da trascurare un effetto non voluto derivante da una religione diffusa particolarmente orientata a contestare o trascurare i dettami magisteriali: una qualche propensione ad una individualizzazione accentuata del pensare e dell’agire così da allentare anche la tensione in chiave di società civile e di partecipazione attiva alla cittadinanza politica e sociale. Tale allentamento può anche essere una premessa per ulteriori andamenti, tali da favorire esiti autoritari, dovuti all’assenza di interessi di natura pubblica e comunitaria.
Le vicende politiche italiane, che hanno portato alla nascita del partito della Lega Nord e di quelli di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi, ma altresì di quelli non a caso detti dell’Italia dei Valori o di Scelta Civica, ne sono un indicatore significativo.
Invero però la religione diffusa è anche un luogo di dibattito, realizzabile fuori dell’egida ecclesiastica, in grado di promuovere relazioni amicali, creare e sviluppare opinione pubblica, difendere i diritti umani e civici, rispettare la pluralità delle posizioni ideologiche.
La religione diffusa è anche parte della società religiosa che si confronta con la società politica (sia statale che partitica e sindacale) e dunque è tenuta a tenere conto di interlocutori diversi, sia all’interno del suo riferimento confessionale sia all’esterno (stato, partiti e sindacati).
Se si può dare per scontato che società civile e società politica siano intimamente correlate e reciprocamente funzionali, altrettanto è possibile dire della stessa religione diffusa che sia pure indirettamente arriva a legittimare la struttura religiosa che le fa da scenario. Insomma l’intreccio è inestricabile: la religione diffusa supporta comunque la chiesa ed entrambe insieme fanno da sostegno alla società civile di cui sono parte non trascurabile. Anche l’azione del singolo soggetto ha un carattere adiuvante perché il suo rispetto delle regole in vigore arriva a rafforzare lo statu quo vigente. La sua coscienza di credente e di cittadino non viene meno neanche di fronte a situazioni drammatiche ed anzi è proprio a fronte di queste ultime che emerge una fedeltà di fondo, che arriva a giustificare od almeno a non sanzionare anche fatti non del tutto consoni ai ruoli ricoperti ed alle responsabilità di natura religiosa o politico-statale.
Diversamente dalla religione-di-chiesa la religione diffusa non dà luogo, in linea di massima e di per sé, a forme associative che possano preludere ad ulteriori impegni a livello di società civile. Ma è indubbio che essa costituisce uno spazio privilegiato ed adeguato per riflessioni critiche ad ampio raggio riguardanti lo stato e la politica e tutta la società civile nel suo complesso. Quest’ultima trova anzi nella stessa religione diffusa una leva importante per opporsi allo Stato, in quanto appunto la religione diffusa è una sorta di palestra che abitua allo spirito libero, alle osservazioni di merito, alle analisi dettagliate, alle disamine attente.
Il tutto avviene a prescindere, di solito, da ordini di scuderia e pertanto in forma tendenzialmente aperta, non soggetta a linee precostituite. I valori religiosi di fondo permangono ma non diventano condizionanti ed esclusivi. Semmai una difficoltà è data dalla mancanza di luoghi e tempi deputati per l’esercizio del pubblico dibattito, per cui ci si deve sovente accontentare del dialogo estemporaneo in un bar, in un salotto, in un ambito convegnistico che è passeggero e frequentato da partecipanti che si incontrano di rado e quindi difficilmente riescono a muoversi congiuntamente per un’azione sociale rilevante all’interno della società civile.
Il ruolo della preghiera e la religione diffusa
Sin dalle origini della sociologia religiosa o, meglio, della sociologia della religione come scienza autonoma e deconfessionalizzata si era posto il problema relativo all’individuazione di indicatori adeguati del fenomeno religioso e delle sue esperienze individuali e collettive. In un primo momento si era pensato che la pratica rituale a scadenza settimanale potesse essere un parametro di riferimento affidabile, in quanto comportamento visibile e controllabile nelle sue dimensioni reali. Così si erano privilegiate nei questionari le domande aventi come obiettivo l’accertamento – attraverso le risposte dell’intervistato – della numerosità della frequenza da parte sua ai riti ufficiali organizzati dalla struttura religiosa di appartenenza. Poi però si sono avanzati dubbi sull’affidabilità dei dati raccolti, più fondati sulle affermazioni estemporanee degli interpellati che su una pratica reale, empiricamente verificabile. Soprattutto si è scoperto che l’andare a messa o prendere parte ad una qualsiasi altra forma di culto poteva avere motivazioni anche non necessariamente e strettamente religiose, per cui si è pensato ad altre soluzioni euristiche, al fine di accertare la portata di una credenza e quella della pratica ad essa correlata. Sono cominciate allora le prime indagini a carattere qualitativo, tendenti a far esprimere più liberamente gli intervistati, lasciando loro campo libero nel modo di organizzare l’andamento del discorso, la narrazione delle proprie esperienze, la definizione del proprio sentire religioso. Così nuove realtà sono emerse, altri dati sono risultati più evidenti, ulteriori interpretazioni si sono affacciate sulla scena della sociologia della religione. E più che l’osservanza festiva ha preso corpo la rilevanza della vita quotidiana, del vissuto religioso ordinario, al di fuori delle celebrazioni liturgiche, senza la presenza di officianti legittimati dall’istituzione religiosa, ma con un chiaro riferimento ai propri principi valoriali, alle proprie scelte di vita, agli orizzonti personali di credenza, ad una religiosità personale in buona misura contrapposta a quella gerarchica della religione-di-chiesa ma senza creare vere e proprie fratture con essa.
Intanto l’affermarsi di nuove metodologie dette non standard, ovvero non quantitativistiche, ha messo in luce alcuni vissuti che hanno evidenziato atteggiamenti e comportamenti non facilmente accertabili in precedenza, allorquando prevalevano quasi solo dimensioni numeriche, percentuali, correlazioni statistiche. Ora invece, grazie anche allo sviluppo di programmi informatici dedicati all’analisi qualitativa, si è reso possibile indagare più a fondo sulla fenomenologia socio-religiosa, giungendo ad individuare percorsi non corrivi con la religione istituzionale, forieri di futuri sviluppi e non sempre inquadrabili nelle categorie concettuali tradizionali di stampo classico, durkheimiano e/o weberiano.
Invero anche nelle ricerche a carattere quantitativo era stato messo in rilievo il peso della preghiera come connotazione soprattutto individuale. Le informazioni empiriche in proposito parlavano chiaro: c’era molta più gente che pregava rispetto a quella che andava in chiesa. Ora però sembra che, mentre i tassi di pratica religiosa festiva regolare sarebbero in decremento, siano invece almeno tendenzialmente stabili quelli sul ricorso al colloquio diretto con la divinità, attraverso lo strumento dell’orazione, sia essa del tutto personale oppure basata su formule apprese nel corso della socializzazione religiosa, o più semplicemente discorsiva e quasi alla pari con il destinatario soprannaturale.
Ognuna delle diverse modalità di interlocuzione fra gli esseri umani e l’ente superiore definibile come Dio (o dio) non è di solito un frutto spontaneo, ma il precipitato storico di un lungo processo di radicamento di pratiche ed esperienze a volte anche plurimillenarie. Le varie organizzazioni religiose, più o meno formalizzate, operando nel tempo hanno posto le premesse per una lunga e salda permanenza di modelli comportamentali non agevolmente eliminabili o emarginabili.
Appunto la preghiera rientra nell’ambito di tali modelli e rappresenta il risultato di un’azione diuturna ed efficace che ha condotto varie generazioni di attori sociali (Giordan e Swatos, 2011) a farvi ricorso in occasioni più o meno prestabilite ma non particolarmente difformi fra di loro neanche con il passare dei secoli. Né manca chi ritiene di poter provare che vi siano effetti positivi della preghiera anche sul piano dell’equilibrio e dell’igiene mentale (Ellison et al., 2014; http://psychcentral.com/blog/archives/2014/09/18/new-study-examines-the-effects-of prayer-on-mental-health/).
Non è un caso, fra l’altro, che oggi si sia tornati, per esempio in ambito cattolico, ad usare la stessa postura rinvenibile nei documenti pittorici dei siti catacombali, dove l’orante è raffigurato con le braccia aperte, giusto come effettivamente si vede fare al momento della recita del Pater Noster nel corso delle celebrazioni eucaristiche odierne.
Non è difficile poi immaginare che gran parte delle consuetudini di preghiera si perpetui da un secolo ad un altro essenzialmente a partire da un uso mnemonico-rammentativo dei testi appresi, delle formule più diffuse, delle giaculatorie continuamente ripetute, dei formulari rimati che perciò sono dei formidabili adiuvanti per il permanere del ricordo (Giordan e Woodhead, 2013).
Oltretutto l’esistenza di formule preconfezionate, fornite anche dell’imprimatur ecclesiastico o comunque riconosciute ufficialmente dalla gerarchia, costituisce un’ancora di forte presa per soggetti poco avvezzi a soluzioni religiose personalizzate e dunque propensi a rifugiarsi in quanto è stato tramandato a memoria od anche in testi non voluminosi, tascabili, di scarso ingombro, facilmente trasportabili ed usufruibili.
Non va poi dimenticato che in larga misura la catechesi di base in preparazione ai riti di passaggio, ai sacramenti, viene impartita facendo riferimento principalmente a preghiere, formule rituali, recitazioni di versetti e di espressioni brevi e memorizzabili. Non a caso il catechismo detto di Pio X è tutto un susseguirsi di domande e risposte, semplici e concise, da mandare a memoria per poter superare la prova finale di accesso ai riti sacramentali. Ecco perché questa porzione e pozione di religione diffusa permane nel tempo e resiste quasi a tutto, all’indebolimento della credenza e della pratica come all’allontanamento quasi completo dai collegamenti con la religione di prima socializzazione (Sharp, 2012).
Oltre le strutture di chiesa anche le famiglie contribuiscono con dosi notevoli all’indottrinamento delle nuove generazioni, sia in termini di vissuti esemplari sia in chiave di suggestioni teoriche ed ideologiche fornite a sostegno del proprio credo religioso di fondo. Lo scenario religioso familiare non è estraneo, in generale, a tutto il quadro normativo che accompagna ed orienta adolescenti e giovani lungo il loro percorso di crescita nella vita sociale.
Pure altri enti, infine, danno una mano nel medesimo senso, proponendo tracce, sistemi, soluzioni, che verranno riutilizzati anche in seguito. E dunque la stessa preghiera, sebbene non sempre consolidata come «abitudine del cuore -» per dirla con Rousseau e Bellah (1985) -, nondimeno riaffiora anche in assenza di altre abitudini religiose.
