LA DINAMICA DELLA SOCIALIZZAZIONE ED ALFABETIZZAZIONE RELIGIOSA
di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)
Premessa
Il passaggio di contenuti ideali, norme e valori dall’una all’altra generazione di una medesima società assume il carattere di un processo ereditario che non ha luogo con il decesso dei predecessori ma che avviene molto prima, nel corso di anni e di decenni, molto lentamente, momento per momento, step by step, senza salti vistosi e/o imprevisti. In termini metaforici si potrebbe dire che si tratta piuttosto di una distillazione graduale, dai tempi lunghissimi, per cui il travaso non è immediato ma piuttosto soft e peraltro quasi impercettibile, come l’acqua che goccia dopo goccia scava anche la roccia più resistente. Questa transizione ha inoltre un connotato tipico, quello di essere globale, non parcellizzata, sistemica si direbbe per la sua organicità e completezza, almeno tendenzialmente. I genitori fanno giungere ai loro figli quello che era stato trasmesso ed insegnato da coloro che per i destinatari sono nonni e nonne, che hanno generato gli inculturatori-educatori contemporanei. La linea di discendenza non riguarda solo il DNA ma pure qualcosa di più direttamente verificabile, persino attraverso l’abbigliamento di una prole che specialmente nei primi anni di vita non solo è materialmente rivestita dagli adulti di riferimento domestico ma ne segue le tracce quasi in ogni dettaglio: quante figlie sono vestite come le loro madri e quanti figli imitano i loro padri? Questa co-formazione, che rende conformi ed omogenei gli abiti mentali e tessili, le posture corporee ed i gesti, le espressioni verbali ed i toni di voce, non mette fra parentesi la religione, che anzi ne rappresenta sovente una chiave di volta: la credenza e la pratica religiosa degli adulti trascinano quasi in modo inerziale quelle dei minori.
L’impatto con l’eredità culturale dei maggiori di età è solitamente dapprima morbido, sinuoso quasi, ma a mano a mano che l’età dei più giovani procede avanza altresì lo spirito critico, che si interroga sul senso del tutto. Successivamente si può anche registrare un distacco dal modello attitudinale e comportamentale appreso e nondimeno permane una sua traccia, magari carsica, inespressa e però non esaurita. La tracimazione dei valori ereditati può aver luogo in seguito, nelle occasioni meno prevedibili od in quelle più problematiche, che mettono in gioco il valore della vita, il significato dell’esistere.
Difficilmente il lascito valoriale avviene in forma parziale, per segmenti separati. Insomma il set dei valori non si frammenta in miriadi di eventi e di interventi ma procede con una sua compattezza di fondo. Ogni valore dunque non è un “legato” a se stante, limitato al suo contenuto specifico. Vi è da pensare piuttosto ad una sorta di bagaglio più ampio, capace di contenere principi plurimi, idee-guida articolate, molteplici indirizzi mirati. Appunto l’interconnessione fra i valori appare come una soluzione efficace, in quanto è in grado di orientare in modo tendenzialmente uniforme l’agire dell’individuo sociale.
Ovviamente con il trascorrere del tempo si aprono nuove possibilità di scelta e di operatività, per cui il soggetto accantona taluni elementi e ne valorizza altri, lungo il suo percorso esistenziale. Raramente un’eredità ricevuta permane poi identica a se stessa, senza subire decrementi o incrementi. Del resto un’eredità non sempre è riproposta nella sua interezza, conservando ogni suo dettaglio intatto. Ma intanto essa tende, in un dato contesto culturale, a riprodurre le medesime propensioni del passato, le stesse tradizioni di un tempo, in fondo i medesimi valori essenziali. La sua compattezza globale è altresì una garanzia di maggiore tenuta rispetto ad altre operazioni più frammentate.
La successione nell’eredità non comporta solo il far transitare principi ispiratori e schemi di comportamento ma anche un passaggio delle consegne per l’esercizio del ruolo di inculturatore-educatore-formatore. Pertanto la trasmissione del testimone-bastoncino di un’ipotetica staffetta della vita segna sia l’affidamento di un insieme di idee e valori sia l’attribuzione di un ruolo di responsabilità che concerne il futuro delle generazioni successive. Nella plurisecolare sequenza del patrimonio culturale che passa di mano in mano è implicito di fatto il dovere più che il diritto di assicurare la continuità di una base comune di riferimento a copertura delle necessità di identificazione e di solidarietà – in questo, Durkheim (1912) aveva colto nel segno –.
A ben pensarci, ogni eredità valoriale traina con sé stili e volti del passato, da cui trae forza di validità. Ma ad ogni mutamento di generazione si registra un effetto-valanga che raccoglie e trasporta quanto incontra sul suo percorso sino ad offrire a valle un patrimonio ben più cospicuo ed anche più vario di quello che invece aveva con sé a monte. Si pensi all’esempio delle case-museo (Besana 2007) di tante famiglie che hanno messo insieme cimeli e ricordi del loro lignaggio e della loro stessa appartenenza religiosa (foto di antenati, opere d’arte, immagini sacre): sono tanti messaggi che comunicano l’esistenza di un capitale culturale pregevole e versatile, degno di essere conservato non solo a futura memoria ma soprattutto a futura inculturazione-educazione-formazione.
Educazione e socializzazione
I contenuti religiosi hanno pure il carattere di un’eredità giacente, non ancora raccolta da chi ne ha diritto o possibilità di accesso. Questo avviene fra l’altro nel caso di un fenomeno che nel passato la sociologia della religione considerava un indice di bassa religiosità: la dilazione dei battesimi (Burgalassi 1967) nell’ambito del cattolicesimo, rilevabile specialmente in zone in cui era particolarmente presente l’ateismo o più genericamente l’indifferenza religiosa. Oggi il mancato battesimo subito dopo la nascita risponde a ragioni le più diverse ed ora più cospicue che non nel passato: differenza di matrice religiosa fra i genitori, maggiore spirito critico, minor attaccamento alla tradizione, indebolimento del controllo sociale sui comportamenti, atteggiamento più problematico nei riguardi di una scelta religiosa ritenuta prematura ed inconsapevole da parte del neonato quale diretto interessato.
Intanto però il rinvio del battesimo indebolisce l’influenza del patrimonio accumulato in precedenza, che in quanto capitale non investito tende a perdere valore ed efficacia. Per di più ciò avviene in una fase, quella dell’inculturazione, in cui si gettano le basi per la costruzione della personalità e per la stessa costruzione sociale della realtà, cioè per la visione del mondo che il soggetto sociale avrà in età di ragione, secondo la prospettiva classica di Berger e Luckmann (1966).
L’inculturazione che i genitori promuovono presso la loro discendenza si basa sul retaggio di doti etiche, tradizioni, principi, valori, idee, elementi spirituali, che di fatto pongono le premesse per quello che sarà in seguito l’individuo investito dal processo educativo, cioè da un approccio intenzionale dei suoi adulti più cari e più vicini, orientati ad inserirlo nella società e quindi a fargli affrontare il percorso della socializzazione interpersonale al di fuori dell’ambito familiare e segnatamente presso i coetanei, come pure presso altri adulti che abbiano ruoli educativi (a scuola, nel tempo libero, nelle pratiche religiose, nelle esperienze di comunicazione sempre più globalizzata).
Il succedersi di operazioni di inculturazione non conosce soluzione di continuità, neppure nel caso in cui i genitori, supposti educatori, rinuncino volutamente ed esplicitamente ad esercitare il loro ruolo-compito di trasmettitori dell’eredità culturale, ivi compresa o meno quella religiosa. Invero neanche nel caso di una decisa volontà volta a non trasmettere alcun contenuto di idee, cioè ideologico nel senso neutro del termine, si può ritenere che non vi sia alcuna forma di inculturazione, in quanto la stessa assenza di un messaggio è comunque una forma di comunicazione, che segnala la non rilevanza di talune modalità esperite da altri e propone percorsi alternativi non privi peraltro di contenuti valoriali o ideologici in senso lato. Detto altrimenti vi è sempre un contenuto che passa, che viene emesso perché pervenga al destinatario, ovvero l’infante, il pre-adolescente, l’adolescente, il giovane.
A fronte dell’esperienza della morte, che anche i minori si trovano a dover vivere, una qualche spiegazione appare dovuta: nel senso di indicare l’evento ultimo di una vita come termine di ogni tracciato personale e senza alcuna possibilità di prosieguo oppure nel senso di far intravedere un possibile prolungamento di natura metafisica, dunque fornendo ragioni e supporti di natura religiosa. A questo proposito vale la pena di considerare che il poeta Eugenio Montale, premio Nobel nel 1975, ha detto: “in pratica – per eredità – sono cristiano e non so sottrarmi alla idea che qualcosa di noi può o addirittura deve durare”.
Né va dimenticato, in chiave sociologica, l’impatto di interculturazione-educazione-formazione che rappresentano l’eredità maggiore di una religione: l’insieme di tutti i suoi fedeli, praticanti, frequentanti saltuari, appartenenti senza essere del tutto credenti o credenti che dicono di non appartenere ad alcuna religione (Davie 1994).
Orbene l’eredità patrimoniale culturale eventualmente trasmessa alla propria discendenza è essa stessa soggetta ad interagire a sua volta, giacché il tipo di educazione messo in opera dagli adulti si confronta poi con il carattere del minore, con la sua capacità di reazione e di rivisitazione dei valori ricevuti. In ogni caso non è da trascurare, infine, il dato di fatto costituito dalla dimestichezza e dalla domesticità delle relazioni interpersonali esperite soprattutto nei primi anni di vita allorquando chi è destinato a ricevere un certo patrimonio ne diventa partecipe sin dall’inizio e quasi sempre vi si immedesima, vi si identifica.
La persistenza della religione
La capacità di resilienza, ovvero di resistenza alle crisi, è solitamente maggiore nelle religioni con più numerose adesioni, ma un’accurata gestione dei periodi difficili permette anche ai gruppi religiosi cosiddetti minori (quantitativamente) di riuscire egualmente a superare i momenti di difficoltà, sconforto, angoscia e sofferenza. Specialmente nelle religioni a carattere piuttosto locale, senza una particolare diffusione a livello mondiale, gli andamenti possono essere imprevedibili: magari esse restano allo stato iniziale (per numero di adepti) abbastanza a lungo, salvo registrare poi crescite subitanee e numericamente esponenziali, in coincidenza con qualche evento straordinario o con l’azione significativamente influente di un particolare leader e del movimento da lui creato. Nel caso delle cosiddette nuove religioni, l’andamento di un’eventuale vicenda giudiziaria, magari amplificata dai mezzi di comunicazione di massa, può ingenerare sospetti ed interrompere un flusso già cospicuo di adesioni. D’altro canto, l’esito non negativo dell’azione civile e penale nei riguardi di un’espressione religiosa può riaccendere lo spirito del proselitismo, far guadagnare nuovi membri, ormai non più indotti a nutrire dubbi sull’affidabilità di un’offerta religiosa. Nello scenario storico a più lunga gittata religioni un tempo prevalenti in un dato contesto sono state poi ridotte ad entità appena accertabili sociologicamente. In altri casi si sono verificati sviluppi imprevedibili, con aumento della capacità di influenza e di diffusione. Non è possibile individuarne in generale le ragioni, che vanno invece reperite caso per caso.
Sta di fatto che, in aumento o in crescita che siano le appartenenze religiose, quasi viene da pensare ad un sistema di vasi comunicanti, per cui agli incrementi dell’una corrisponderebbero dei cali dell’altra religione, come se il quantitativo complessivo dei soggetti religiosamente orientati non dovesse cambiare di molto nel suo insieme, ma solo variare distributivamente all’interno delle specifiche connessioni con ciascuna delle religioni. Non è da sottovalutare il dato, abbastanza costante (quali che siano la latitudine e la longitudine) secondo cui qualche forma religiosa – durkheimianamente intesa (Durkheim 1912) od anche secondo altre prospettive – è comunque rintracciabile quasi ovunque. Non si vuole con questo sostenere l’ineluttabilità del sentire religioso ma solo segnalare un elemento sociologico ricorrente, che però non ha molte possibilità di confronto con altri caratteri del vissuto sociale, non altrettanto diffusi. Va nondimeno sfatato il presunto universalismo della religione, cioè l’idea che essa sia un dato scontato in ogni realtà sociale. Ormai si sa per certo che esistono anche popolazioni prive del tutto di riferimenti a carattere religioso di tipo tradizionale e che perciò non sono catalogabili come contraddistinte da una esperienza religiosa concreta. Posta la questione in questi termini, c’è da chiedersi che cosa renda una religione tale e quali ne siano i caratteri sociologici. Va subito chiarito che il riferimento alla trascendenza, al soprannaturale, all’esistenza di qualcosa prima della nascita e dopo la morte, non è una condizione assolutamente necessaria, sociologicamente, per qualificare una fenomenologia come religiosa. E non è neppure detto che una religione debba contemplare sia credenze che riti: essa può essere accompagnata dalle prime ma non anche dai secondi o viceversa. Se poi è anche accertabile che il rinvio ad una divinità, ad un essere avente natura diversa da quella umana, è caratteristica rintracciabile nelle cosiddette religioni universali, non è tuttavia indispensabile parlare di un dio per poter definire religioso un vissuto o un atteggiamento. In effetti ci possono essere attitudini ed azioni che hanno un contenuto religioso senza per questo doversi sottintendere l’esistenza di un essere superiore verso cui rivolgere attenzioni devote, omaggi cultuali, riconoscimenti di superiorità od altro ancora (affine a tutto ciò).
I contenuti religiosi
I contenuti della religione possono dunque rifarsi ai significati dell’esistenza, alle esperienze di influenza decisiva da parte dei valori nell’orientamento della azioni. Insomma si può registrare e considerare come religione anche quanto non rientra in nessun canone confessionale delle religioni storiche riconosciute. Ma, per evitare ampliamenti indebiti ed ingiustificati, conviene ribadire che almeno la presenza dei valori deve avere un grado così rilevante da assumere connotazioni preminenti e costitutive del modo di pensare e di agire. A tal riguardo è opportuno tracciare una linea di demarcazione, rispetto ad altre proposte in merito, avanzate da autori come Thomas Luckmann (1967) per esempio. Qui, nel nostro caso, non si tratta di individuare temi religiosi moderni (individualismo, familismo, tempo libero, ecc.) o sostituti funzionali della religione ma modi di vedere la realtà (con comportamenti conseguenti) che abbiano la forza di portare il soggetto sociale a scegliere fra più opzioni possibili, sulla base di considerazioni-guida che dunque costituiscono la base dell’azione individuale e sociale. Questa ottica aconfessionale consente di indagare esperienze sia storiche che innovative, sia già riconosciute a livello di comune sentire sia da includere ex novo nell’ambito della fenomenologia religiosa di interesse sociologico.
Si lascia così il solco tracciato dalle religioni ufficialmente riconosciute e non si affronta ex cathedra (magari universitaria) il problema della distinzione fra religione e non religione (di cui sovente ha pagato lo scotto il buddismo, classificato semmai come una filosofia e non come una vera e propria religione, sociologicamente intesa). Si addiviene dunque ad una diversa impostazione, che non esclude a priori una qualunque forma che possa presentare appena qualche elemento di natura religiosa. Sovente, nel passato, è prevalso, anche fra i sociologi più avvertiti, l’idea di una sorta di definizione ufficiale di religione, data per scontata nella misura in cui rientrava nei canoni delle forme religiose storicamente legittimate dalle stesse chiese, dalle denominazioni, dalle sette, dai movimenti, dalle comunità, insomma dai sodalizi già autoproclamatisi come religiosi.
Non appare peraltro indispensabile stabilire in anticipo come debba essere una religione. Si può anche partire da una semplice “sensibilità teorica” nei confronti delle modalità religiose, per poi passare alla raccolta ed all’analisi dei dati, cui applicare infine alcuni “concetti sensibilizzanti” derivanti dai dati medesimi. Insomma un approccio alla maniera della Grounded Theory (Glaser, Strauss 1967), rivisitata e modificata, può tornare molto utile per uscire dalle pastoie di una sociologia della religione pre-definita, pre-ordinata, pre-orientata.
Non si tratta di affidarsi ad una generica cogenza dei risultati della ricerca quanto piuttosto di evitare schematizzazioni pre-concette, etichettamenti infondati, prese di posizione ingenue ed inconsapevoli.
La sociologia della religione
In fondo, la sociologia non è nata come disciplina di conforto per le istituzioni e la sociologia della religione in particolare non lavora per conservare un titolo di spesa a suo nome nel libro-paga delle chiese e delle congregazioni religiose. Essa è e resta un’analisi critica e perciò non succube, non protesa alla difesa dello statu quo. Anzi il suo atteggiamento critico è da considerare tale a trecentosessanta gradi, in chiave di riflessività sul proprio passato e sul proprio ruolo attuale. L’indagine sociologica non può essere al servizio se non della scienza, ovviamente non in chiave scientista fine a se stessa, ma con un impegno metodologico corretto sul piano procedurale e disincantato rispetto alle sirene delle istituzioni e del facile consenso (Bourdieu 1987). Specialmente in un campo come quello religioso, la deontologia professionale è chiamata in causa per offrire il meglio di sé, senza correre a dare man forte nello spingere il carro di un vincitore momentaneo e neppure quello trionfale di un potere che esula dall’ambito religioso per colonizzare altri territori.
Ma intanto l’azione più efficace delle religioni e delle chiese è già avvenuta, nel passato più remoto ed in quello più recente, creando e favorendo le condizioni di un’adesione non trascurabile in termini di cifre, visto che miliardi di persone nel mondo si riconoscono fedeli di una religione. Il tasso dei praticanti è in genere molto più basso di quello dei credenti, degli affiliati, dei simpatizzanti. Questo, però, non significa che l’influenza complessiva di un particolare punto di vista religioso perda vigore in modo corrispondente al divario numerico fra i partecipanti al rito ed il resto degli appartenenti più o meno solidali.
La soluzione operativa che rende più redditizia l’azione delle chiese e dei gruppi religiosi è quella di intervenire nei primi anni di vita ed in genere nei primi tre lustri (fino ai quindici anni) dell’esistenza, cioè in un periodo formativo di primaria rilevanza, durante il quale si decidono molte sorti di un soggetto.
La socializzazione
Dal tipo di educazione-socializzazione-formazione ricevuta dipende il futuro di un individuo ancora in crescita, grosso modo appunto fino ai 15-16 anni di età. Durante questi anni, si pongono le basi che saranno a fondamento dell’agency di una persona che entra a far parte di una società. Ovviamente è di importanza strategica l’opera socializzatrice degli adulti-genitori nei riguardi della propria prole. Ma anche altri sono gli operatori partecipi: insegnanti e varie figure educative (a carattere religioso e non), amici e gruppi di amici di pari età, educatori professionali a diverso titolo (animatori culturali, figure laiche e religiose, dirigenti associativi, responsabili di gruppi e movimenti, educatori comunitari ed altri ancora).
Tutti costoro, in forma congiunta ma anche separata, predispongono il percorso che poi l’adolescente dovrà affrontare da solo.
In diversi casi, avviene durante questa fase la diffusione di una religione che è di fatto prevalente nel contesto di riferimento, ampio o ristretto che sia. Mette quindi radici la religione diffusa, che trae origine dalla famiglia di nascita (di appartenenza) e prosegue poi con la famiglia successiva (di procreazione). Da una generazione all’altra il verbo religioso transita quasi senza interruzione, salvo modifiche personali dovute all’uno od all’altro genitore, a questo o quell’educatore.
Difficilmente, senza questa fase iniziale di trasmissione dei contenuti religiosi, potrebbero successivamente inserirsi gli specialisti della catechesi e della formazione religiosa. I semi della prima socializzazione religiosa danno frutti immediati con l’iniziazione religiosa dei giovani e con la loro partecipazione alla vita religiosa pubblica. In seguito può notarsi un ulteriore approfondimento dei parametri religiosi di riferimento oppure un parziale distacco, con prese di posizione più o meno accentuate. Tuttavia sarà ben più tardi che i valori diffusi in ambito familiare ed extra-familiare cominceranno ad operare, rappresentando il discrimine fra un’azione ed un’altra, fra una scelta e quella alternativa, fra un atto virtuoso ed uno in senso contrario.
I valori religiosi
La religione diffusa odierna non è molto diversa da quella del passato. Anzi proprio la sua persistenza ne costituisce una caratteristica peculiare, quasi strutturale alla maniera in cui l’avrebbe potuta intendere Claude Lévi-Strauss, cioè come uno zoccolo duro non facilmente scalfibile dal tempo, sebbene soggetta comunque a delle variazioni, sia pure non facilmente percettibili. Se qualcosa è cambiato ciò è avvenuto a livello secondario, in aspetti di dettaglio e non di sostanza. Dunque la religione diffusa continua ad essere il risultato di una vasta azione di socializzazione religiosa che pervade anche tuttora la realtà culturale e non solo. Come spiegare altrimenti la tenuta massmediatica di un personaggio come papa Giovanni Paolo II – nonostante gli ultimi anni di malattia – fino alla sua morte e ben oltre?
Il carattere pervasivo della religione resta perché nasce comunque dalla stessa religione, è intriso fortemente di connotati religiosi. Lo stesso ateismo, per esempio all’interno di un paese cattolico, non è sempre e comunque un fenomeno anticattolico, come del resto esso non è antireligioso neppure negli altri contesti in cui una religione è dominante e diventa diffusa, come nel caso dell’islam o dell’induismo, dello scintoismo o del buddismo.
Solitamente poi l’appartenente alla religione diffusa è poco praticante e scarsamente attento agli insegnamenti direttamente legati a conseguenze pratiche immediate più che ad orientamenti di ordine generale.
Un discorso a parte andrebbe fatto per l’insieme dei valori di riferimento, ovvero per l’etica di tipo protestante, che in linea di massima non sembra avere caratteri di universalità o comunque di dominanza comparabili con quelli del cattolicesimo. D’altra parte i valori diffusi più o meno legati al protestantesimo non sempre sembrano attinenti alla dimensione dell’impegno forte in campo lavorativo. Anzi si potrebbe piuttosto sostenere il contrario. Per questo l’etica protestante non è la matrice per eccellenza del capitalismo, che peraltro si espande e si radica ben al di là dei contesti territoriali tipicamente contraddistinti dalla presenza protestante, come mostra chiaramente il fenomeno di taluni nuovi ricchi.
Inoltre la presenza del riferimento alla religione, rintracciabile nei discorsi dei politici è la riprova dell’esistenza di una particolare caratteristica allo stesso tempo emotiva e persuasiva della religione diffusa, il cui peso non sfugge certo a quanti sono alla ricerca di leve potenti per accrescere il loro consenso politico-elettorale. Va tuttavia precisato che per esempio tra la religione civile (non civic) statunitense e quella diffusa italiana non c’è alcun rapporto diretto, nemmeno in termini metaforici. Quanto spiega Robert Bellah (1970) basandosi sui concetti di “esodo”, “popolo eletto”, “terra promessa”, “nuova Gerusalemme”, “morte sacrificale” e “resurrezione”, in riferimento alla presunta eredità nazionale e culturale del popolo degli Stati Uniti d’America, non risulta applicabile altrove, meno che mai in Italia ed in Europa, dove le vicende storiche sono molto diverse, hanno cronologie ben differenziate, i contenuti trasmessi di generazione in generazione non presentano specifici rinvii ad una trasmigrazione o ad una predilezione divina della nazione o ad una palingenesi dopo la distruzione della “vecchia Gerusalemme” o dopo la scelta del sacrificio supremo in vista della rinascita e del rinnovamento. Sono scenari, questi, che appaiono estranei al patrimonio culturale italiano e che in ogni caso non sono prevalenti. Il che significa che alla fine dei conti e delle comparazioni si deve pur constatare ed ammettere che esistono modalità plurime di inculturazione, ovvero di trasmissione di valori da una generazione all’altra e dunque di lascito patrimoniale riguardante una religione già diffusa nel passato, ancora operante nel presente e destinata in qualche modo a protrarsi nel futuro.
L’attrattiva religiosa
D’altra parte va tenuto presente che la religione diffusa può essere soggetta a strumentalizzazioni facili giacché il richiamo a valori religiosi ha sempre un suo fascino, un suo appeal. Più che di termini biblici o contenuti in altri testi sacri, i politici fanno uso di richiami semplici, usuali, soprattutto legati ad alcuni personaggi popolari, ben noti alle masse orientate dalla religione diffusa vigente nel loro contesto: Padre Pio come il papa, una Madonna protettrice di un luogo o un santo ritenuto grande taumaturgo, un santone o un guru, un ayatollah o un profeta, un leader carismatico o un marabutto, un rabbino o un imām, uno sciamano o un bonzo.
Del resto non è facile distinguere fra religione diffusa e religione dei valori: la prima è inclusa nella seconda, che abbraccia un più largo settore della popolazione caratterizzata da diversi livelli di credenza. In effetti la religione diffusa in senso stretto riguarda una categoria di persone che non fanno della religione la ragione principale della loro esistenza, il fulcro del loro agire e nondimeno si richiamano ai contenuti valoriali della religione in occasione di decisioni importanti, di scelte cruciali che coinvolgono appunto i livelli più rilevanti in chiave etica.
Invece la “religione dei valori” interessa un arco più ampio di atteggiamenti e comportamenti, che possono essere più o meno corrivi con il cosiddetto modello ufficiale della religione di appartenenza e/o di riferimento. Così nella religione dei valori rientrano modalità ortodosse, cioè osservanti, di religione, nonché forme più critiche e persino divergenti se non proprio distanti dal credo e dal rito ufficiale. Ma l’effetto diffusivo della religione nel suo complesso non si esaurisce nel suo medesimo ambito. Essa riesce ad influenzare pure quelle aree di pensiero e di azione che esulano dal suo orientamento più tipico ed anzi ne prendono le distanze: si tratta di quei contesti in cui si rintraccia una dimensione morale che sebbene non allineata con quella della religione preminente nondimeno ne conserva qualche traccia, almeno come afflato etico universale, cui non è detto che sia del tutto estraneo un precedente impatto con i valori religiosi, per ragioni biografiche legate alla famiglia di origine, all’educazione ricevuta, alla socializzazione sperimentata.
Infine anche le contingenze politiche e soprattutto i risultati elettorali non si spiegano solo con gli appoggi confessionali o con i rinvii a tematiche religiose: molti e complessi fattori interferiscono, al di là delle apparenze e dei pronunciamenti religiosi ufficiali e/o privati.
A partire da un presupposto teorico di questo genere, riassumibile come religione diffusa mediante valori, si può passare dopo ad una procedura empirica volta a costruire un’ulteriore teoria, tendenzialmente a medio raggio oppure con ridotte potenzialità di implementazione, in relazione essenzialmente ai dati ottenuti nel corso della ricerca. Si può parlare, a questo proposto, di una nuova forma di triangolazione, non più e non solo fra strumenti metodologici quantitativi e/o qualitativi, ma in primo luogo fra teoria preliminare di sfondo e teoria derivante dalla ricerca (o basata sui dati, appunto la Grounded Theory).
Si avrebbe pertanto una doppia garanzia scientifica, derivata dalla duplice e convergente teorizzazione, sia di sfondo che di ricerca, e da una triangolazione anche di metodi, solitamente foriera di interpretazioni più approfondite del solito, più convincenti, più corroborate dall’insieme dei risultati.
Seguendo un tale percorso, l’idea di una religione diffusa mediante valori troverebbe un più adeguato profilo complessivo, arricchito dal portato di una disamina ad ampio spettro, in ogni direzione e senza preclusione di sorta.
Il futuro del cattolicesimo
Quali potrebbero essere le prospettive future del cattolicesimo e della religiosità in Italia?
Se osserviamo con attenzione il dato della “pratica religiosa” regolare quello italiano attuale si aggira attorno al 25%; negli Usa il 37% va a messa almeno una volta alla settimana; quindi quest’ultima è una percentuale più alta di una decina di punti rispetto all’Italia.
Ma particolarmente interessante è il segnale relativo alla “preghiera personale”. “Quando preghi regolarmente, a parte la messa?” Il 54% risponde: “Ogni giorno”. Forse questo potrebbe essere il risultato più rimarchevole anche di una futura indagine. D’altra parte la preghiera non è sottoposta a sanzione pubblica o a controllo sociale, come nel caso della messa in cui si può verificare se vi si è partecipato o meno. La preghiera è un fatto personale cui nessuno è costretto, in quanto nessuno può effettuare controlli. Siamo dunque di fronte a germi di religiosità latente, invisibile, ma ben diversa da quella detta pure “invisibile” ed ipotizzata in un titolo di libro (per volontà del’editore) ma non debitamente sviluppata come tale da Luckmann (1967). Inoltre da un approccio strutturale, statistico, la religiosità presente in Italia emerge in modo complesso e composito, se si conduce un’analisi dei dati sciolta dall’ipoteca ideologica e tale da renderne immediata e chiara la comprensione. Certamente potremmo discutere se si sia di fronte ad una sorta di “ecclesiosfera”, come la definirebbe Émile Poulat (1986): L’eglise c’est un monde, la Chiesa è veramente un mondo, un mondo articolato, poco omogeneo e piuttosto differenziato.
Una prima tendenza riguarda le sorti della fede tradizionale nelle società via via interessate da un maggior pluralismo religioso. Contrariamente a quanto si poteva supporre, l’aumento della varietà culturale e religiosa non incrina necessariamente il senso di appartenenza della popolazione alla religione dei propri avi. In alcuni casi la compresenza di orientamenti religiosi diversi può produrre un indebolimento delle credenze e delle appartenenze più diffuse; in altri casi, invece, si delineano reazioni opposte, tipiche di quanti sono spinti dalla presenza di altre fedi a radicarsi maggiormente nel sentire religioso della tradizione. Ciò vale soprattutto nelle nazioni come l’Italia in cui le chiese e i gruppi religiosi continuano ad avere un forte radicamento sociale, per cui la popolazione ha alle spalle una lunga prassi di socializzazione ed educazione religiosa.
Il pluralismo
Intanto il pluralismo non risparmia nemmeno i contesti che – in base a fattori storici e culturali – risultano religiosamente più omogenei, alimentando nella popolazione modi assai diversi di interpretare il comune riferimento di fede e l’adesione alla confessione religiosa prevalente.
Da un’altra angolatura, si osserva che il senso di appartenenza religiosa è oggi condizionato sia dall’individualismo del credere sia dalla difficoltà delle grandi istituzioni religiose di offrire una “sacra volta” – sacred canopy secondo la terminologia di Peter Berger (1984) – capace di interpretare il bisogno di senso nella modernità avanzata. Per varie ragioni, dunque, gli individui hanno maggiori gradi di autonomia e di scelta anche nel campo religioso, tendenza questa che ai livelli massimi è ben delineata dalla figura del “credente solitario” (ancora Berger), simbolo di una condizione in cui il credere è relativamente indipendente dall’appartenenza.