La situazione italiana
In Italia è Franco Garelli (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003, pp. 77-114) ad evidenziare il ruolo del sentire religioso fra tensione spirituale ed espressione religiosa, esaminando i risultati di un’inchiesta sul pluralismo, statisticamente rappresentativa a livello nazionale. La tipologia individuata è piuttosto articolata. Infatti in merito alla «coscienza di essere una persona religiosa e percezione di avere una vita spirituale» vengono individuate sette categorie: l’ateo/agnosticismo cioè né religiosità né spiritualità (12,3%), la religiosità etnico/culturale cioè medio-alta religiosità e scarsa-nessuna spiritualità (17,3%), la spiritualità critica cioè scarsa-nessuna religiosità e medio-alta spiritualità (8,8%), la credenza debole cioè religiosità media e spiritualità media (23%), la religiosità maggiore della spiritualità cioè alta religiosità e media spiritualità (10,3%), la spiritualità maggiore della religiosità cioè alta spiritualità e media religiosità (9,5%) ed infine la fedeltà cioè alta religiosità ed alta spiritualità (18,8%).
Da tale scenario risulta che «a) In primo luogo, il termine religiosità desta nella popolazione più consensi del termine spiritualità, in quanto sono più numerose le persone che si definiscono religiose di quelle che ritengono di avere una vita spirituale. […] b) Tra i vari tipi di religiosità individuati quello della spiritualità critica desta particolare interesse, sia per l’orientamento culturale sotteso sia per i soggetti che più lo esprimono. […] c) Sulle due dimensioni qui rilevate (religiosità e spiritualità) quanti esprimono posizioni di marcata congruenza ammontano a circa il 50% della popolazione, mentre il 26% dei casi palesa un atteggiamento di sensibile incongruenza. […] d) In margine a quanto rilevato, si può ancora notare che la quasi totalità della popolazione riconosce il significato di termini quali religiosità e spiritualità ed è in grado di definire il proprio grado di coinvolgimento in queste due dimensioni» (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003, 88-92, passim).
Inoltre viene notato che «la rivalutazione maggiore spetta al rito funebre, a indicare che il momento della morte è quello più associato nella nostra cultura a una qualche forma di significato religioso. Nell’immaginario collettivo questa esperienza estrema di ‘rottura’ deve essere accompagnata con un rituale religioso, il cui senso indubbiamente cambia a seconda del grado di convinzione religiosa di chi lo richiede. La morte si presenta dunque come l’esperienza umana di fronte alla quale anche molti non credenti accettano il rituale religioso attingendo in qualche modo ad un capitale simbolico presente nella nostra cultura per far fronte a interrogativi cui pare difficile rispondere con prospettive profane» (Garelli, Guizzardi, Pace, 2003, p. 100). Il che parrebbe una conferma della valenza del rituale e del lamento funebre, incentrato sul senso della morte e dunque della vita stessa.
D’altro canto il peso del contesto socio-culturale appare evidente anche dal dato relativo all’apporto dell’insegnamento scolastico della religione cattolica ai fini dell’alfabetizzazione religiosa, in quanto l’ora di religione nelle scuole fa «incrementare i livelli di conoscenza dei gruppi con minori occasioni di conoscere la religione cattolica, rispetto ai livelli manifestati dai gruppi che dispongono di un maggior numero di fonti di socializzazione a ciò orientate. Le conoscenze specifiche proposte dell’Insegnamento della Religione Cattolica ‘arrivano’ infatti ai ragazzi in proporzione maggiore delle conoscenze religiose generali. L’insegnamento sembrerebbe dunque effettivamente in grado di ridurre in una certa misura le differenze nei livelli di alfabetizzazione che la socializzazione extrascolastica determina» (Castegnaro 2009, p. 219). Anche questo è un esito della religione diffusa, che produce a sua volte effetti a catena sul piano della cultura complessiva e degli atteggiamenti e comportamenti che vi si rifanno, ivi compreso l’orientamento verso la preghiera.
Non è senza significato che nell’indagine nazionale sulla religiosità in Italia (Cesareo et al., 1995, p. 91) si sia accertato che «gli italiani di 18-74 anni che dichiarano di aver pregato almeno qualche volta durante l’anno sono l’83%. Pregano anche i non credenti, soprattutto se sono in un atteggiamento di ricerca (49%) e coloro che credono in un essere supremo ma non appartengono ad una specifica religione (44%). Perfino tra coloro che si dichiarano atei c’è una quota, seppur piccola (8%), che prega». Le motivazioni della preghiera ripercorrono puntualmente la tipologia classica che annovera la categoria del misticismo (ricerca di relazione con la divinità: 44%), quella dell’impetrazione-perorazione per ottenere un sostegno nei momenti di difficoltà (44%), quella mista che vede insieme il desiderio di rapporto con Dio e la richiesta di un suo intervento, quella di ringraziamento (circa il 25%) che contempla sia la gratitudine che il pentimento per qualche colpa, quella fatta per tradizione ovvero per insegnamento ricevuto, quella dovuta ad una ricerca personale ed infine quella per domandare grazie (che sarebbe la meno frequente in Italia: 10%). Le conclusioni sono che la preghiera «sia una modalità di espressione del proprio sentimento religioso ancora saldamente radicata e quindi destinata a permanere nel tempo, anche se circoscritta ad una minoranza della popolazione» (Cesareo et al., 1995, p. 94). Tale carattere minoritario previsto per il futuro non presenta ancora indicatori consolidati. Ma è anche vero che «le generazioni a noi più vicine e le persone più istruite rifuggono da comportamenti ascrittivi (pregare perché è un dovere o perché così è stato insegnato loro) e privilegiano più degli altri intervistati la forma di preghiera che forse meglio si addice all’uomo contemporaneo: quella intenzionata a far chiarezza dentro di sé» (Cesareo et al., 1995, p. 96).
Senza soluzione di continuità anche ricerche successive rimangono nella medesima linea e confermano i modi tipici del pregare: come ringraziamento, come pentimento; privato-individuale-separato/pubblico-collettivo-unito; orale-detto/silente-mentale; laudativo/perorativo; fiducioso/supplice; spontaneo/fondato su testi (dalla Bibbia – per esempio i Salmi 1, 77 e 118 -, al Sūtra del Loto – per esempio il capitolo XXV che è un’impetrazione per liberarsi da ogni negatività -).
Nonostante questa ampiezza di possibilità non è detto che vi sia sempre consapevolezza da parte dei soggetti intervistati. Per esempio nell’arcidiocesi urbinate la preghiera è posta al sesto posto fra le azioni da privilegiare da parte di un credente: la predilige appena l’11% dei rispondenti (Parma, 2004, p. 121). Ma quando si passa alla domanda sulla frequenza della preghiera (Parma, 2004, p. 160) risulta che il 10,4% prega ogni giorno, il 31,3% circa una volta al giorno, il 15% qualche volta la settimana, il 10% qualche volta al mese, l’11,7% qualche volta durante l’anno ed il 21,6% mai. E giustamente si osserva preliminarmente che «l’importanza di analizzare la preghiera esercitata al di fuori dei riti religiosi deriva dal fatto che tale comportamento è presente in tutte le religioni e spesso riguarda anche chi si dichiara non credente» (Parma, 2004, p. 160). Ma è opportuno sottolineare il fatto che «gli intervistati, per la maggior parte, quando pregano utilizzano le tradizionali formule di preghiera trasmesse attraverso il processo di socializzazione religiosa e ascoltate frequentando i vari riti e culti» (Parma, 2004, pp. 163-164). Insomma si rientra sempre nel canone della religione diffusa e dunque della preghiera diffusa. Pure fra i giovani l’influenza della socializzazione religiosa pregressa rimane: se il 30% non prega mai, il 26% lo fa una o più volte al giorno, il 16,2% una o più volte ogni settimana ed il 13,4% qualche volta in un mese (Parma, 2004, p. 303). «Le modalità della preghiera riguardano principalmente la recita di formule conosciute (59,2%), stando in silenzio, in ascolto o in contemplazione (25%), ma anche riflettendo sulla propria vita e su quanto capita intorno a noi (50%), o attraverso l’uso di parole o espressioni proprie (50%). I giovani, rispetto al totale, privilegiano maggiormente la preghiera personale e la ricerca interiore» (Parma, 2004, p. 304).
Gli universi locali
Anche nel teatino-vastese i giovani presentano tassi cospicui: il 27,56% prega spesso, il 41,99% talvolta, il 20,21% raramente ed il 9,97% mai (Di Francesco, 2008, p. 59). Ma «essi sembrano poco inclini, se non per quella quota peraltro non trascurabile che si individua come il nucleo dei ‘ferventi’, ad utilizzare modalità ritualizzate e tradizionali» (Di Francesco, 2008, p. 61). I giovani interpellati preferiscono «comunicazione, contatto con Dio» (27,75%), «dialogo con Dio, con i Santi, con i defunti» (14%), «riflessione e meditazione personale» (12,25%), «vicinanza con dio» (11,5%). Da notare, fra questi dati (Di Francesco, 2008, p. 152), la presenza dei defunti come destinatari della preghiera, anche se la domanda posta mettendo insieme pure Dio ed i Santi non consente poi di discernere quale peso abbia nella risposta la parte relativa ai defunti. Da ultimo è da prendere in considerazione il modo del pregare: il 29,66% usa parole sue, il 23,36% frasi e formule di preghiera tradizionali, il 19,95% riflette sulla sua vita, il 13,39% dialoga interiormente con Dio (Di Francesco, 2008, p. 153).
In un’inchiesta effettata nel Basso Lazio (Meglio, 2010, p. 104), i giovani dicono di rivolgersi alla propria fede nei momenti difficili, in misura differenziata: sempre il 29,3%, spesso il 28,7%, qualche volta il 32,2%, mai il 9,8%. Non c’è un esplicito riferimento alla preghiera ma tale elemento appare sottinteso, anche perché la stratificazione dell’intensità del comportamento corrisponde in linea di massima a quanto già rilevato, appunto in relazione alla preghiera giovanile.
Nella diocesi di Oristano in Sardegna (Cipriani, Lanzetti, 2010) la preghiera personale occupa un posto rilevante perché la frequenza è «spesso (tutti i giorni o quasi)» nella misura del 45,4%, «qualche volta» per il 34,4% degli intervistati e «mai» per il 20,2% (con una particolare accentuazione nel caso di soggetti maschi). Le medie italiane registrate nel 2009 in un’inchiesta con campione nazionale erano un po’ diverse (rispettivamente 50,8%, 31,9% e 17,3) per cui la popolazione oristanese appare di qualche punto percentuale meno «religiosa» di quella italiana.
Sulle motivazioni, nondimeno, il sentire religioso è accentuato: il 47% prega per sentirsi più vicino a Dio ed una medesima percentuale lo fa per ottenere un supporto nelle difficoltà, mentre il 31% è mosso dal desiderio di lodare e ringraziare Dio ed il 23% per pentirsi e fare penitenza. Il peso dell’insegnamento ricevuto tocca appena l’11% e quello del dovere il 14%, invece la ricerca di chiarezza con se stessi arriva al 18%. Si riduce infine al 10% la motivazione di una domanda di grazie. In definitiva la preghiera strumentale riguarda una quota ridotta della popolazione ma non è destinata a scomparire, visto che fra i giovani essa permane, anche se contenuta entro gli stessi limiti percentuali fatti registrare dall’intero campione dell’indagine.