Proprio la coppia “credenza-appartenenza” è sempre più al centro della riflessione di molti sociologi della religione, che vedono nella scissione del rapporto una delle tendenze emergenti. In genere si pensa che la “credenza senza appartenenza” abbia ad interessare soggetti particolarmente riflessivi, capaci di radicarsi su una convinzione religiosa anche senza il supporto delle strutture e dei gruppi religiosi (Davie 1994). Tuttavia, altri autori – tra cui B. Wilson – hanno da tempo sottolineato il fatto che questo tipo di atteggiamento può avere un carattere più passivo, come si conviene a persone che non mettono in discussione i riferimenti religiosi convenzionali pur avendo difficoltà a identificarsi con le chiese o i gruppi religiosi che ne sono i depositari. Il “credere senza appartenenza” è comunque soltanto una delle nuove combinazioni religiose che oggi si osservano nella società. Un’altra è rappresentata dall’“appartenenza senza credenza”, che caratterizza i soggetti che rivalutano la religione della tradizione più per motivi culturali ed etnici che per ragioni spirituali. In una società culturalmente sempre più aperta e multietnica, molti possono ricercare nell’appartenenza religiosa convenzionale un sentire comune che offre orientamento, rassicurazione e certezze.
Se è già difficile leggere sociologicamente la realtà all’interno della sfera ecclesiale, che pure ha una sua marcata visibilità, ancor più complicato risulta porsi interrogativi ed attese in chiave di religiosità in generale, giacché si è di fronte ad una fenomenologia quasi imperscrutabile, non auto-evidente, abbastanza personalizzata, cioè piuttosto soggettiva. Nondimeno l’obiettivo è quello di analizzare dati da cui possono emergere:
a) forme di religiosità molto eterogenee sia dal punto di vista della credenza che della pratica;
b) consistenti presenze di atteggiamenti e comportamenti parareligiosi o similreligiosi che operano come sostituti funzionali del religioso (sia secondo la suggestione di Thomas Luckmann (1967) sui “nuovi temi moderni” dell’auto-espressione, dell’auto-realizzazione, dell’autonomia individuale, dell’identità, della sessualità, del familismo, della mobilità, del denaro, del tempo libero; sia secondo la prospettiva proposta da Danièle Hervieu-Léger (1989) sul ruolo delle emozioni in campo religioso);
c) domande religiose orientate a soddisfare bisogni di senso e di solidarietà;
d) istanze etiche che esigono un fondamento anche di natura religiosa;
e) scollamenti fra appartenenza religiosa e comportamento, con una ridotta coerenza etica, riconducibile – in ipotesi – a forme di disorientamento tipiche della società pluralista oppure a propensioni volte a soggettivizzare al massimo la dimensione religiosa.
L’appartenenza
Certamente uno dei cardini su cui ruota tutto questo insieme è il rapporto fra appartenenza e non appartenenza. I sociologi della religione (sia i classici, sia gli studiosi della società contemporanea) hanno sempre prestato grande attenzione al tema dell’appartenenza religiosa, considerata come una delle dimensioni costitutive non soltanto della religiosità delle persone ma anche del modo in cui i gruppi religiosi agiscono nella società. Lo studio dei fenomeni religiosi inoltre si applica certamente ai temi delle credenze, dei simboli e dei rituali, della visione della realtà ispirata dalla fede, dell’etica individuale e sociale promossa dai gruppi religiosi, delle diverse forme di organizzazione (istituzioni, strutture e ruoli specializzati) funzionali a mantenere, controllare e diffondere nel tempo le convinzioni religiose; ma accanto a questi importanti aspetti un’attenzione specifica viene riservata al senso e alle modalità di appartenenza delle persone ai gruppi religiosi. All’analisi di questa dimensione ha dato un grande contributo anche la psicologia della religione, evidenziando quanto l’appartenenza religiosa rifletta condizioni del vissuto e tratti della personalità. L’appartenenza implica sempre una qualche forma di identificazione e di legame ad una realtà sociale.
Ovviamente il sentimento di appartenenza ad un gruppo religioso o a una chiesa si manifesta in forme e con intensità diverse; per alcuni ha un carattere individuale, riguardando solo il vissuto, mentre per altri ha una valenza sociale e culturale più ampia; in qualche caso si è di fronte ad appartenenze forti e totalizzanti, mentre in altri si delineano legami più deboli o incerti, tipici di un’adesione parziale o con riserva alle idee o alle finalità del gruppo o dell’istituzione religiosa; ancora, un conto sono le appartenenze religiose molto motivate e attive, altro conto sono quelle dovute alla consuetudine ed alla tradizione.
C’è da chiedersi quanto ampia possa essere questa variabilità di base e che cosa ci si debba aspettare da coloro i quali stanno vivendo in quest’epoca una situazione particolarmente critica sul piano professionale ed economico, che si ripercuote sul vissuto quotidiano e mette in dubbio molte certezze ideali e tante sicurezze identitarie del passato.
Il cambiamento
Il processo di trasformazione che attraversa e caratterizza la dimensione religiosa all’interno delle società moderne non è, meno che mai, passibile di un’analisi dicotomica in termini di presenza/assenza del sacro, persistenza/declino delle credenze e delle appartenenze religiose, prospettando per di più delle omologie non proponibili tra sacro, credenze religiose e appartenenze ecclesiali.
In realtà, la dimensione religiosa nella società contemporanea conosce molto più spesso un percorso di adattamento e di ricerca di compatibilità. In altri termini la secolarizzazione delle istituzioni non prelude ad una scomparsa del sacro, ma pone certamente le premesse per una sua ricomposizione. In che termini tutto ciò è riscontrabile tra la popolazione italiana?
Si ipotizza che si produca un processo di adattamento tra dimensione religiosa e società moderna, tra una trascendenza ed una dimensione meta-umana da un lato ed un’integrazione in una società immanente che di questa trascendenza e di questa dimensione fa strutturalmente a meno. In questo processo sarebbero le trasformazioni nelle credenze religiose a costituire l’indicatore maggiormente visibile, proprio perché rappresentano il luogo dell’adattamento personale, della revisione individuale ed interiore.
Accanto alla tesi classica che vede il processo di secolarizzazione manifestarsi e definirsi attraverso la semplice marginalizzazione della dimensione religiosa e la sua esclusione da ciascuno dei diversi ambiti della vita sociale, esisterebbe pertanto una seconda modalità di analisi che potrebbe vedere le trasformazioni della dimensione religiosa manifestarsi nella disuguale sottoscrizione delle credenze. Alcune di queste non cessano di essere condivise, mentre altre sono oggetto di un consenso minore e sempre più in declino. Si può rubricare un simile processo nella categoria della personalizzazione (Ferrarotti 1990), in quella dell’individualizzazione (Hervieu-Léger 1989) o della razionalizzazione (Boudon 1979), ma resta il fatto che l’analisi delle credenze sottoscritte e di quelle lasciate in ombra, quando non addirittura abbandonate, costituisce uno degli indicatori più sensibili circa il mutamento della religiosità in un contesto di modernità.
Gli studi più recenti hanno evidenziato i molti cambiamenti che interessano l’appartenenza religiosa nella società contemporanea, che in parte rientrano in quelle che Hervieu-Léger definisce come le “produzioni religiose” della modernità avanzata. Permane invero l’interesse per la religiosità (senso religioso, condotte religiose, spiritualità) in tutte le sue dimensioni rilevabili, ma rimane largamente in ombra il suo momento genetico, il dinamismo che ne segna lo sviluppo in età evolutiva e le trasformazioni in età adulta. Questo dinamismo infatti esige di essere studiato in termini multidisciplinari, con l’apporto decisivo anche di categorie psicologiche e pedagogiche. Non è possibile tuttavia affrontare esaurientemente il fenomeno della religiosità (come dato sociologico e antropologico) senza contemporaneamente indagarne la genesi e la trasformazione nel corso della vita personale. Tuttavia l’indagine sul dinamismo della religiosità esige la negoziazione e/o la ridefinizione delle categorie di lettura socio-antropologiche utilizzate per studiare le condotte religiose. Ne deriva la necessità prioritaria di un confronto multidisciplinare, già nella genesi degli strumenti di ricerca, e di una stretta collaborazione, o almeno di uno scambio in parallelo, nei percorsi di ricerca sui temi religiosi, fra sociologi, antropologi, psicologi e pedagogisti.
L’educazione
Si deve poi considerare il fatto che, almeno negli ultimi venti anni, l’interesse in Italia per i temi religiosi in rapporto all’educazione è cresciuto, sia in ambito socio-antropologico, sia in ambito psico-pedagogico, in relazione a due rilevanti e caratterizzanti fenomeni sociali. L’espansione dei flussi migratori in arrivo in tutte le nazioni europee (anche quelle mediterranee che, fino ai primi anni Novanta, erano state tradizionalmente all’origine di flussi migratori verso il Nord Europa) ha riportato all’attenzione le identità religiose dei gruppi immigrati (identità differenti e variegate anche all’interno di una stessa confessione formale), contestando di fatto la rappresentazione occidentale della religiosità come fenomeno culturalmente “residuale”. La presenza straniera ha determinato in concreto la necessità di dialogare in situazione anche con identità caratterizzate da diverse forme di religiosità. Da ciò una sensibilità rinnovata, fra gli scienziati sociali e dell’educazione, rispetto alle identità religiose ed al loro intrecciarsi con i processi di educazione e formazione di gruppi diversi.
Vi è dunque la necessità di ulteriori approfondimenti per rispondere a tutta una serie di interrogativi. Oramai occorre riconoscere che le informazioni raccolte venti anni fa non sono in grado di rispondere a tante e così complesse domande. C’è dunque bisogno di un salto di qualità. Sarà pure interessante sapere di quanti punti percentuali è scesa la pratica religiosa regolare settimanale, ma sarà ancora più importante capire che cosa è avvenuto, che cosa stia avvenendo e che cosa avverrà della religiosità nel nostro paese. La questione non è di poco momento, come le vicende politiche e sociali degli ultimi anni hanno ben messo in mostra. Si parlava fino a pochi anni fa di un inarrestabile declino del peso della religione ed in particolare della religione storica organizzata ed ora si deve constatare che non solo non vi è stata alcuna eclissi ma anzi si deve registrare una sostanziale continuità con il passato. Ma a quali costi per la credibilità degli attori religiosi più organicamente radicati? Con quali sviluppi per le giovani generazioni di oggi?
Le conseguenze riguardano anche le politiche educative. È ancora possibile un discorso di solidarietà sociale, di cittadinanza, di rispetto interpersonale, di convergenza pacifica, di condivisione di diritti e doveri, senza più alcun riferimento al mondo dei valori religiosi od anche con un evidente indebolimento della loro capacità di attrazione? Stanno forse facendosi strada soluzioni alternative, più laiche, meno condizionate, meno influenzate da istituzioni consolidate come le Chiese? E comunque le formule tradizionali di legittimazione delle forme civili mediante il suggello-sigillo della ritualità religiosa (dal matrimonio al funerale) stanno per essere abbandonate? E lo saranno definitivamente fra non molto tempo?
Conclusione
Dopo la pubblicazione del volume su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995) il dibattito sulla tenuta della religione in Italia ha visto alternarsi posizioni contraddittorie, ora propense a sottolineare la forza della secolarizzazione, ora tese a scoprire filoni cospicui di ritorno del sacro. Tutto questo però ha avuto come fondamento quasi esclusivamente una serie di riflessioni teoriche a tavolino, scarsamente sostenute dai dati della ricerca empirica, cioè dalle misurazioni effettuate sul campo. Non è che nel frattempo siano mancati dei lavori seri ed articolati volti a verificare alcune ipotesi di fondo. Il fatto è che di solito non si basano su un campionamento effettivamente rappresentativo dell’universo nazionale italiano. Tutt’al più si tratta di studi di carattere locale, al massimo regionale (ma anche in questo caso la metodologia lascia a desiderare e denota carenze e superficialità). Sembra dunque venuto il momento di fare ancora una volta il punto per conoscere realmente quale sia la situazione socio-religiosa nel nostro paese, al nord come al centro e al sud.
Tale indagine è oggetto di un progetto di ricerca a carattere nazionale che sta per essere avviato nei prossimi anni.
La realtà del nostro paese verrà considerata secondo diverse prospettive sia contenutistiche che metodologiche. L’analisi in particolare verrà articolata in diversi settori:
– la socializzazione religiosa delle persone;
– la conoscenza e l’adesione ai contenuti religiosi;
– la partecipazione ai rituali religiosi;
– le motivazioni e le esperienze personali riferite al vissuto religioso;
– la consequenzialità etica (rapporto tra credenza, pratica religiosa e comportamenti nella vita quotidiana, familiare e sociale);
– la spiritualità personale.
Particolare attenzione verrà inoltre posta a:
– manifestazioni del sacro e del religioso extra-ecclesiale;
– ragioni dell’ateismo e dell’indifferenza religiosa;
– tendenze alla privatizzazione dell’esperienza religiosa;
– immagine di Dio, della Chiesa, del ministro religioso e del laico religiosamente impegnato nella cultura;
– ruolo della religione nell’ambito sociale (realtà ed attese);
– legame tra religione e valori emergenti in relazione a ecologia, bio-etica, soggettività, transnazionalità, ecc.;
– atteggiamenti nei confronti dell’aborto, del divorzio e della eutanasia;
– fattori culturali e strutturali che condizionano il fenomeno religioso.
La cultura e le espressioni religiose, infine,verranno rapportate alle subculture oggi presenti in Italia: quella marxista, quella laica, quella liberale, quella socialista, quella radicale, quella leghista, quella ecologista, ecc., nonché quella cattolica (tradizionale e non). L’approfondimento di alcune situazioni locali consentirà di cogliere significative differenziazioni territoriali nel rapporto tra valori e dinamiche sociali, con particolare riferimento ai processi di socializzazione ed ai loro effetti.
Riferimenti bibliografici
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– Glaser B. G., Strauss A. L. (1967), The Discovery of Grounded Theory: Strategies for Qualitative Research, Aldine de Gruyter, Hawthorne, N. Y.; ed. it., La scoperta della grounded theory. Strategie per la ricerca qualitativa, Armando, Roma, 2009.
– Hervieu-Léger, D. (1989), con la collaborazione di F. Champion, Verso un nuovo cristianesimo? Introduzione alla sociologia del cristianesimo occidentale, Queriniana, Brescia.
– Luckmann T. (1967), The Invisible Religion. The Transformation of Symbols in Industrial Society, Macmillan, New York; ed. it., La religione invisibile, il Mulino, Bologna, 1969.
– Poulat, É. (1986), L’Église c’est un monde. L’Ecclésiosphère, Éditions du Cerf, Paris.
Desde hace algunas décadas los especialistas del fenómeno religioso se han esforzado por discutir sobre la secularización, la muerte de Dios, el fin de la religión o, por el contrario, sobre el despertar religioso, el retorno de Dios, la expansión de la influencia de la religión.
En varios casos ha habido un replanteamiento, un ablandamiento de los tonos, o cambios de ruta a 180 grados. Esto puede ser aplicado a dos ejemplos: el caso de Sabino Samuel Acquaviva (1971) conocido como el teórico del eclipse de lo sagrado y a Harvey Cox (1968), el profeta de la ciudad secular. El primero tuvo que precisar que lo que en el pasado quiso dar a entender fue sólo el final del uso mágico de lo sagrado (Acquaviva, Stella, 1989). Y Cox, simplemente, afirmó haberse equivocado sobre el futuro de la religión.
Así, los partidarios de la fuerte recuperación del uso de la práctica religiosa han tenido que analizar el fenómeno de manera diferente. En todo caso, ha faltado una seria confrontación con la realidad empírica, con los resultados de investigaciones científicas serias y rigurosas, no pre-concebidas. Y aún cuando en algunos casos se ha hecho referencia a tales investigaciones el enfoque ha sido parcial, no contextualizado y generalizado con demasiada facilidad respecto a una realidad de hecho, que es muy variada y cambiante. Lo que no fue evaluado principalmente han sido las raíces históricas, las culturas tradicionales, la socialización generalizada, el peso y la influencia de las estructuras religiosas que en la mayor parte de los casos han sido capilares y a menudo muy eficaces en su acción (a pesar que las apariencias sugieran lo contrario).
2. Religión y espacio público
El filósofo y sociólogo alemán Jürgen Habermas, considerado por muchos un seguidor de la Escuela de Frankfurt, muestra una cierta preocupación por la solidaridad social. Se lo deduce de su mayor obra sobre la acción comunicativa [Habermas, 1986b, II, p. 603-18], cuyo “marco jurídico” está correlacionado con la autoridad de lo sagrado, a la cual Habermas reconoce las raíces de la ética.
La obligación moral derivaría, en efecto, de lo sagrado a través de una mediación simbólica, que conduce al lenguaje (y a la ética del discurso, es decir, a la acción comunicativa, no instrumental y no coercitiva).
En última instancia, Habermas considera que sólo una moral universal es capaz de mantener unida a una sociedad secularizada, a través de la garantía de un consenso generalizado [Habermas, 1986b, II, p. 669].
Para no seguir necesariamente todas las implicaciones del pensamiento de Habermas sobre la acción comunicativa, es suficiente señalar que su “sistema de formas de entenderse” se refiere a cuatro áreas:
(1) el ámbito de la praxis cultural, (2) el ámbito de la acción en la que los sistemas de interpretación religiosa conservan una fuerte orientación inmediata para la praxis diaria, y luego los ámbitos profanos de la acción en la que la reserva de los conocimientos culturales es utilizada (3) por la comunicación y (4) por la actividad finalizada, sin que las estructuras de las imágenes del mundo se afirmen directamente en las pautas para la acción.
Así es que los dos primeros ámbitos están conectados directamente a lo sagrado. En lo que se refiere al primero: «al mito le corresponde una praxis ritual (y las acciones de sacrificio) de los miembros del grupo, a las imágenes religioso-metafísicas del mundo le corresponde la praxis sacramental (y las oraciones) de la comunidad y, por último, a la religión culta de la primera etapa moderna le corresponde la realización contemplativa de las obras de arte auráticas» [Habermas, 1986b, II, p. 801]. En términos más explícitos, Habermas da a entender que lo sagrado se basa en la práctica cultural (con el rito que institucionaliza la solidaridad social; el sacramento/oración que institucionaliza el camino de la salvación y del conocimiento; y la representación contemplativa del arte aurático que institucionaliza el uso del arte).
En lo que se refiere al segundo ámbito, se trata de las imágenes del mundo que guían la praxis (el mito, las imágenes religiosas y metafísicas del mundo; la ética religiosa de convicción; el derecho natural racional y la religión ciudadana) [Habermas 1986b, II, p. 802]. El rito y el mito pertenecen a la sociedad arcaica; el sacramento/oración, las imágenes religiosas y metafísicas del mundo pertenecen a las grandes civilizaciones antiguas; la representación contemplativa del arte aurático y la ética religiosa de convicción así como el derecho natural racional y la religión ciudadana pertenecen a la primera edad moderna.
También hoy en día la religión constituye una especie de desafío cognitivo, ya que proporciona contenido y da fuerza a las normas sociales y, por lo tanto, a la solidaridad de los ciudadanos. En lugar de desaparecer [Habermas, Sölle, Luhmann, 1977], la religión se sitúa en la esfera pública [Habermas, 2006a] donde juega un papel de mediación entre dos elementos opuestos: aquel de los fundamentalismos y aquel de los secularismos. Habermas responde a la provocación de Böckenförde [2007], que niega al Estado secularizado la posibilidad de garantizar las premisas normativas (poseídas, en cambio, por la religión cristiana), y espera que se reestructure como Estado post-secularizado con el fin de hacer frente al acentuado crecimiento de la religiosidad y de los movimientos fundamentalistas (aunque al mismo tiempo Böckenförde, si bien no llegue a negarla, observa que la religión, cada vez más libre, no se confirma como fermento del orden público y está separada del Estado, por lo que no representa y no protege más como en el pasado). En realidad, el sociólogo de Frankfurt no releva sólo los valores religiosos, fundamento de la democracia, sino que también nota como éstos contribuyen a las reglas, es decir, a los procedimientos. Y al mismo tiempo considera indispensable que las religiones renuncien a reclamar la posesión de la verdad y acepten la autoridad de la ciencia y se sometan a la ley secular. Obviamente va tenido en cuenta el disenso ya sea religioso que laico sobre este tema, lo que no impide llegar a un consenso razonable ya que una secularización destructiva es también perjudicial para la misma sociedad [Ratzinger, Habermas, 2005]. La perspectiva preferida por Habermas es aquella iluminista [Habermas, 2002b] y secularista, pero él muestra ser completamente adverso a la religión, a la que, sin embargo, le pide recurrir a un discurso que permita el diálogo con el mundo laico.
En otras palabras, la religión es un elemento constitutivo del mundo de la vida (Lebenswelt), aunque el proceso de racionalización y secularización han reducido su alcance limitándola casi exclusivamente a la cuestión del significado, ya que la autoridad de lo sagrado ha sido sustituida por aquella moderna del consenso. En esto se ve una crisis de legitimación de la religión [Habermas, 1975] junto con el desarrollo de una concepción secular del conocimiento y, por lo tanto, una esfera pública cada vez más independiente de la religión. Pero al mismo tiempo Habermas [2006a] atribuye a esta última un papel importante en el proceso de difusión de lenguajes comunes, dando lugar también a un “elaboración lingüística de lo sagrado” [Habermas, 1986b, p. 648-96].
En resumen, el pensamiento religioso no estaría fuera de la racionalidad y se lo puede considerar para comprender completamente formas y contenidos del proceso de racionalización. En definitiva, el papel de la religión no ha desaparecido, pero ha cambiado. Hay que notar, aún así, que la acción comunicativa no es susceptible a las influencias de carácter religioso.
Pero, la secularización creciente de la sociedad también debe considerar la persistencia de las concepciones religiosas y las comunidades religiosas que las expresan [Habermas, 2002ª, p. 99-112]. Las sociedades post-seculares están llamadas a cuestionar su propia comprensión de la racionalidad laica en una perspectiva de mayor apertura en términos de expansión del conocimiento (y también del aprendizaje del pensamiento religioso). En otros términos, el principio de separación entre la religión y la política se fundaría sobre la base de una fase “post-secular” de respeto mutuo entre la religión y la razón [Habermas, 2006b, p. 19-50].
El Estado laico, por otro lado, no puede pretender imponer su lenguaje a los ciudadanos religiosos, ya obligados a una condición asimétrica (respecto a los sujetos laicos y al Estado laico) en el tener que tratar de mediar entre su fe y las razones laicas a través de un equilibrio teológico y ético [Habermas, 2006b, p. 30]. Es así que “el pensamiento extiende sus alas”, como Habermas [1986a, p. 202] recordó a propósito de la utopía y la esperanza teorizadas por Ernst Bloch.
3. Laicidad y creencia
Las resistencias para la realización de una eficaz comunicación entre sujetos laicos y creyentes derivan principalmente de la constitución de dos frentes a partir de las bases institucionales (entendidas en un sentido amplio, ya sea en cuanto organismos reales históricamente fundados y desarrollados a través del tiempo, como es el caso de los Estados y las Iglesias que han nacido y se han consolidado con consensos variables a lo largo de la historia y a través de diferentes áreas geográficas aún permaneciendo estables durante algún tiempo; ya sea en el caso del nihilismo, del materialismo, del marxismo, del positivismo, del racionalismo, del liberalismo, del secularismo, del modernismo, del cientificismo, del existencialismo).
La cuestión de la laicidad – hay que reconocerlo – tiene matrices típicamente europeas, inicialmente francesas y luego, gradualmente, italianas, españolas y demás. El punto de partida es la época de la Ilustración y sucesivamente se deben considerar las formas y los contenidos de los sucesos revolucionarios de 1789 en París (y en otros lugares).
La federación estadounidense ha conocido en sus albores un momento revolucionario, pero sin dar aun lugar a las mismas consecuencias a nivel de fenomenología religiosa. Es más, en América del Norte, el connubio entre política y religión es bastante sutil: la frase que acompaña el escudo de los Estados Unidos pone su confianza en Dios y los discursos de los presidentes estadounidenses contienen numerosas y repetidas referencias a la Biblia y a la tradición cristiana, protestante en particular.
Prácticamente, la religiosidad difusa, confirmada por varias investigaciones empíricas no sólo en los Estados Unidos, sino también en Canadá y, especialmente, en Québec, no da lugar para plantear cuestiones relacionadas a la laicidad, o al menos no la convierte en el focus principal de la discusión.
Martha Nussbaum (2008) de la Universidad de Chicago, filósofa anglicana y posteriormente judía reformada, autora de Liberty of Conscience. In Defense of America’s Tradition of Religious Equality, defiende el derecho de los mormones a la poligamia, aplicando por lo tanto, a pleno, su idea sobre la libertad de conciencia y de religión (es similar a lo que ya había mostrado Poulat, en su libro de 1987 sobre la libertad y la laicidad). También Nussbaum parece no preferir el tipo de laicidad en auge en Francia, porque según su parecer es demasiado restrictiva para los creyentes, a quienes se los invita a no hablar en público. Es más, para esta profesora de Chicago, la separación entre el Estado y la Iglesia es apenas un valor secundario respecto al valor primario de la igualdad de libertad para los ciudadanos, creyentes o no creyentes.
Y sobre la delicada cuestión de las transfusiones de sangre para los Testigos de Jehová la estudiosa opta por una solución que ofrece libertad de elección para los adultos, que son maduros y conscientes, pero no para sus hijos, cuya vida debe ser preservada a todo costo. Por último, Nussbaum espera que se enseñe el creacionismo en las clases de religiones comparadas, pero no en aquellas de ciencia.
En el sur de los Estados Unidos, en México, el discurso sobre la laicidad se repropone pero de una manera diversa. También allí hay un episodio revolucionario inicial, aquel del zapatismo, que marcó el final de la presencia pública de la religión en la primera mitad del siglo pasado. La prueba más evidente de la laicidad del Estado mexicano se encuentra en la prohibición del uso de la sotana en público. Es decir, se quiere dar a entender claramente que la religión es un asunto exclusivamente privado, que no puede tener un impacto en el ámbito estatal y, por lo tanto, a nivel público.
En los otros Estados de América Central y de América del Sur las relaciones entre el Estado y la Iglesia han seguido las vicisitudes de cada nación, pasadas a través de múltiples experiencias, como la dictadura o un régimen militar o la pseudo-democracia o, aun, la democracia efectiva. No siempre las lecturas de los diversos acontecimientos de las últimas décadas han sido claras y sin ambigüedades. En algunos casos, se ha habido, de hecho, efectos “colaterales” o una no-beligerancia ideológica entre el Estado y la Iglesia, con consecuencias que aún hoy son objeto de evaluaciones no concordes ni siquiera a partir de los datos de hecho.
En Asia, por otro lado, las relaciones entre los Estados y las Iglesias están vinculadas esencialmente a los tipos de régimen político en vigor, pero en general es la autoridad política quien establece las reglas y los límites, independientemente del parecer de los sujetos religiosos interesados. Salvo algunas excepciones, el poder político resulta ser autoreferencial y se opone a cualquier forma religiosa adversa al gobierno vigente. Singular es el caso de la República Popular China, donde existen dos Iglesias católicas, de las cuales una de ellas es más bien cercana a las posiciones del Estado nacional, mientras la otra reconoce la autoridad de la Iglesia de Roma.
En Japón, por ejemplo, ha prevalecido el modelo de Jefferson de los Estados Unidos, del estado neutral que no elige ninguna religión entre las tantas que hay, impide el “cesaropapismo” y fomenta el crecimiento de una sociedad civil religiosa pluralista y pacífica. De este modo, se explica el carácter agnóstico del sistema escolar japonés.
La situación africana, en cambio, varía según la cultura religiosa dominante en cada país y muestra el fracaso parcial de las políticas escolásticas estatales intervencionistas en el sentido laico. La presencia del Islam, cuando es mayoritaria, suele ser bastante cercana a la orientación del Estado y en este caso, por lo general, no se plantean cuestiones sobre la laicidad debido a la concepción particular de la relación entre la religión islámica y la política ya que ambos se encuentran en perfecta simbiosis. Pero el Islam (Bozdemir, 1996) ha tenido que adaptarse a las corrientes animistas, permitiendo la poligamia y las formas de sincretismo. Más compleja es la relación entre la laicidad y las religiones cristianas. En algunos Estados hay una separación formal entre el Estado y las Iglesias aunque, en realidad, no existe un verdadero problema de la laicidad en África, porque la religión es ampliamente difusa en diversas formas, principalmente animistas y también kimbangistas, tradicionales e independientes. Por último, no faltan intentos de eliminar la religión por decreto (como en Madagascar, Benin, Angola, Mozambique, Etiopía, República Democrática del Congo). Un poco a la vez la laicidad ha ganado terreno y ha entrado a formar parte de la mayoría de las constituciones estatales, pero el debate sobre ella es considerado un producto importado, reducido a pequeños círculos de intelectuales.
En Australia, el modelo de referencia es aquel británico, anglicano en este caso, pero las condiciones no son totalmente asimilables a aquellas del Reino Unido y aún así el problema de la laicidad no parece dar lugar a particulares diferenciaciones.
En última instancia se discute de laicidad y sobre todo se asiste casi a una carrera de muchos para proporcionar la definición de laicidad y convertirla en el único parámetro. Cuando la propuesta de definición proviene de los intelectuales de orientación religiosa o de la misma Iglesia oficial, son los laicos a objetar. Si las partes se invierten no falta ciertamente el énfasis crítico de la parte religiosa.
Se puede observar que no se sale de la cuestión si no se encuentra una solución a adoptar de común acuerdo, no necesariamente una vez por todas, sino más bien tratando en cada caso el punto de consenso. Pedir el respeto de todas las definiciones de laicidad significa de hecho rendirse frente a las dificultades que de esto derivan y, por lo tanto, resignarse a no considerar válida ninguna definición.
El punto clave es exactamente el rol público de la religión y de las religiones, es más, de manera más proficua es el mismo espacio público, el principal escenario donde hacer confluir propuestas y elaboraciones para comprender principalmente los términos del análisis a llevar a cabo. El conocimiento adecuado y científicamente calibrado, sin embargo, deriva de la aplicación de por lo menos algunas astucias metodológicas, a partir de la actitud de la epoché, de suspensión de la evaluación/juicio, a fin de comprender a través del conocimiento, para poder, sólo al final, expresarse sobre el argumento en base a elementos concretos y reales.
No se debe olvidar que pueden existir laicidades a-religiosas y anti-religiosas, sostenidas también por los no creyentes o incluso laicidades expresadas por sujetos que tienen otras creencias, es decir por aquellos con otros modos de creencia que están fuera de los cánones oficiales de la Iglesia o de las acciones estadísticamente modales más comunes. Y aquí se abriría un abanico de posibilidades sobre el etsi non daretur que tienen a Dios como sujeto. Todo se encuentra en el escenario de decisiones que tomar, sobre la base de criterios inspirados en la responsabilidad o racionalidad. Pero las oposiciones, las divergencias y las ópticas poliformes están siempre en función y no permiten caminos fáciles.