Provocatoriamente Introvigne e Zoccatelli (2010) si chiedono, al termine di uno studio sociologico sulla diocesi siciliana di Piazza Armerina, se la messa non sia finita, se cioè la pratica religiosa cattolica più emblematica nei giorni festivi non sia destinata a ridursi se non proprio a scomparire. Un punto qualificante del tentativo di Introvigne e Zoccatelli è la verifica della differenza intercorrente fra le dichiarazioni di pratica e la pratica effettiva, cioè la questione dell’over-reporting. Nel caso in esame la partecipazione al culto festivo (cattolico e non) in modo regolare (una volta o più per ogni settimana) secondo le risposte degli intervistati raggiunge il 33,6%, invece un controllo sul numero effettivo di presenti nei luoghi di culto fa scendere il tasso percentuale al 18,5%. Gli autori fanno tuttavia osservare che «se qualche cosa ‘dimostrano’ le indagini sull’over-reporting compiute negli anni negli Stai Uniti, in Polonia e in Italia è precisamente che la pratica dichiarata è, appunto, ‘dichiarata’: misura un’identità e forse anche un’identificazione, ma non misura fatti e comportamenti» (Introvigne e Zoccatelli, 2010, p. 86). Dunque non sarebbero da ritenere percentuali probanti né quella del 33,6% né quella del 18,5%, in quanto entrambe sono parziali e non rappresentano adeguatamente l’intero set comportamentale (ed attitudinale, da non trascurare). Anche in questa inchiesta non si parla esplicitamente della fenomenologia della preghiera ma si può inferire che sia i dati sulla pratica domenicale sia le riflessioni metodologiche sull’over-reporting siano applicabili anche al quadro sociologico relativo alla frequenza della preghiera nella Sicilia Centrale (Cipriani, 1992) ed altrove.
I dati internazionali
Si deve dunque procedere con cautela anche nei riguardi dei dati raccolti nel corso di indagini internazionali sui valori effettuate in Italia (Gubert, 1992, p. 595; Gubert e Pollini, 2000, p. 521). Salvatore Abruzzese, contestando l’eclissi del trascendente, ricorda che «nella rilevazione del 1999 il 53% degli italiani intervistati ha dichiarato di pregare al di fuori delle cerimonie religiose e di farlo più di una volta la settimana» (Abbruzzese, 2010, p. 114), indicando «ogni giorno» (37,4%) o «più di una volta la settimana» (16,5%), a fronte di alternative che prevedevano «una volta la settimana» (7,3%), «almeno una volta al mese» (5,7%), «più volte nell’anno» (5%), «raramente» (14%), «mai» (12,7%), «non so» e «non risponde» (1,5%). Dall’insieme delle risposte alla domanda (rimasta invariata rispetto al 1990) «Con quale frequenza prega Dio, al di fuori delle cerimonie religiose?» si evidenziava che circa tre quarti della popolazione italiana pregava, anche se con ritmi abbastanza diversificati.
Nell’European Values Survey del 1981 la domanda sulla preghiera non era stata posta. Nel 1990 la risposta «prega spesso» aveva fatto registrare il 33,5%, mentre nel 1999 la risposta «prega ogni giorno» ha raggiunto il 37,4%. Quindi è stato quanto mai utile nel 1999 cambiare le risposte possibili e renderle più chiare rispetto a quelle piuttosto generiche usate nel 1990 («spesso», 33,5%; «qualche volt»a, 32%; «quasi mai», 9%; «solo nei momenti di crisi», 8,1%; «mai», 16,8%; «non so» (0,6%); «non risponde», 0%).
Più facilmente è comparabile la risposta «mai» perché identica nelle due rilevazioni dell’European Values Survey del 1990 e del 1999: dapprima è stata al livello del 16,8% e poi al 12,7%. Da quest’ultimo punto di vista l’Italia (insieme con il Portogallo) sembrerebbe in controtendenza, in quanto in altri paesi europei (soprattutto Francia, 54,7%; Olanda, 49,5%; Belgio, 37,9%; Germania, 27,8%; Spagna, 25,3%) risulta aumentato il tasso di quanti non pregano affatto, confermando dunque l’andamento secolarizzante (Abbruzzese, 2010, pp. 130-131).
La centralità della preghiera nelle religioni rimane nondimeno una costante, dall’ebraismo al cristianesimo, dal buddismo all’islam, dall’induismo allo scintoismo e così via. Anche le correnti migratorie fanno leva sul patrimonio del capitale culturale costituito dalle preghiere, sino ad utilizzare il termine nelle loro stesse denominazioni come nel caso del Bethel Prayer Ministery International, attivo fra l’altro anche in Italia (Tellia, 2010, pp. 99-101).
La nuova prospettiva dell’analisi qualitativa
Ancor più dei dati quantitativi c’è da aspettarsi che siano i risultati qualitativi a fornire corroborazioni sul nesso fra religione diffusa e diffusione della preghiera. Un contributo convincente giunge da uno studio qualitativo sulla spiritualità giovanile (Castegnaro et al., 2010). Va segnalato come strategico un paragrafo dedicato a «Davanti alla morte e al dolore» (Castegnaro et al., 2010, pp. 192-194), in cui si mostra come «l’evento della morte svolga ancora oggi il suo ruolo antropologico di connessione tra i mondi, obbligando chi vive questo tragico avvenimento a doversi interrogare su ciò che va oltre la vita, e spingendo molti a tirare in ballo Dio nel tentativo di formulare una risposta plausibile. Ciò può succedere a chi pensava di aver chiuso i ponti con la religione» (Castegnaro et al., 2010, p. 192). Ed appunto «attraverso la pratica della preghiera si può entrare in relazione con il radicalmente altro: sentirne l’abbraccio o l’abbandono; si possono esprimere i propri dubbi e le proprie convinzioni sull’esistenza o meno di qualcosa che va oltre l’umano; ci si può riferire all’appartenenza alla propria chiesa o gruppo religioso/ecclesiale con la possibilità di diversificare forme e ruoli del pregare; e infine anche attraverso la preghiera si può ‘esercitare’ la propria conoscenza dei testi sacri. La preghiera rappresenta quindi un punto di potenziale convergenza delle diverse dimensioni della religiosità: la pratica, l’esperienza, la credenza, l’appartenenza e anche la conoscenza» (Castegnaro et al., 2010, p. 385).
Seguono poi diversi esempi tratti dai documenti raccolti nel corso dell’indagine qualitativa su 72 giovani vicentini, con la tecnica del focus group. Emblematicamente da una persona intervistata viene riproposta esplicitamente la dimensione ultraterrena come locus di interlocuzione: ella si rivolge a suo nonno defunto perché le riesce più facile, «recuperando ed andando oltre una lunga tradizione che attraversa le religioni» (Castegnaro et al., 2010, p. 395). Ed ovviamente non mancano Dio e santi come interlocutori: la serie di brani estratti dalle diverse dichiarazioni dei giovani è lunga ed articolata e verifica il carattere sociale della preghiera, «tra obbligo e personalizzazione», anche se fatta in privato e nell’intimità (Castegnaro et al., 2010, pp. 385-418).
Il quadro d’insieme che scaturisce dalla ricerca vicentina testimonia quale sia l’incidenza della preghiera nell’universo mentale giovanile: essa si colloca al ventottesimo posto (seguita da Vangelo, valori, morte e paura) di una lista di «parole piene di media frequenza» che comincia con «Dio» e termina con «scelte» (Castegnaro et al., 2010, p. 611) e nella sua area tematica (settima per numero di frequenze, dopo «figure sacre», «familiari», «messa», «aldilà», «clero» e «chiesa») (Castegnaro et al., 2010, p. 614) rientrano «Atto di dolore, Ave Maria, il credo, Padre nostro, Lodi, pregare, preghiera comunitaria, preghiera di lode, preghiera di ringraziamento, preghiera libera, preghiera mattutina, preghiere della sera, salteri/o, vespri ecc. » (Castegnaro et al., 2010, p. 612).
Infine l’analisi delle corrispondenze mette in relazione la preghiera soprattutto con le figure sacre, la Parola ed i sacramenti e, sul piano sociale, con i movimenti (Castegnaro et al., 2010, p. 615).
Conclusione
Il filone carsico plurimillenario che ha fatto giungere fino a noi la tradizione della preghiera ha avuto probabilmente origine in congiunzione con crisi esistenziali primordiali, con l’esperienza della morte altrui e poi con il timore ed il rischio di quella propria.
La presenza del lamento funebre volto a superare la crisi di presenza instauratasi al momento dell’esito letale ha innescato presumibilmente meccanismi di narrazione che poi sono divenuti anche di riflessione più matura sul significato della vita e quindi della morte.
A questo punto si sarebbe innestato il problema di una presenza altra rispetto a quella umana. Con tale alterità è iniziato allora un tentativo di colloquio, in forma di richiesta di sostegno, poi divenuta insieme di lode e ringraziamento, ma anche molto altro: richiesta di un intervento straordinario (la grazia del miracolo che poi comporta il rendere grazie per il favore ricevuto), invocazione, pentimento, atto pubblico, azione cerimoniale, espressione di fiducia, dialogo privato, orazione mentale, testo sacro ed altro ancora, in forme originali e diversificate secondo le varie religioni ma abbastanza convergenti nelle funzioni esercitate in ambito culturale.
La diffusione della preghiera è essenzialmente frutto dell’azione socializzatrice svolta dalle confessioni religiose con le loro strutture educative e legittimatrici, che perpetuano forme e contenuti della preghiera, lasciando spazio anche ad innovazioni che lungi dall’erodere il patrimonio esistente ne rimotivano e ne riadattano le proposte, a tutto vantaggio di una religione diffusa che si fa forte dell’apporto di intere generazioni del passato le quali hanno conservato nel tempo le testimonianze pregresse.
Non è fuor di luogo potere immaginare che anche le resistenze da parte dei giovani ad usare il capitale culturale pre-esistente risponda – alla lunga – ad un’esigenza di conservazione non garantibile dalle sole strutture operative già in atto. Del resto se anche si prescinde da formule consolidate e da soluzioni già disponibili nondimeno un afflato religioso e spirituale insieme pare mantenere in essere una «abitudine del cuore», per dirla ancora con Rousseau e Bellah (1985), dura a morire perché correlata alla morte stessa, con cui si confronta continuamente, attraverso lo schermo-copertura della figura sacra che funge da interlocutore utile, anche se ritenuto fittizio.
In che misura tutto ciò possa trovare conferma anche nel futuro non è facile stabilire a priori, ma date le sue vetuste e solide radici non avverrà all’improvviso una sua scomparsa. Se così fosse vorrebbe dire avere già risolto il problema della morte ed aver trovato il cammino verso una vita senza fine (Uche, 2008).
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Sono numerosi i punti di contatto e le affinità fra religione e sport. Il che avviene sin dai tempi più antichi. Esemplare è il caso della Grecia, dove non a caso sono sorte le Olimpiadi in un contesto e con motivazioni a carattere tipicamente religioso.
La stessa ripresa dei Giochi Olimpici nel 1896 rappresenta un momento di svolta per la storia dello sport ma evidenzia anche le ragioni profondamente etiche (e religiose) che animavano il loro fondatore, il barone de Coubertin.
Oggi sotto diverse forme ed in situazioni favorevoli il legame fra religione e sport si va rafforzando tanto da poter verificare la presenza di riti, preghiere, formule, gesti, simboli e ruoli tipicamente religiosi anche in avvenimenti sportivi, nel corso della loro preparazione come nelle fasi successive allo svolgimento delle competizioni.
Vari studi sul campo mostrano che specialmente entro modelli d’ispirazione cristiana vigono e si diffondono pratiche religiose che accompagnano da vicino le dinamiche relative all’organizzazione di gare in diversi sport, a partire dai momenti fondativi per giungere sino ai processi di legittimazione delle memorie del passato.
Soprattutto nel campo del calcio esistono forme di divismo, movimenti parareligiosi e culti propiziatori ed esorcistici tesi ad ottenere risultati agonistici continuamente positivi.
Abstract
There are many convergences and affinities between religion and sport. This happens since long time ago. Grrece is a good example for this. The Olympics were born there because of a religious context.
The modern Olympics started in 1896 as a turning point in the history of the sport. Their roots were both ethical and religious, if we consider the person of the founder, de Coubertin.
Today the link between religion and sport is well evident, and it is more and more stressed through rites, prayers, gestures, symbols, and many other modalities, that are present in sport events, their preparation, and following moments.
Sociological studies confirm a relevant presence of religious inspiration for sport activities, which are accompanied by religious practices and behaviors, from their foundation till the legitimation of past memories.
Namely in soccer competitions para-religious movements and cults are active in order to reach positive results, in a continuous search for the victory.
Parole chiave: sport, religione, rito, spettacolo
Keywords: sport, religion, rite, spectacle
Premessa
Sul rapporto fra religione e sport è emblematico il caso del Belfast Celtic Football Club, una squadra di calcio vincitrice di 71 honours (compresi 48 titoli) in oltre mezzo secolo di attività, dal 1891 al 1949, anno del suo scioglimento e dunque ritiro da ogni competizione. Così squadra e tifosi persero il loro Paradise (Coyle 1999), come veniva chiamato il campo di gioco situato nella parte occidentale della città, sulla Donegall Road di Belfast: era il Celtic Park (oggi divenuto un centro commerciale). I nomi di Paradiso e di Celtic Park erano peraltro i medesimi già in uso pure a Glasgow, in Scozia. Infatti la comunità cattolica nazionalista nordirlandese aveva preso come riferimento il forte valore simbolico del Celtic Football Club di Glasgow, squadra scozzese per antonomasia, fondata appena tre anni prima, nel 1888.
Fu nel 1920 che lo stesso Belfast Celtic Football Club venne escluso per la prima volta dal campionato, per un periodo di quattro anni, a seguito della tragica vicenda ricordata sotto il nome di Bloody Sunday, per la morte di 14 spettatori ed un calciatore, durante dei disordini poi sedati con un pesante intervento della polizia britannica. La successiva proibizione di partecipare alle gare colpì alla fine una squadra caratterizzata dall’essere prevalentemente di orientamento indipendentista e cattolico.
Oggi una certa continuità “spirituale” con il Belfast Celtic Football Club è garantita dal Cliftonville (fondato nel 1879) ma anche dal Donegal Celtic Football Club (fondato nel 1970, sempre nella zona occidentale di Belfast), già vincitore di 25 trofei finora. La continuità è assicurata anche dal colore della maglia ufficiale del Donegal, ancora a strisce verdi e bianche orizzontali come quella del Belfast Celtic F. C.; ma un’altra connessione è data anche dai disordini avvenuti prima, durante e dopo la gara per la Coppa d’Irlanda del 1990 fra il Linfield (258 trofei, di cui 51 titoli nazionali, in oltre 120 anni) ed il Donegal: ci furono cinquanta feriti (ufficialmente dichiarati), ma verosimilmente anche di più, giacché molti dei bisognosi di cure non avevano fatto ricorso agli interventi medici in strutture pubbliche per il timore di essere riconosciuti quali protagonisti dei riots avvenuti.
Il contrasto con il Linfield era di vecchia data, perché si trattava della medesima squadra di matrice protestante già coinvolta nel Boxing Day (26 dicembre) del 1948, che aveva visto l’invasione del campo di gioco da parte dei tifosi dei blues per assalire i calciatori in bianco-verde del Belfast Celtic, in particolare un attaccante di religione protestante ma militante nella squadra “sbagliata” (perché di ispirazione cattolica): si chiamava Jimmy Jones e ne ebbe una gamba spezzata.
La storia del Belfast Celtic F. C. non si è però del tutto conclusa. Essa continua grazie agli auspici ed alle iniziative della Belfast Celtic Society, che dal 2003 mantiene viva la memoria del glorioso club di cui porta il nome. Però la storia non si è conclusa soprattutto perché il Cliftonville perpetua nell’Irlanda del Nord la tradizione di una società sportiva cattolica di calcio e di atletica. Gli avversari di sempre restano quelli del Linfield ed altresì del Glentoran (vincitore della Coppa d’Irlanda nel 2015), società entrambe di origini protestanti ed unioniste (favorevoli ai legami con il Regno Unito).
Oggi il Cliftonville non disdegna la partecipazione di tifosi e calciatori protestanti nelle proprie fila. Lo stesso dicasi, a prospettiva rovesciata, per la società dei Crusaders (fondata nel 1879), insediata in un quartiere protestante, ma disponibile a considerare favorevolmente nel suo ambito la presenza sia di atleti che tifosi di confessione cattolica.
L’intreccio inestricabile fra religione e sport è dunque ancora una volta confermato, quale che sia l’esito concreto, a livello di atteggiamenti e comportamenti. Sta di fatto che la difesa di ideali a contenuto spirituale fa leva sulla veicolazione sportiva per affermarsi e riaffermarsi in un contesto che è competitivo-conflittuale sul piano delle appartenenze di base e che offre attraverso la pratica sportiva un terreno, magari erboso, sul quale incontrarsi, confrontarsi, scontrarsi. Qualche volta la passione è così possente da produrre gravi conseguenze, come provano gli eventi del Bloody Sunday del 1920 e del Boxing Day del 1948. Ma sono appunto tali tragici episodi che comportano poi decisioni drastiche: l’esclusione dalle gare o l’abbandono dell’attività sportiva. Salvo poi recuperare presenze e simboli sotto altra veste, in una continuità ideale tra passato e presente, volta a ribadire i principi originari, i valori di riferimento, le credenze di base.
In ogni caso si tratta di legittimare e consolidare una propria identità religiosa (e politico-ideologica insieme, nell’Irlanda del Nord o in Scozia ma anche altrove nel mondo). Ed altresì di trovare nella pratica sportiva una via d’uscita, una sorta di compromesso che ripropone la propria visione della realtà, si contrappone ad altre letture della società, si giustappone al dibattito sempre in atto, si espone ad una verifica continua della propria tenuta in termini di immagine pubblica e condivisa. Insomma una squadra di calcio può anche rappresentare un’estensione spaziale della comunità religiosa di riferimento ed il campo di gioco diventa un ulteriore tempio in cui esprimere il proprio credo e le proprie convinzioni. Ed anche il tempo del sacro si espande: dalla celebrazione del culto festivo (o prefestivo del sabato) a quella del match in un luogo che molto eloquentemente può chiamarsi non a caso “Paradiso”.
Una vecchia storia
Agli albori della storia vi è certamente l’incontro fra individui umani che devono decidere il loro comportamento, ovvero l’agire concreto giorno per giorno. La decisione non può non derivare dal calcolo che si fa della presenza altrui e dell’ambiente circostante.
Ma è prioritariamente la presenza di un essere mobile, umano o animale che sia, ad influenzare l’esercizio di una volontà in merito. Specialmente quando l’alterità non è conosciuta occorre fare rapidi conti e costruire scenari immediati su quelle che possono essere le prospettive susseguenti.
Ecco dunque che nascono timori ed aspettative ma anche progetti sul da farsi. Insomma è – detto in termini a noi contemporanei – l’ennesima partita a scacchi che viene giocata sulla base dei rischi di perdita e sulle potenzialità di acquisizione: il dilemma rimane identico, cioè se “mangiare” o “essere mangiati”. Esattamente quanto avviene ancora oggi in una circostanza di caccia grossa o in uno sport estremo dove è in gioco la vita stessa.
Ed appunto la vita è la posta in gioco nel momento in cui si pensa direttamente alla propria esistenza: che significato ha? A chi serve? A che cosa serve? E dopo la sua conclusione è davvero tutto finito? Qui la risposta viene anche dalla religione ovvero dalle religioni oppure dall’assenza di qualunque riferimento ad una dimensione metafisica.
Ma ritorniamo al punto di avvio. L’impatto fra due esseri viventi non è mai senza conseguenze: si può cooperare o confliggere od anche ignorarsi a vicenda (o da parte di uno solo dei due individui).
Comunque un confronto ha luogo. Ci si scruta per capire le caratteristiche e segnatamente le intenzioni dell’altro. Poi si decide il da farsi, commisurandolo alle informazioni raccolte nel giro di qualche istante, dunque in modo del tutto estemporaneo.
Dopo le prime mosse da entrambe le parti è possibile delineare un primo quadro situazionale, che risulta fondante per le dinamiche successive. In fondo ancora una volta si verifica l’impasse tipica del noto dilemma del prigioniero: avere fiducia o diffidare, collaborare o tradire? Una volta instaurata una certa dialettica più o meno amicale, discorsiva, od invece più o meno conflittuale, dissenziente, il seguito è direttamente conseguente e dà luogo a vittorie e sconfitte or dall’una or dall’altra parte.
In questo succedersi di andamenti si accumulano esperienze e know how, che orientano atteggiamenti e comportamenti quasi senza soluzione di continuità. In tal modo si costruisce la storia di due individui come di un gruppo, di una comunità come di un’intera società. I tratti peculiari di tale storia contrassegnano individui e popoli e ne definiscono i profili tipici ossia le propensioni ricorrenti più prone a percorsi pacifici o bellici, sovente con alternanze fra l’uno e l’altro trend. Così si producono sequenze ora più tranquille ora più movimentate. Da tale alternarsi deriva di fatto la possibilità di esperire un diverso tipo di confronto: solitamente amichevole, sportivo, in tempi di pace, ovviamente aggressivo, sregolato, in tempi di conflitto armato. Le storie dei popoli di ogni continente sono costellate di queste vicende contrastanti. Il che fa pensare ad una vera e propria costante sociologica ed antropologica rappresentata dal continuo ricorso a forme competitive più o meno accentuate, che “sul campo” si divaricano fra soluzioni tipiche dello sport o al contrario del πόλεμοσ (pólemos).