4. El debate sobre la laicidad y sobre el rol público de la religión
Es frente a la pluralidad que la neutralidad no es suficiente pero sirve la imparcialidad, en particular en el campo ético y jurídico, donde el poder del Estado se ejerce con independencia del tipo de destinatarios que participan en sus actividades legislativas o en sus sanciones. La imparcialidad de la ley significa el reconocimiento de la libertad declinada en sus formas de libertad religiosa (cuya práctica incluye también la libertad de pensamiento, de asociación y de reunión). En esta perspectiva, entre otras cosas, ya no puede valer más el antiguo principio de cuius regio eius et religio, porque nadie está obligado a seguir la religión de su propio soberano o de su propio Estado o de su propio gobierno.
Sin embargo, un obstáculo ulterior se interpone: el fundamentalismo, que no acepta tratativas sino que exige la aplicación de las normas en todos los casos sin distinción de ningún tipo y no reconoce la autonomía de los interlocutores, sólo reitera sus propios principios de referencia. En el plano estrictamente jurídico, rige, sin embargo, sólo el principio de justicia, que no procede por favoritismos, sino que aplica la norma y no se autodefine laico ni religioso, respetando así el criterio de igualdad. Sin embargo, queda abierta la discusión sobre la necesidad o no de conformar el orden jurídico positivo al orden moral natural (Dalla Torre 2008, p. 178).
De todos modos, hay que aclarar que la laicidad no puede reclamar aplanar sobre sí la religión y aún menos la religión está llamada a destruir la laicidad para no tener adversarios en la esfera pública. Para llegar a una conclusión similar, hay mucho por hacer en el plano de la cultura religiosa, así como de la cultura política, en el sentido de proporcionar especialmente a las generaciones más jóvenes – aunque también a los más adultos – los criterios para el discernimiento suficientemente fundados en términos de conocimiento no orientado ideológicamente.
Se sostiene con razón que una buena educación cultural en el campo religioso no puede no llegar a una valiente defensa de la laicidad del Estado que no acepta fórmulas injustificadas de reparación instrumental o pactos del tipo do ut des con adaptaciones indebidas de la Iglesia al Estado y viceversa. El principio de laicidad inclusiva no puede ser considerado la palanca para la entrada de la Iglesia en el Estado o por el contrario, de la esfera pública como espacio para el dominio del Estado sobre la religión.
Al mismo tiempo, también podría surgir el objetivo de la restauración de la enseñanza teológica en las universidades públicas en una óptica no confesional sino de rigurosa investigación científica con la posibilidad de incrementar prolíficas aperturas interdisciplinarias como las que dieron lugar al ejemplar dialogo de Jürgen Habermas y Joseph Ratzinger (Ratzinger, Habermas, 2005). Podría ser esta una manera de reducir los prejuicios y las resistencias, pero sobre todo de elevar el nivel cualitativo del enfoque científico a los temas de la laicidad, de la religiosidad, de la bioética y del bioderecho.
Para Böckenförde (2007), la religión no guía más el espíritu del Estado (y por lo tanto, este último ya no será ni cristiano ni musulmán, ni de otra religión), sino que elige obrar en la sociedad convirtiéndose en religión civil e influenciando el orden social a través de los individuos y las orientaciones que ellos les proporciona. Por esto hay que esperarse, según Böckenförde, que la religión aspire a desempeñar un papel político desde una perspectiva que le es propia. Centrándose sobre la laicidad del Estado, Böckenförde parece rechazar la laïcité francesa y preferir el concepto de neutralidad abierta a todas las religiones (como en Alemania), pero tal vez la idea de imparcialidad funcionaría mejor en este sentido y abriría un camino suficientemente ancho para la presencia de la religión o de las religiones en la esfera pública, sin ghetos en lo privado o al máximo en el llamado “privado-social” como sustituto del Estado mismo. Este escenario permitiría una plena realización de las Weltanschauungen religiosas judías, cristianas e islámicas, que no verían, por lo tanto, ninguna solución de continuidad entre la creencia y la acción, entre la vida espiritual y la presencia en el mundo. Una vez más se trata de encontrar un equilibrio entre la laicidad del Estado y las necesidades religiosas de una parte no insignificante de ciudadanos. De este modo se releva la posibilidad de recuperación, como sostiene Böckenförde, de los principales valores de la Ilustración: derechos humanos y libertad (incluso religiosa).
Ciertamente, hay una interconexión entre el tópos de la laicidad y aquel del pluralismo. El uno y el otro se encuentran para hablar con la resistencia de la religión que después de décadas de secularización mantiene una solidez de base. Las razones del pluralismo pueden ser pragmáticas, de conveniencia: frente a la persistencia de las religiones el único modo de gobierno parece ser aquel de la permisividad generalizada. Esta elección, sin embargo, no se hace cargo de las dificultades creadas a quienes esperan poder beneficiarse de un espacio mayor de autonomía e igualdad, y al contrario deben dejar lugar a los demás y tolerarlos de alguna manera: la inclusión se convierte, de hecho, en una especie de exclusión para los que ya estaban en el interior de un sistema dado. Un pluralismo más reflexivo se apela a los valores de justicia, libertad, legitimidad, deber socio-político para hacer aceptar posiciones diferentes a la propia ya existentes. El riesgo es aquel de obligar a la libertad incluso a quienes no están de acuerdo y tienen el derecho a no estarlo. O de pedir, incluso a quienes no deseen hacer uso, la igualdad de respeto, concepto aun presente, como filótimo, en la cultura griega de la aldea (Cipriani, Cotesta, Kokosalakis, van Boeschoten, 2002).
Por otro lado, Gian Enrico Rusconi (2000) es, desde hace mucho tiempo, un líder intelectual de la querelle de la laicidad por su capacidad y por el rigor que lo caracteriza desde hace más de cuarenta años en el campo de la discusión sobre la religión y la política. Se trata de un protagonista y de un interlocutor de primer orden, atento, respetuoso y documentado. Según su parecer la novedad del tiempo presente está en la oferta de una ética pública por parte de las Iglesias. Esto produce de por sí los elementos de conflicto con el enfoque laico que tiende a evitar una aportación religiosa a la misma ética. Es como si Dios no existiera (etsi deus non daretur). Las iglesias, en realidad, no se oponen a la laicidad del Estado, pero se inspiran a la llamada “sana laicidad” construida sobre la base de sus parámetros de referencia. Desde aquí surge la reacción por parte laica, que no aceptan las formas de diktat provenientes de las istituciones que no son el Estado.
El malentendido mayor se encuentra probablemente en la calificación de dictadura del relativismo que algunos miembros de la llamada religión-de-iglesia (antiguo término muy apreciado por Rusconi) ven en las afirmaciones de la parte laica que, al contrario, prefieren hablar de una regulación consensual de los principios éticos y de su aplicación. Por un lado existiría la autoridad de los criterios de la fe, por el otro, aquella de todos los criterios en su conjunto, incluidos las creencias de varios tipos (incluso aquellas de los creyentes “de manera diferente”, como prefiere sostener Rusconi).
Se argumenta que la ética pública laica también puede diferir, en medida soportable, de aquella privada. Por su parte, la ética pública religiosa se presenta más compacta, pero también para ella existen posibles diferencias en el sector privado. La mayor proviene del procedimiento puesto en marcha en las dos perspectivas: en aquella laica se releva la tendencia a decidir caso por caso, mientras en aquella religiosa valdría un corpus general de principios aplicables a cada cuestión. Pero no acepta la intrusión de lo divino en las decisiones operativas que derivan de los derechos definidos por los procedimientos racionales y consensuados. Por lo tanto, se pide al sujeto religioso que se adapte a las reglas del Estado laico. En otras palabras, la convergencia entre la fe y la razón no encuentra apoyo fuera de la religión-de-iglesia. Pero la posición laica no legitima en absoluto, añade Rusconi, la ausencia de cualquier norma moral y, de hecho, ofrece otras basadas en un ethos consensual, aunque no es fácilmente alcanzable.
Rusconi, mientras critica a Böckenförde (2007) la tesis de una religión cristiana capaz de asegurar las premisas normativas que carecen al Estado secular, observa que las raíces históricas cristianas pueden haberse transformado con el tiempo en razones laicas, y está de acuerdo, por último, con las solicitudes de Habermas sobre la necesidad ya sea de una renuncia de las religiones a la posesión exclusiva de la verdad que de un diálogo real, de una apreciación de la ciencia y de la aceptación de la supremacía laica en el campo de la ley.
5. Conclusión
La relación entre Estado y religión/religiones cubre varios ámbitos políticos-territoriales y encuentra resultados que dependen en gran medida de las contingencias históricas, de las tendencias electorales y de las formas de gobierno. Indonesia, por ejemplo, es un país caracterizado por una doble presencia del Islam (poco más del 87%) y cristiana (algo menos del 10%), junto con dos minorías religiosas significativas (hindúes aproximadamente con un 2% y budistas con un 1%). En este contexto, como en tantas otras partes del mundo (Irlanda, Chipre, Israel, India, Sudán, China) existe el problema de la convivencia entre diferentes culturas y tradiciones religiosas presentes en el mismo territorio.
La historia universal, además, está caracterizada por las guerras de religión, los conflictos inter-religiosos, los contrastes políticos-religiosos. En el caso de Indonesia, la solución parece haber sido encontrada gracias al uso de la ideología nacional, llamada Pancasila (Intan, 2006), en cuyo interior la religión juega un papel importante basado esencialmente en el diálogo interreligioso entre musulmanes y cristianos. Ni el carácter islámico, ni aquel secular del Estado indonesio constituirían, de otro modo, una salida. Por lo tanto,
la Pancasila es la única posible si es que Indonesia desea mantener su unidad y su diversidad. Teniendo dos ideologías en conflicto, la solución ofrecida por la Pancasila es que Indonesia no sea ni un Estado secular, en donde la religión está completamente separada del Estado, ni un Estado religioso, basado en una fe en particular. En resumen, ya sea la Pancasila que la “secularización como diferenciación” […] permiten evitar la elección entre un Estado secular y un Estado ampliamente religioso (Intan 2006, p. 18).
En otras palabras, de acuerdo con los principios de Pancasila el Estado es religioso pero no teocrático.
La idea de la variedad en la unidad fue creada por Sukarno (que más tarde se convirtió en el primer presidente de Indonesia), que había tenido en cuenta las mismas diversidades detectadas en el Islam indonesio y que el 1° de junio de 1945 había declarado en un discurso los cinco principios de la Pancasila, palabra sánscrita que indica cinco (panca) fundamentos (sila).
Originalmente los principios eran: el nacionalismo, el internacionalismo o humanitarismo, la democracia o la deliberación, la justicia social o bienestar social; y por último el ketuhanan o Lordship (Señorío). Como se puede ver, se trata de mezcla de contenidos islámicos y contenidos seculares, de hecho, más ventajosos para estos últimos. Sin embargo, cuando los principios fueron formulados y reducidos a uno, no se dejó caer justamente la referencia a la dimensión religiosa respecto al Señor y, es más, se recuperó bajo la palabra de su unicidad. En resumen, la unidad de la nación se garantizaba a partir de la base común de la referencia al Señor, compartido y a repartir entre los ciudadanos.
Así es que se mantuvo el contenido religioso, y la nación no se dividió, al contrario, se reforzó en la unidad relativa al mismo Señor. Precisamente la unicidad del Señor satisfacía los musulmanes así como los cristianos porque ambos veían una fuerte coherencia con su fe. Y al mismo tiempo, también los defensores del Estado secular estaban complacidos por el acuerdo alcanzado a través la existencia de un factor de unidad para el beneficio de toda la nación indonesia. Sin embargo con el pasar del tiempo, la situación no siguió siendo pacífica y hubo varios momentos de tensión entre las diferentes partes de la nación indonesia. El principio del único Lordship contribuyó, de hecho, a un cierto mantenimiento de la unidad nacional.
La situación se complicó aún más, después de la experiencia de la llamada Guided Democracy de Sukarno y, en particular, con la llegada al poder del general Suharto, cuya gestión ha tenido algunos contraataques religiosos del Islam en el primer lugar. Las controversias aún en curso acerca de los contenidos enunciados en la Pancasila son numerosas y, a menudo acompañadas de argumentos bastante peculiares. Como conclusión parece estar confirmado, de todos modos, el peso decisivo de la religión, es decir de las religiones de Indonesia como lo demuestra la creciente presencia del Islam en el Estado, especialmente con el gobierno del New Order de Suharto. Aun más, la acción religiosa también parece ser un factor de promoción de la democracia y de la liberación. Tampoco puede pasarse por alto el papel de los intelectuales (musulmanes y cristianos juntos) en la aceptación de la Pancasila. En efecto, «como un estilo de vida, la Pancasila invita a los ciudadanos indonesios a fundar una nación constructivamente basada en los valores humanos y caracterizados por las ideas de inclusión y no de discriminación» (Intan, 2006, p. 222).
Sin embargo, no se debe hacer hincapié en el caso de Indonesia, que sigue siendo sólo un ejemplo de una solución que no es definitiva, alcanzable y realizada aunque demuestre que cuando la laicidad es asumida como un valor a defender por parte de las mismas religiones, y cuando las religiones son tomadas en serio por el mundo laico, se instaura una comunicación virtuosa y ulteriores objetivos pueden ser alcanzados. Quizás sólo la dignidad humana no puede ser objeto de tratativas ya que se la puede considerar como un valor no negociable y no sujeto a la obligación de reciprocidad: debería ser respetada a toda costa, incluso si los demás no lo hicieran.
Para ser coherentes con las afirmaciones hechas hasta el momento es evidente que este último punto no será una excepción, sino que debe ser examinado y re-calibrado de acuerdo con el resultado del debate que se ha llevado a cabo sobre él. Quizás puede ser esta hipótesis la que vuelve a fundar una laicidad y una religión que compiten por de-ideologizarse y dialogar, aun sin renunciar completamente a sus propios principios fundacionales. La verdad absoluta no está completamente en un lado, pero puede ser descubierta con la participación de ambas partes, que no pueden no reconocer a los demás aquello que piden para sí mismas. El respeto y la comprensión nacen de un esfuerzo mutuo de conocimiento recíproco, dirigido a deliberar conscientemente sobre los aspectos que plantean cuestiones éticas, que abren nuevos horizontes a la acción humana y que no excluyen nada del campo de lo posible, salvo algunos valores establecidos de común acuerdo.
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Even if the origins of sociological thinking in Italy go back to the age of Enlightenment, it was in the nineteenth century, characterized by the intellectual vivacity of Italian positivism, that we can speak of a first form of sociological inquiry. Italian sociology contributed to the development of the very first studies of social sciences in Europe, but it lost ground and fell behind other national European sociologies. Perhaps a sufficient explanation can be that the fascist movement was in power from 1922 to 1945. But other reasons are at the origin of the impossible continuation of such a scientific approach. Some subtle links are between a quite promising starting phase of studies and the new steps which occurred by the middle of the twentieth century, after the slow down during the period between the two world wars, in the 1920s, ’30s and ’40s. Shall we say that there was an interruption, a hiatus which separates the first moment, far off now, and a second moment, relatively more recent? Probably the past dynamics and those acting now are much more complex than might apparently seem without a deep investigation.
1.The Far Off Beginning
The vigour and rigour of Italian sociology’s development can only be explained by going back to the past, to the time of the Enlightenment in the seventeenth century, a movement begun in 1600 by Galileo Galilei, by the Florentine Accademia del Cimento («trying again and again»), and by the Accademia degli Investiganti in Naples. In addition a number of Italian scholars and scientists were influenced by both René Descartes and Pierre Gassendi, especially using the deductive approach (which anticipates abduction and retroduction in Peirce, founder of American pragmatism).
The most significant contribution was that of Giambattista Vico (1668-1744), an anti-Cartesian thinker who became well known for publishing Scienza Nuova (The New Science), which means history as science, as the real and concrete knowledge of typical human activities (it is impossible not to see in such a perspective the anticipation of sociological taxonomies). A fine «connoisseur» of Bacon and Grozio, and of the social, historical and legal thought of France and the Netherlands, Vico considered the fact as «what had been done». He had therefore an obvious inclination for the fact, which is the basic element of sociological investigation based on methodological guidelines. He was aiming at a deep analysis of a sensitive world, and therefore at a knowledge based on reality. The unfolding of history was a preferred object of study. Peculiar was his proposal for the specific environment where a certain event had taken place. In the end the only form of knowledge was history because it was «true», in other words real.
Meanwhile, in Italy, Newton’s experimental concept and the empirical one of Locke had many followers, despite some hindrances from the ecclesia especially for Locke’s contribution (who was put into the Index of forbidden books by Pope Clemens XII in 1733).
However, in 1737, just a few years later, Francesco Algarotti (who was active in France, Germany and Russia as well) succeeded in diffusing, and not only among intellectuals, the Newtonian approach to analysis, experiment and observation, owing to his writing Newtonianismo per le dame (Newtonianism for Ladies).
As time goes by, the social-cultural atmosphere appeared more keen on less abstract developments in the conception of social reality. Owing to the importance that the Vatican exerted in Italy from long ago, it cannot be denied that during the 18 years of his pontificate (from 1740 to 1758) the Bolognese Prospero Lambertini had a conciliatory attitude (and to a certain extent a quite liberal outlook), leading to many socio-political agreements and to special attention to science (as in the case of his help to the archeologist Winckelmann for the foundation of an Academy).
The open mindedness and faith towards science also spread thanks to the action of some universities of international importance such as Bologna (seat of the famous university, endowed with a well equipped library), Padua and Pisa, but also Naples (where the empiricist Genovesi taught).
Many Italians used to travel abroad, and they would bring back new ideas and scientific proposals. Among them we can remember Pietro Verri from the Accademia dei Trasformati in Milan, who was editor of the review Caffé. He was the one to persuade the economist and jurist Cesare Beccaria to write in 1764 the famous Dei delitti e delle pene (On Crimes and Punishments), influenced by the ideas of Hume, Rousseau and Montesquieu (whose Esprit des Lois was discussed in Milan, Naples and Florence).
Another forerunner of Italian social science was Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), a teacher at the University of Pavia (who taught in private to Giuseppe Ferrari and Carlo Cattaneo); he also collaborated with the Annali di Statistica (Annals of Statistics).
The nineteenth century was characterized by the intellectual vivacity of Italian positivism, which started with Carlo Cattaneo (1801-1869), collaborator on the Annali Universali di Statistica (World Annals of Statistics) and founder of Il Politecnico (The Polytechnic), defined as the «monthly report of applied studies to culture and social prosperity». Il Politecnico was published from 1839 to 1844 and from 1859 onwards and Cattaneo also authored, in 1844, Notizie naturali e civili su la Lombardia (Natural and Civil Reports on Lombardy) and, in the period from 1859 to 1866, Psicologia delle menti associate (Psychology of Associated Minds), as well as Del pensiero come principio di pubblica sicurezza (On the Thought as Principle of Public Security).Giuseppe Ferrari (1811-1876) – who would refer either to Vico (of whom he edited the Opera Omnia) or to Domenico Romagnosi – supported the principles of emancipation from religion (as a professor at the University of Strasbourg he was against the clergy) and of political innovation, taking ideas from the most famous examples, as explained in his Corso sugli scrittori politici (Course on Political Writers)of 1862. In 1843 he had written, in Vico’s style, Teoria dei periodi politici (Theory of Political Periods). His last work was L’aritmetica della storia (Arithmetic of History),based on a sort of statistical determinism.
However, the real master of Italian positivism was Roberto Ardigò (1828-1920), author of the book Sociologia (Sociology) (Ardigò 1886). He probably had the keenest intellect, as well as the most international attention: thanks to him a crucial work in the history of social science, William James’ The Varieties of Religious Experience, published in 1902, was translated into Italian in 1904. William James was one of the fathers of American pragmatism and therefore one of the major supporters of empirical sciences; his thought has also been defined as an example of absolute positivism. Ardigò, who never wanted to read Comte and read just a few writings of Herbert Spencer (who was of great influence in Italy following the publication in 1862 of First Principles), strongly supported the empirical character both of the physical world and the psychical one, from a growing point of view passing from the indistinct to distinct. He had left a wide number of publications collected in Opere (Works), consisting of 11 volumes, published between 1882 and 1918.
The first teaching of sociology in an Italian university occurred, as far as we know, in 1874 by Giuseppe Carle, Vico’s follower, at the University of Turin, where he was professor of philosophy of law (Carle 1874). Another course dates back to the academic year 1878-79 at the University of Bologna: it was about theoretical sociology and was taught by professor Pietro Siciliani, a devoted follower of Spencer’s thought. The official recognition of sociology from the minister of the sector (Guido Baccelli) occurred in 1898 with the chair assigned to Errico De Marinis (1901) – a socialist and follower of the Darwinian evolutionist Ernst Haeckel – in the University of Naples, at the Faculty of Law. Before that, some unofficial courses had been taught by Alfonso Asturaro (1897) at Genoa, by the socialist economist (with idealistic tendencies) Achille Loria (1900) at Padua, by the law philosopher Icilio Vanni (1886) at Perugia, by the political economist Salvatore Cognetti de Martiis at Turin and others at Siena (Filippo Virgilii), Messina (Ferdinando Puglia), but also in Rome (Enrico Ferri) and Catania (Giuseppe Vadalà-Papale).
The spread of positivism in Italy (Espinas 1880) stressed the tendency to bring out the data of experimental sciences, therefore facts versus metaphysical abstractions not directly experienced by human kind. Saint-Simon’s thought and that of Comte largely influenced Italian positivism, and it is especially true more for the former than for the latter, whose «Religion of Humanity» has never had the same number of followers and intellectual response in Italy as in Brazil, Mexico or at Liverpool.
What has remained, however, is the tendency to consider reality as a fact with its own evident and immediate meaning, which allows for the creation of classifications and typologies from the empirical materials of analyzed events, without metaphysical interferences or suppositions which cannot be verified. Social-historical sciences took advantage of all that and gained a good start for such sciences which, unfortunately, did not have the same development in the following years.
As Filippo Barbano rightly noticed,
the philosophical and methodological assumptions of the first Italian sociology, besides the fact of not being “critical,” which is to say that if they did not develop a criticism of the positive concept of science, neither were they completely adherent to Comte’s concepts (…). In such conditions the affirmation of sociology in Italy occurred in a lively and tumultuous way, but with uncertainty. Sociology wasn’t linked to any cultural or intentional structures other than its own, and most of the energy was used for meta-sociological premises and for the philosophical question of the “autonomy” of sociology. We also have to keep in mind that the interest in matters such as “autonomy” was not an accident, as there must have been many strong necessities for our sociologists to defend themselves from a hostile cultural environment, and this probably had a strong influence on disorienting the choices that were made at the very beginning. Also the interdependence on rising socialism is not to be undervalued (1970, pp. XIII-XIV).
In fact, the attempt made by Enrico Ferri (1894) to conflate socialism and sociology cannot be ignored. Ferri was pupil of Ardigò and teacher of penal law in Bologna, as well as in Europe and South America. Before that, Pietro Siciliani (1879) had studied the relations between sociological approaches and socialist ideas. But really
it was for those and other reasons that in Italy a refusal of sociology developed: among those reasons there is idealism at first and fascism after (besides the drawback and physical repression that fascism represented). Those were not the main reasons for such a refusal, as is often said; the cultural “dictatorship” of Benedetto Croce and idealism can partially justify the setback of sociology in Italy, but they cannot and should not become a convention, nor should they be overvalued. (In 1925, within the University of Padua, there was a School of Political Sciences, whose teachers were, among others: M. Boldrini, F. Carnelutti, C. Gini, N. Tamassia e F. Carli, whose lessons had been published: Le Teorie Sociologiche [Sociological Theories], Padova, 1925) (Barbano, 1970, p. XIV).
As a matter of fact the most interesting developments concerned ethnographical and anthropological research. In these fields the Italian school has offered considerable contributions. The initiator of such studies is considered Paolo Mantegazza (1831-1910), medical doctor and anthropologist, follower of Darwinian theories and founder, in 1870, of the Italian Society of Anthropology and Ethnology (SIAE) and of the review Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia (Archives for Anthropology and Ethnology). His work anticipates similar initiatives in sociology, which will occur respectively forty and twenty-four years later.
Idealism was at the time approaching, and especially owing to Benedetto Croce (Losito 1995), it was to become the major obstacle to the development of social sciences, started under the enthusiasm of positivism.
2.The origin and role of the Rivista di Sociologia (Review of Sociology) and Rivista Italiana di Sociologia (Italian Review of Sociology)
La Rivista di Sociologia (Review of Sociology) was founded in 1894 and was published until 1896 (Pusceddu, 1989). Directed by the sociologist Giuseppe Fiamingo (1893, 1895), by the lawyer Giuseppe Vadalà-Papale (1883) and the statistician Filippo Virgilii (1896), the review had more of a political-philosophical and economical tendency than a sociological one. It was characterized by continuous research of the proprium of sociology, which remained attached, following Comte, to a «philosophy of social facts». It would not show a particular interest in international sociology, unlike the later Rivista Italiana di Sociologia (Italian Review of Sociology), which was indeed much more open to Durkheim’s work, as well as that of Weber and Simmel. The Rivista di Sociologia did not seem to appreciate empirical works, and was more keen on discussing epistemological issues. Its line remained mostly based on biological and psychological positions. But there was also an interest in the historical methodology. However the theoretical approach was mainly an organicist one, founded by Giuseppe Fiamingo. Another contribution came, with a biological point of view, from Giuseppe Sergi who believed sociology to be just «an appendix of human biology» (Sergi 1895, p. 20). Of this same idea was De Marinis (who was later active in the Rivista Italiana di Sociologia). The moral philosopher Alfonso Asturaro (1896) was oriented towards historical materialism but also towards positivism; he was more interested in considering the «serial» dimension of the phenomena. He considered biology and psychology as fundamental theoretical sciences and sociology as a derived science. The evolutionist Vincenzo Tangorra (1896) had a different point of view; he did not agree that sociology derived from psychological premises and he was against Simmel’s analysis of associations and relations, which is to say «sociability». Therefore, Tangorra did not understand the real importance of Simmel’s thoughts. Vadalà-Papale as well forced Simmel’s sociology into the structure of Spencer’s evolutionism. Even less easy to understand is the harsh criticism of Giuseppe Fiamingo towards Durkheim’s Les règles de la méthode sociologique, which he deemed«simply unsuccessful» and the work of an author «confused and close to metaphysics».
Finally «such an approach, which conferred to sociology the role of omnicomprehensive science of every social event and which was the central point, from an evolutionist perspective, on continuity-differentiation among the biological and social, remained a common element and quite homogeneous among all writings considered by the Rivista di Sociologia»(Pusceddu 1989, p. 93). The true intent was to define the scientific situation of sociology, and to give it autonomy in respect to other sciences, while remaining within the structure of an old and inescapably Spencerian line. The sociology of the Rivista di Sociologia did not have any future. Therefore, it was not by chance that it stopped publication in 1896, after only three years. Despite its short life and the inherent scientific misunderstandings, that attempt had some links to the Italian pre-sociology of the late nineteenth century. Times were ready for a change, which could bypass the «crisis of sociology».
The inheritance was taken up by the Rivista Italiana di Sociologia, just one year later, almost without any chronological interruption. This review produced, in its twenty-five year life span, an extraordinary amount of sociological writings: essays, studies, research, surveys, reviews, notes, chronicles, communications, etc. For each number an average of 350 book titles and articles were announced. 102 numbers were published with a total of 17,421 pages. Two hundred thirty two authors wrote a total of 658 articles. The total reviews were 3,106 (Garzia 1992). The promoter of the review was an expert of public administration, a teacher at the University of Rome, Guido Cavaglieri, whose death in 1917 did not stop the publication, at least until 1921.
The Italian sociologist Mino Garzia (1992), of the University of Trento, has developed a careful study of the role of the Rivista Italiana di Sociologia, trying to reconstruct the founding intents, its typically Italian approach, open consideration of non-Italian sociologists, political autonomy, and its peculiarly scientific profile. The Programma (Program) of the review, published in the first number, dated July 1897, Year I, Vol. I, signed by the Direction, says:
A journal of sociology, therefore, in order to be in some way useful, and in order to make an effective contribution to sociological science, must keep this science within its natural bounds and transmit exact knowledge about it […]. The Rivista Italiana di Sociologia will tread its own path entirely independently of any party or school and guided solely by the ideal of the broadest possible scientific freedom […]. Although the task that the journal has set itself is not an easy one, we are made confident of our success by the desire generally felt, we believe, among social scientists to direct their research to a higher end, by our love for sociological studies, and by the tradition of Italian public spiritedness. […].
In 1899 the first Italian congress of sociology was held in Genoa and in 1908 another publication was founded in the field of socio-artistic and literary interest with the title of Rivista di Sociologia e Arte. Scienze Sociali e Estetica (Review of Sociology and Art. Social Sciences and Aesthetics). In 1923 the short and unsuccessful experience of the Rivista di Sociologia Hallesista (Review of Hallesist Sociology) came to an end.
The Italian Society of Sociology was founded in Rome in 1910 (and reconstituted in 1937, under the direction of Corrado Gini) and had Raffaele Garofalo as first president, Giorgio Arcoleo, Errico De Marinis, Enrico Ferri and Giuseppe Sergi as vice-presidents, and Giuseppe Fiamingo as secretary. The society organized the 8th congress of Institut International de Sociologie, which was held in Rome. We have to remember that the idealist philosopher Benedetto Croce, who would later define sociology as «ill science» (Croce 1950), was the same one who, before fascism, had fostered the development of such a discipline, writing about «pure economy» (in the November-December 1899 issue) and of «history as a science» (in the March-June 1902 issue). Croce’s work was reviewed many times in the Rivista Italiana di Sociologia, for which he had announced – but never published – other two essays: one on «social economy» and the other on «sociology as an autonomous science». The theme of the autonomy of sociology was to overwhelmingly consume the interest of the scholars between the end of the nineteenth century and the beginning of the twentieth century, though with a strong resistance by Pareto towards such themes: «we have far better things to do than to loose our time to find out whether sociology is or is not an autonomous science» (Pareto 1916, I, p. 1). On April 25th, 1893 Pareto was nominated as teacher at the university of Losanna. He stayed in Switzerland for 30 years, during which he produced many studies and publications which made him well known throughout the world and became classics of the discipline. Pareto is the only one belonging to the Italian tradition who was to reach such a high level and unanimous recognition. Unlike Fiamingo, he considered the importance and value of Durkheim’s research very carefully, even if he did not deny his heavy criticism of the French sociologist. Referring to Durkheim’s study on suicide Pareto wrote: «it is a well written and interesting book», but a few lines down he added:
the reasoning is, unfortunately, throughout all the work, lacking of rigour. Unfortunately it is a common defect of many sociological works nowadays. Authors are not keen on discussing the sources of their data and use any kind of data during demonstrations which should be more rigorous (Pareto, 1898a, p. 78).
From there Pareto began a series of relevant and timely critical observation on methodology. In other words, Pareto was treating Durkheim as an equal and he would consider him without particular deference when he said «let us know with what real facts he could explain other facts» (Pareto, 1898a, p. 80).
The uncomfortable feeling that Pareto expressed regarding the discussion of the autonomy of sociology was mostly directed towards the Real Academy of Moral and Political Sciences in Naples in 1905, with many occasions for speeches and discussions among those in favor of sociology and philosophy. It was therefore an extension of an earlier debate on the «social question» promoted by Pareto and Croce between 1900 and 1901 in four issues of the Giornale degli Economisti (Journal of Economists). By the end of the meetings in Naples, they all decided not to ask for chairs of sociology in the universities.
Supporters of academic sociology prepared a Memoriale (Memorandum) in order to legitimate the request for academic chairs for sociology, but they did not propose theoretical issues and they did not define the methods and contents of the discipline. The supporters «preferred to deny their scientific engagement without defending the discipline or keep working on it as an interest other than militancy» (Burgalassi 1990, p. 132).
3. Fascism and Sociology
Pareto, author in 1916 of the Trattato di Sociologia Generale (Treatise of General Sociology), was not a good prophet when it came to politics; Earle Edward Eubank (who in 1934 visited the major proponents of European sociology) even referred to him as «father of fascism» (Scaglia 1992, p. 300). As a matter of fact, in the same year of his death Pareto wrote to Carlo Placci, three months after the fascist «March on Rome»:
Mussolini stayed for a while in Losanna and came to my courses, but I never met him personally. He himself revealed as the kind of man that sociology was waiting for. And I could finish at this point my two volumes with the same words used by Machiavelli at the end of «The Prince» (Giacalone-Monaco 1957, p. 105).
He was thinking of «The new Prince», the «Redeemer», the liberator of Italy from the barbarians. Pareto’s peculiar destiny paralleled that of Weber when he suggested the 8th article to the Weimar constitution, which practically allowed the advent of Hitler into power, with the assignment of German government to an extraordinary «Prince».
It is not right, though, to believe that fascism was the only factor that kept sociology from official affirmation in Italy. We have to consider that in full fascist government, after the brief teaching of De Marinis in Naples, which ended with the end of the Baccelli ministry (but after him other ministers opposed a clear refusal: to Loria in 1903; to Zerboglio in 1904) the first official chairs of sociology appeared with the reform of the school in 1923 promoted by Giovanni Gentile, philosopher and collaborator of Croce, as well as minister of the fascist government from 1922 to 1924. The chairs were for the Christian sociologist Filippo Carli, teacher at Padua (and then to Pisa) and collaborator with the Rivista Italiana di Sociologia; the economist Francesco Vito in Milan, successor of father Agostino Gemelli as rector of the Catholic University of the Sacred Heart in Milan and founder of the Rivista internazionale di scienze sociali (International Review of Social Sciences); and in Rome the quantitative and neo-organicist Corrado Gini (founder of the review Genus, anti-paretian and successor of Worms in the direction of the Revue Internationale de Sociologie). Despite fascism in Italy, a section of the Institut International de Sociologie, founded in 1893, was maintained.
Moreover, at least two sociological streams survived after the experience of the Italian protosociology at the end of the nineteenth century and the beginning of the twentieth: on the one hand there was the Scuola di Statistica (School of Statistics), the important center for the education of quantitative sociologists, founded in Rome by Gini. On the other hand, there was the less formalized Catholic stream referring to the idealistic, kantian and religious Igino Petrone (1905), to Romolo Murri (priest and politician, excommunicated in 1909 and reintegrated by the Catholic Church only in 1943), and to Giuseppe Toniolo (1905, 1907-1921); this approach had in Filippo Carli (1925) a valid proponent. Another particularly important figure in this second stream of thought was Luigi Sturzo, a sociologist, priest, and politician who lived in exile in Great Britain for almost all the fascist period. Sturzo’s thought had a spiritualist tendency which was not particularly accepted by the non-religious sociologists and this, along with some of his political positions, left him quite marginal within Italian sociology.
Another Catholic sociologist was the lawyer Luigi Bellini (1929, 1938), an antievolutionist and inspiration to Agostino Gemelli.
Robert Michels, of German origins, became an Italian sociologist (he taught at the University of Perugia), because he lived for a long time in Rome until 1936, the year he died. He belonged to the school of elitists (together with Gaetano Mosca and Vilfredo Pareto), which is to say the «normative approach» (as he defined, in terms of thought of conservativism) and he wrote an important essay on Italian sociology (Michels, 1923-24, 1924-25, 1930).
In 1922 there was only one university course of sociology in Italy, at Padua (by Filippo Carli). Michels believed that while the Italian government did not really prevent sociology from developing, it also did not foster any initiative for it. Actually, the premises were quite promising: Francesco Cosentini had already published a volume entitled Sociologia (Sociology) (Cosentini 1912), and had founded and directed the review La Scienza Sociale (The Social Science) from 1898 to 1910 as well as the Revue de Sociologie. In 1919 he had also founded in Turin the Istituto internazionale di sociologia e riforme politiche e sociali (International Institute of Sociology and Political and Social Reforms), which organized two world congresses in Turin in 1921 and in Vienna in 1922, in competition with the older Institut International de Sociologie, founded by Worms in Paris. Cosentini also organized in 1924 in Rome, for his institute, an international congress with Ferdinand Tönnies as chairman.
In addition Michels remembered the admirable action of Alessandro Groppali (1905), critic of evolutive positivism (Rinzivillo, 2000) and that of Sighele (1903) and Rossi (1900) both of whom took a socio-psychological approach. Vilfredo Pareto had said rightly about Pasquale Rossi (1898), when reviewing one of his books: «the book deserves to be read and to occupy a good place in the bibliography on crowds» (Pareto 1898b, p. 851). Squillace (1905) was from the South (as was Rossi), and was the author of a Dizionario di Sociologia (Dictionary of Sociology). Finally, Michels complained that Weber was not well enough known in Italy. But he also noted that Italian sociology, even if started before German sociology and of a better quality, did not have any influence over German authors. The sociology of Pareto was to be considered on an equal footing with that of Weber, and therefore deserving more attention. Furthermore, an extraordinary attempt to render sociology more popular was undertaken by Fratelli Bocca, publishers in Turin. Finally, as Michels said (1924-1925, p. 331) in his review: «About Italian sociology multis et multum can be said” which is to say “a lot can be said to many people».
The historicist and sociologist Guglielmo Ferrero enjoyed significant popularity both in francophone and anglophone countries (especially in the United States) (1893). Of less interest were the works of Michelangelo Vaccaro (1903), a Darwinian critic, antigumplowiczian and antilombrosian, mindful of the influence of environment in relation to crime. He was also the president of Institut International de Sociologie.
The majority of the authors quoted above lived during fascism and some were active until the Fifties. Sociology had not completely disappeared (Lentini 1974). That is why in Turin an international congress of sociology was held in 1927 and from 1928 to 1940 the Rivista di Sociologia started publishing again.
As a matter of fact
despite the loss of the «humanistic» components of the discipline’s original activists and its questionable but diffused configurations of the nineteenth century, […] Italian sociology […} opened however […] a new and interesting phase of life, characterized by an initially «cryptic» situation, with which it was able to keep up the ideological ostracism of a totalitarian regime intolerant towards such an antidemagogical and «corrosive» discipline, and within which the conditions for its quick growth again could take place (Burgalassi 1990, p. 140).
4. The new start of sociological studies after the two world wars
Even if fascism did not completely interrupt the sociological tradition in Italy, the new start of sociology after the war is quite distinct from the approaches that emerged in the first decades of the twentieth century. Above all, during the regime years the discipline was lacking the empirical research on persistency and changes which characterized the Italian society, on processes of transformation in rural sites, or on industrialization and urbanization which, despite the backwardness of wide areas of Italy, had started to emerge. The necessity of a careful study of the social reality of the country had already been underlined by Antonio Gramsci (1975) in Quaderni del carcere (Jail Notebooks), written during the time he spent in prison. In particular, the reflections on the transformations of industrial work (1932-35) and on the issue of the problems of the South (Gramsci, 1930) were already suggesting areas of empirical research which would be reconsidered later on after the end of the fascist regime. An important role was played, in this phase, by two factors: on the one hand, the end of the exile for some scholars who had contacts with the social sciences abroad, especially in the United States in the years between the two world wars (Gaetano Salvemini, Renato Treves, Gino Germani); on the other hand, the direct commitment of some sociologists and anthropologists, especially from North America, who carried out a lot of research, mostly in the south of Italy. The most well-known of these researches is with no doubt that conducted by Edward C. Banfield in a small community of Basilicata (1958), where the author identifies in the so-called «amoral familism» the cultural factor responsible for conditions of backwardness. Banfield’s research was not an isolated case. In that period a large set of research studies on communities was carried out by Unesco (Rossi-Doria, Giugni, Ardigò), by reconstruction programs (Musatti 1955), and by the Parliamentary Commission of inquiry on poverty (Ambrigo 1954).
It can be said that in this phase of the discipline, when Italian sociologists are learning directly from the fieldwork, by praxis of an empiric experience and outside academic institutions, the main themes are as follows: 1. the analysis of rural reality and backwardness of the south; 2. the study of industrial relations in the period of the rise of great industrial plants.
Among the centers of research which operated on such themes in that period, special consideration goes to the Center for Specialization and Economic-Agrarian research in Portici (which was publishing the review Nord e Sud [North and South] and where sociologists such as Gilberto Marselli and historians like Vittorio De Capraris and Francesco Compagna used to work), the sociological sections of Svimez (directed by Giorgio Ceriani-Sebregondi and Giuseppe De Rita), and the Center of Sociological Research of the firm Olivetti (with Franco Ferrarotti, Alessandro Pizzorno and Luciano Gallino).
During those years, sociological teaching was almost completely absent among the university disciplines. The only chair of sociology was that of Camillo Pellizzi at the Faculty of Political Science «Cesare Alfieri» in Florence. Pellizzi was a scholar whom the government had sent to London before the second world war as cultural attaché, and who therefore had direct experience with the British anthropological tradition. In fact, at the first ISA Congress in Zürich (1950), four Italian representatives were invited (Corrado Gini, Francesco Vito, Vittorio Castellano and Alfredo Niceforo). These scholars studied economics and statistics, and today we would hardly consider them sociologists.
5. Institutionalization of the discipline
The institutional establishment of sociology started in the second half of the fifties (Barbano 1998) thanks to researchers of already well-established disciplines. Through the international circulation of ideas, such researchers felt the urgency to foster sociological studies in Italy as well. They were jurists (Renato Treves, Adolfo Beria D’Argentine), philosophers (Nicola Abbagnano, Felice Battaglia, Franco Lombardi, Pietro Rossi), economists (Francesco Vito, Giovanni De Maria), psychologists (father Agostino Gemelli, Cesare Musatti), and statisticians (Livio Livi, Vittorio Castellano, Francesco Brambilla).
The process of institutionalization developed along different dimensions. The first led to the publication of new professional sociology journals: Quaderni di Sociologia (Sociology Notebooks)founded by Franco Ferrarotti and Nicola Abbagnano, first published in 1951. Abbagnano was a philosopher who was very critical towards the idealist tradition of Benedetto Croce and in favor of the modern wave of social sciences. Nearly ten years later, in 1960, Camillo Pellizzi founded the Rassegna Italiana di Sociologia (Italian Review of Sociology), with Franco Ferrarotti, Franco Leonardi and Giovanni Sartori as members of Editorial Board. In 1963 Studi di Sociologia (Sociological Studies) was published from the Catholic University of Milan; the review was directed by Francesco Vito and Francesco Alberoni. In 1967 Franco Ferrarotti founded La Critica Sociologica (Sociological Critique), and in the same year Sociologia (Sociology) was published in Rome under the direction of Felice Battaglia at the Institute Luigi Sturzo. Other reviews either of general or specialized sociology would be founded in the following decades. At the moment, there are at least twenty sociology reviews in the Italian language.
The second dimension regards associative structures. In 1958 the first National Congress of Social Sciences was held in Milan and the Italian Association of Social Sciences was founded (AISS) with the aim of promoting not only sociology’s development, but also that of anthropology and social psychology. In the AISS one finds almost all Italian sociologists of the first post-war generation (Achille Ardigò, Filippo Barbano, Giorgio Braga, Silvano Burgalassi, Franco Ferrarotti, Angelo Pagani, Luigi Pennati, Camillo Pellizzi, Alessandro Pizzorno). In the same years other institutions promoting sociology became well-established, such as: the Luigi Sturzo Institute in Rome; the National Center of Prevention and Social Defence in Milan; the group working for the review and the publishing house Il Mulino in Bologna. The first outstanding congresses were then organized by AISS, the National Center of Prevention and Social Defence and Il Mulino. The themes discussed in such congresses reveal the interests of sociologists at the time: the relationship between philosophy and sociology, the integration of social sciences, the relationship between sociologists and power, the connections between cities and the country and migratory processes, schools, technological progress, regional differences. Evidence of the international openness of the «new» Italian sociology was the 4th World Congress of ISA, held in 1959 at Stresa and organized by AISS and the National Center of Prevention and Social Defence. The development of the discipline, on the one hand, and the cultural and political situation by the end of the ’60s, on the other hand, changed the position of AISS so that it was no more considered representative of sociology in Italy, especially by the second generation of sociologists.
After 1969 AISS entered a lethargic period, and it would take more than ten years, until the Congress for the Foundation of the Italian Association of Sociologists (AIS) at Viareggio in 1982, to reconstitute an association of sociologists. AIS, which is divided into thirteen thematic sections, organizes a national congress every three years and has a membership of at least 1000 sociologists, mostly of them academic.
The third and crucial dimension of the process of the institutionalization of sociology involves the recognition of the discipline within academic institutions. Such recognition not only was a late one but, at least in the beginning, received strong opposition from more traditional academic sectors. In 1960 only 19 sociological teachings courses were activated in Italian universities, of which only one was taught by a full professor. Within six years, though, this number would triple. However, the most widespread presence of sociology within the academy occurred by the end of the 1960s and the first half of the ’70s. In 1972 and 1973 the number of sociology teaching subjects had risen to 233, among which 12 were held by full professors. Not only was the first «Faculty» of Sociology founded (in the new and «peripheral» town of Trento), but also the teaching of sociology multiplied, especially at the Faculties of Political Sciences and Education, and less so in the Faculty of Economics and Law. The reasons for such a development are to be found in the extraordinary spread of higher education in the ’70s and in the responses of academic institutions to student movements in the ‘60s and ‘70s. As occurred in other countries, on the one hand the push for a mass university was experienced more in relatively young ”faculties” where sociology was starting to be widespread than in traditional ones. On the other hand sociology seemed to be particularly apt for answering the need of students for cultural innovation. This growth kept on in the following three decades and currently there are more than 100 bachelor courses. Besides higher education, the profession of a sociologist is starting to be affirmed outside universities, in research institutes, local government administrations, and in health and social services, confirming in Italy, as well as in other countries, the close relationship between sociology’s development and social policies.
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Virgilii, F. (1896), La statistica e le scienze sociali, Torino, Bocca.
I soggetti umani sono motivati nel loro agire da vari fattori. Fra questi rivestono un ruolo rilevante, anzi decisivo, i valori.
Per ogni individuo vi sono riferimenti fondamentali che orientano i suoi atteggiamenti ed i suoi comportamenti. Tali riferimenti hanno un carattere astratto, non materiale, anche se poi danno luogo a conseguenze empiricamente rilevabili, e perciò «oggettive».
Ciò che ha valore, giacché vale più di ogni altra cosa per un soggetto, è quanto egli considera preminente, non sostituibile, non commerciabile, massimamente desiderabile. Ecco perché in nome del valore in cui crede l’individuo è disposto a qualunque sacrificio, ad affrontare ogni tipo di difficoltà.
Dal valore massimo attribuito a qualcosa deriva poi la considerazione di ogni altro elemento, dunque anche la valutazione di ciò che è bene o di ciò che è male, di ciò che è giusto od ingiusto, legittimo o illegittimo, sempre sulla base di un discrimine operato dal soggetto stesso.
I valori possono però essere sia un punto di partenza sia un punto di arrivo, come traguardo da raggiungere, idea da realizzare, obiettivo da conseguire. Dunque si potrebbe dire che sia a monte sia a valle sono sempre i valori ad ispirare l’agire umano.
I valori, così intesi, possono altresì rappresentare un criterio normativo, un parametro di valutazione cui confarsi. Sono essi che orientano le scelte dei soggetti umani e dunque interagiscono con gli interessi e le abitudini preesistenti (e pertanto i valori non sono immuni a loro volta da quei condizionamenti che tendono a mettere in evidenza alcuni interessi specifici ed a consolidare talune abitudini peculiari, a preferenza di molte altre opzioni possibili sia a livello di interessi che di abitudini).
La distinzione fra valori come ideali (che orientano il vissuto individuale) e pratiche concrete (che sono finalizzate al perseguimento di un fine) va tuttavia mantenuta, se non altro per ragioni descrittive. In realtà gli uni e le altre sono rinvenibili empiricamente in un complesso intreccio di cui non è facile stabilire il prius ed il post. Insomma le une non si identificano del tutto con gli altri e viceversa. In particolare non ci si può limitare solo all’analisi di natura behavioristica. Occorre andare oltre, cioè investire su un’area conoscitiva più vasta, costituita dal reticolo di interazioni fra individui e società, fra soggettività e strutture sociali, fra atteggiamenti e comportamenti.
Oggi pertanto non appare più valida la suggestione di Thomas e Znaniecki (1918-1920), che amplificavano al massimo il concetto di valore, sino a concepirlo come qualcosa che fosse comunque carico di un qualche significato, per contrapporlo di fatto ad ogni tipo di atteggiamento. In tal modo i valori assumevano un carattere sociale, gli atteggiamenti erano invece ritenuti avere un connotato individuale, quand’anche in riferimento ad un set sociale rappresentato dai valori stessi.
Sembra ora invece più accreditabile il nesso fra valore ispiratore ed azione concreta, o meglio fra valore e scelta (o non scelta) dell’azione da compiere, delle modalità (tempi – cioè momenti e durate -, mezzi ed obiettivi dell’agire). In altri termini l’applicazione di un valore in chiave di comportamenti da preferire comporta nondimeno la necessità di discernere fra ciò che è auspicabile e ciò che è possibile soppesando le condizioni contingenti.
2. La dimensione cognitiva dei valori
Vari autori concordano sulla dimensione cognitiva dei valori. In primo luogo va citato il contributo di Kluckhohn (1951) che, oltre l’aspetto cognitivo (connesso al giudizio, positivo o meno, su dati di fatto e comportamenti), include quello affettivo (che riguarda l’accettazione o il rifiuto di quanti si conformano o meno ai valori) e quello selettivo (che segnala la notevole influenza dei valori sulle azioni umane). Quest’ultimo aspetto rimane ad un livello astratto, generale, proprio nel caso del riferimento ai valori, ma concerne una vera e propria normatività nel caso di azioni particolari, abbastanza contestualizzate (Sciolla 1998: 751).
All’ambito cognitivo può aggiungersi altresì quello etico-politico, più pertinente alle istituzioni, alle strutture, alle organizzazioni. Il che si rende necessario per rafforzare le posizioni individuali prevalenti di rinvio a valori condivisi, senza dovere ogni volta giustificare – a livello interpersonale – condotte e preferenze, atteggiamenti e comportamenti, criteri e procedure. In effetti le istituzioni spesso non provvedono in modo sufficiente a liberare il soggetto da tali gravose incombenze, per cui alla fine il singolo attore sociale si incarica direttamente in prima persona del compito di spiegare, motivare, rendere ragione, giustificare talune sue valutazioni, affrontando un difficile confronto con una pluralità di valori espressi e posizioni assunte in modo assai diversificato. Emerge allora una chiara contrapposizione di punti di vista, di scelte operative, di opinioni di merito. E si rimette in discussione la stessa relazione fra soggetto e società, fra cittadino e stato, fra attore sociale e contesto socio-politico-economico.
Del resto è in tali frangenti che si giunge a parlare di «crisi dei valori», di «fine dei valori». Infatti si rileva una tendenza delle società a disgregarsi, a rinunciare alle proprie forme di coesione, a scegliere soluzioni di comodo anche non democratiche, in quanto non legittimate da un consenso sufficiente ed adeguato. Quando poi si completa il quadro del disagio con una forte massificazione dei processi di comunicazione e di delega socio-politica prevale, secondo la prospettiva habermasiana (Habermas 1986), un agire più strumentale che non comunicativo, per cui i valori risultano obliterati, perdendo ogni significato originario.
In definitiva l’individuo si trova ad operare in un vuoto di valori o comunque in un contesto di loro scarsa rilevanza, giacché i valori, anche se considerati condivisibili, devono poi tradursi in decisioni assai precise, non negoziabili. E stabilire dei criteri in proposito appare quanto mai arduo, perché essi rischiano di fornire ricette troppo generiche e pertanto inapplicabili ai casi concreti.
Ecco dunque che occorre districarsi fra molte strade possibili, provando or l’una or l’altra e correndo il rischio di effetti non voluti ed in netta contrapposizione con i valori ideali, desiderabili in partenza.
D’altro canto la modernità ed ancor più la postmodernità consentono anche questo: di poter ritornare sui propri passi e di ricominciare tutto daccapo.
Che i valori abbiano un contenuto cognitivo, inoltre, è quasi dato per scontato dai sociologi, in particolare da quelli che praticano la sociologia della conoscenza. L’operazione, tipicamente weberiana messa in atto, è quella di attribuire significato a singoli aspetti della realtà. Dunque valore e significato quasi coincidono, si sovrappongono, in ogni caso mantengono una stretta corrispondenza fra loro.
Anche il carattere identitario è un Leitmotiv che accompagna la fenomenologia dei valori. Infatti proprio attraverso la dimensione valoriale ci si identifica con un movimento, una religione, un partito, una corrente ideologica. In pari tempo le dinamiche storico-sociologiche hanno fatto sì che venissero valorizzate al massimo le peculiarità individuali, in misura proporzionale con lo sviluppo delle libertà e delle autonomie individuali.
Infine un’ulteriore costante è insita nella capacità normativa delle strutture sociali, delle istituzioni giuridico-politiche e degli organismi collettivi di fornire parametri di guida per gli attori sociali. Si verificano così processi di legittimazione e di identificazione, che consolidano le appartenenze motivandole sia razionalmente che affettivamente. Al centro di tali operazioni di consolidamento delle relazioni sociali sta quasi sempre il set dei valori di base, che contraddistinguono le specificità delle appartenenze.
Se la modernità e la postmodernità hanno eroso le presunte certezze del passato ed hanno aperto la strada a valori «altri», meno predittivi e più flessibili (quasi in contraddizione, rispetto alla solida tenuta dei valori di tipo tradizionale), pure hanno consentito inusitati tentativi di ricerca di certezze diverse, di valori alternativi, di verità da costruire e non più da accogliere supinamente.
Si giunge dunque a prospettare una miriade di possibili esiti nella ricerca-acquisizione di valori non tradizionali, non più trasmessi verticalmente dalla generazioni precedenti grazie anche allo zoccolo duro delle consuetudini consolidate, vero e proprio baluardo per i valori precostituiti.
La sfida delle società contemporanee è del tutto originale, giacché si tratta di trovare vie convincenti, mediante ragionamenti fondati e motivazioni solide. In questo campo necessitano conoscenze raffinate ed esperienze adeguate. La diversificazione del sociale non permette scappatoie agevoli.
Gli stessi modi di agire del soggetto sociale sono sottoposti ad analisi conoscitive e producono nuovi termini di confronto per l’esercizio di una riflessività sempre più problematica, complessa, articolata, che a sua volta interagisce con i valori, le conoscenze e le pratiche sociali.
3. Valori, interessi ed abitudini
Insieme con i valori, anche gli interessi e le abitudini hanno un peso rilevante per l’azione individuale e sociale. Ma i primi si trovano in una singolare condizione dal punto di vista delle dinamiche sociologiche che li promuovono e li fondano. Infatti sin dal suo ingresso fisico nella società l’individuo si trova dinanzi tutta una serie di elementi precostituiti: i suoi genitori (ma talora solo la madre), i suoi familiari (dalle sorelle e dai fratelli sino ai parenti più lontani), i suoi concittadini (di solito parlanti quasi tutti una medesima lingua o uno stesso dialetto), i suoi vicini di abitazione (in un condominio o in un gruppo di case o capanne). Tutti costoro quasi accerchiano il neonato, non solo fisicamente ma soprattutto con il loro modo di fare, con le loro parole, con i loro gesti. Inizia così una prima e fondamentale comunicazione: il nuovo arrivato comincia a ricevere messaggi di vario tipo, non tutti omogenei fra loro, ma in qualche misura tendenzialmente convergenti, in quanto si rifanno ad un comune modello culturale, cioè ad una condivisa modalità di intendere l’esistenza, di affrontare la vita, di comportarsi con gli altri. Insomma ancora prima che la sua nascita venga registrata ufficialmente il nuovo soggetto sociale è di fatto un «oggetto»: di attenzioni e di cure, di affetti e di preoccupazioni, il tutto ben carico di contenuti da trasmettere, di emozioni da far trasparire e segnali da far capire.
Ma in verità anche coloro che si affannano attorno al nuovo venuto hanno sperimentato a loro volta la medesima situazione, allorquando in precedenza erano essi stessi dei neonati. È così che di generazione in generazione si inanellano idee e costumi, atteggiamenti e comportamenti, che vanno a costituire una catena senza soluzione di continuità (salvo rare eccezioni). Non si spiega altrimenti un dato di fatto inequivocabile, dato per scontato, ma poco considerato ai fini del mantenimento di un certo approccio alla realtà, dunque di una certa visione del mondo: insomma tutto appare naturale.
Dunque il mondo «naturalmente» dato si accetta, non fa problema, entra a fare parte del vissuto quotidiano, di ciò che è abituale e dunque quasi non discutibile. Del resto si dice che «si è sempre fatto così». E dunque le madri hanno allattato o comunque allevato la loro prole, i padri hanno pensato in prevalenza all’acquisizione dei beni materiali ed economici per la sopravvivenza, gli anziani hanno provveduto a garantire il legame con il passato, ovvero la continuità con l’esistente.
Tuttavia è da tenere pure presente che i valori vanno a collocarsi in un quadro precostituito, in quanto la storia ha già fatto accumulare esperienze, ha visto sorgere organismi istituzionali, ha costruito un solido patrimonio di conoscenze. Il che rappresenta l’alveo entro cui il nuovo attore sociale va ad immettersi.
Come un’acqua sorgiva non può non seguire il corso già tracciato dal pregresso scorrere di altre acque allo stesso modo il socializzando si trova a seguire un tracciato già segnato, un percorso quasi obbligato, senza molte possibilità – soprattutto all’inizio – di derogare, di prescindere dall’alveo esistente. Solo più tardi, più a valle, sarà dato esondare in modo non regolamentato, non irreggimentato. Solo il raggiungimento della maturità, congiunta con l’autonomia di movimento, consente sentieri inusitati, vie originali, sbocchi non previsti.
La costituzione degli interessi precede peraltro ogni proposta di valori. L’interesse di un nuovo nato o di una nuova nata non sembra avere un carattere innato, al di là di alcuni bisogni primari, propri di ogni essere vivente: l’autoconservazione, la protezione, il sostentamento, la ricerca del piacere, l’attenzione nell’evitare ogni situazione spiacevole ed in primo luogo quella del dolore fisico (o affettivo, legato alla privazione di qualcosa di piacevole o sperimentato come necessario per la sopravvivenza). Anzi la stessa apparizione dei valori come contenuto eteroproposto fa leva su alcuni interessi già definiti o comunque ben noti per il soggetto destinatario.
Lo stesso discorso può valere per le abitudini radicate in una certa società. Esse diventano una sorta di habitus per qualunque soggetto, che per essere accettato dagli altri è portato a confarsi agli schemi esistenti, ad adeguarsi alle «ricette» usuali, ad utilizzare le soluzioni correnti.
In definitiva ancor prima che con i valori l’attore sociale si trova a trattare con le abitudini altrui, che diventano anche le sue, e con i suoi stessi interessi di base, che divengono decisivi al momento delle scelte da operare.
Secondo Ronald Inglehart, che da più decenni conduce indagini empiriche sistematiche sui valori in vari paesi in America ed in Europa, sarebbero invece le capacità e le strutture da considerare prioritariamente come variabili indipendenti che orientano il mutamento. A dire il vero Inglehart (1977: Introduction)quando parla di capacità pensa piuttosto alla propensione delle persone ad interessarsi di politica, a comprenderla e dunque a parteciparvi in chiave anti-élite, con attività «di sfida alle élites». Quando poi si riferisce alle strutture intende quelle economiche, sociali e politiche dei paesi interessati dal suo studio comparativo: le società francese, belga, olandese, tedesca, italiana, lussemburghese, danese, irlandese e britannica.
La medesima prospettiva è utilizzata da Inglehart (1997) anche nello studio successivo su 43 nazioni, in relazione ai processi di modernizzazione e post-modernizzazione, che hanno messo in evidenza una maggiore attenzione ai valori della qualità della vita e dell’autorealizzazione, insieme con l’individualizzazione. Il dato nuovo è quello di una riflessività che porta a prendere le distanze dai valori assoluti per incanalarli invece entro contesti più soggettivizzati, dunque basati sulle preferenze individuali.
Il tutto avverrebbe non senza incertezze, tentennamenti, disagi, attese, contraddizioni, delusioni. Ma l’esito finale, elaborato dal singolo soggetto, sarebbe quello di produrre nuove regole, una normativa più rispondente alla istanze degli attori sociali, soprattutto a livello giovanile.
In tal maniera la socializzazione primaria resta sullo sfondo, quella secondaria subentra in modo deciso e decisivo, privilegiando un andamento orizzontale, intragenerazionale, in sostituzione di quello precedente, più connotato da un profilo intergenerazionale (dalle generazioni adulte verso le generazioni più giovani).
Un precipitato sociologico di tale dinamica mutazionale è il sorgere di un politeismo non più solamente di valori ma di giustificazioni e motivazioni dei valori e dunque delle azioni che ne scaturiscono, come ha sottolineato Bontempi (2001).
Pur nella differenza delle variabili considerate, vi è una sostanziale convergenza del discorso sociologico applicato ai valori, in quanto le risultanze empiriche non fanno che confermare lo schema interpretativo qui proposto. Semmai, mentre Inglehart enfatizza maggiormente il ruolo dell’istruzione, qui si suggerisce di privilegiare la fase che precede, più incisivamente, il periodo della socializzazione scolastica. Quest’ultima infatti è certamente secondaria rispetto a quella primaria dell’educazione familiare, che dal canto suo ha una sua durata non trascurabile ed un carattere introduttivo, quasi iniziatico si direbbe e dal quale è difficile prescindere.