In assenza di guerre vere e proprie non è un caso che proliferino formule funzionalmente sostitutive quali i giochi di guerra, realizzati dal vivo con armature ed armi od anche virtualmente mediante videogiochi, che fanno uso di softwares sofisticati, appositamente studiati per soddisfare “istinti ed istanze” di giocatori agguerriti e ben disposti ad affrontare le sfide più difficili.
Il mito ed il rito olimpico
Antropologi e sociologi si sono interrogati a lungo sui legami che uniscono il mito al rito e ne hanno discusso valenze e significati, premesse e conseguenze, origini e sviluppi. Una costante pare confermata: a partire da una narrazione fondatrice, a carattere sovente leggendario, si creano forme e formule che mirano a riproporre il mito, che viene ri-narrato in nuove modalità strutturate e ripetute, codificate e controllate. La religione nasce da un racconto originario, magari raccolto anche in forma scritta, nei cosiddetti testi sacri, che legittimano a futura memoria gli eventi straordinari ed ordinari del passato e danno vita a letture ed esegesi che mirano a consolidare l’affidabilità dei documenti di riferimento. Solitamente attraverso il rito si ripercorre in modo formalizzato e liturgicamente modulato ed accentuato quanto raccontato in precedenza con accenti e toni di meraviglia (e magari rammemorato esplicitamente nella celebrazione rituale). Il passaggio dal mito al rito riduce in particolare la distanza che intercorre fra l’essere umano e la divinità.
Si deve a Victor Turner (1982) lo spunto più suggestivo in tale ordine di fenomenologie individuali e sociali. Quando egli parla di performance il rinvio è ad una rappresentazione, ad una teatralità che racchiude in sé l’essenziale del discorso in atto. L’atto performativo serve a far transitare attraverso la (più o meno nuova) forma quello che è già stabilito, noto, di dominio cognitivo condiviso. Gli astanti anche se non sono protagonisti assoluti sanno che cosa si sta operando: una per-formazione ovvero una tras-formazione, un mutamento in senso proprio. Per cui, ad esempio, se un’opera teatrale è in grado di far rivivere un’epoca ed un’epopea, allo stesso modo una celebrazione religiosa ricorda un momento fondativo del culto in essere ed una gara sportiva è il punto di arrivo di una lunga preparazione previa che sfocia alla fine nel rito del confronto interpersonale, che può trasformare un semplice dilettante in un grande campione da osannare quasi negli stessi termini di una divinità.
La triplice dimensione di struttura, liminalità e antistruttura prospettata da Turner è applicabile sia ad un rito religioso che ad una competizione sportiva. Tutta la fase preparatoria ha il carattere della struttura previa, che è di premessa a quanto verrà dopo. C’è bisogno infatti di qualcosa di solido, abbastanza valido ed empiricamente verificabile, per garantire la fattibilità di qualcosa di significativo ed anche capace di produrre mutamenti sostanziali. Segue la fase della liminalità, che è insita nel rito medesimo ma non giunge sino al suo termine, giacché nel frattempo sarà emersa la cosiddetta antistruttura, cioè il nuovo status, dovuto al vissuto rituale esperito. E dunque dalla celebrazione religiosa deriverà una purificazione re-innovatrice, mentre dalla tenzone agonistica scaturirà una nuova e diversa consapevolezza del sé, esaltato od anche solo confermato, in base all’esito della competizione (ma talora anche mortificato in caso di sconfitta o mancata riuscita).
A sostegno del tutto vi è quasi sempre una communitas di appartenenza e/o di sostegno, che presenzia ai momenti strategici della lotta tra contendenti e fazioni e prende parte attivamente in favore dei suoi membri riconosciuti e riconoscibili. Si spalleggiano così i difensori di una fede religiosa o di un club sportivo, si acquistano oggetti-ricordo e gadgets di ogni genere per sottolineare la propria affiliazione. Si cerca di evitare anche in tal modo gli scismi e le separazioni, puntando a rafforzare la solidarietà di gruppo e di squadra. Appare evidente dunque che la stessa continuità è fondamentale per rinsaldare vincoli e ribadire la propria adesione ad un’idea, ad un simbolo, ad un riferimento valoriale, sia esso rappresentato da una confessione religiosa di cui si è fedeli come da un team sportivo di cui si è fans. Per confermare i vincoli di affiliazione si può far ricorso ad un tempio monoteista o ad un panteon di divinità, ma pure ad una Hall of Fame che celebri i grandi divi (passati o ancora viventi) di uno sport individuale o di squadra. Ed allora si ricordano i defunti e tutti i santi ma non mancano memorials in onore di soggetti specifici e quindi dedicati a chi ha ben meritato come atleta o dirigente o tecnico.
Il rito accompagna spesso momenti di vita individuale e sociale: nel recitare un’orazione o nel compiere atti abituali, a carattere scaramantico o meno, prima di una prova decisiva o di un match. Soprattutto nell’ambito culturale il rituale è piuttosto presente e diffuso. Esso ha un carattere anche profetico perché anticipa un futuro possibile e produce di fatto un cambiamento, fosse pure solo di un’opinione estemporanea su una questione esistenziale.
In fondo religione e sport si fondano entrambi sulla tradizione ma non disdegnano anzi valorizzano la trasformazione, il mutamento. Tale andamento può riguardare idee e metodi, contenuti e forme. Nel mondo cristiano (per restare entro un contesto ben noto in Europa) la celebrazione eucaristica odierna segue schemi del passato ma si apre a soluzioni diversificate, nella lingua e nella musica, nella parola e nel canto, nell’estetica e nella comunicazione, nel mondo sportivo in generale molte regole di base hanno radici secolari, ma i sistemi di allenamento, le tattiche di gioco, le strategie organizzative, i metodi di gara (in precedenza in campo calcistico esisteva il “metodo” per eccellenza, fondato sul ruolo principe del centromediano, oggi però tutto si basa su altre sequenze numeriche: non più il 2-3-5 del Metodo (contrapposto al Sistema basato principalmente sul 3-2-2-3) ma il 4-3-3 oppure il 4-4-2 od anche il 3-4-3 (abbastanza affine al vecchio Sistema)ed altro ancora per indicare lo schema di schieramento dei calciatori in campo, eccezion fatta per il portiere che comunque è bene non si allontani troppo dalla porta che deve difendere, a baluardo del santuario da proteggere, da conservare intatto, inviolato, appunto un sancta sanctorum).
Nelle culture religiose ancestrali è l’indovino, lo sciamano, l’uomo-medicina, a decidere delle sorti dei singoli e dei loro gruppi primari, nelle pratiche sportive è l’allenatore, il trainer, il mister che gioca quasi lo stesso ruolo dello stregone di un villaggio, ovvero di colui che sa, che suggerisce, che indirizza, che cura. In questo processo vi sono soggetti che vengono preferiti ad altri, scelti a fini promozionali, di valorizzazione, ma nel contempo ci sono coloro che non godono del favore degli dei che sembrano avere delegato ad altri, a degli umani, sacerdoti ed arbitri-giudici il loro potere d’intervento.
Forse l’espressione massima e più evidente della correlazione fra religione e sport si rintraccia invero nell’istituzione dei giochi olimpici. Olimpo era il luogo ove risiedevano gli dei ed a Olimpia, nell’Elide, c’era un frequentatissimo santuario (un tempio venne costruito fra il 471 ed il 456 avanti Cristo) dedicato a Giove Olimpo (di cui Fidia scolpì una celebre statua).
In occasione delle gare che vi si svolgevano c’era abitualmente la divinazione dei nomi dei trionfatori, ai quali poi le città di provenienza erigevano delle statue, che nel piedistallo portavano l’iscrizione dei trionfi conseguiti.
Giustamente si esordisce, parlando de I Giochi Olimpici dall’antichità ai giorni nostri (Teja, Ristori 1999: 11), con la seguente affermazione: “I Giochi Olimpici, espressione della religiosità del popolo greco, furono un’occasione rituale e al contempo agonistica in cui la vittoria ad una gara costituiva un punto di contatto tra l’atleta e la divinità, oltre che preghiera ed ossequio del vincitore”.
Anche in epoca contemporanea si è potuta registrare una confluenza fra il sacro e lo sport, in particolare fra la Sindone di Torino e le Olimpiadi invernali del 2006, allorquando si è manifestata una chiara sovrapposizione devozionale e promozionale, allo stesso tempo ed allo stesso modo, fra religione e sport (Tilson 2009).
L’agone è strumento di “indiamento”, di relazionalità con il divino, una sorta di religione esperita dall’atleta in forma speciale. Insomma si può definirla una scelta divina od almeno una vocazione sui generis con contenuti pre-weberiani, dunque indipendenti da dinamiche socio-professionali ed economiche (Weber 1988).
La vittoria era anche una specie di preghiera dedicata al dio o agli dei. Insomma rappresentava un atto di omaggio al potere soprannaturale. Ma sia la preghiera che l’ossequio potevano coinvolgere gli spettatori e gli altri atleti non vincitori, pronti a riconoscere e la superiorità del vincente e, soprattutto, l’onnipotenza delle divinità olimpiche.
Per questo si ribadisce opportunamente che “non potremmo capire nulla del fenomeno delle Olimpiadi nell’antichità se non cogliessimo innanzitutto il loro profondo significato religioso” (Teja, Ristori 1999: 11). Fra l’altro la celebrazione olimpica è un segno evidente dell’assenza di guerra e dunque della possibilità di vedere gareggiare concorrenti delle più diverse provenienze territoriali.
Neppure va sottovalutato il carattere precipuamente sociologico dello svolgimento delle tenzoni olimpiche. Queste ultime rientrano appieno nella nozione di fenomeno sociale totale coniata da Marcel Mauss (1923). “Era un fenomeno totale con aspetti religiosi, culturali, politici, militari, sociali, economici e psicologici differenziati ma che vanno collegati se si vuole pienamente conoscere, capire, interpretare i primi Giochi Olimpici”, come avvertono Teja e Ristori (1999: 11). Talmente totale da aggregare e congregare città fra loro avverse, Atene e Sparta insieme, ancora avversarie ma senza spargimento di sangue, rappresentate dai loro atleti migliori.
Non è facile individuare quale mito, quale leggenda stia alla base delle Olimpiadi e ne sia la ragione dell’inizio. Nondimeno traspare in ciascuna delle narrazioni un’aura sacrale, che è caratteristica anche della città Olimpia, tuttora. Secondo Pausania (II secolo dopo Cristo), nel tomo V (10, i) della sua Descrizione della Grecia,il nome di Olimpia ovvero Altis deriverebbe dal bosco sacro ἄλσος (alsos) che la circondava e che era dedicato a Giove. Plutarco, vissuto tra il 46/48 ed il 125/127 dopo Cristo, è d’accordo (Licurgo, 1, 1) con Pausania (tomo V, 20) nell’attribuire all’oracolo di Delfi la decisione di istituire i Giochi nel 776 avanti Cristo (come testimoniato da un disco di bronzo conservato nel tempio di Era e di cui parlano sia Pausania che Plutarco).
Ad Olimpia, divenuto santuario panellenico, si recavano per la festa e per le gare molti pellegrini, grazie ad un salvacondotto, data la pace divina o ekecheiria (ἐκεχειρία).
Il cimento atletico era la corsa di 192 metri, lo stadio appunto. Probabilmente vi erano anche gare solo femminili di tipo cultuale dedicate ad Era, le Heráiai (ʻHραίαι), che vedevano la partecipazione di vergini che offrivano un peplo alla divinità. Si ipotizza che la corsa femminile fosse anche più antica delle stesse Olimpiadi.
I sacerdoti stabilivano le giornate di gara in modo da collocarle durante il secondo o terzo plenilunio d’estate, cioè in coincidenza con riti ritenuti abbastanza peculiari.
Va ricordata pure l’importanza del periodo pre-olimpico, consistente in una preparazione di trenta giorni attraverso prove ed allenamenti rituali. Tutti i presenti (atleti, accompagnatori, giudici, allenatori) seguivano un rigido regolamento comportamentale, giacché erano praticamente in ritiro pre-gara, in isolamento, come in attesa di un rito iniziatico.
Prima delle Olimpiadi si faceva un solenne giuramento a Giove sulla correttezza della preparazione e sul divieto di ricorrere a modi illegittimi nella predisposizione e nello svolgimento delle gare.
La pace olimpica era annunciata da messaggeri in tutta la Grecia ma era piuttosto un momentaneo periodo di non belligeranza, durante il quale andavano osservate alcune norme di inviolabilità di luoghi sacri, dove si accedeva inermi.
Un consiglio supremo, di cui facevano parte anche sacerdoti, salvaguardava le regole delle gare o le innovava se necessario. Inoltre gli ellanodíkai (ʻΕλλλανοδίκαι) in quanto giudici potevano comminare sanzioni in caso di inadempienze. La pena consisteva di solito in una multa pecuniaria da destinare alla costruzione di statue bronzee in onore di Giove.
La cerimonia inaugurale prevedeva un corteo processionale di atleti, giudici, allenatori, sacerdoti, magistrati, spettatori, lungo la Via Sacra da Elide ad Olimpia. Alla fonte Pieria tutti si purificavano. Alla vigilia delle competizioni si dormiva nel bosco sacro.
Lo stesso Caillois (1995: 79) è convinto che “erano prima di tutto una sorta di culto, la liturgia di una cerimonia sacra”.
Il primo ed ultimo giorno si svolgevano cerimonie religiose. Il terzo giorno si celebrava un grande sacrificio agli dei con l’uccisione di cento animali, dati in pasto a tutti nel convivio conclusivo.
Nel 392 l’imperatore cristiano Teodosio, amico di Ambrogio vescovo di Milano, proibì le Olimpiadi, come del resto tutti i riti e giochi pagani, ma nel frattempo lo stesso presule aveva condannato il capo supremo dell’impero, escludendolo dai sacramenti, a seguito della sanguinosa repressione-massacro dei tessalonicesi, rei di aver ucciso Buterico, comandante imperiale.
Il barone de Coubertin, che molti secoli dopo rilanciò i Giochi Olimpici, ripresi ad Atene il 5 aprile 1896, aveva ricevuto un’educazione fortemente religiosa, giacché aveva studiato in un collegio ecclesiastico.
Suoi emuli, per così dire, nella diffusione degli ideali sportivi ma con finalità prettamente religioso-educative furono in Italia san Leonardo Murialdo (1828-1900) e san Giovanni Bosco (1815-1888), i quali, definiti “santi educatori dell’800”, “sono dei punti di riferimento incontestabili per quanto attiene questa attività” e “cominciano ad organizzare all’interno di ricreatori e scuole una attività motoria di tipo popolare (sarebbe interessante vedere quanto ciò si estende, in seguito, a livello delle società di mutuo soccorso e operaie di orientamento socialista) che viene modificandosi nella misura in cui penetra in Italia, dall’Inghilterra e dalla Francia, lo sport moderno, frutto anche della nuova organizzazione strutturale della società borghese” (Martini 1976: 119).
Peraltro “vi erano i cattolici liberali che accettavano il nuovo stato italiano e si mostravano ‘possibilisti’ nei confronti della società industriale. Era fra questi che si collocavano i praticanti e i divulgatori dell’idea di uno ‘sport per tutti’ e che intendevano promuoverne soprattutto i valori della cooperazione di squadra più che esclusivamente quelli della competizione che circolavano invece assai più fluidamente nell’importato ideale dell’athleticism d’oltremanica” (Lo Verde 2014: 75).
Elementi filosofici ed antropologici nella connessione fra religione e sport
Secondo Hessen (1959: 81) un ruolo significativo avrebbe svolto per la promozione dell’educazione un vescovo, William di Wykeham, che nel secolo XIV fece costruire il New College di Oxford, aiutò gli studenti meno abbienti e diede una svolta al sistema formativo del collegio di Winchester.
Ancora un inglese, Thomas Arnold, diacono della Chiesa d’Inghilterra, qualche secolo dopo, nell’Ottocento, dava una nuova spinta all’impegno educativo e religioso, facendogli recuperare una dimensione pratica e di fatto uno spazio adeguato per l’attività fisica. Fu lui, come direttore di scuola a Rugby, a volere un programma sportivo, aggiuntivo al curriculum ordinario. Pensava al rafforzamento del carattere degli alunni ed al potenziamento delle loro possibilità di scelte autonome. Si trattava perciò di fornire un carattere morale all’esercizio sportivo. Si riprendeva così il filone della classicità greca e dello spirito di Olimpia, trascurato per secoli anche grazie all’intervento della Chiesa che vietava i giochi definiti “pagani”, sovente sanguinosi e letali.
Nel frattempo dopo la progressiva diffusione dei processi democratici, a partire ancora dall’Inghilterra ed in particolare dalla Magna Charta libertatum del 1215, anche lo sport andò affermandosi sempre più. Fu J. B. Basedow, sulla scia di Jean-Jacques Rousseau a rivalutare il gioco infantile, mentre Guth Muths propugnò la pratica dell’educazione fisica. Un altro imporrtante contributo venne da F. C. Jahn che riprese lo stimolo dell’educazione sportiva proveniente dall’antica Grecia e lo diffuse nell’area tedesca nella prima metà dell’Ottocento, con un taglio nazionalistico.
Alla fine si diede l’occasione al liberale cattolico De Coubertin di rifondare le Olimpiadi, con uno spirito solidaristico memore della lezione durkheimiana. E si giunse a parlare di una religione dell’atleta (religio athletae) secondo un’espressione dello stesso De Coubertin.
A dare man forte alla prospettiva decoubertiniana intervengono nel corso del Novecento due autori della stazza di Huizinga (1939) e Caillois (1967, 1995). Il primo attribuisce al gioco un ruolo primario nelle società e nelle culture. Il secondo insiste sul carattere incerto di ciò che è ludico. Entrambi riconoscono una dimensione di separatezza, di differenziazione, che ha del “magico” (Huizinga) ma pure dell’aleatorio (Caillois). Se però è vero che nel medesimo anno del volume di Huizinga aveva Cailloi a sua volta scritto su L’uomo e il sacro, nondimeno quest’ultimo toglie un certo carattere sacro al gioco già proposto dallo stesso Huizinga. Come opportunamente rileva Pier Aldo Rovatti (Caillois 1995: IX-X), “il giocatore d’azzardo, che è certo la figura sulla quale il lavoro successivo sui giochi fa centro, ha a che fare con il sacro, e precisamente con il ‘sacro di trasgressione’, come lo chiama Caillois, nella sua vocazione alla ‘perdita’. Ma Caillois scorge una precisa differenza tra la dimensione religiosa con il necessario investimento che la accompagna e la dimensione ludica la quale invece rimanda solo a se stessa in una sorta di auto-investimento. Caillois non nega che molti giochi, se andiamo a vederne le origini, ci riconducano alle pratiche religiose, ma poi se ne separano e si affermano nella loro specifica gratuità di giochi. Per esempio, il gioco del pallone, che oggi è diventato un fatto sociologico di primaria importanza, presso i Maori è un rito che si collega ai miti della conquista del cielo: la posta in gioco, e cioè il pallone medesimo, rappresentava il sole. Ma poi il gioco del pallone, fino all’attuale football, si sgancia da questo teatro del mito e il pallone cessa di rappresentare il cielo da conquistare. Il gioco diventa, ed è, un rito senza mito, anzi un rituale: qualcosa di meramente profano opposto – si direbbe – al sacro, in cui il divertimento non ha più nulla a che fare con la tensione religiosa: e anche la ‘trasgressione’ del giocatore d’azzardo va intesa come qualcosa di puramente profano, un paradossale sacro-profano nettamente ‘separato’ dall’esperienza religiosa”.
Il gioco si sviluppa sostanzialmente in due modi: come ludus, in quanto propensione a superare una difficoltà, ad esercitare ragionamento, connessione, capacità di attesa e misura del da farsi, cimento con se stessi. Nella paidia invece vi è più sregolatezza, confusione, assenza di calcolo, abilità innovatrice e fantasia nell’azione, per cui ci si diverte maggiormente.
Come noto, sono quattro i momenti o le forme del gioco individuate da Caillois: agon, alea, mimicry e ilinx, ovvero competizione, sorte, maschera e vertigine. La competizione mette in gioco il sé, la sua padronanza, la fiducia nelle proprie potenzialità ed è fatta di corse, combattimenti, prove atletiche. Nella sorte c’è passività, affidamento al caso, dunque non si può pensare a qualcosa di affine allo sport. Nella maschera vi è un mimetismo che permette piacevolmente di uscire da se stessi, ma in modalità imitative non agonistiche. La vertigine infine è il fulcro del gioco, la sua realizzazione massima e si ritrova in forme sportive come lo sci e l’alpinismo.
In generale il gioco rimane libero, separato, incerto, improduttivo, regolato, fittizio (Caillois 1995: 26). Ma sono varie le combinazioni possibili: agon-alea, cioè competizione-caso; agon-mimicry, cioè competizione-imitazione; agon-ilinx, cioè competizione-vertigine; alea-mimicry, cioè caso-imitazione; alea-ilinx, cioè caso-vertigine; mimicry-ilinx, cioè imitazione-vertigine (Caillois 1995: 89).