4. Valori e diritti
I valori possono essere variabili indipendenti, cioè poste all’origine di interessi, abitudini, processi identitari e solidarietà sociali, ma pure variabili dipendenti, cioè derivanti da altri fattori sociali. Nell’uno come nell’altro caso rimane una sostanziale centralità dei valori, che in linea generale possono definirsi umani proprio perché connessi ai soggetti umani ed alle loro predisposizioni di fondo, alle loro credenze fondamentali ed alle loro valutazioni, volte poi ad assumere decisioni.
La varietà dei valori umani è però quanto mai ampia, quasi onnicomprensiva, tanto da abbracciare vari ambiti: da quello conoscitivo a quello comunicativo, da quello giuridico a quello etico-morale, da quello politico a quello economico, da quello educativo a quello medico-sanitario, da quello religioso a quello secolare, dalla vita quotidiana al vissuto di genere.
Una distinzione ricorrente riguarda la differenza che intercorre tra valori applicati e valori finalistici (Rokeach 1973), dunque fra valori che riguardano pratiche individuali e sociali e valori che rappresentano delle vere e proprie finalità da raggiungere.
Un’altra distinzione piuttosto diffusa è quella fra valori universali e valori particolari. Ma su quali siano i valori da annoverare come universali la discussione è quanto mai aperta. In particolare il dibattito tende a scivolare verso una sovrapposizione fra valori universali e diritti universali, quindi fra valori umani e diritti umani.
Nell’ultimo secolo peraltro lo sviluppo dei diritti umani è andato di pari passo con il processo di «scientizzazione», che ha visto un forte incremento della rilevanza sociale e pratica degli studi scientifici ed accademici. Soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale l’autorità e l’autorevolezza della ricerca scientifica sono state prese in maggiore considerazione (Drori, Meyer, Ramirez, Schofer 2003), segnatamente in campo medico, economico e manageriale.
Invece le dinamiche di democratizzazione, pur in crescita, non hanno raggiunto i tassi fatti segnare dai diritti umani, collocati al vertice della scala perché sono passati da un interessamento di pochissime nazioni ed organizzazioni agli inizi del Novecento sino a giungere ad oltre trecento organizzazioni e nazioni coinvolte direttamente alla fine del secolo. In proposito determinante è apparso il ruolo della cosiddetta alta educazione (Schofer, Meyer 2005).
Si può dire inoltre che l’espansione dei diritti umani è divenuto un fenomeno mondiale, costituendo perciò una modalità significativa nei più recenti processi di globalizzazione. I problemi dell’uguaglianza e dell’esclusione, per esempio, sono ormai un tema costante, quasi d’obbligo nell’agenda socio-politica internazionale. Ormai la mancata partecipazione di alcuni gruppi – soprattutto minoritari, rurali e di basso status socio-economico – ai livelli più alti in campo educativo costituisce un punto di forte richiamo di attenzione e di sensibilità per i governi e le organizzazioni internazionali.
Una forte spinta in favore dei valori dell’uguaglianza degli individui e della partecipazione democratica è operante da lungo tempo, grazie altresì alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani promulgata dalle Nazioni Unite. Ma c’è da chiedersi se non vi siano anche altri valori umani universali o presunti tali.
Il fatto è che non appare facile giungere ad un accordo generalizzato da parte di tutti sui valori da considerare universali. Non c’è in merito alcuna intesa possibile fra le nazioni. Al massimo resta valida la citata proclamazione dell’ONU, che però non è stata debitamente sottoscritta ed implementata da tutte le nazioni del mondo.
In mancanza di consenso sociologico sull’esistenza o meno di valori universali ci si limita di solito a rilevare empiricamente la presenza di valori maggiormente diffusi in ciascuna cultura o contesto socio-geografico-politico. Solo un’ampia, metodologicamente corretta e significativa indagine a livello mondiale ed in chiave comparata sarebbe in grado di fornire qualche indicazione di massima sulla presenza di metavalori largamente rintracciabili (sia pure con modalità differenziate) in varie realtà sociali e perciò suscettibili di essere riconosciuti, grazie alla loro evidenza empirica, come universali.
Detto altrimenti, non è affatto scontato che valori come libertà, democrazia, rispetto della persona, «sacralità» della vita, uguaglianza fra gli individui ed altri valori ancora siano da considerarsi universali solo perché una certa parte dell’universo li considera preminenti. Esistono situazioni e condizioni, di varia natura, che sembrano sconfessare l’universalità dei suddetti valori, che risultano pertanto maggiormente conclamati e sostenuti solo in una data parte del mondo.
5. I valori universali
La questione dell’universalità dei valori non è di secondo momento: da essa dipende la necessità o meno, per talune organizzazioni e nazioni, di diffondere anche altrove i propri valori di riferimento. Per esempio c’è da domandarsi se sia corretto deontologicamente esportare il valore della libertà o della democrazia facendo ricorso ad uno strumento come la guerra che di per sé è già una negazione e della libertà e della democrazia.
D’altra parte se in un particolare contesto vige come valore un orientamento diverso (o valutato come superiore) rispetto a quello del rispetto della vita umana non è certo possibile immaginare di annoverare la «sacralità» della vita tra i valori universali.
Come si vede, non è facile sciogliere la questione relativa a quali siano i valori universali. Ogni affermazione in proposito rischia di essere destituita di fondamento empirico. In effetti sono i singoli e le strutture cui essi appartengono che giudicano della «bontà» di un valore facendovi ricorso nelle loro azioni sia quotidiane sia a più lunga gittata.
Solo in via ipotetica è possibile pensare a valori universali, di largo riconoscimento nelle diverse culture attive in tutto il pianeta. E l’ipotesi eventualmente formulata è pur sempre destinata ad essere confutata non appena si presenti un’evidenza empirica in senso contrario.
In termini provocatori (ma produttivi sul piano della conoscenza scientifica applicata alle dinamiche valoriali) si potrebbe dunque partire con il sostenere che la soppressione di una vita umana sia un valore ed andare poi a verificare se questo punto di vista sia o non sia rilevabile in ciascuna delle realtà sociali esistenti nel mondo. E così si scoprirebbe, ad esempio, che il sacrificio della propria vita risulta particolarmente apprezzato in determinati ambiti, alla luce di credenze culturali, ideologiche o religiose, che privilegiano una finalità diversa rispetto a quella che prevede un giudizio del tutto negativo sulla fine voluta o procurata di un’esistenza.
Per di più, in una medesima realtà sociale si può riscontrare una netta contrapposizione fra i valori della maggioranza e quelli della minoranza: è il caso tipico dei gruppi devianti o marginali, che seguono logiche valoriali assai diverse da quelle della maggioranza, ma senza che vi sia una sostanziale differenza per quanto riguarda l’influenza esercitata dai valori prescelti: la lealtà di gruppo in una banda criminale può essere ben maggiore di quella in atto in un team aziendale.
Forse una soluzione praticabile potrebbe essere quella di parlare di valori quasi-universali o para-universali, intendendo così che la classificazione suggerita non ha alcuna pretesa di esaustività e di generalizzabilità. In fondo conviene evitare posizioni assolute, autoreferenziali, apodittiche. I valori in effetti non dipendono solo dalla capacità di un gruppo dominante di imporli anche ad altri individui e gruppi sociali.
Peraltro la capacità dei valori di essere rispettati o meno si lega a numerose variabili, non facilmente prevedibili e soppesabili. Soprattutto nel campo dei valori molte previsioni sono destinate al fallimento, tale e tanta è la mole dei fattori in gioco, a volte convergenti a volte divergenti, talora fortemente contrastanti fra loro talora più disponibili, cioè meno belligeranti verso i «controvalori».
La variabilità dei soggetti umani è anche variabilità di tenuta dei valori. Quest’ultima dipende altresì dal tasso di importanza che ciascun valore ha per il singolo e/o per il gruppo. Non a caso le decisioni più problematiche sono quelle che contemplano la messa in discussione di più valori, ugualmente presenti nel bagaglio culturale e personale, secondo una classificazione più o meno consapevole ma che diventa esplicita allorquando è in gioco una scelta da fare.
Tuttavia se anche uno specifico valore ha la meglio e fa pendere il piatto della bilancia in un senso non è detto che in una successiva occasione sia sempre il medesimo valore a prevalere. Insomma le circostanze, i condizionamenti contingenti ed altri fattori, anche affettivi, possono pesare in modo decisivo, anche indipendentemente da quella che è la scala di valori idealmente sostenuta dal singolo soggetto sociale.
6. Valori e mutamento sociale
In generale non è dato verificare che un singolo valore possa cambiare da solo, senza che vi siano altri cambiamenti di rilievo, in particolare di altri valori. Si pensi al valore della libertà: una sua trasformazione non può non accompagnarsi ad una diversa percezione del senso dello Stato, nonché della partecipazione democratica alle vicende di una nazione.
Ma a volte le combinazioni fra i valori, in un loro processo evolutivo, sono difficili da individuare e persino da ipotizzare. Talora anche valori in contraddizione fra loro possono convivere e connotare una trasformazione sociale primaria. Non si può dimenticare, invero, che la volontà del singolo soggetto è sovrana e spesso imperscrutabile nelle sue intenzionalità, nelle sue ragioni fondamentali, nelle sue scelte procedurali.
Anche quelli che sembrano i valori più accreditati a livello locale e globale sono sottoposti a modifiche, rivisitazioni, adattamenti. La stessa idea di democrazia o quella di libertà è interpretabile diversamente secondo i differenti quadri culturali di riferimento e/o le prospettive ideologico-politiche di partenza: quando per esempio di dice «Cuba libre», ovvero Cuba libera, l’interpretazione può essere duplice, sia in relazione all’istanza di liberare il paese dal governo di matrice castrista, definito perciò dittatoriale, sia in rapporto con la volontà di sottrarre Cuba al potere economico-militare capitalista e statunitense.
Tale situazione dicotomica fa intravedere una tendenza a contrapporre valori e controvalori, dunque ciò che sarebbe massimamente auspicato da una parte ma non dall’altra e viceversa. L’opzione effettuata è frutto di decisioni operate a favore di un approccio affettivo oppure neutrale, individualistico oppure collettivistico, particolaristico oppure universalistico, specifico o diffuso, ascritto o acquisito (Parsons 1951).
In realtà la selezione dei valori non segue tutta la serie delle alternative ma si concentra su alcuni temi e problemi. Qui entra in gioco la variabile rappresentata dalla società e dalla cultura che la attraversa. In chiave durkheimiana si arriva a stabilire una sorta di morale collettiva (Durkheim 1925), che ha la sua base fondante nella società stessa, nella comune appartenenza dei singolo ad un insieme condiviso, la cui utilità appare direttamente proporzionale al rispetto che il consorzio sociale gode fra i suoi membri. Non si tratta qui di corrispondere acriticamente alla troppo vaga idea di Durkheim che propone la sua «coscienza collettiva», carattere tipico di una sorta di società sacralizzata. Il rispetto verso la società si esplica mediante l’applicazione delle norme morali da essa dettate e comunque di fatto praticate senza alcuna sortita critica nei suoi riguardi. Un effetto immediato è pure il rispetto per l’individuo, ma questo per Durkheim è un fatto che emerge in subordine. E, soprattutto, in tale prospettiva l’apporto del singolo è minimo, quasi inesistente, perché in esso e con esso si rende omaggio alla sola collettività genericamente ed astrattamente intesa, priva di qualsiasi contributo individuale alla costruzione di una morale collettiva non particolarmente autoritaria forse ma certo non costruita consensualmente.
Non mancano invero studi e proposte interpretative che prospettano altre letture, che pongono in relazione i valori e gli atteggiamenti (per un approccio funzionale: Brewster Smith 2006) o che insistono segnatamente sui valori morali (Hartmann 2002) e sulla loro educabilità, oggetto di attenzione da parte di riviste internazionali come Journal of Beliefs & Values, Journal of Moral Education, Issues in Religious Education, o di centri di ricerca dedicati come il Centre of Beliefs and Values con sede presso l’University of Wales.
7. Valori e morale
Di recente è stato notato un accentuato affermarsi dell’etica pubblica, che attiene al comportamento visibile dei singoli a livello collettivo ed in relazione agli interessi di carattere comune a livello amministrativo, gestionale, politico, sindacale, economico. L’opinione pubblica ed i mezzi di comunicazione di massa tendono ad enfatizzare episodi ed eventi che anche in misura minima vanno a ledere quelle che sono le attese diffuse a livello di cittadinanza, di nazionalità, di appartenenza.
Ma il campo politico e quello economico appaiono i più proclivi ad emanciparsi da controlli esercitati da soggetti individuali ed organismi di rappresentanza. Effettivamente reperire un fondamento etico nella politica e nell’economia è impresa irta di difficoltà.
Le prospettive neocontrattualiste e neoutilitariste che significativamente si sono affacciate alla ribalta mondiale insieme con le nuove ondate di conservatorismo etichettate come neocon (neoconservatoriste) hanno ridotto la questione etica alla sola correttezza dell’applicazione delle regole, senza porsi alcun problema a monte, in chiave di giustificazione.
Anche la suggestiva proposta di Niklas Luhmann imperniata su una visione proceduralista della società, tutta gestita da algoritmi cibernetici e pratiche regolative, rientra in tale insieme paraburocratico che pensa a governare la società come se fosse un’immensa macchina priva di consapevolezza e quindi anche di coscienza individuale e sociale.
I tentativi avviati ed implementati non hanno prodotto risultati soddisfacenti ed anzi hanno incrementato il tasso di non partecipazione degli attori sociali alla gestione diretta delle società cui appartengono. Insomma né il contrattualismo, né l’utilitarismo, né il funzionalismo, per quanto rivisitati ed imbellettati, sono riusciti nelle loro formule rinnovate a favorire il radicamento (o, al contrario, il cambiamento) di valori condivisi dagli individui nelle loro reti sociali.
Nemmeno il disincantamento weberiano del mondo ha dato una svolta decisiva ed anzi con la sua proposta di lettura relativa alla constatazione di un politeismo dei valori pare aver creato complicazioni ancora maggiori, non risolvendo affatto il problema di un fondamento etico per la società, giacché avere molti fondamenti equivale di fatto a non averne. Ed intanto continuamente il soggetto sociale è chiamato a risolvere questioni ineludibili, a fare scelte improcrastinabili. Lo stesso sviluppo umano e sociale ne risente in quanto una problematica come quella della sostenibilità ovvero del cosiddetto sviluppo sostenibile non può essere esaminata e risolta rinunciando a qualunque ipotesi di criteri etici orientativi in merito alle azioni da compiere.
8. Valori morali ed approccio scientifico
Non è esente da critiche la stessa Wertfreiheit ovvero avalutatività weberiana che facendo leva sulla sostanziale distinzione fra fatti e valori comporta per lo scienziato sociale una netta distanza dai valori e quindi una totale rinuncia ad esprimere giudizi di valore a proposito di un oggetto di ricerca scientifica, limitando dunque l’analisi conoscitiva alla rilevazione dei fatti ed alla loro interpretazione.
L’obiezione che si muove al riguardo riguarda la non neutralità dell’approccio scientifico ed in fondo la presunzione di neutralità di qualunque teoria della conoscenza. Si sostiene infatti che dietro la parvenza di neutralità agirebbe invece un qualche riferimento valoriale, un fondamento etico, magari inconsapevole eppure attivo ed influente.
In pratica anche a monte dell’esperienza di ricerca metodologicamente corretta ed autoproclamantesi neutra ci sarebbe un insieme di valori, che proprio perché diversi, polimorfi, provano l’esistenza di un pluralismo di valori già all’origine, in nuce, ancor prima di rivolgere lo sguardo all’universo di indagine.
Del resto l’idea kantiana di un’etica universale da cui far discendere tutti i valori comuni per l’umanità e per l’armonia del mondo non trova più molti fautori. Il sociologo contemporaneo non può non osservare che c’è qualcosa di più (o di meno, secondo i vari punti di vista) del «cielo stellato sopra di noi» e della «coscienza morale che è dentro di noi».
Invocare poi la razionalità non fa che aggiungere problematicità: quale razionalità si dovrebbe usare? Forse quella di matrice laica, illuminista, di origine francofona e settecentesca? La storia europea (e non solo) ne ha mostrato appieno i limiti, le idiosincrasie, le conseguenze talora drammatiche. Ed in particolare ha fatto intendere che il pensiero, pur accorto, di una piccola élite non garantisce molto in termini di efficacia e di salvaguardia dei diritti di tutti.
Conviene dunque lasciar perdere una ricerca – che risulterebbe vana – per individuare un’etica condivisa? O non è forse praticabile l’idea di un’indagine comparata fra i vari sistemi etici per definire quelli che sono gli orientamenti più accettabili anche perché maggiormente ricorrenti?
Habermas ha avanzato la sua proposta di un’etica del discorso, di una comunicazione aperta, a due vie, fra soggetti pari, fiduciosi gli uni verso gli altri, disponibili nei riguardi dei rilievi critici, non latori di alcuna verità assoluta, ricettivi nei confronti dell’altrui posizione, orientati alla ricerca continua del bene comune, dell’interesse della comunità.
9. Valori morali ed ideologie
A questo punto appare evidente tutta la debolezza delle ideologie, negate ad ogni soluzione da etica del discorso. Tale annotazione critica concerne sia la prospettiva religiosa che quella laica, entrambe impaniate nelle loro convinzioni di fondo. Il duplice fondamentalismo, religioso e laico, non si addice ad un agire comunicativo, alla ricerca di soluzioni soddisfacenti per un numero adeguato di soggetti sociali. In tale prospettiva non è da immaginare una soluzione immediata, da consacrare con il suggello del consenso esplicito della maggioranza. In realtà una soluzione utile quasi a tutti può nascere anche come posizione minoritaria. L’importante è che non venga imposta con la forza della costrizione, con il ricatto giuridico, militare, affettivo o di altro tipo. Un traguardo raggiunto subito ed agevolmente non promette bene per il futuro. Solo una prassi consolidata, divenuta tradizione, abitudine, ma rispettosa degli interessi degli attori sociali, riesce ad affermarsi come parametro di larga validità.
In ogni caso il punto più delicato è il peso degli interessi individuali che divenuti di fatto una tradizione, un’abitudine ben radicata, difficilmente vengono accantonati in favore di una prospettiva sociale. Sembra che sia comunque indispensabile una regolamentazione delle istanze soggettive, affinché non ledano le aspettative della collettività.
Oggi si constata sempre più un progresso evidente del rispetto dei diritti dei singoli, che in qualche misura risultano separati dal contesto sociale e non si combinano facilmente con motivi solidaristici. Il ricorso all’idea di attore sociale è perciò un tentativo di collocare in un quadro più relazionale il singolo individuo, sottolineando il suo carattere di essere umano propenso alla socializzazione, alla condivisione, al dialogo, al confronto, al discorso sui valori, non più in chiave utilitaristica, strumentale, funzionale.
Le dinamiche migratorie, di natura multiculturale, multireligiosa, multilinguistica, non fanno che accentuare il bisogno della ricerca di valori comuni, di principi etici adeguati e soddisfacenti, in grado di risolvere fraintendimenti e conflitti, lotte e contrasti. Appare utopico ipotizzare la definizione di valori morali accettati sempre e comunque da gruppi etnici diversi, da soggetti sociali appartenenti a fedi religiose differenziate, a visioni del mondo talora polarizzate lungo l’asse di ciò che è bene e di ciò che è male senza alcuna possibilità di interlocuzione, mediazione, discussione, al fine di trovare soluzioni non confliggenti.
Pure la dimensione trascendente di una religione non è sempre in grado di far accettare regole e comportamenti consoni e coerenti, accettabili da tutti. Ecco perché in tema di valori etici può giovare ancora una volta richiamarsi a Weber, ma questa volta accogliendone la proposta, in termini di etica della responsabilità, che tiene massimamente conto delle contingenze del momento, dell’urgenza del problema da risolvere senza danneggiare alcuno, se non in misura minore e comunque utile a lui stesso come a tutta la comunità. L’elemento da prendere in considerazione potrebbe essere per esempio la valutazione delle conseguenze di un atto, degli effetti di un certo tipo di azione. Da qui la problematicità delle scelte da effettuare sempre in bilico fra il bene massimo possibile per tutti, da una parte, e ciò che è davvero realizzabile, dall’altra.
10. I valori religiosi
Le cosiddette religioni universali, da quelle dette del libro (ebraismo, cristianesimo ed islam) a quelle di matrice orientale (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, scintoismo), presentano tutte dei contenuti valoriali, che ruotano attorno ad una specifica concezione del mondo, del significato dell’esistenza, del destino umano.
Un tentativo sommario di sincretismo incentrato sui valori potrebbe vedere una certa convergenza fra la religione ebraica, quella cristiana e quella islamica, nonostante vari eventi della storia passata e contemporanea facciano escludere la praticabilità di tale esperienza comune. Ma tentativi non sono mancati, anche in forma ufficiale ed organizzata. Né mancheranno, probabilmente, anche in futuro.
Nel campo delle religioni cinesi ed orientali si deve registrare l’esperienza del Ju-Fu-Tao, che mette insieme confucianesimo, buddismo e taoismo, come se si trattasse di una medesima religione, praticata soprattutto dai cinesi moderni.
Altrove, in Giappone, si va oltre: non solo si hanno culti e riferimenti valoriali che pertengono a più religioni asiatiche (soprattutto scintoismo e buddismo) ma che inglobano pure talune sortite in campo cristiano, dando luogo ad un misto di valori e pratiche spesso in alternanza fra loro, secondo i momenti del vissuto personale dei soggetti, delle loro famiglie e delle comunità di appartenenza. Non a caso nei primi decenni del secolo scorso si è avuto un tentativo di unificare scintoismo, buddismo e cristianesimo.
Tra i contenuti valoriali più diffusi in ambito orientale è da segnalare senz’altro la venerazione per le passate generazioni, che si estrinseca in un vero e proprio culto per gli antenati. Ne fa parte il valore massimo attribuito alla pietà filiale, che si allarga sino al rispetto dovuto ad ogni altro essere umano. In alcuni casi l’attenzione alle persone precede lo stesso amore verso la divinità, cosicché i grandi uomini, chiamati maestri, divengono più importanti degli esseri divini.
Rispetto al carattere etico-sociale del confucianesimo il buddismo sviluppa ancor più il valore della spiritualità di vita. Ma va anche detto che con la proclamazione della repubblica in Cina, agli inizi del secolo scorso, comincia a diffondersi il sistema proposto da Sun Yat-Sen, che si fonda su tre nuovi valori: nazionalismo, democrazia e socialismo. Quest’ultimo assume poi un carattere meno idealistico e più militare con l’avvento del maoismo.
Induismo e buddismo, dal canto loro, continuano invece ad apparire più sensibili alla questione escatologica, in particolare al destino degli esseri viventi una volta giunti al termine del loro ciclo esistenziale. Infatti i valori centrali degli induisti e dei buddisti sono connessi alla dinamica della trasmigrazione delle anime, in virtù della quale vengono enfatizzati gli aspetti spiritualistici.
Nell’ambito dell’induismo, però, la divisione in caste produce vari contraccolpi, con tentativi di rigetto che si concretizzano nella nascita di una nuova religione, il sikhismo, ad opera di Nanak, già cinque secoli fa. Quasi coevo è il tentativo di Kabir di superare il ritualismo e l’idolatria, propugnando la fusione di induismo ed islam, poi riproposta in chiave politica dall’imperatore indiano Akbar, musulmano. Alla fine è l’islam che riesce ad aver la meglio, anche per ragioni di natura militare imposte dal sovrano mogol Shah Jahan.
L’induismo torna in auge a seguito di una svolta ancor più spiritualista (derivante dal brahamanesimo), che crea le premesse per la predicazione del valore della bontà, sostenuto da Devendranath Tagore, padre del famoso poeta, a sua volta anch’egli punto di riferimento fondamentale per la cultura induista.
Ulteriori spinte verso l’unione fra religioni diverse si presentano di tanto in tanto: dapprima con Ram Mohan Roy, fautore di un induismo definito unitario e favorevole al riformismo britannico in India; poi con Keshab, che prova ad incorporare il cristianesimo nell’induismo unitario; più tardi con Ramakrishna, che auspica un sincretismo totale fra le religioni.
La vivacità delle dinamiche interne all’induismo è confermata altresì dall’esaltazione del valore di una vita vegetariana, predicata da Dayananda Sgravati, attivo anche negli Stati Uniti ed in Europa. Vi è infine Mahatma Gandhi che predica i valori della non violenza, della resistenza passiva, della purezza e della verità. E più avanti si farà strada anche il valore della tolleranza religiosa.
Il buddismo, dal canto suo, ha insistito nel corso dei secoli sul valore dell’assenza del desiderio, connesso al controllo del proprio corpo ed al principio dell’auto-aiuto.
Non è estranea a questi filoni plurisecolari delle religioni orientali la nascita stessa della società teosofica, che si basa sia sul buddismo che sull’induismo.
Nel frattempo numerose letture filosofico-religiose costellano la storia dell’umanità: dall’arabo Averroè all’ebreo Maimonide ed al cristiano Tommaso d’Aquino. In campo letterario Chaucer esalta i valori della vita comune dell’umanità e della fratellanza sociale nei suoi Racconti di Canterbury. Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro parlano del valore della semplicità di vita. Rousseau insiste sulla libertà del pensiero. I filosofi Lessing ed Herder vedono le capacità di sviluppo dell’uomo in ogni genere di religione. Wordsworth nota il carattere spirituale della vita in comune. Felix Adler fonda la Società Etica di New York e Stanton Colt la Società Etica Inglese. Horace Bridges poi ha a che fare con la Società Etica di Chicago. Tolstoi e Kropotkin propugnano i valori della giustizia sociale e della fratellanza umana. Rauschenbush è da ricordare per il suo «vangelo sociale», John Dewey per Una fede comune e J. Middleton Murry per il «socialismo religioso». Anche Albert Einstein è da menzionare per il suo rispetto dei valori insiti nella vita umana e nell’etica. Martin Buber infine dà grande rilievo al valore della dimensione individuale. Poste tali premesse non giunge inattesa l’idea di realizzare, nella seconda metà del secolo scorso, il primo congresso internazionale sull’umanesimo e la cultura etica.
Hans Küng, che ha completato di recente la pubblicazione della sua trilogia sulle tre religioni del libro, evidenziandone i numerosi punti di contatto, ha ribadito altresì che «c’è una base comune: non uccidere, non torturare, non violare; non rubare, non corrompere, non tradire; non mentire, non dare falsa testimonianza; non abusare sessualmente. Questi sono principi che si trovano in tutte le religioni. In generale i cattolici sono assolutamente d’accordo. Il problema sorge quando si incomincia ad identificare il rispetto per la vita con la condanna degli anticoncezionali, se si ha una posizione rigida sull’aborto, se si ha un atteggiamento discriminatorio verso l’omosessualità e se non si capiscono i problemi associati all’eutanasia». E poi conclude: «abbiamo bisogno di un fondamento morale. Ma questo non può essere il laicismo, né può essere il clericalismo, non può essere la restaurazione di un’Europa cristiana come la vedeva papa Wojtyla, e neanche può essere la restaurazione di uno Stato ateo come dopo la Rivoluzione francese. Abbiamo bisogno di un fondamento etico, ossia l’accettazione di norme etiche di base, sostenute da tutte le religioni importanti e dalle tradizioni filosofiche, che possono accettare anche i non credenti».
12. Oltre i valori religiosi
I valori religiosi per il loro essere innervati all’interno di un apparato necessariamente ideologico, inteso come insieme di idee fondanti ed irrinunciabili, vengono spesso a fungere da veicoli per condanne, precetti, proibizioni. Questa loro caratteristica non impedisce tuttavia che possano rientrare in un novero di accettabilità sufficientemente condivisa. Talora capita che in nome di una religione confessata e praticata si intenda proporre il proprio orientamento di valore, chiedendone pure il riconoscimento giuridico a livello costituzionale, nella normativa corrente e nella regolamentazione dei culti, con estensioni sino a comprendere aspetti lontani da quelli peculiari di una credenza religiosa.
Specialmente a fronte di una conclamata crisi dei valori, si invoca talora il ripristino di quelli religiosi come soluzione vincente e rimedio ineludibile. Ma le conoscenze fornite dagli studi sociologici dicono chiaramente che nessun valore, religioso o laico (o secolare) che sia, è in grado da solo di soddisfare in toto quanto necessario per la convivenza sociale. Lo stesso dicasi per ogni insieme di valori religiosi appartenenti ad una specifica confessione religiosa. Il diritto, l’organizzazione statale e le procedure hanno una tale complessità che non può essere risolta da un solo quadro di riferimento valoriale. Va considerato principalmente il fatto che le situazioni evolvono, si presentano in modo imprevedibile, offrono articolazioni complicate ed inestricabili. Informare una legislazione ad un gruppo di valori religiosi specifici e conformare ad essi tutto l’ambito dell’agire sociale non paiono opzioni adeguate ad affrontare le differenze insite nel sociale, a risolvere a monte ogni contrasto, a prevedere ogni sviluppo delle dinamiche democratiche, a prefigurare scelte politiche di ogni tipo.
E peraltro i valori, religiosi o meno, non esauriscono la loro funzione e la loro influenza, in un particolare ordinamento normativo. Essi vanno ben oltre e perciò comportano un riferimento più ampio, un fondamento più saldo, dato dagli stessi attori sociali, al di là di semplificazioni scontate e con un forte esercizio critico nei riguardi delle scelte da operare.
I valori non sembrano di fatto una ricetta applicabile ad ogni evenienza. La loro messa in pratica richiede di solito un’accorta analisi della realtà sociale. Per di più i valori rappresentano un orientamento di massima e non riescono a sostituire l’azione riflessiva dell’individuo, privandolo completamente della sua libertà di azione. I valori, inoltre, più che una difesa appaiono come un viatico, un accompagnamento per agire nel mondo, con accortezza ma senza paure predeterminate. In pratica i valori sembrano avere una certa somiglianza con le teorie scientifiche: sono di guida ma non tendono ad obbligare, lasciano certamente autonomia ma non a dismisura, usano la «trascendenza» non nel senso strettamente religioso bensì in chiave di superamento di una base esclusiva, immutabile, indefettibile. Insomma anche i valori mutano, si adattano, fanno i conti con la realtà sociale.
Non si tratta tuttavia di una sorta di relativismo diffuso da utilizzare ad ogni costo, quanto piuttosto di un approccio attento ed accurato, che in effetti si fa carico pure del pluralismo ma nel contempo risulta consapevole della relatività delle diverse posizioni esistenti e praticabili.
Si giunge dunque a postulare, da parte dell’attore sociale, non tanto una flessibilità dei valori quanto invece una loro debolezza di partenza perché destinati comunque a scontrarsi con i dati del reale sociale e con il loro divenire.
Non a caso anche la legge fondamentale di uno stato, la costituzione appunto, per quanto considerata «sacra», fondamentale, pure necessita di aggiornamenti, revisioni, anche in ragione della ricerca di valori tendenzialmente universali, cioè abbastanza consensuali in merito a quanto è ritenuto imprescindibile al momento e per una comunità ben individuata.
Per questo ogni tentativo di religione di stato, di patto fra religione e stato, mostra poi la corda perché gli individui sociali sono abbastanza abituati e propensi a rielaborare a livello personale quanto è codificato, dunque a fornirne una propria interpretazione e, soprattutto, un’applicazione misurata, critica e mirata. Le pattuizioni fra chiese ed amministrazioni pubbliche, se anche portano a risultati concreti, con vantaggi ed agevolazioni a favore delle organizzazioni religiose, però nel medesimo tempo costituiscono una remora per l’accettazione incondizionata da parte dei cittadini, che si riprendono i loro diritti individuali esercitandoli a prescindere dalla normativa concordata fra i vertici religiosi e quelli politici: la religione perde allora il suo carattere di contenitore di valori disponibili per tutti, viene percepita essenzialmente come ideologia e come potere e viene appaiata a forme non partecipate aventi un carattere impositivo. Di conseguenza vengono giudicati meno credibili i suoi aneliti valoriali per il rispetto dei diritti umani e civili, per l’affermazione della libertà, per la lotta alla schiavitù e per il rifiuto di ogni totalitarismo.
12. I valori secolari
Non è sempre possibile discernere nettamente i valori secolari (o laici) da quelli religiosi. Su alcuni valori religiosi c’è anche l’accordo di coloro che si dicono piuttosto laici nei loro orientamenti. E viceversa ci sono dei valori tipicamente secolari sui quali si manifesta pure il gradimento di soggetti che si ispirano a principi religiosi.
La questione principale riguarda il depositario dei valori religiosi e secolari o laici. Se per quelli religiosi si può presumere che siano le chiese, le denominazioni, le organizzazioni confessionali, per quelli non religiosi solitamente si pensa allo Stato come principale interprete valoriale. Ma in quest’ultimo caso è preferibile usare un altro aggettivo: si tratta infatti di valori secolaristi o laicisti, piuttosto che secolari o laici i quali in genere hanno la loro base morale nella coscienza individuale, ovvero nella libera ed autonoma capacità di scelta del singolo individuo.
Si comprende a questo punto che c’è un parallelismo nell’atteggiamento e nel comportamento individuale nei riguardi sia della religione che della politica, di una chiesa come di uno stato. Insomma gli assolutismi valoriali non sono sociologicamente dominanti anche perché diversi e multiformi sono i valori e gli scopi etici, non riconducibili ad un unico e medesimo sistema religioso e/o politico che sia.
C’è altresì da considerare che una supposta unità di valori religiosi non significa che ad essa debba necessariamente corrispondere una sola formula politica. Viceversa una soluzione politica condivisa non vuol dire che ad essa dia luogo un’unica base valoriale. Detto altrimenti il politeismo weberiano dei valori vale sia per l’ambito religioso che per quello statale.
Ogni istituzione del resto si fonda comunque su un certo grado di condivisione di taluni valori e dunque non è affatto neutrale, avalutativa. Una visione laica o secolare è essa stessa intrisa di valori. Ad esempio uno Stato che presuma di essere etico diventa la fonte principale per i valori dei suoi cittadini, che però ricorrono alla loro libertà individuale, si richiamano alla loro coscienza personale e di conseguenza fanno uso della loro libertà di azione.
Se però lo Stato si fonda su principi etici e mira a salvaguardarli tra i propri cittadini è esso stesso un ulteriore garante della libertà di coscienza ed azione, specialmente se il valore della libertà è un suo elemento qualificante, in relazione soprattutto al diritto individuale sul proprio corpo («il corpo è mio e me lo gestisco io») ed al diritto di proprietà su quanto è immateriale («il pensiero è mio e lo uso come meglio credo»).
Anche una visione «cibernetica» della realtà sociale, alla maniera del neofunzionalismo luhmanniano, è connotabile come fondata sui valori laico-secolari del buon funzionamento, dell’ordine, dell’equilibrio sociale, della regolazione sistemica. L’esperienza storica e sociologica ci dice che una simile impostazione non è autosufficiente e si trova comunque a fare i conti con l’autonomia dell’individuo e con le sue libere scelte. Se non c’è corrispondenza fra impostazione valoriale dello Stato e propensioni dei cittadini la società entra in crisi, si hanno conflitti di valori, aumentano comportamenti anomici.
Solo se la struttura statale in tutte le sue articolazioni non è estranea, nei suoi valori di base, all’orientamento dei soggetti sociali il suo funzionamento è assicurato, giacché è sostenuto dai valori diffusi: gli individui non sono «stranieri morali», come direbbe H. Tristram Enghelardt.
Sullo sfondo di questi scenari secolari e laici resta un carattere essenziale: il valore della libertà di coscienza che nessuno Stato riesce ad esautorare. Appunto per questo lo Stato, sia esso laico o laicista, secolare o secolarista, non è in grado di prescindere del tutto sia dall’autonomia etica delle religioni sia da quella degli attori sociali. Il che non implica una dipendenza della politica dalla religione, però l’una e l’altra non possono non richiamarsi al valore della ragione, il cui carattere laico-secolare è certo frutto dell’Illuminismo francese ma non è del tutto ignoto alla tradizione delle religioni universali e non.
È difficile contestare che i valori secolari e laici non abbiano qualche radice nelle credenze metafisiche. La storia della filosofia è ricca di esempi a tal proposito, nella misura in cui vari filosofi hanno contribuito a consolidare taluni valori dando loro un carattere sacrale, non lontano da una connotazione metafisica.
Non meraviglia dunque il dato di fatto che vi sia una certa connessione fra valori secolari e religiosi. Ne è prova altresì la constatazione che per capire il mutamento dei valori occorre riandare ad una ricomprensione degli aspetti fondanti dei medesimi valori: va dunque ripercorsa la tradizione, va rifatto all’indietro il tragitto che ha portato alla situazione attuale. Si scopre così che una parte cospicua dei valori contemporanei ha origini antiche e non esenti da un afflato religioso.
Da un punto di vista della sociologia della conoscenza si può dire che la durata maggiore delle istituzioni religiose e delle loro élites intellettuali ha potuto influenzare ancor più le dinamiche sociali che non la tenuta piuttosto effimera delle compagini politiche e statali, pur senza sottovalutare l’effetto duraturo delle normative, dei modelli amministrativi, degli stili di vita, delle abitudini sociali di un popolo, delle stesse valenze linguistiche che, definendo e distinguendo fenomeni, persone, eventi, oggetti ed altro ancora, di fatto riconoscono, legittimano e consolidano, anche e soprattutto nel campo dei valori.
Nel contempo se le religioni perdono forza e capacità di orientamento i loro valori tipici ne risentono, indebolendosi a livello diffuso, così come capita per i principi valoriali sostenuti da un movimento politico, sindacale, o di altra natura, che venga a perdere terreno nella sfera pubblica. Uno dei primi indicatori di tale forma di indebolimento è l’avvento di un pluralismo di nuovi valori, più o meno alternativi, accompagnato da un’instabilità dei valori preesistenti, che vengono difesi ad oltranza dai gruppi più militanti e perciò più inclini al fondamentalismo.
13. Valori globali e locali
L’accresciuta mobilità delle persone attraverso il mondo sta incrementando sempre più le occasioni di incontro ma anche di scontro che si incentrano essenzialmente sui valori. Per questo, in particolare a livello politico-statale, si assiste quasi ad una sorta di gara nella messa a punto di costituzioni, leggi, regolamenti, procedure, al fine di salvaguardare i principi basilari autoctoni in vista di presenze vieppiù numerose di soggetti provenienti da altri contesti culturali. In pari tempo si studiano le soluzioni più adatte per affrontare il nuovo impatto.
Già negli Stati Uniti si sono avute le modalità del melting pot dapprima, con il tentativo di mescolare insieme le varie caratteristiche sino a farle quasi scomparire, e del salad bowl dopo, con la prova di mettere insieme le diversità senza intaccarle. Entrambe le proposte non hanno dato esiti positivi.
Ora la strada seguita in Europa, ma anche altrove, è quella di legiferare sulla base di valori ritenuti peculiari del territorio di appartenenza ma lasciando poi alle singole nazioni la possibilità di fare ulteriori adattamenti, senza tuttavia negare il comune richiamo a valori continentali europei. In pratica si usa la prospettiva più globale con pochi, qualificanti valori di base, e poi quella locale, che acquisisce alcuni valori aggiuntivi, non in contrasto con quelli europei.
In generale tra i valori di maggiore riconoscimento emergono: l’uguaglianza di genere, il diritto di parola, la libertà di educazione, il ripudio della guerra come metodo di soluzione delle controversie, la convivenza pacifica fra gli appartenenti a culture diverse, l’abolizione della pena di morte, la non discriminazione razziale, l’integrazione scolastica, il pluralismo ideologico e religioso e non ultima la libertà di coscienza.
In proposito esistono già varie dichiarazioni ufficiali e documenti sottoscritti da più parti in causa. La stessa denominazione delle parti è un indicatore eloquente della volontà di dichiararsi sia credenti e praticanti di una religione sia membri di uno stato nazionale. In Italia, ad esempio, sia la comunità ebraica che quella islamica tengono molto a specificare la loro appartenenza nazionale oltre che confessionale.
Questo è anche il risultato di una lunga traiettoria storica che ha in una prima fase fatto dipendere tutto dalla volontà di Dio (anche i sovrani erano tali per volere divino), in una seconda fase ha affidato alla decisione del popolo e dei suoi rappresentanti democraticamente eletti la possibilità di eleggere governanti cui delegare il compito di fare le leggi per tutta la comunità.
In passato c’erano i peccati contro Dio, oggi ci sono i reati contro l’individuo e la società. A fronte di tale modifica, una parte non secondaria tra le religioni universali, quella rappresentata dalla chiesa cattolica, ha innovato il suo linguaggio definendo peccati sociali alcuni reati: la frode al fisco, lo scarso impegno nell’attività lavorativa, il commercio di droghe, l’azzardo nel gioco, la mistificazione della verità attraverso la modifica dei contenuti della comunicazione a livello pubblico, ed altri comportamenti «antisociali».
Invero neppure in questo caso i valori predicati trovano riscontro positivo: il danno alla collettività non entra facilmente nell’orizzonte valoriale degli individui. Semmai restano solo alcuni punti fissi condivisi, cioè alcune condanne costanti che concernono l’omicidio, il furto, la violenza sessuale e poco altro.
Ciononostante la società conserva un suo carattere sacro, superiore, quasi metafisico. I valori sociali suonano come qualcosa di voluto da un’autorità che obbliga senza che vi siano molte possibilità di non ottemperare a quanto richiesto. Ciò avviene quando i valori sono stati introiettati, interiorizzati profondamente nell’individuo.
I valori di tipo globale possono entrare in conflitto con quelli locali, specie se vi è una diversificazione di ruoli svolti dallo stesso individuo. Qui segnatamente intervengono interessi ed abitudini, per cui si scontrano le scelte orientate al valore contro quelle orientate allo scopo, il bene comune contro i bisogni di tipo personalistico e/o familistico. Altri fattori possono entrare in gioco: le relazioni interpersonali, i rapporti di classe (una dimensione che non si elimina facilmente, ben al di là degli esiti delle dottrine marxiste), la consapevolezza del ruolo personale rivestito in una data società.
Intanto è ben chiaro che alcuni valori ritenuti universali (oggi si direbbero globali) altro non sarebbero che un’espressione interessata di una sola classe sociale, la borghesia. Detto altrimenti, la triade rivoluzionaria francese dei valori di libertà, fraternità ed uguaglianza è ora sottoposta ad una rivisitazione ampia e scrupolosa.
In ultima analisi, l’attore sociale è anche investito da problematiche che lo portano a fare i suoi calcoli sulla convenienza o meno dell’accettazione di alcuni valori a discapito di altri: la sua può essere una «scelta razionale» (come sostiene una delle più citate correnti sociologiche contemporanee).
Non è infine da escludere un’opzione individuale a favore di ciò che «dice» qualcosa all’agente sociale e che abbia significato per lui perché è convincente, accattivante anche se non razionalmente utile.
Un’ultima lettura individuale dei valori non va dimenticata: essi si riducono a qualcosa privo di significato, aperto ad ogni tipo di lettura ed implementazione.
Sullo sfondo resta tuttavia uno scenario di insieme, con individui tesi all’autorealizzazione ed all’autonomia, valori definiti postmaterialisti da Ronald Inglehart (1977).
Intanto però non appare sostenibile l’idea di una totale scomparsa dei valori. Non v’è chi non veda quale e quanta parte essi abbiano ancora nel mondo contemporaneo
14. Valori e sviluppo
Nel quadro delle vicende internazionali e nazionali il richiamo ai valori, che ha fatto sorgere organismi come l’ONU, l’UNESCO e la FAO, si è qualche volta estrinsecato in soluzioni impegnative a livello formale ma anche sostanziale. Basti pensare ai vari codici deontologici stilati dalle corporazioni professionali. In essi è rintracciabile un vero e proprio sistema di valori, che individua ciò che è accettabile e ciò che non lo è e diventa altresì una forma di controllo sull’osservanza delle norme dettate, soprattutto se il rapporto professionale coinvolge direttamente altri soggetti umani, posti in primo piano.
Quando certi valori vengono acquisiti così indelebilmente da risultare scontati e quasi connaturati sorge tuttavia il problema della prospettiva da cui si muove per entrare in relazione con gli altri. Sintomatico è il caso che ha come fulcro il cosiddetto sviluppo sostenibile. Già è arduo passare dall’idea di uno sviluppo sostenibile relativo alle società occidentali, tecnologicamente avanzate, a quello di una trasformazione praticabile ed accettabile che vada ad investire le società del cosiddetto terzo mondo o, meglio, altro mondo rispetto a quello dominante economicamente, politicamente e scientificamente. Pensare ad uno sviluppo sostenibile in situazioni extra-europee ed extra-statunitensi comporta uno sforzo non comune per la riformulazione delle problematiche attinenti a situazioni non sufficientemente conosciute.
Pertanto torna opportuno, per un discorso rigoroso sui valori e lo sviluppo sostenibile, non certo prescindere dal primo e dal secondo mondo ma conglobarli in una prospettiva plurima in modo da vedere i nessi tra le diverse realtà, contestualizzando al massimo valori tradizionali e valori innovativi presenti nelle varie situazioni ed evitando astrazioni preconcette ed universalizzazioni indebite dei propri valori di riferimento.
Come si sa, gli aspetti valoriali vengono di continuo ridefiniti dai soggetti umani in interazioni senza soluzione di continuità. Tuttavia anche le discontinuità sono da annoverare tra le possibilità concrete. Ve ne sono in un medesimo paese come pure nell’ambito di una medesima confessione religiosa. Ogni generalizzazione eccessiva rischia di obnubilare lo sguardo sociologico e di far intravedere andamenti privi di consistenza empirica.
D’altra parte è bene ricordare che ogni relazione è in sostanza un rapporto di potere, che viene esercitato non sempre in un solo senso: chi ha potere può non esercitarlo e con questo in effetti lo usa indirettamente; chi non ha potere ha dalla sua uno svantaggio di massima ma altresì il vantaggio non secondario di non poter far ricorso ad alcuna azione coattiva. Ed in talune condizioni non è agevole stabilire quale delle due sia la condizione preferibile.
Nel caso delle problematiche connesse allo sviluppo sostenibile ci si può trovare di fronte ad una situazione non gradevole: dover rinunciare ai propri valori primari per mancanza di possibilità concrete di azione che siano in linea con l’orientamento personale di riferimento oppure per contrasto con altri soggetti più favorevoli a soluzioni meno concordate, basate su valori opposti a quelli di partecipazione, di rispetto della persona, di gradualità dell’intervento. Per non dire poi dei destinatari stessi di un’iniziativa nel campo dello sviluppo sostenibile: se essi non condividono le linee valoriali dei proponenti e sono mossi da altre istanze perché hanno valori di base diversi dai loro interlocutori venuti dall’esterno ogni tappa del percorso che mena ad un obiettivo di sviluppo sostenibile sarà irta di difficoltà.
Per questo anche nel capo dello sviluppo sostenibile non giova offrire soluzioni che gratifichino solo chi detiene il potere economico (per esempio di finanziare un’iniziativa) ma non contemplino vie di uscita, per i destinatari, dalla situazione di dipendenza.
Gli stessi valori, sebbene abbiano una lunga vita, non si mantengono inalterati nel tempo, senza mostrare la corda in termini di contraddittorietà, inapplicabilità, incomprensibilità. Non tutti hanno capacità, conoscenze, esperienze e soluzioni per superare il momento critico di una decisione da assumere, magari scegliendo tra valori tradizionali locali e valori innovativi globali.
Sempre in materia di sviluppo sostenibile occorre precisare che la crescita tecnologica e quella economica non sono classificabili come sviluppi di per sé dannosi. Quando lo fossero i valori dell’umanità sarebbero in grado di arrestarne l’andamento, per impedire il verificarsi di conseguenze negative.
Lo stesso mutamento dei valori è comunque non del tutto avulso dalle trasformazioni tecniche e finanziarie. Dunque sarebbe possibile immaginare una notevole dose di capacità dei valori del momento nel poter arrestare uno sviluppo ritenuto non più sostenibile.
L’obiezione ovvia che si può avanzare in merito è di fatto un interrogativo: può il sistema di valori in atto spingere a fare previsioni sugli effetti futuri dello sviluppo? La risposta è positiva, in quanto l’umanità difficilmente arriverebbe al punto di non rendersi conto della strada intrapresa e della sua destinazione più o meno immediata.
Infatti la razionalità di uno sviluppo sostenibile è supportata proprio da una base valoriale, non importa se materialista o postmaterialista alla maniera di Inglehart (1977), che non impedisce in linea di massima il ricorso a nuove soluzioni, a nuovi apparati, a nuove energie, a nuove risorse.
Ipotesi pessimistiche sullo sviluppo sostenibile, invero, non ipotizzano che in futuro ci possano essere nuovi ritrovati, nuove cure, nuovi sistemi, nuove procedure, nuove scoperte, nuove applicazioni. E soprattutto non sono in grado di stabilire quali reazioni potranno avere le prossime generazioni in merito alle novità che si renderanno disponibili.
Ancora una volta è abbastanza probabile che l’umanità sarà in grado di affrontare con una sufficiente dose di saggezza i problemi che si porranno. Ciò non significa che sempre e comunque la soluzione adottata sarà quella giusta, razionale, vincente. Ci saranno ancora inconvenienti, sconfitte, ripensamenti. Ma difficilmente gli attori sociali coltiveranno il desiderio dell’autoannientamento. In fondo il valore a cui – salvo eccezioni – è abbastanza difficile rinunciare è appunto quello della propria esistenza.
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En los ámbitos confesionales, pertenecientes a la fe y fundados en dogmas, es bastante evidente la variedad de posiciones, de elecciones teóricas y operativas, de actitudes y de comportamientos. Toda generalización al respecto es infundada, no plausible. De aquí nace la necesidad de una confrontación dialéctica, abierta, comunicativa, cual premisa necesaria para el progreso en el campo del conocimiento científico. Sobre esta base se funda también la posibilidad misma de evitar las derivaciones deontológicas que a menudo acompañan el análisis y la interpretación, inclusive en estudios de excelente nivel metodológico.
Cuando además se tiene que enfrentar el problema de la identidad religiosa, el tener que encargarse del consecuente malestar provocado por un alejamiento de las indicaciones provenientes de la jerarquía religiosa se transforma en un problema que incumbe también el plano psicosociológico: la creencia en la divinidad puede substituir pero decaen, entre otras, las bases más significativas a nivel ritual, en términos de participación a una misma experiencia de fe. A menudo, la necesidad de una identidad queda satisfecha casi solamente en la pertenencia religiosa, por lo que su precariedad comporta efectos negativos, incluso para la autoestima y la necesidad de reconocimiento por los demás.
Frente a situaciones nuevas, un individuo no encuentra fácilmente soluciones satisfactorias con medios propios, sin la ayuda de las instituciones. No es una casualidad que los conflictos y las discusiones caractericen el nacimiento de nuevas problemáticas que se abaten, al menos parcialmente, sobre una religión. En esos momentos, la convergencia es requerida sólo en clave de alineamiento sobre posiciones oficiales de iglesia y sin un libre debate. Además, antes que se produzca la adecuación del establishment eclesiástico a las nuevas instancias relativas a un determinado tema controvertido, es necesario un largo proceso de puesta a punto, de definición de argumentos, de predisposición a nuevas normativas.
En modo especial, en el caso de la religión, se asiste a una fenomenología que es similar al comportamiento de una ostra, que responde a la intrusión de un grano de arena cubriéndolo, con una secreción viscosa que lo comprime. De hecho, esto se produce en el campo religioso cuando algo distinto sucede: se lo neutraliza envolviéndolo con un manto de descrédito, amenazándolo con la excomunión, la exclaustración, acúsandolo de herejía y desviaciones doctrinarias.
Hoy, el aumento de la complejidad social podría inducir a considerar con mayor atención las distintas alteridades presentes interna y externamente a la confesión religiosa. La autonomía de los individuos es un dato de hecho. La pluralidad de puntos de vista crece en forma desmedida. Las elecciones se hacen siempre más difíciles y condicionadas por los conocimientos diferenciados. La convergencia ética no es fácilmente adquirible, sujeta — como está — a conocimientos diversificados y extremadamente especializados. Esto hace que sea difícil para las religiones universales la búsqueda de puntos esenciales de convergencia. El resultado final podría ser el de una especie de religión civil, similar a la delineada por Jean-Jacques Rousseau en el Contrato Social, libro IV, capítulo VIII. Pero cabe preguntarse si una tal generalización es posible al nivel global mundial. No hay que olvidar que, en su esencia, la religión civil no es en sí antirreligiosa, sino que, por el contrario, puede convivir con la religión, sobre todo si ésta se manifiesta también (y no sólo) como «religión de valores» (Cipriani, 2001) es decir, si se funda sobre principios compartibles y de hecho compartidos incluso por no creyentes o no practicantes.
En lo que se refiere a Europa, es claro que la religión civil con menor probabilidad se presenta como una connotación difusa. En todo caso, se puede hablar de una «religión de la laicidad», bastante perspicua en Francia. De todos modos, queda sin resolver el problema de una abierta coordinación entre las varias expresiones, entre las distintas experiencias.
Ni siquiera en la iglesia católica, visto que dos exponentes como Ratzinger, hoy papa Benedicto XVI, y el cardenal Martini se mueven por directrices diferentes, el punto de divergencia está representado por una forma diferente de entender y enfrentar el relativismo. Para uno hay que combatirlo en cuanto existiría una «dictadura del relativismo»; para el otro, el relativismo obra en el interior mismo de la iglesia. En realidad, el ex cardenal de Milán ni siquiera cita al Papa en modo explícito y directo, ya que el 8 de mayo 2005, en el Duomo de Milán, comenzó diciendo: «se dice, no sin razón, que hay demasiado relativismo», para después agregar: «pero existe también un relativismo cristiano», y finalmente concluir: «Lo que necesitamos es saber vivir juntos en la diversidad: respetándonos, no destruyéndonos reciprocamente, no encerrándonos en guetos, no despreciándonos. Sin la pretensión de convertir a los otros de buenas a primeras, lo que a menudo crea muros todavía más difíciles de superar. Ni siquiera limitándonos a la tolerancia: la tolerancia no basta».
Para poner a salvo su autonomía, cada religión tiende a consolidarse cada vez más; busca su independencia respecto a toda forma de Estado así como respecto a las otras religiones con las cuales compite. Los procesos de globalización que vivimos en la actualidad, el aumento de los flujos migratorios de un país a otro, la confrontación a nivel social, político y religioso hacen necesario asumir nuevas estrategias por parte de las iglesias, de las denominaciones y movimientos religiosos. Efectivamente, en distintos lugares se está afirmando una nueva concepción de la laicidad entendida como un espacio común, como un lugar público de convivencia y de convergencia, que pone en crisis las identidades, las tradiciones pluriseculares, las fronteras y los límites consolidados, desafiando en modo particular a los responsables de las actividades educativas y formativas (Cambi, 2007).
El proceso real, de todos modos, se desarrolla en dos velocidades. Mientras en algunos contextos se ha sido asumido la aparición de nuevas dinámicas, en otros se registra una tendencia a retornar a soluciones inveteradas, bajo la tentativa de restaurar perspectivas autoreferenciales, mono-orientadas, centralizadas, no dispuestas a enfrentar la dialéctica que imponen los hechos y las instancias de los actores sociales protagonistas de la realidad.
Política, laicidad y religión
A lo largo de la historia encontramos múltiples eventos y dinámicas que han llevado a la religión y a la politica a violar los derechos de los individuos, amenazando su identidad, recurriendo a «depuraciones étnicas» que han afectado la pertenencia religiosa y cultural, llegando a negar inclusive toda posibilidad de supervivencia.
Mientras tanto hoy, en distintos contextos, se asiste a un retorno de la centralidad de la dimensión religiosa en el campo público, un recurso cada vez más usado por los líderes políticos a fin de ganarse el consenso de las agrupaciones religiosas; se asiste también a una crisis de legitimación del Estado-nación que parece a en la búsqueda de nuevos fundamentos ideológicos para sus instancias socio-políticas; y a una tendencia de las instituciones eclesiales a recuperar la relación con los propios fieles; así como un retorno a los valores socio-culturales de las religiones; y a un pedido de los administradores de la cosa pública a las iglesias y a las religiones para que se adapten a las formas de regulación estatal.
En estos escenarios se hace de nuevo presente la cuestión de las relaciones entre religión y laicidad, entre iglesia y Estado, entre lo sagrado y lo profano. Es preciso señalar que el uso mismo de esta terminología presenta problemas no siempre fáciles de resolver.
Cabe preguntarse ante todo si está creciendo el rol politico de la religión, si ha sido totalmente superada la vieja disputa en las relaciones entre orientación religiosa y gestión pública del Estado. ¿Dad al César-Estado aquello que es del César-Estado es suficiente para eludir toda sospecha de interferencia religiosa? ¿O bien se trata de un simple mecanismo que, más allá del reconocimiento debido, permite seguir adelante con las relaciones preferenciales de siempre, con acuerdos más o menos protocolares, concordatos, acomodamientos recíprocos, complicidades de fondo, recíprocos reconocimientos legitimantes? Es necesario interrogarse sobre los efectos de todas estas cuestiones.
Sobre el tema de la laicidad, en los últimos años, se ha registrado una acentuada y amplia producción de ensayos (Cipriani, 2010). Se ha sostenido, por ejemplo, que «la laicidad implica necesariamente otorgar la libertad de conciencia y no sólo asegurar la libertad de conciencia» (Boniolo, 2006, p. XX). Si se plantea la cuestión en estos términos estamos frente a una evidente contradicción: ¿Cómo otorgar la libertad a los demás si no se posee la propia libertad? Se podría objetar que una cosa es la libertad y otra la conciencia. Pero ¿cómo es posible distinguir la libertad si no se tiene conciencia o conocimiento de tenerla?
Se podría replicar diciendo que conciencia no quiere decir conocimiento. Pero sin el conocimiento la conciencia misma no está en grado de expresarse y de tomar posiciones, es decir, llevar a cabo elecciones. En suma, la conclusión es que la subjetividad del individuo no es fácilmente escindible de su relación con los demás. Por otro lado, en línea de principio, no es negándose a sí mismo como se reconocen los derechos del otro, en cuanto la negación de los propios derechos no consentiría tampoco, en modo paritario, atribuírselos a otros sujetos humanos.
La cuestión se complica aún más cuando se establece (Boniolo, 2006) un orden prioritario decreciente entre la libertad y la creencia, la libertad de conocimiento y la libertad de crítica. En primer lugar, no está dicho que la libertad de conciencia y la libertad de creencia sean, de modo simple y a priori, pasibles de ser sobrepuestas e intercambiables. De hecho se puede verificar empiricamente la existencia de una libertad de conciencia aun prescindiendo de una libertad de creencia: ¿quién negaría a un no-creyente su libertad de conciencia?
Viceversa, un creyente podría también no hacer uso de su libertad de conciencia, adecuándose por completo a los dictámenes de su religión (o de su ideología, no necesariamente religiosa y por lo tanto eventualmente también laica).
Además, posponer la libertad de conocimiento a la de la creencia contradiría la lógica habitual del proceso que caracteriza al pensamiento humano: ¿cómo creer sin ni siquiera conocer (o sólo intuir) al menos los contenidos principales del objeto de creencia? Por cierto, es posible creer en Dios, por ejemplo, aún sin conocerlo directa y empiricamente, pero tal creencia presupone al menos un acto cognitivo representado por el considerar de todos modos posible la existencia de un Dios, lo cual es fruto de una modalidad cognitiva sui generis.
En definitiva parecería más coherente y menos problemático dar prioridad a la libertad de conocimiento, la cual daría origen a la libertad de creencia y obviamente también de crítica.
Es más, hay quien sostiene (Cappelletti, 2006, p. 645) que la libertad de crítica podría y debería preceder a la de creencia, ya que esta última es sólo hipotética y no está intrinsecamente ligada a la libertad de conocimiento: en efecto, la libertad de creencia se colocaría en un tercer lugar respecto a las precedentes.
Al contrario, para otros (Boniolo, 2006) la esfera pública no debería expresar sus creencias. No sólo ésto; el conocimiento no sería más que una creencia legitimada por la racionalidad y la libertad. Sin embargo de este modo se descuidaría un detalle fundamental: el conocimiento puede inclusive no estar fundado, ni ser plausible, ni corroborado por pruebas suficientes, ni sustentado por argumentos analitico-críticos. Además, la libertad de crítica deriva del aspecto cognitivo e interesa tanto al conocimiento como a la creencia.
Para salir del impasse de estas discusiones, que sólo aparentemente son más filosóficas que sociológicas, es oportuno precisar ulteriormente y en modo preliminar algunos criterios generales. En primer lugar, hay que decir que en el campo del conocimiento cientifico no pueden tener relevancia ni las confesiones ni la laicidad. Tanto las unas como la otra producen efectos incoherentes con el rigor de la metodología científica. Pero la religiosidad y la laicidad, si reciprocamente no se excluyen (es decir, si no interrumpen la comunicación intercambiándose excomuniones), son compatibles con la ciencia en la medida en que permiten mantener abiertas todas las posibilidades de investigación, inclusive las relativas al conocimiento de lo incomprensible. Dicho de otro modo, toda duda es siempre legítima e ineludible y cada investigación alcanza resultados continuamente modificables. Es necesario recordar que la admiración frente a lo inexplicable forma parte de lo imponderable en el ámbito cientifico. Concretamente, incluso una persona profundamente religiosa puede hacer uso de la laicidad en su trabajo cientifico, así como un no-creyente puede dejar abierta la posibilidad de la existencia de algo inexplicable.