Quanto la dimensione religiosa sia più volte concomitante con quella ludica è ripetutamente ribadito da Caillois (1995: 99): “nell’antichità , il ‘gioco del mondo’ è un labirinto all’interno del quale si spinge una pietra – cioè l’anima – verso l’uscita. Con l’avvento del Cristianesimo, il tracciato si allunga e si semplifica. Riproduce la pianta di una basilica: si tratta di far arrivare l’anima (di spingere il ciottolo) fino al Cielo, al Paradiso, alla Corona o alla Gloria, che coincide con l’altare maggiore della chiesa, schematicamente rappresentata sul terreno da un seguito di rettangoli”.
Sport, religione e società
In definitiva non si verifica alcuna soluzione di continuità, giacché in un modo o in un altro la sfida continua, sia essa regolata da arbitri e giudici sportivi, sia essa affrontata in assenza di regole con il solo obiettivo di creare il danno maggiore possibile all’avversario.
Tale opzione volta tendenzialmente al confronto come prassi ricorrente è diffusa ed anche teorizzata sociologicamente pure in favore di soluzioni guerreggiate. Il caso di sociologi della statura di Max Weber e Georg Simmel fautori, senza riserve, dell’intervento armato, in occasione della prima guerra mondiale, la dice lunga sulla pervasività della tendenza alla competitività, nel tentativo di affermare o riaffermare la superiorità propria o della propria nazione, in risposta al desiderio di stare al di sopra degli altri, di tutti gli altri (über alles).
Lo stesso Weber prende posizione e stigmatizza quanto avviene peraltro al di là dell’Atlantico: “Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport. Nessuno sa ancorachi, in futuro, abiterà in quella gabbia, se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezienuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri e ideali, o se invece avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata” (Weber 1988, 1, p. 204; 1976, pp. 321-322).
La specificità del rapporto fra religione e sport
Come mai la religione si connette specificamente allo sport? Quasi tutto ruota attorno all’esperienza del contatto, del confronto fra persone. Ovviamente tale incontro-scontro avviene anche quando l’altro è materialmente assente o almeno non è presente nel proprio raggio di azione. Nello sport individuale in effetti l’atleta è solo con se stesso: deve lanciare il disco o il peso o il giavellotto quanto più lontano possibile; i concorrenti non sono con lui in pedana ma la loro influenza è comunque in atto, per le misure da loro già raggiunte o che potranno conquistare in seguito. Nello sport di squadra invece l’avversario od anche il compagno sono attivi sul medesimo terreno di gioco, spesso a contatto di gomito od almeno a vista (come nella pallavolo o nel tennis). Qualcosa di simile si verifica nel percorso religioso, spirituale, dove il vissuto esperito può essere appunto individuale e/o collettivo: si prega da soli od insieme con altri, si compiono atti di devozione a casa, in privato, in solitudine, oppure in un tempio o in una piazza stando in compagnia di altre persone. Il che ricorda da vicino l’espressione anglofona che dice bowling alone and kicking in groups. In realtà si sta passando da abitudini domestiche a prassi comunitarie. Ciò ha luogo in networks religiosi (basti pensare all’associazionismo in tal senso rilevabile negli Stati Uniti come in Italia) e sportivi (sempre più si intrattengono relazioni al bar o in ufficio, a scuola o all’università, al ristorante o nei centri commerciali, intessute su temi legati al tifo per una squadra o per un campione. Non si tratta di legami fugaci e senza effetti: un’intera giornata o gran parte di essa può essere dedicata al gruppo di catechisti o di coristi di una parrocchia o alla frequentazioni di amici che hanno le stesse passioni agonistiche. Sono telefonate, incontri, momenti conviviali, frequentazioni comuni di locali e luoghi di divertimento, di cinema e discoteche, negozi e punti d’incontro abitudinari che diventano le scadenze fisse di un programma quotidiano che nutre di problematiche religiose o sportive od anche entrambe in connessione diretta od in successione di tempo nell’arco delle ventiquattr’ore. Il precipitato sociologico di tutto ciò è l’assuefazione alla vita di relazione, alle risorse organizzative, alle occasioni di incremento del proprio capitale sociale e culturale. Ne beneficia anche la cittadinanza politica perché gruppi solidali sono anche la base elettorale per candidati alla ricerca di consensi più ampi: non sono pochi i presidenti di società sportive che utilizzano la loro attività dirigenziale per farsi conoscere ed apprezzare e quindi poter contare sull’appoggio di associati e tifosi in occasione di future scadenze elettive amministrative.
Il denominazionalismo statunitense conosce successi di attrattività quasi senza sosta ma l’associazionismo sportivo non è da meno. Nell’uno come nell’altro caso prevale il kicking in groups, sebbene Putnam (2000) non sia dello stesso avviso. Comunque è innegabile il successo delle youth soccer leagues, delle organizzazioni no profit, degli organismi di massa con finalità specifiche.
Non è solo questo il punto di convergenza fra sport e religione. Vi è anche l’aspetto emozionale, esemplarmente codificato nella teoria delle emozioni di James-Lange (James 1884; Lange 1887). Le sensazioni che si possono provare in un culto o in un’orazione non sono di misura e significato particolarmente diversi da quanto si sente nel corso di una sfida sportiva o di una gara, quale che sia il numero dei partecipanti. Semmai una certa differenza può intercorrere fra il livello di coinvolgimento: di per sé quanti assistono ad una celebrazione religiosa sono anch’essi protagonisti e lo sono in prima battuta, a meno che la liturgia non preveda una gestione da parte di un unico leader o di una élite, senza dare alcuno spazio ai fedeli. Altrimenti la cerimonialità religiosa si presenta più direttamente partecipata, condivisa, più di quanto non lo sia un match di calcio con ventidue giocatori a correre e calciare e qualche decina o qualche migliaia di spettatori che nulla possono fare (o quasi) in merito all’andamento della disputa, né possono intervenire a colmare qualche carenza o a rafforzare un ambito, un settore: praticamente, tutto è affidato ai soli players, ai competitors in gioco. Detto in altri termini, l’interferenza o comunque l’interconnessione è ben più presente nel contesto religioso, dove il ruolo dei fedeli è ritenuto solitamente essenziale, mentre il pubblico di un incontro sportivo non appare indispensabile, tanto è vero che le gare possono svolgersi anche in assenza di spettatori. Ovviamente non va trascurato che nell’ambito di una celebrazione religiosa il feeling che intercorre fra chi celebra e chi assiste (o “con-celebra”) è più diretto, espressivo, condiviso“ sul campo”. Il supporto di una folla che incoraggia dagli spalti un giocatore od un intero team è certamente una forma di partecipazione ma non lo è in senso pieno. Se anche in alcuni campi di gioco non vi è separazione fisica totale fra chi gioca e chi assiste nondimeno le differenze funzionali ed operative persistono. Invece la balaustra posta dinanzi all’altare di una chiesa non segna sempre un limite invalicabile, giacché ha un carattere fittizio e semmai solo simbolico-figurativo, per designare la maggiore sacralità di uno spazio rispetto a quello contiguo ma in realtà non si nota né si evidenzia una soluzione di continuità. Il che legittima ancor più il “popolo di Dio” nell’esercizio delle sue funzioni anche liturgiche, come mostra il fatto che ormai, in ambito cattolico, l’accesso dei laici al presbiterio (cioè allo spazio immediatamente circostante l’altare) non costituisce più un problema od una violazione grave.
Anche le modalità della clausura monacale sono mutate sensibilmente per cui i non religiosi, i non claustrati, riescono più facilmente ad entrare in contatto con quanti sono clausurati. Qui poi è appena il caso di notare che a tale formula restrittiva della limitazione della libertà di uscita si fa ricorso in preparazione di una gara decisiva, di particolare rilevanza. Con tale soluzione si cerca di evitare distrazioni e tentazioni, esattamente come avviene in un ritiro spirituale propriamente detto. Fra l’altro l’esatta corrispondenza del termine sia se lo si applica ad un gruppo di laici o preti o religiosi oppure ad una équipe sportiva denota chiaramente una sovrapponibilità che non è meramente di nomenclatura linguistica ma che in concreto richiama modalità e contenuti che connotano una fase di ascesi, di astensione, di separatezza, di riflessione, di meditazione. Si potrebbe dire che un ritiro, religioso o sportivo, ha il carattere di una sorta di veglia d’armi, alla vigilia di una sfida decisiva, e ripropone il modello di una veglia di preghiera in attesa di un evento cruciale. Il timore di una sconfitta, di un esito tragico, produce ansia, genera incertezza, induce a riflessioni tremebonde per il proprio futuro, che resta imperscrutabile. Lo stesso dicasi e quando ci si interroga sul proprio destino post mortem, trovando risposta nell’escatologia confessionale, e quando si affronta un turning point definitivo, auspicando una buona riuscita della propria prestazione agonistica.
Un altro momento fondante che comprova il collegamento fra religione e sport è dato dalle ritualità festive, dalle ricorrenze settimanali (specialmente il sabato e la domenica), dalle festività in onore di divinità e santi, dalle celebrazioni para-liturgiche (processioni, pellegrinaggi, raduni, offerte votive, eccetera), manifestazioni che di prassi si accompagnano a tornei, campionati, partite per l’aggiudicazione di un trofeo o di un coppa, corse di vario genere, maratone, gare di tiro. Di norma i programmi che annunciano lo svolgimento di una festa tendono a distinguere fra parte religiosa e parte “civile”. In linea di massima quest’ultima concerne avvenimenti sportivi, oltre quelli musicali. Dunque dall’alto della gerarchia ecclesiastica si propende a discernere ciò che è più propriamente definibile come strettamente liturgico-ufficiale e ciò che non lo è, senonché la popolazione in generale presenta comportamenti che non operano una tale suddivisione ma tutto conglobano nell’unico contesto festivo. Anzi si dà il caso che in fondo la festa sia percepita come tale più per gli aspetti cosiddetti esteriori (iniziative sportive incluse, e talora prevalenti) che non per la sua dimensione specificamente spirituale, interna (volutamente contrapposta a quella esterna dei festeggiamenti non regolati direttamente dalle autorità ecclesiastiche).
Neppure va trascurato l’impegno diretto delle organizzazioni religiose in settori sportivi di particolare attrattiva. Anzi vi sono organismi e strutture di matrice religiosa appositamente dedicati allo sviluppo dell’attività sportiva, in chiave sia dilettantistica che professionale, sia promozionale che aziendalistica, sia a titolo gratuito che a pagamento. Non si è di fronte ad un fenomeno secondario. Esso è cresciuto sempre più nel tempo. Da qualche migliaio di aderenti alcuni decenni fa un ente italiano di propaganda sportiva e di diretta emanazione di un’associazione cattolica nazionale quale l’Azione Cattolica Italiana conta oggi oltre un milione di atleti regolarmente iscritti ed operanti in tutte le regioni e province italiane. Infatti il Centro Sortivo Italiano, nato nel 1944, si ricollega alla Fasci (Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche) nata nel 1906, poi sciolta dal governo fascista nel 1927.