El espacio público
Un discurso análogo puede ser valioso en lo que se refiere a la relación entre las religiones como también a las relaciones entre las iglesias y los Estados. Los que sostienen la separación absoluta se encuentran contrapuestos a los nostálgicos de los absolutismos fundamentalistas y de las teocracias. Está en juego la supervivencia misma de la sociedad humana a nivel planetario. Fomentar el enfrentamiento provoca sólo el beneficio de los militaristas y de los extremistas de la revolución o de la conservación. El riesgo de la certeza (Tentori, 1990; De Vita, Berti, 2001) es propio de toda forma de contraposición viciada de prejuicio, que elige consolidar continuamente sus posiciones antes que enfrentar el delicado trabajo del confronte, del diálogo y de la búsqueda de soluciones satisfactorias para cada una de las partes en causa.
El retorno del debate alrededor de la laicidad deriva de la conmemoración del centenario de la ley francesa del 2 de diciembre de 1905, relativa a la separación entre las iglesias y el Estado. En realidad el texto de la ley no habla de laicidad sino más bien de «libertad de conciencia» y, al mismo tiempo, de «libre ejercicio de cultos» (art. 1). Más adelante se reglamenta la jubilación de los ministros de culto (art. 11) y de la puesta «a disposición de la Nación» de los edificios de culto y de alojamiento de sus ministros, como «propiedad del Estado, de los Departamentos, de las Alcaldías». En el título IV de la Ley se reconocen «las asociaciones formadas para proveer a los gastos, a la manutención y al ejercicio público de un culto» (art. 18). El título V disciplina además los cultos y establece que «las reuniones para la celebración de un culto realizadas en los locales pertenecientes a una asociación de culto o puestos a su disposición son públicas»; por lo tanto, de hecho deben considerarse espacio público. En cambio el artículo 26 prohíbe «realizar reuniones políticas en locales que sirvan habitualmente al ejercicio del culto». Incluso «el sonar de las campanas será regulado por una disposición municipal» (art. 27). Por lo tanto, se prohíbe «elevar o colocar cualquier signo o emblema religioso en monumentos públicos» (art. 28). Las disposiciones de mayor relieve están indicadas en el artículo 30 («no puede impartirse enseñanza religiosa a niños de seis a trece años inscritos en escuelas públicas, a menos que sea fuera del horario de lecciones»).
Fue singular la respuesta de las iglesias cristianas frente a esta ley. Al principio las iglesias protestantes se le mostraron favorables pero no la iglesia católica, mientras hoy las posiciones se han invertido.
También resulta singular el hecho de que en la laica Francia persista aún el derecho de nómina de los obispos católicos de Metz y Estrasburgo (y el de destinar dinero en tres Departamentos a favor de las escuelas religiosas y los sacerdotes, concretamente unos 8 mil millones de euros anuales).
A menudo las religiones han tratado de conquistar credibilidad y seguidores a través de una presencia visible en las ocasiones públicas, imaginando ampliar su esfera de influencia. Estas tentativas se expresan en distintos ámbitos, aunque el más usual es el de las soluciones concordadas, estipuladas contractualmente mediante acuerdos entre jerarquías de poder. Los resultados obtenidos son extremamente desiguales: en algunos Estados la separación respecto a la iglesia está sancionada por la ley (pero no siempre es aplicada en modo integral); en otras situaciones se tiende a conservar privilegios adquiridos a nivel estatal haciendo valer el fuerte consenso religioso de la población; no faltan, en fin, verdaderas “iglesias de Estado”. Los principales espacios a través de los cuales la religión se vuelve activa y perceptible son la educación en las escuelas, la asistencia en los hospitales, las obras de voluntariado social, la recepción de los extranjeros y en particular de los inmigrantes, la ayuda a los pobres y los marginados.
Un nuevo desafío se pone en evidencia cada vez con más fuerza, la coexistencia de valores y contenidos religiosos de diversa proveniencia no asimilables a la religión dominante de un país. Se hace, por lo tanto, necesaria una mediación cultural siempre más amplia, informada, prudente, pluralista. En estos casos los Estados intervienen apoyando a la religión dominante, ofreciendo recursos y privilegios a las comunidades religiosas a cambio de una acción que contenga el impacto de los nuevos flujos debidos a la movilidad territorial y social de la población. En general, la organización estatal no está en condiciones de resolver en modo inmediato algunas problemáticas existenciales al límite de la mera supervivencia. Por esta razón se dirige al aparato religioso que está mejor preparado y puede ocupar roles y competencias, tanto socio-políticas como religiosas, más asistenciales que confesionales.
Por cierto la forma más eficaz de ocupar áreas públicas de influencia es aquella que tiene como punto de partida legitimante la presencia de documentos oficiales que establecen pactos entre religión y politica, entre iglesia y Estado. Incluso si en un plano jurídico es reafirmada la fórmula de la distinción neta entre los dos interlocutores, en realidad los regímenes concordatarios permiten amplias posibilidades de intervención y soluciones claramente redituables para el ámbito religioso.
El reconocimiento de la religión se deja traslucir en algunos casos también en las leyes fundamentales de los Estados, sus constituciones, en las cuales se subraya la naturaleza diversificada entre Estado e iglesia, pero se admiten intercambios y coparticipaciones o al menos se hace referencia a una específica cultura religiosa del país en cuestión.
Iglesia y Estado en Europa
Existen diferencias respecto de las mismas relaciones entre Estado e iglesia en los diversos países europeos: en algunos la separación es neta y hasta definida por ley (como ha sucedido por ejemplo en Francia a partir de 1905), en otras partes existe un régimen concordatario (como es el caso de España, Italia y Portugal), aunque no faltan ejemplos de iglesias de Estado (como en los países escandinavos y en Gran Bretaña). Aún más variada es la realidad concreta, más allá de las declaraciones de principio y de las normas estatales, en cuanto se financia la enseñanza de la religión en las escuelas en Bélgica, Irlanda y Islanda, o existe la intervención de las iglesias como actores sociales sea en los hospitales o en las escuelas y en las obras de asistencia. En particular en el nivel de la esfera pública se encuentran varios intentos de mediación entre diversos valores, que intentan resolver así los problemas producidos por el pluralismo ideológico y confesional. De hecho, en Europa existen Estados que aun siendo seculares conceden varios privilegios a las comunidades religiosas. O se pueden verificar casos en que el Estado y la religión no se identifiquen pero que tampoco se enfrenten completamente, negociando caso por caso, como sucede generalmente respecto de las iglesias mayoritarias o en lo que se refiere a las minorías, a los movimientos y a los grupos religiosos.
En otras partes, en cambio, hay una relación más estrecha entre el estado y la iglesia, donde se crea casi un culto del Estado y de sus gobernantes. En estos casos es el pueblo mismo el que sostiene al Estado a través de las formas culturales de su religión oficial.
[…] Estas formas culturales comprendiendo valores cristianos universales como el sufrimiento y el sacrificio, aplicados a religiones concretas (la misión providencial del líder y del pueblo, el hecho de ser elegidos por Dios), y expresando en formas convencionales de civilización el potente culto arcaico del líder, del sacerdote-príncipe, ejercitan una acción fuerte que se manifiesta en su universalidad histórica. El culto del jefe del estado (Rusia) es vigente y eficaz también en la historia más reciente. (Bogomilova-Todorova, 1996, p. 162).
Miklós Tomka (2006) enfrenta en clave comparativa las diversas situaciones del Este y del Oeste europeo. Él parte de tres consideraciones: la influencia de la religión en Europa occidental se encuentra en declive; mientras en el oeste los jóvenes son cada vez menos religiosos, inversa es la tendencia en los países del área central y oriental; en las regiones que eran comunistas crece el rol de las iglesias. Pero los datos empíricos no siempre confirman tales tendencias. De todos modos, son tres los criterios individualizados para explicar las diferencias entre las dos Europas: el pasado comunista, la modernización limitada y la cultura ortodoxa oriental. Un rol a parte tienen algunos países de Europa central, más modernizados y modelo para los países del Este, pero más bien marginales respecto de Europa occidental. Hay dos factores guía que están en la base de la religión cristiana occidental: la iglesia como institución y la autonomía individual. Pero cuando se quiere distinguir lo que es típico de Oriente respecto de Occidente emergen, según Tomka (2006, p. 259-262), seis diferencias: un reducido control de la iglesia y una dominación de los factores locales; una tendencia a homologar contenidos y formas, creencias y símbolos, liturgia y arte; el carácter más colectivo que individual de la pertenencia religiosa y una jerarquía de los roles eclesiales que ve al clero en una posición dominante; una tendencia a considerar la cultura y la religión como un unicum; un énfasis formal de la liturgia, que no permite modificaciones y adaptaciones ni tampoco una participación directa de los laicos, y una sustancial unidad entre politica y religión, entre Estado e iglesia, es decir, una symphonia.
Como es sabido, en Europa central prevalece la presencia católica, en la oriental es más difusa la ortodoxa: en ambas áreas, normativas nuevas están regulando las relaciones entre Estado e iglesia. De todos modos se debe tener presente que los porcentajes significativos de ateísmo caracterizan tanto a la República Checa como a la ex Alemania Oriental, y que en Letonia y Estonia las declaraciones relativas a la propia religión son más bien reducidas, por esto los datos públicos del nivel sociorreligioso no logran abarcar el universo entero de la población residente. Además, es un hecho la resistencia del catolicismo respecto del comunismo, mientras el protestantismo y la religión ortodoxa hán sufrido mayormente las consecuencias del ateísmo del Estado. Sin embargo, la recuperación más marcada la está realizando principalmente la iglesia ortodoxa rusa (Borowik, 2006, p. 268).
Es decir, la iglesia ortodoxa habría utilizado estrategias oportunas para mantenerse a flote en situaciones no siempre fáciles. Esto ha sido posible debido a la falta de lazos estrechos entre las varias iglesias ortodoxas nacionales (en Grecia así como en Georgia, en Rusia y en Serbia), por lo que no ha sido necesaria ninguna uniformidad de comportamiento. En efecto, la religión ortodoxa no ha vivido la experiencia centralista del catolicismo sino más bien la fragmentación de las denominaciones protestantes.
Obviamente, el patriarcado de Moscú sigue siendo la sede de mayor peso en el mundo ortodoxo. Sin embargo, su reciente recuperación en términos de visibilidad, poder y capacidad de intervención en los asuntos públicos no permite olvidar que en el pasado su fuerza era sin duda mayor a la actual y que hoy resulta debilitada también por toda una serie de cismas. Entre los problemas que debe enfrentar se encuentran los siguientes: el nacimiento de iglesias independientes a nivel nacional; la recuperación de las propiedades eclesiásticas como indemnización por las expropiaciones sufridas después del decreto de Lenin sobre la nacionalización (el tema concierne el conflitto con la iglesia católica griega en relación con las parroquias católicas ucranias dadas a la iglesia ortodoxa); la carencia de personal religioso y una escasa preparación de base; la competencia con el catolicismo, el protestantismo (ambos acusados de hacer proselitismo en áreas ortodoxas) y el islam.
En general, se asistiría a una “etnicización” de la política y a una “politización” de la etnicidad, es decir, a una “politización” de la religión y a una “religionización” de la politica (Marinović Jerolimov y Zrinščak, 2006, p. 287). La consecuencia es que cada vez más las mismas iglesias dan un carácter sociopolítico a sus actividades y a sus intervenciones oficiales. Por ejemplo, en Croacia como en Polonia, en Lituania y en Eslovaquia, la iglesia católica ha favorecido el nacimiento de un estado-nación moderno (Martin, 2005, p. 81, citado por Marinović Jerolimov y Zrinščak, 2006, p. 289). Además se da una peculiaridad, a considerar entre tantas, que comienza con la historia que se remonta al siglo VI después de Cristo y que tuvo como figura a Sava (1174-1236), el primer arzobispo de Serbia — luego declarado santo — gracias al cual la iglesia ortodoxa serbia obtuvo oficialmente la autocefalía de la iglesia matriz, de Constantinopla. Tras un largo período de dominación otomana — extendido hasta 1878 — esta iglesia logró conquistar su independencia en 1920. Los conflictos étnico-religiosos enfrentaron a los ortodoxos serbios con los musulmánes de Bosnia y con los católicos serbios croatizados. En este contexto de conflictividad se destacan los relieves críticos de la mitologización de San Sava, que evoca la tradición propia de la trilogia ortodoxa (un zar, un imperio, una iglesia); así como del mito de Kosovo, en particular de la batalla de Kosovo-Polje donde los serbios, aún vencidos, defendieron en 1389 la cristiandad contra los turcos. Para los serbios Kosovo evoca la “vieja Serbia”, la “grandeza del Imperio”, el “paraíso perdido”, cuya restauración es constantemente reivindicada por la iglesia ortodoxa serbia autocéfala. Ambos mitos se encuentran en la base de una idea de superioridad y unicidad concerniente a la nación serbia (Bogomilova, 2005, p. 160-161).
Conclusión: el pluralismo
Varios problemas se encuentran aún sin solución. Tales cuestiones no están sólo relacionadas al área balcánica de Bulgaria, Serbia y Macedonia sino que incluyen muchos países dentro o fuera de la Unión Europea. Existen iglesias de estado en Finlandia, Grecia y el Reino Unido; hay separaciones pero también acuerdos en Alemania, Austria, Italia y España. La única excepción de diferenciación total se da en Francia (pero con situaciones contradictorias a nivel práctico). La Constitución griega y la irlandesa hacen referencia a la religión, la alemana permite la Invocatio Dei, la europea evita toda mención. En otras partes se habla de Dios en el preámbulo constitucional (en Polonia y Ucrania), se evoca la tradición religiosa (en la República Checa y en Eslovaquia) o no se menciona para nada, enalgunos casos también por falta de preámbulo (en Albania, Armenia, Azerbaiján, Letonia y Rumania). Sin embargo, en general Dios no es mencionado en las constituciones de Bielorusia, Bosnia, Bulgaria, Estonia, Hungría, Lituania, Rusia, Eslovenia, Serbia y Montenegro.
En cuanto al pluralismo y al respeto religiosos, Europa se articula según situaciones muy diversas entre sí (Davie y Hervieu-Léger, 1996; Davie, 2000; Davie, 2002, Bolgiani, Margiotta Broglio y Mazzola, 2006). En algunos casos la libertad es muy limitada; en otros es reducida; en algunas naciones se encuentra en crecimiento, en otras disminuye. Según Asma Jahangir (que trabaja para la ONU en el ámbito de la libertad religiosa), también en Europa hay limitaciones: por ejemplo en Holanda, a causa del surgimiento de tensiones religiosas, o en Francia por la ley de 2004 (que no permite a las mujeres musulmánas llevar el chador y a los cristianos llevar cruces más grandes de un determinado tamaño).
En febrero de 2006 Thomas Grimaux ha editado un informe oficial de Asistencia a la Iglesia que sufre (asociación pública de origen Europea), relevando en Europa la siguiente situación:
País
Libertad religiosa
Propensión a la libertad
Albania*
Muy limitada
+
Bielorrusia
+
Bélgica
–
Bosnia, Herzegovina
Limitada
+
Cipre
No
=
Francia
–
Alemania
=
Italia
=
Kosovo
Muy limitada
–
Polonia
+
Serbia,
Montenegro
Limitada
+
España
–
Holanda
–
Turquía
Muy limitada
–
Ucrania
+
Reino Unido
–
* Libertad religiosa abolida en 1967 y reintroducida en 1990
Los cambios en acto no favorecen el mantenimiento de soluciones anteriores, en particular en las relaciones entre Estado e iglesia, que están sujetas
[…] a una fuerte presión para el cambio. Este ímpetu proviene de abajo: con la difusión de identidades religiosas nuevas, grupos y organizaciones como el budismo, o la presencia de nuevas iglesias protestantes y las diferentes comunidades islámicas. Hay también presiones, que vienen de lo externo, a partir de los efectos de la integración europea que requiere una re-negociación de las tradicionales relaciones entre la Iglesia y el Estado. (Bontempi, 2005, p. 166).
Los Estados eligen con cuales religiones mantener relaciones privilegiadas, cooperar, poner las bases para un suporte socio-político de legitimación desde abajo. Además “las iglesias son actores importantes en varios campos donde la Comisión Europea y el Parlamento Europeo actúan también” (Bontempi, 2005, p. 166). A pesar que la tentativa de hacer mención a las raíces cristianas en la constitución europea haya fallado, queda en ésta una serie de contenidos que invocan directamente la vida de los ciudadanos europeos, su cultura y sus expresiones religiosas. Además porque en realidad
[…] la elaboración de una legislación europea sobre la religión no puede ser el resultado de la combinación de las varias legislaciones nacionales ya que las diferencias entre los Estados son muy grandes. Aún así, es posible detectar un común fundamentum (fundamento) que se encuentra en los principios de secularización de los modernos constitucionalismos que garantizan la protección del derecho a la libertad religiosa. (Bontempi, 2005, p. 168).
Puede ser útil verificar el porcentaje de pluralismo religioso a través de la presencia de la enseñanza de la religión en las escuelas públicas en Europa. El cuadro es articulado y no homogéneo:
País
Enseñanza de la religión
Austria
católica o islámica u otra
Bélgica
católica o hebraica o islámica o ética no religiosa
Bulgaria
ortodoxa o islámica
Croacia
católica
República Checa
católica (a acordar)
Dinamarca
luterana; historia de las religiones en las escuelas secundarias
Finlandia
luterana o ética
Francia
día libre en las escuelas primarias para asistir a la educación religiosa en una iglesia de propia elección; católica en Alsace y Moselle
Alemania
católica o protestante o islámica u otra
Grecia
ortodoxa
Italia
católica o hebraica u otra
Polonia
católica u otra
Portugal
católica u otra
Rumania
ortodoxa u otra
Rusia
ortodoxa cultural u otra
Serbia, Montenegro, Kosovo
ortodoxa u otra
Eslovaquia
católica
España
católica u otra o historia de la religión; o islámica fuera del horario de la escuela
Suecia
enseñanza no confessional
Holanda
protestante o católica u otra o liberal
Reino Unido
inter-confesional (religión multi-fe)
Una acción oportuna ha sido aquella de Bulgaria que ya en el año escolástico de 1997-1998 ha introducido en las escuelas la enseñanza opcional de la religión, ya sea cristiana que islámica, debido a que las relaciones entre cristianos y musulmánes no presentan situaciones particularmente conflictivas.
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RESUMEN
Cada religión tende a consolidarse cada vez más; busca su independencia respecto a toda forma de estado así como respecto a las otras religiones con las cuales compite. Efectivamente, se está afirmando una nueva concepción de laicidad entendida como un espacio común, un lugar público de convivencia y convergencia, que pone en crisis las identitades de origen, las tradiciones pluriseculares, las fronteras y los límites consolidados.
Se ha sostenido que la laicidad implica necessariamente otorgar la libertad de conciencia y no sólo asegurar la libertad de conciencia. La cuestión se complica aún más cuando se establece un orden prioritario decreciente entre libertad y creencia, libertad de conocimiento y libertad de crítica.
El reconocimiento de la religión se deja traslucir en algunos casos también en las leyes fundamentales de los estados, sus constituciones, en las cuales se subraya la naturaleza diversificada entre estado y iglesia, pero se admiten intercambios y co-participaciones.
PALABRAS CLAVE
Laicidad, libertad, Estado, Iglesia
ABSTRACT
Each religion tends to consolidate itself more and more; it looks for its independence with respect to all form of State as well as with respect to the other religions with which it competes. Indeed, a new conception of laicism, understood like a common space, a public place of coexistence is emerging. And therefore original identities are in crisis, together with consolidated traditions, borders and limits. It has been maintained that the laicism necessarily implies to grant the freedom of consciousness and not only to assure the freedom of consciousness. The question is still more complex when a decreasing priority order between freedom and belief, freedom of knowledge and freedom of critic is established. The recognition of religion is also present in some cases in the fundamental laws of the States, their constitutions, in which the natural diversification between State and Church is emphasized, but interchanges and co-participations are admitted.
KEYWORDS
Laïcité, freedom, State, Church
Roberto Cipriani, Titular de Sociología, Universidad Roma Tre, via Milazzo 11/b, 00193 Roma, Italia, rciprian@uniroma3.it
Comentários ao Editor
Algunas partes del texto se publicaron en otros libros.
I GIORNI DELLA FESTA: NUOVE PRATICHE DI EDUCAZIONE E SOCIALIZZAZIONE
di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)
1. Premessa
Esiste certamente uno stretto rapporto fra momenti festivi ed andamento del ciclo agricolo annuale. In effetti le feste si collocano lungo la successione fra momenti di ricchezza e momenti di povertà, preferendo utilizzare al massimo le risorse disponibili proprio in concomitanza con le fiestas, cui seguono, anche per il forte consumo tipicamente festivo, situazioni di scarsità dei beni primari, alimentari soprattutto.
Invero le teorizzazioni sociologiche sulle caratteristiche della religione nelle società contemporanee contraddistinte dalla complessità e dall’alto livello di differenziazione hanno insistito soprattutto sulle dinamiche relative a contesti occidentali in cui i processi di inustrializzazione ed urbanizzazione risultano piuttosto accentuati. A questo quadro d’insieme appartengono le prospettive di Thomas Luckmann [1969] sulla religione invisibile, di Robert Towler [1974] sulla religione comune, nonchè quella sulla religione diffusa [Cipriani 1988], o in altro ambito quella di Robert Bellah [1967] sulla religione civile.
In genere è dominante una certa differenziazione rispetto alla cosiddetta religione-di-chiesa, sia pure con un ventaglio assai diversificato di atteggiamenti e comportamenti. Le modalità rilevabili attraverso le suddette prospettive esulano in genere dalle forme rituali e si trovano concentrate attorno a specifici valori ed orientamenti all’azione, che danno luogo ad una sorta di religione profana non legata alle pratiche ufficiali ed aliena rispetto a molti vissuti tipicamente ecclesiastici.
Ciò trova conferma nel ghetto etnocentrico di molta parte della sociologia accademica difficilmente propensa ad aprirsi a problemi di natura comparativa. Se invece l’orizzonte si allarga sino a comprendere società e comunità che non siano europee o nordamericane, ci si accorge di ulteriori percorsi tracciati da gruppi ed individui protesi verso soluzioni esistenziali abbastanza diverse. Queste ultime non rientrano affatto nello spettro di analisi che hanno matrici costruite sullo sfondo dell’industriale avanzato (o del post-industriale che dir si voglia) e che pertanto solo con questo tipo di riferimento sono compatibili e possono, forse, funzionare.
La curiosità scientifica viene a questo punto solleticata dalla domanda relativa ai processi di natura religiosa in atto dove le variabili sociologiche di base appaiono in buona misura differenziate rispetto alla situazione in cui maggiore è lo sviluppo tecnologico e più articolate sono le strumentazioni per l’attività comunicativa. Se poi si aggiunge il dato storico-antropologico di una pregressa, plurisecolare influenza esercitata dalla cultura europea in genere, spagnola in particolare, su modelli autoctoni già in essere da lunga data, l’interesse dell’indagine sale in misura esponenziale, specialmente in considerazione del complicato intreccio-scontro-incontro derivante dal susseguirsi di fasi plurime di acculturazione [Leslie 1960].
Dunque la scelta di studiare un paese come il Messico, definito sovente il “sud degli Stati Uniti”, nasce da un’intenzione in qualche modo provocatoria, nel senso di voler aprire verso itinerari che tengano conto di realtà solitamente espunte nonostante la loro non trascurabile consistenza numerica e la loro rilevanza qualitativa. Il problema posto al centro della ricerca concerne una processualità culturale contraddistinta da una religione dapprima esportata da un paese (la Spagna) ad un altro (il Messico), quindi sopportata dalle comunità indigene (azteche e/o purépecha/tarasche che fossero), poi più o meno direttamente supportata con le antichissime tradizioni locali i cui apporti hanno dato luogo a sincretismi imprevedibili, successivamente asportata dalla sfera liturgica ufficiale di marca cattolica (soprattutto sub specie ordinis Sancti Francisci, almeno nella zona tarasca del pueblo di Nahuatzen, comunità appartenente allo stato di Michoacán e posta a circa un’ora di distanza in auto – 56 chilometri – da Uruapan, due ore – 105 chilometri – da Morelia, capitale dello Stato di Michoacán, e nove ore da Città del Messico) per essere importata nella ritualità quotidiana e festiva di una popolazione che oggi riesce a comportare insieme caratteri di estrazione spagnola e di remota origine americana (nel significato più estensivo ed adeguato del termine).
Il precipitato storico odierno di tutto questo è una sorta di religione senzala chiesa (quella, beninteso, istituzionale), sicchéla comunità del pueblo gestisce in proprio tutti gli aspetti vitali della dimensione simbolico-sacrale, quasi prescindendo del tutto da ogni parametro e riferimento derivanti dalla cosiddetta religione-di-chiesa.
2. La processualità della cultura religiosa
A ragione si è spesso sostenuto che il momento festivo è il clou delle potenzialità espressive e simboliche di una comunità. E appunto a partire da tale assunzione si è tentato di esaminare il pueblo di Nahuatzen in occasione della più importante scadenza annuale legata alle celebrazioni in onore di san Luís Rey, che si svolgono nei giorni dal 24 al 28 agosto.
L’approccio si è fondato essenzialmente su un’analisi processuale condotta con una particolare attenzione alle dinamiche di modernizzazione, pur nella consapevolezza di una possibile valenza ideologica di quest’ultimo termine.
Si trattava in pratica di vedere come funzionasse il rapporto fra struttura ed antistruttura, seguendo per questo le suggestioni di Victor Turner (1969), che individua – com’è noto – nella liminalità rituale il punto focale di esplicitazione della communitas e di proposta dell’antistruttura, ma a sua voltapunto di partenza per nuove ipotesi strutturali. In tal modoè superato il concetto classico di una struttura statica rappresentata dall’insieme delle istituzioni preesistenti ecodificate. Si giunge così a vedere nella medesimastruttura i prodromi di uno sviluppo in progress, che va letto appunto in chiave di processualità.
Appare chiaro così quale importanza rivesta il dato storico, giacchéil quesito posto riguarda l’influenza della modernizzazione, di derivazioneesogena, sulla cultura specifica del pueblo in esame, alfine di appurare se quest’ultima resti sostanzialmente intattao ceda quasi del tutto rispetto ai nuovi trends.Un’alternativa ipotetica potrebbe essere quella di una convivenza pacifica eparallela delle due ways of life (modi di vita), salvo poi verificare una serie di atteggiamenti e comportamenti schizoidi checreerebbero disagi e patologie esistenzialiad individui incapacidi ricomporre le opposte spinte entroun’ottica personale tesa verso una sintesi unitaria.
La celebrazione festivadell’antistruttura non prescinde invero daun’organizzazione strutturata, segnatamente sul piano simbolico (si pensi alla divisione dei ruoli fra i barrios, alla duplicazione di statuedel santo, all’uso di quei simboli par excellence che sonole bandiere, ai significati attribuiti a varioggetti dellacultura materiale).
L’occasione risulta felice per la stessa pratica della communitas e non acaso ha favorito l’inserimento fra pari (inter pares),o quasi, pure dei ricercatori, che altrimenti sarebbero apparsi ancor più estranei alla comunicazionedialogante, in corsodurante tutto l’arco festivoe peculiarmente significata dall’offerta diagua de caña a tutti coloro che si incontrano per via.
I cinque giorni dellafesta – ma in realtà quasi non esiste una soluzione dicontinuità nel ciclo calendariale fra un evento specifico e quellodell’anno successivo – sono in effetti un set di liminalità perché si inseriscono fra duecondizioni strutturali, quellache precede e quella che segue cronologicamente. Vi è come una sospensione dei rapporti consuetudinari, con un recupero – in pari tempo – dei cardini valoriali di riferimento. E dunque ancora unavolta struttura ed antistruttura convivono e si rinviano a vicendain un’ambiguità perenne che dà luogo ad aggiustamenti ed interpretazioni sempre originali.
Avviene dunque che la festa venga organizzata e realizzata dalla gente del pueblo senza tenere in gran conto le autorità politiche e religiose del luogo. E tuttavia la chiesa e il municipio costituiscono due luoghi carichi di significato al punto che ogni fase dell’actio rituale prevede almeno un momento di riconoscimento delle due istituzioni emblematicamente presenti con le loro strutture edilizie proprio nella piazza che funge da crocevia dei 4 barrios di Nahuatzen.
Si hanno allora nel contempo delegittimazione e legittimazione, inosservanza ed osservanza dell’elemento strutturale, persino indifferenza (se nondileggio)ma anche ossequio rispettoso verso il potere costituito.
C’è il ritorno alle fonti della propria cultura, all’antica usanza dell’ubriacatura generale, disapprovata dai frati francescani – “conquistatori spirituali” -, ma consuetudine presente anche fra le divinità purépecha, nonché nella cultura tarasca come si rileva nella lámina 8.a e nella lámina 9.a della Relación de Michoacán dove è rappresentato Tariácuri che cerca occasioni per ubriacarsi e trova la moglie stessa ebbra di pulque [León 1979: 71, 73]. Occorre ricordare che gli ubriachi venivano uccisi con pali, secondo quanto narra Bernardino de Sahagun (1499-1590) [1956; López Austin 1981: 242-243] nella sua Historia Generalis. Occorre ribadire inoltre che anche la lotta-sfida con il toro quale amico-nemico segna uno spazio ed un tempo opportuni per un rapporto con la divinità e con la Weltanschauung che orienta la propria esistenza.
Le stesse infrazioni alle norme solite del vivere in comune altro non fanno se non rinforzare e convalidare la prassi comportamentale vigente: l’ubriacarsi è l’esito pressoché scontato di tutta la partecipazione alla festa, sino a coinvolgere da ultimo anche le donne, in un tripudio della devianza dal quotidiano, con bottiglie levate verso l’alto in un ritmo di danza senza sosta che precede il recorrido (giro) delle bande musicali per il pueblo. Non manca qualche ubriaco che si improvvisa direttore di una delle bande musicali, suscitando l’ilarità degli astanti. Tuttavia vi è sempre qualcuno che riaccompagna a casa chi sia troppo brillo, impedendo così che il malcapitato procuri molestie ad altri e finisca in prigione, da cui potrà uscire solo pagando un cospicuo riscatto. Altri poi evitano in tempo che qualche ubriaco (borracho) finisca incornato dal toro nell’arena dove si svolge il jaripeo, il rodeo taurino.