Naturalmente non sono mancati utilizzi strumentali, orientati a finalità religiose, di figure esemplari dello sport. Ciò è avvenuto, per esempio, nel caso del ciclista Gino Bartali, additato come campione cattolico per eccellenza, a partire dalla fine degli anni Quaranta del secolo scorso.
Più volte anche i papi hanno avuto modo di intervenire per parlare di sport.
Conclusione
Il legame fra sport e religione è talmente stretto, quasi inestricabile, tanto che anche in condizioni imprevedibili esso continua a riaffacciarsi, magari sotto mentite spoglie, come nel caso di una sinagoga trasformata in uno shop dedicato ad una squadra di baseball: ne hanno parlato il New York Times, il New Yorker ed altri giornali. La cassa del negozio è collocata nello stesso posto in cui il rabbino teneva le sue prediche o leggeva la Torah. Il tempio, fondato al principio del secolo scorso, negli anni Sessanta apparteneva ai “Figli d’Israele”, un gruppo di ebrei ortodossi, che in un paio di decenni, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, si sono ridotti di molto. Dopo un breve tentativo di rinascita attraverso un’altra congregazione, si è posto fine all’uso religioso del luogo: nel 1991 la sinagoga ha chiuso i suoi battenti. Di recente, però, Andrew Berlin, di fede ebraica ma di scarsa pratica, ha comprato l’edificio per restauralo e farne lo store ufficiale della sua squadra di baseball, che gioca nel Coveleski Stadium, nei pressi della sinagoga, ora divenuta un punto commerciale. Singolari sono poi gli adattamenti apportati dal nuovo proprietario che laddove si custodiva l’arca con la Torah ha fatto disegnare animali in procinto di entrare nell’arca di Noè, accompagnati dalla scritta: “sospesa per pioggia”. Oltre la Bibbia, anche la Cappella Sistina ha ispirato una scritta, cioè: “Play ball”, che è la frase d’inizio di un match di baseball, aggiunta ad un’immagine di Dio che offre ad Adamo la palla in un guantone.
In definitiva il rabbino non c’è più ma quell’edificio ancora parla del sacro, in evidente e reiterato connubio con lo sport. La sinagoga è ancora là a South William Street, nella cittadina di South Bend, nello stato dell’Indiana. Anche il nome della squadra è cambiato: dapprima South Bend White Sox, poi Silver Hawks, infine Arizona Diamondsbacks. Quel che non è cambiato nel frattempo è il vecchio lampadario, che ancor oggi illumina la sinagoga, segno di continuità fra il passato ed il presente ma anche fra la religione e lo sport.
Il calciatore brasiliano Jorginho ha fondato a Monaco una chiesa neo-pentecostale appartenente alla nota Chiesa Universale del Regno di Dio ed ha diffuso l’evangelismo nella Bundesliga, sotto forma di gruppi di preghiera, di cui si ritrovano esempi anche altrove, in Spagna per esempio presso la squadra del Celta de Vigo (Rial 2012). Qualche giocatore sta pensando di fare il pastore una volta conclusa la sua carriera. Questo è il caso del brasiliano Müller ma pure Kakà sembra della medesima idea. Del resto molti calciatori brasiliani che giocano all’estero seguono la rete televisiva Record espressione della Chiesa Universale del Regno di Dio. Nonostante le proibizioni della FIFA sono molte le modalità di “propaganda” religiosa possibili. Ricorrenti sono le immagini di atleti brasiliani che riuniti a cerchio elevano preghiere. Per non parlare di coloro che indossano una maglietta con la scritta “I belong to Jesus”, per conclamare la loro fede religiosa. Nel 2009 la squadra brasiliana – ricorda ancora Rial (2012) – ha deciso di avere un capitano religiosamente e moralmente affidabile come Lúcio. Dal 2006 al 2010, quando l’allenatore della nazionale brasiliana è stato Dunga il neo-pentecostalismo ha giocato un ruolo centrale nella vita quotidiana degli atleti. Rial qualifica tutto ciò come “religiosità banale”, che ha un carattere affine al “nazionalismo banale” di Billig (1995: 11): “there is a distinction between the flag waved by Serbian ethnic cleansers and that hanging unobtrusively outside the U.S. post office”. Il nazionalismo banale riguarda gli orientamenti e le abitudini a carattere ideologico che si riproducono quotidianamente negli atteggiamenti e nei comportamenti dei cittadini di un’intera nazione. Sono anche i mezzi di comunicazione a ribadire continuamente agli individui sociali la loro appartenenza nazionale: “they can be seen as banal rehearsals for the extraordinary time of crises, when the state calls upon citizenry, and especially its male citizenry, to make ultimate sacrifices in the cause of nationhood”.
Cattolicesimo popolare e culti afro-brasiliani sono comunque ancora presenti nell’ambito dello sport brasiliano in particolare. Sono vari i gesti a contenuto religioso-simbolico che fanno seguito alla realizzazione di un gol (per esempio levare le mani verso il cielo e/o inginocchiarsi). Giocatori piuttosto ricchi hanno aderito alla cosiddetta “teologia della prosperità”, rigettata invece da altri, più propensi a sostenere un’idea di “Atleti di Cristo”, secondo un’espressione tipica di quanti sono abbastanza vicini alla chiesa battista.
Del resto non va dimenticato che la dizione “muscular Christianity” era già stata coniata in lingua inglese nel 1857 in un romanzo di Charles Kingsley e nel 1858 in un romanzo di Thomas Hughes per raccontare quanto avveniva nella scuola di Rugby (ancora una volta torna in campo il riferimento a questa città, sportiva anche nel nome ed eponima dell’omonima disciplina sportiva giacché vi nacque proprio il rugby ad opera di William Webb Ellis nel 1828). Il cristianesimo muscolare ben si addiceva al rugby ed era propugnato in chiave anti-ascetica ed anti-femminile, specialmente in ambito anglicano. Hughes e Kingsley diffusero tale idea di muscolarità anche negli Stati Uniti. Invero il protestantesimo non era stato molto favorevole allo sport, molto presente invece nel mondo cattolico.
Nel Nordamerica come nell’America Latina un modello diffuso anche fra gli sportivi è il gruppo biblico, che si riunisce per leggere e spiegare i testi sacri. Significativo è poi il fatto che la squadra statunitense di golf sia composta da vari appartenenti a chiese evangeliche. E molto fa capo al capitano Corey Pavin, cristiano di origine ebraica. I membri dell’équipe seguono fra l’altro corsi biblici, utili anche alla lotta contro l’alcolismo. Lo fanno anche grandi golfisti come Stewart Cink, Zach Johnson, Rickie Fowler, Bubba Watson e Matt Kuchar.
In Italia la squadra di rugby del Benetton Treviso è diretta da Franco Smith, un praticante cattolico che invita i suoi giocatori a pregare prima di ogni partita, proprio come avviene altrove, in Sudafrica per i rugbisti dei Bulls e dei Cheetahs. In Brasile alcune squadre di calcio ed altri sport partecipano a veri e propri riti religiosi di tipo propiziatorio. Ed in generale non mancano allenatori, dirigenti, giudici di gara, arbitri, tecnici a vario titolo, assistenti medici, massaggiatori ed altri operatori sportivi che invocano una o più divinità prima di dare inizio ad una competizione, indipendentemente dalla sua importanza per la classifica, per la vittoria del campionamento, per il superamento di una procedura selettiva. Quel che maggiormente appare significativo è anche il dato empiricamente rilevabile per cui anche in assenza di risultati positivi il ricorso alla pratica religiosa pre-gara continua senza alcuna interruzione (o quasi). Va detto che anche sul piano psicologico la preghiera o l’invocazione a carattere spirituale svolge la funzione di una terapia anti-ansia. D’altro canto l’orazione in comune è un elemento tipicamente solidaristico, che rafforza la coesione, il senso di appartenenza, lo spirito cooperativo, la capacità di affrontare crisi e disfatte, come già esemplarmente indicava Émile Durkheim (1912) nel parlare della danza della pioggia attorno al totem in periodi di siccità. Evidentemente il rito coreutico non produceva l’evento pluviale ma almeno aiutava il gruppo, la comunità, a sopportare meglio, insieme, le difficoltà del momento.
Ormai in molti studiosi di scienze sociali è largamente presente l’idea che il nesso tra sport e religione sia molto stretto (Higgs 1995, Putney 2001, Baker 2007, Hoffman 2010). Pure nella cultura religiosa islamica si rilevano interessanti orientamenti teologici ed operativi che concernono la realtà sportiva (Amara 2008).
Ancora Rial (2012) fornisce esempi significativi dell’influenza religiosa rintracciabile soprattutto nel calcio. Sovente i campi di football sono usati per manifestazioni religiose(lo fa anche il papa cattolico). Inoltre alcuni riti del calcio ripercorrono da vicino i modelli delle celebrazioni liturgiche con le loro gerarchie prestabilite e fisse, i gesti ripetitivi e ieratici, le invocazioni e le imprecazioni-giaculatorie, gli orari ed i calendari, i linguaggi e le abitudini, gli esorcismi e le formule apotropaiche per allontanare le influenze maligne.
Negli spogliatoi ci si concentra e si medita prima di una gara, in un contesto ambientale che non di rado è costellato di immagini sacre, santini, scritte bibliche ed altro ancora. Rial (2012) pensa che il campo stesso di gioco sia l’equivalente di un altare, ma forse il luogo più sacro è quello della porta, con la sua rete che va ben difesa e protetta come un sancta sanctorum inaccessibile.
Certamente però lo stadio ha il profilo spaziale di un tempio, come luogo tendenzialmente chiuso e privilegiato: il sogno di molti appassionati è quello di potere calpestare il sacro suolo di un impianto sportivo o persino di acquistarne zolle di terra da portare a casa come amuleto-ricordo. Altri vanno ben oltre: chiedono che le loro ceneri siano depositate presso lo stadio del loro club preferito.
Per non parlare del divismo accentuato che arriva a considerare divinità alcuni grandi protagonisti della scena sportiva: quando si grida a squarciagola il nome di Messi il pensiero non può non andare al quasi omofono lemma di “messia”. Qualcosa di simile si ritrova nel caso di Maradona: resta nota l’espressione di “mano di Dio” a proposito di un celebre e decisivo gol da lui segnato con la mano; peraltro il suo numero di maglia, dieci, diez in spagnolo, risuona quasi come il termine dios, per cui l’associazione con la divinità è quasi automatica; per di più, quasi a riprova di tutto ciò, nel 1998 è stata anche fondata una “Chiesa Maradonista”.
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