3. Forme e contenuti della festa
Secondo Cristián Parker [1996: 9-13] vi sarebbe una lotta fra cultura indigena e cristianesimo, con quattro esiti possibili: ribellione rafforzata dal ritorno alla religiosità antica, accettazione mediante integrazione nel cristianesimo, resistenza militante con ricorso ad enfatizzazioni messianiche, accettazione parziale ma con recupero sincretistico dei vecchi modelli culturali. Quest’ultima soluzione è probabilmente la più comune, verificabile anche nel caso della fiesta di Nahuatzen, dove si assiste ad una enfatizzazione della “auto-affermazione della comunità dinanzi al clericalismo della religione ufficiale” [Parker 1996: 107]. Come controcultura la festa afferma la vita, il femminile, il pathos, il vitalismo, l’espressività, la trascendenza. In definitiva essa rappresenta una risposta alla modernità [Parker 1996: 115].
Attraverso l’analisi delle manifestazioni di religiosità popolare è dato comprendere il significato e la portata dei processi di costruzione delle identità in relazione con i culti centrati su specifiche ricorrenze calendariali, il peso delle modalità devozionali riguardanti le figure di santi a partire dai pricipi ispiratori e dai modelli simbolici che li caratterizzano, la rilevanza delle rielaborazioni culturali delle manifestazioni popolari come tramite espressivo di resistenza etnica a proposte provenienti dall’esterno, l’influenza delle soluzioni sincretistiche che mettono insieme i dati più antichi (e più radicati) con quelli nuovi importati da altri. A tal proposito Félix Báez-Jorge parla esplicitamente di una magizzazione dei santi, cioè di un procedimento che trasforma i santi in figure magiche. Si tratterebbe infatti di “santos nagualizados” [Báez-Jorge 1998: 14], per cui i santi subirebbero una trasformazione che li renderebbe come dei maghi (naguales). D’altra parte la presenza del clero, di estrazione europea nella prima fase della conquista e locale in tempi recenti, ha rappresentato e rappresenta una propensione tendenzialmente egemonica, mirante a mortificare se non a reprimere ogni forma di espressione religioso-popolare. La risposta indigena assume di conseguenza varie alternative: adattamento-integrazione, resistenza-reazione, innovazione-creazione; ciascuna operante in modo autonomo, ma anche con intersezioni, intrecci, fra le diverse modalità, sino a trovare quella più efficace per conservare la propria appartenenza originaria, l’identità culturale primigenia, il riferimento etnico abituale.
Inoltre va evidenziato a chiare lettere che “el sistema de fiestas no tiene prácticamente ningún efecto sobre la distribución de los ingresos de la comunidad, ya que únicamente provoca episodios de consumo intensificado, pero no la redistribución de la riqueza” (il sistema di feste non ha di fatto alcun effetto sulla distribuzione degli introiti della comunità, in quanto produce solo episodi di consumo intenso, ma non la ridistribuzione della ricchezza).
Nahuatzen ha una popolazione prevalentemente dedita alla ganaderia, cioè all’allevamento del bestiame, con qualche attività nel campo dell’agricoltura. Il terreno è di origine vulcanica, in quanto la comunidad si trova al centro della Sierra Tarasca (che prende il nome di Sierra de Nahuatzen), non di rado caratterizzata da eruzioni laviche che sommergono interi paesi, come è avvenuto nel 1943 presso il vulcano Paricutín (alto 2.575 metri), che con il suo materiale lavico avrebbe ricoperto pure la tomba (yakata)dei re e dei principi purépecha.
La lingua parlata è per lo più lo spagnolo, ma non mancano di quelli che speciefra gli anziani conosconoanche il purépecha/tarasco,l’idioma degli antichi avi. Quest’ultimo è ben più diffuso nei pueblitos ed annovera una lunga serie dicanti e poesie d’impronta popolare. Tuttavia a scuola l’insegnamento ufficiale è inspagnolo.
Secondo Verástique [2000: 32-33] “presso i Purhépecha, le pratiche di semina e raccolta rivelavano un’ideologia egalitaria del lavoro collettivo. Questo ethos si manifestava nella consumazione festiva e nella generosa ospitalità mediante la ridistribuzione dei raccolti. L’ethos agricolo dei Purhépecha rifletteva anche i valori dello stato. Nel 1519 lo stato Purhépecha era un sistema strutturato verticalmente in cui autorità, status e ricchezza si concentravano al livello più alto. In questa struttura sociale verticale la cooperazione e la solidarietà si identificavano con l’abilità delle caste dell’élite nell’organizzare, determinare e distribuire la produzione annuale”.
I 4 barrios di Nahuatzen (dove solo pochissimi anziani sono in grado di parlare purépecha) svolgonoa turno i ruoli previsti per la festa disan Luís Rey: nell’ordine los soldaditos, los moros, los toros, el castillo. In ogniquartiere vi è un carguero, un responsabile che si autocandida di voltain volta per assumere la gestione della festa in relazioneai compiti affidati alla sua zona. Secondo la consuetudine, nel pueblo si fanno paragoni fra i vari cargueros, che vengonomessi a confronto con i loro predecessori, prendendo in considerazione la riuscita della parte della festa da loro organizzata; si tiene anche conto del fatto che le disponibilità economiche di base, a livello familiare, siano uguali o meno, sicché è considerato degno di maggior prestigio chi pur non avvantaggiato dalle sue condizioni finanziarie sia però riuscito a disimpegnarsi meglio nel suo ruolo, con maggior soddisfazione del barrio di appartenenza e dell’intero pueblo. Il ruolo di maggiorprestigio è quello di carguerode los toros, in quanto èrichiesta una particolarecompetenza organizzativa, accompagnatada una discreta disponibilità finanziaria soprattutto perla realizzazione del jaripeo,che dura tre giorni conspettacoli sia al mattino che al pomeriggio.
Il carguero de los toros nel 1996, nel quarto barrio, aveva con sé non solo l’immagine della Virgen del Cortijo, protettrice tipica per il ruolo dei tori, ma anche quella di santa Helena, patrona de los moros, di cui egli era stato carguero in precedenza; e manifestava pure l’intenzione di candidarsi a carguero per una terza volta.Non è un caso che la prenotazione per questo ruolo venga effettuata con molti anni di anticipo (nel 1996 le prenotazioni per il carguero de los toros arrivavano sino al 2010) [Cancian 1986]. Menoimpegnativoè el castillo, eredità spagnola che si riduce all’incendio di alcuni artifici pirotecnici, ma è opinione condivisa che senza il castillo non c’è fiesta, anche se proprio questo è la manifestazione più evidente dello spreco, cioè del derroche. Una cura maggiore è necessaria per gli altri due aspettiche presuppongono l’impiego di cavalli e costumi particolari (unpo’ più approssimativi quelli dei bambini che si vestono da piccoli soldati, ricercati e costosi quelli dei giovani-adulti che indossano gli abiti sgargianti dei mori).
Jiménez Castillo [1985: 372] descrive con precisione la condizione dei cargueros, con particolare riferimento ai problemi economici che li concernono: “in genere, i cargueros rappresentano una famiglia che ha le possibilità economiche per sostenere il cargo, o che da anni prima ha risparmiato a tal fine; altri che non si trovano in tali condizioni chiedono denaro in prestito per poi restituirlo con prodotti agricoli o stoviglie; alcuni vendono una o due mucche, maiali, cavalli e persino affittano per vari anni le proprie porzioni di terreno agricolo, o le vendono del tutto. Di conseguenza, alcuni cargueros organizzano la celebrazione nella forma più modesta possibile o rifiutano di impegnarsi in un cargo, il che porta in alcuni anni a far sì che la celebrazione si svolga grazie alla collaborazione di tutti gli abitanti della comunità e talora che venga annullata”.
Nahuatzen non è forse nella medesima situazione di difficoltà di Huancito, studiata da Jiménez Castillo (1985), ma ciò non toglie che l’impegno economico assunto da un carguero sia particolarmente gravoso. Il costo della festa nel 1982 risulta di circa600.000 pesos (quasi 12.000.000 di lire italiane dell’epoca) già per lasola prestazione delle bande musicali provenienti da altre zone dello stato di Michoacán (per los soldaditos del primo barrio c’era la Banda de Música La Michoacana de Ichán con director il maestro Argemiro Ascencio; per los moros del secondo barrio la Banda de Música Santa Fe del Rio; per los toros del terzo barrio la Banda Musical de Tarímbaro La San Marqueña). In generalesi può calcolare che perogni famiglia il contributo alla celebrazione comunitaria si aggiri sui 2.000 pesos (circa 40.000lire italiane).
La chiesa locale dal canto suo per l’occasione della festa dichiara offerteper 30.000 pesos (circa 600.000 lire italiane), ma ancora di meno fino al 21 agosto, come documentato in un foglio affisso all’ingresso del tempio: “Donativos entregados en la notaría parroquial, del 15 al 21 para gastos de la fiesta de Patrono San Luís…Total 15.430”; l’offerta minima di una famiglia o di un singolo assomma a 50 pesos, la massima di 1000.
Secondo il cura Rafael Rodriguez, che pare conoscerli bene, i nahuatzeños sono gente rispettosa, munita di una certa nobiltà di carattere e di comportamento (ma qualche contrasto può nascere talvolta tra il parroco e la presidenza municipale). La loro povertà economica li renderebbe anche poco consapevoli dei meccanismi di funzionamento del mercato e della politica. Negli abitanti di Nahuatzen appaiono forti il senso della famiglia ed il rispetto della vita, tanto che l’aborto sarebbe poco praticato, ed anche il divorzio (nel 1987 nessun caso ufficiale, 11 di fatto). Il rispetto, che è detto kashumbikua a San Pedro Ocumicho [Padilla Pineda 2000: 256-260] ma anche altrove (come dimostra anche Jacinto Zavala [1998] nativo di Nahuatzen e vissuto a Cherán), è una caratteristica che emerge soprattutto durante la fiesta e che in realtà, come sottolinea Padilla Pineda [2000: 50], è diffusa in tutta la vita comunitaria, costituendo un insieme di comportamenti, stili di vita, solidarietà a tutto campo: “il comportamento referenziale e ponderato verso gli altri si chiama così, ed è obbligatorio in contesti religiosi e cerimoniali come quelli che comporta l’avere a che fare con le immagini durante le feste. Però è anche di somma importanza nei riti del ciclo di vita individuale. Ugualmente si definisce rispetto – per esempio nell’espressione persona di rispetto – un valore riconosciuto socialmente in un individuo”. In definitiva, secondo Padilla Pineda [2000: 284], “il rispetto – nel senso di riconoscimento – è il tipo di vincolo sociale proprio dell’ordine religioso-cerimoniale”.
Le donne non hanno funzioni specifichedurante la festa, a meno che non partecipino come marichas, cioè ragazze da marito, al gruppo de los toros, portando con sé una piccola riproduzione di un toro (con evidente simbologia sessuale), ballando con i jinetes ed incitandoli a ben cimentarsi nel jaripeo per la conquista della palma, il premio che consiste di solito, secondo le circostanze del momento e le possibilità dell’offerente, in un toro, oppure un cavallo, un elettrodomestico, una lavatrice elettrica od un trofeo, od anche una piccola struttura in legno cui sono appesi vari donativi per il vincitore: abiti, frutta varia, molte banane, bottiglie di alcolici, oggetti di uso quotidiano (camicette, scialli, sigari, cappotti, fazzoletti, radio, televisori) o di divertimento, ecc.
Le donne aiutano nei vari preparativi, masenza far parte della comisión che coadiuvail carguero, la cui moglie o madre è però una sorta di regina. Ella riceve in casa i donativi di contributo alle spese dellafesta e si adornail capo con tanti nastri colorati (listones) in ragione numerica dei doni ricevuti (ma anche ogni nodo o fiocco indica ed enumera un dono avuto). Si usano molto anche i coriandoli di carta (confeti) che vengono lasciati cadere a profusione sul capo dei jinetes come augurio di vittoria o su jinetes e marichas insieme come augurio matrimoniale o comunque su chi si incontra in casa o per strada, chiedendone previamente l’autorizzazione (“con permiso”). Durante il jaripeo invece dei coriandoli, in forma augurale di abbondanza e vittoria, si possono lanciare in campo anche banane, mele ed altra frutta.
Coloro che si recano in visita alla casa del carguero (essa funge per un anno da tempio domestico) “bussano con i piedi” perché le mani sono impegnate per portare i regali. Agli uomini vengono offerti sigari od abiti. Coloro che hanno portato qualche dono ricevono a loro volta un omaggio. Va sottolineato il fatto che il vero carguero della casa non è tanto il giovane che riveste ufficialmente tale ruolo quanto piuttosto suo padre che lo ha posto in condizione di poter onorare compiutamente l’impegno assunto. Di solito chi porta donativi si ferma poi anche a mangiare. Verso gli ultimi giorni della fiesta anche le donne cominciano a percorrere le strade del pueblo danzando e ubriacandosicome gli uomini.
Il sistema di cargos ha senza dubbio creato problemi nei rapporti fra chiesa ufficiale e religiosità popolare, con il sacerdote in opposizione ai devoti, come mostra il caso di Cherán [Castile 1974: 43, 147-153]. Del resto dopo la Rivoluzione del 1910 si erano andati sempre più distinguendo i ruoli gerarchici di tipo civile-amministrativo rispetto a quelli di natura socio-religiosa. Lo stesso Partito Rivoluzionario Istituzionale, sin dalla sua fondazione nel 1929, ha sempre tenuto a separare lo Stato dalla chiesa cattolica. La lunga presenza del P. R. I. al governo del Paese ha favorito ancor più l’atteggiamento anticlericale, impedendo che i ministri del culto indossassero abiti religiosi in pubblico. In alcuni casi si sono anche proibite le feste religiose.
Particolarmente diffuso resta il sistema della mayordomía, cioè della responsabilità affidata ad alcuni di presiedere l’organizzazione delle feste religiose. A Nahuatzen, come altrove, dopo l’accordo cardenista e con la pacificazione seguita alla ribellione cristera,sono state riviste le varie cariche civili e religiose. In particolare sono stati chiariti i contenuti e le forme dei cargos religiosos, che hanno il carattere di responsabilità principale o di rappresentanza ma comunque con forte autorità per fare rispettare la pindekua consuetudinaria (il costume tradizionale) [Sepúlveda 1974]. Nonostante la presenza in loco di un cura, sacerdote-parroco, i cargueros religiosi [Jimenez Castillo 1985: 384-387] continuano ad essere nominati anno per anno, barrio per barrio, rispettando la lista di prenotazioni registrate in un apposito quaderno e talora risultano anticipate di molti anni rispetto al periodo di effettivo svolgimento del ruolo assegnato per la festa di san Luís Rey. Tali cariche di prestigio, che legittimano l’affidabilità di un soggetto, assumono altresì un carattere familiare. Solitamente sono dei coniugi che si fanno avanti per poter accedere all’ambito cargo. Dietro la coppia coniugale opera però anche la famiglia di provenienza, insieme con i parenti.
A Nahuatzen di solito il sacerdote residente tende a sminuire la centralità del ruolo dei cargueros, anche in considerazione dell’elevato costo per le famiglie e dello spreco di risorse. Insomma, mentre altrove vi è un confronto fra parroco e comunità a Nahuatzen invece l’autonomia dei cargueros è massima, rappresentando così un’opposizione, una resistenza rispetto alle istanze del rappresentante ecclesiastico. Insomma il cura di Nahuatzen non ha il controllo della fiesta. A Cherán, ad esempio, a lungo si è discusso fra parroco e comunità sull’organizzazione festiva. Il tentativo di creare associazioni religiose fedeli alla gerarchia se riesce sul piano operativo-pastorale della parrocchia non è in grado di scalfire il preesistente sistema di cargos e men che mai riesce a creare le premesse per un subentro di nuovi organismi come promotori della festa patronale. Va precisato però che se la responsabilità è del carguero tuttavia ormai gruppi cospicui di persone, oltre i familiari, intervengono per offrire un sostegno organizzativo ed economico a chi gestisce una delle 4 parti principali della fiesta. Le famiglie da sole, del resto, non sono quasi mai capaci di offrire l’intera somma necessaria per lo svolgimento della parte della fiesta loro assegnata. Per questo alcune persone autorevoli formano una commissione che percorre le strade del barrio raccogliendo il denaro occorrente per l’allestimento di un quarto dell’intero programma festivo. In tal modo si sottolinea anche il legame solidale all’interno della famiglia, nella famiglia estesa (patrilocale e già tipica degli antichi purépecha), fra i parenti, tra gli amici, nell’intero quartiere coinvolto per realizzare una parte del momento celebrativo comunitario. Si forma e si rafforza così una sorta di “credo egalitario de la fiesta” [Brandes 1988: 56, citato da Dietz 1999] e si supera la difficoltà dovuta al fatto che nessuno nel pueblo è in grado da solo o con la sua famiglia di sopportare l’intero carico di un programma festivo articolato su più giorni e con manifestazioni assai dispendiose da organizzare (per fuochi pirotecnici, bande musicali, danze, costumi, toril, cioè l’arena con gradinate in legno per il jaripeo con i tori). Nel 1982, ad esempio, nel primo barrio, probabilmente il più povero del pueblo ma anche il più calador, cioè il più impegnato, la comisión di 60 membri (ognuno dei quali versava 1.000 pesos) raccoglieva – come già ricordato – una somma-base (uguale per tutti i capi-famiglia) di 600 pesos: solo per l’alimentazione già si dovevano spendere 30.000 pesos ogni giorno della festa. Ma in altri barrios si superavano i 1.000 pesos come quota per famiglia.
I comisionados, i membri della commissione, sono di solito i giovani maschi novelli sposi degli ultimi dodici mesi (oppure anche altri che lo chiedono). Chi è in commissione paga una quota più alta degli altri capi-famiglia. Scapoli e nubili non sono tenuti a versare alcuna quota perché non presiedono una famiglia.Il sistema dei cargueros [Sepúlveda 1974] va dunque a sostituire quello dei mayordomos. D’altra parte occorre ricordare che, dopo la conquista spagnola, in ogni comunità purépecha vi era un governo locale degli indios, che veniva eletto ogni anno ed era costituito da “los oficiales de república” (gli ufficiali di repubblica), che si riunivano in cabildo, o república, raccoglievano i tributi, amministravano la giustizia, facevano istanze al governo, gestivano le terre comunali, organizzavano e finanziavano le feste religiose, soprattutto del Natale, della Pasqua, della Pentecoste, del Corpus Christi, del Giovedì Santo ed ovviamente del santo patrono. In effetti la dizione “pueblo de indios” era pienamente legittima sin dalla metà del XVI secolo ed aveva valore giuridico [Tanck de Estrada 2000]. Il termine “indígenas” cominciò ad essere usato dopo il 1821. Per le feste religiose si usava molta parte del denaro comunale, tanto che dal governo statale venivano critiche per il costo dei pranzi, delle bevande, dei fiori, dei razzi, dei fuochi pirotecnici e degli addobbi.
Nel 1982 si era notato che quasi non esisteva alcuna forza pubblica per il controllo dell’ordine durante la festa, fatta eccezione per una guardia che custodiva gli uffici municipali durante la notte. Con il passare del tempo però sono aumentate le violazioni della legge, per cui si è stati costretti ad incrementare il numero dei poliziotti municipali, tutti armati e facenti capo al DSPM, cioè al Dipartimento dei Servizi di Polizia Municipale.
5. Riti e ruoli
Un mese prima dell’inizio della festa vengono formate le commissioni che per ogni barrio organizzeranno la parte di competenza dei festeggiamenti.
Nei giorni precedenti la festa, i danzatori sia del gruppo dei moros che dei soldaditos si preparano intensamente, più volte e sotto la guida di un maestro, per ben eseguire in pubblico la loro danza, in particolare imparando a tenere il ritmo giusto, a fare i movimenti corretti ed esattamente al momento previsto. Uno sparo di mortaretti serve per richiamare moros e soldaditos alle prove di danza che si svolgono nel corral della casa del rispettivo carguero.
Dieci giorni prima della festa ha luogo nella casa del carguero de los toros la danza del cerrito (piccolo monte), che è posto al centro del corral ed attorno al quale ballano marichas e muchachos. In cima al cerrito vi sono delle fasce colorate. Per ogni maricha c’è anche una bottiglia di vino tinto, cioè di colore rosso intenso come il sangue del toro. Alla fine tutte le bottiglie vengono uitilizzate dalle marichas per offrire da bere direttamente alle labbra dei presenti. Poi si chiede a qualche proprietario di tori di fornire il suo hierro quemador, cioè il ferro che serve per marcare gli animali, oppure il registro (patente) attestante la proprietà dei tori. Il ferro (od il registro) viene collocato al centro del cerrito. Per riaverlo il proprietario deve fare un dono. Non è difficile individuare in questa cerimonia un carattere pronubo, ben augurante per le coppie di sposi che stanno per unirsi in matrimonio. Il vino-sangue del toro ha un chiaro significato di liquido seminale, in quanto va a congiungersi a livello labiale grazie all’offerta delle donne. La danza poi è il momento fautore di tutto l’incontro. Il cerrito inoltre è il luogo unificante, la fonte, la matrice emblematica di ogni unione, il punto di convergenza, tratto dal contesto ambientale e dunque carico di immaginario anche per la sua identificazione con la sorgente di ricchezza del pueblo. Infine lo scambio che porta al donativo finale è il suggello dell’alleanza stretta, della compartecipazione legittimata dalla rinunzia ad un bene (l’oggetto del dono) in vista di un acquisto migliore (il recupero della potenza insita nel ferro marchiatore o nel titolo di proprietà).
Il 24 agosto ha luogo la procesión o entrada de la cera con ceri lavorati (come ad Ocumicho, nello stato di Michoacán, ed a Siviglia, in Spagna). Alle 11 c’è la messa delle prime comunioni. Alle 18 si celebra la messa per i cargueros e las comisiones. Ma nel programma ufficiale, affisso alle porte della chiesa e nelle strade, non vi è mai stato, negli anni in cui si è svolta la ricerca, alcun accenno agli altri momenti profani della fiesta.
Il 25 agosto a partire dalle ore 6 del mattino le bande musicali suonano le mañanitas (percorrendo le strade del pueblo) e le alboradas (musica classica, in piazza). Alle ore 6,30 ed alle ore 8 del mattino vengono celebrate due messe. Quella solenne concelebrata ha inizio alle ore 12 ed è accompagnata dai canti del coro parrocchiale e dalla presenza delle marichas; in anni successivi al 1982 si sono visti partecipare anche i moros. Davanti alla porta della chiesa qualche donna vende, insieme con oggetti religiosi, il pan bendito (pane benedetto). Protagonisti della giornata sono i moros ed i soldaditos (erano 34 nel 1982). Questi ultimi rappresenterebbero in realtà degli spagnoli, anche se travestiti da francesi. Pur iniziando le loro danze lo stesso giorno dei moros, i soldaditos però perdono di importanza a tutto vantaggio dei moros, dominatori incontrastati della fiesta anche perché si spostano a cavallo e ne discendono quasi solo per eseguire la loro danza (gruppi di moros danzanti sono presenti in molte altre feste messicane, fra l’altro a San Pedro Ocumicho [Padilla Pineda 2000: 118-120; 222-227] ed a Ihuatzio, dove la festa ha luogo dal 3 al 6 ottobre [van Zantwijk 1974: 177-180]). In verità anche i soldaditos procedono a cavallo, aiutati dai genitori, ma ovviamente si impongono meno dei giovani adulti che impersonano i moros. Comunque, per quanto latente, il confronto tra moros e soldaditos è ricorrente: gli uni e gli altri danzano, vanno a cavallo, sono seguiti da bande musicali, hanno un carguero e una comisión, una protezione religiosa (di san Luís o di santa Helena) e tuttavia l’esito migliore rimane senza ombra di dubbio quello dei moros, cioè, in definitiva, quello degli indigeni in antagonismo con gli stranieri.
Il 25 agosto del 1982 la processione principale, prevista alle ore 4 del pomeriggio, dopo l’esposizione del Santissimo Sacramento, la recita del Rosario, la Benedizione Eucaristica ed il cambio d’abito alla statua grande di san Luís, non si fece perché a detta del cura c’erano solo 30-40 persone e dunque non valeva la pena far uscire la statua del santo per le strade (sembra che in passato intervenisse alla processione anche il vescovo od un suo delegato, ora non più). Un’altra giustificazione fornita era che la statua del santo fosse molto antica e dunque meritasse particolare rispetto. Alla sera si fecero i due castillos (del costo di 50.000 pesos ognuno).
In occasione dell’incendio del castillo entra in funzione il torito, una costruzione in legno a forma di piccolo toro azionata da un pirotecnico. Il torito di luce, con bengala fumanti e scoppi vari, fa la vuelta sulla piazza (mentre s’incendia il castello) ed è preso in giro dai bambini. A carnevale si usa un altro torito fatto di tela; un caporale procede su un asino ed uomini vestiti da donne (maringuiyas) vanno dietro il torito: ancora una volta si dà la burla agli spagnoli. Ma è detta anche torito la danza delle marichas (erano 28 nel 1982), che ballano nelle cerimonie collegate con la parte della fiesta relativa ai toros.
Il giorno 26 agosto vi è il jaripeo, mattina e pomeriggio. Lo stesso dicasi per i due giorni seguenti.
Nel 1981 un giovane fu colpito da varie coltellate. Scampato alla morte, nell’anno successivo per mantenere una promessa fatta (“para cumplir una promesa”ovvero manda) ha indossato il costume del moro cambiando d’abito ogni giorno (tres capas, tre mantelli, ciascuno in onore di un santo: in primo luogo san Luís, ovviamente, ma poi anche santa Helena,la patrona dei moros). Per far ciò è stata necessaria una somma ingente, raccolta con l’aiuto di familiari, parenti ed amici. Prendersi l’impegno di fare il moro od il soldadito deriva, non infrequentemente, da una promessa (manda) o dal desiderio di voler offrire qualcosa, di privarsi di alcune soddisfazioni, di rinunciare a talune convenienze anche economiche, il tutto inteso come una forma religiosa di devozione e di dedizione.
Nel 1982 ben nove autobus (invece di uno, come al solito) giungevano da Città del Messico, in occasione della festa. Ma in molti usavano il camion come mezzo di trasporto ad uso misto, per merci e persone. Nel 1996 operavano con destinazione Nahuatzen gli autobus della ditta Galeana in collegamento con Sevina, Pátzcuaro e Morelia, nonché quelli della ditta Autobuses de Occidente in collegamento con Cherán, Zamora, Uruapan e Città del Messico.
Nel 1987 l’affitto di una stanza per i giorni della festa costava 6.000 pesos per una persona e 8.000 per due persone.
Seguendo la turnazione dei ruoli festivi affidati di anno in anno a ciascun barrio,nel 1987 il primo barrio curava il castillo, il secondo i soldaditos, il terzo i moros, il quarto i toros. La sequenza abituale resta dunque la seguente: soldaditos, moros, toros e castillo. L’andamento è antiorario rispetto alla disposizione topografica del pueblo, partendo dal primo barrio, proseguendo con il secondo e così via, tenendo conto che l’incrocio fra i 4 barrios è dato dall’intersecarsi della via 18 de Marzo (in orizzontale) con la via Morelos (in verticale), per cui ogni quadrante corrisponde ad un barrio. Il quadrante in cui si trova il municipio (quest’ultimo però è zona neutra) corrisponde al primo barrio mentre quello in cui si trova la chiesa parrocchiale (anch’essa considerata neutrale) appartiene al secondo barrio, invece il quadrante occupato in orizzontale dalle vie I Zaragoza, Abasolo, Melchor Ocampo, Leona Vicario, Venustiano Carranza e Belisario Domínguez ed in verticale dalle vie Lázaro Cárdenas, Juárez ed Emiliano Zapata è quello del terzo barrio, infine l’ultimo quadrante posto sul lato dove si trova il cimitero è il quarto barrio. Il principio territoriale della divisione in barrios è alla base di gran parte dell’organizzazione sociale di Nahuatzen.
PUEBLO DI NAHUATZEN
Divisione in barrios
Ogni sera, soprattutto i giovani – in particolare durante la festa – fanno continuamente il giro della piazza, in modo abbastanza ordinato e concentrico: il cerchio interno, con andamento antiorario, è quello delle donne mentre il cerchio esterno, con andamento orario, è riservato agli uomini. Ciò avviene dalle 7 alle 10 di sera. Si usa dire in proposito: vamos a la vuelta a la plaza (andiamo a fare un giro in piazza). Un’altra espressione tipica dei giovani è: “vamos a tomar” (andiamo a prendere da bere).
Nel corso della fiesta la gioventù ha un momento riservato al baile. Nel 1982 si svolse nello spazio all’aperto antistante una scuola (anche i moros andarono a ballare a suon di ritmi nordamericani; le donne pagavano 250 pesos e gli uomini 350, i posti riservati costavano 400), nel 1987 nell’auditorio municipale (fino alle 2 di notte; i caballeros pagavano 2.000 pesos, le damas 1.500) ed ancora nell’auditorio nel 1996 (suonava il gruppo strumentale dei “Samurai”, con scarsa partecipazione di giovani, un poliziotto con fucile all’ingresso ed un ubriaco mandato fuori). Di solito anche i giovani rimasti all’esterno dei luoghi dei balli a pagamento continuano a danzare agli angoli delle strade, ben oltre la mezzanotte. Comunque, al di fuori della fiesta, ogni sabato la gioventù di Nahuatzen usa andare a ballare a Paracho.
La festa è fortemente aggregante ed è occasione di scambi economici, affettivi e simbolici fondamentali per la vita della comunità. In casa si preparano churipo (zuppa di carne) e ripieni di carne e peperoncino (nacatamales). Si beve mezcal (acquavite di agave) ovvero tequila.
Nei giorni che precedono e seguono il 25 agosto si svolge anche un mercato, che comincia il sabato prima della festa e termina il sabato dopo la festa, cioè inizia e finisce proprio nel giorno settimanale previsto per il suo svolgimento normale in corso d’anno. Ma il mercato della fiesta è assai più ricco e vario di quello consueto. Inoltre arrivano venditori e commercianti anche da luoghi abbastanza lontani da Nahuatzen, tanto importante e redditizia appare ed è l’occasione da un punto di vista economico. Espongono la loro merce commercianti di abiti e calzature, ma anche artigiani della ceramica, confezionatori di canestri e stuoie in giunco. Si vendono dolci e frutta secca, bibite e tartine con peperoncino (enchiladas), piccole frittelle (taquitos), pan con miel (pane e miele), pesce affumicato, pane zoomorfo (con raffigurazione di vari animali). Un alimento speciale è il pozole, cioè brodo di carne, peperoncino e granturco floreado (aperto) cotto. L’abbondanza di cibo durante la fiesta è tale da far dire che anche i cani riescono a festeggiare nel mangiare. Non mancano giochi e giostre (il prezzo per un giro è, nel 1982, di 15 pesos), tiro a segno, lotteria, spettacoli comici, ruota della fortuna, venditori di palloncini (dalle forme più varie, anche di pesce), burattinai (titiriteros) ed uccellini della fortuna (che affacciandosi dalla loro gabbietta estraggono con il becco un bigliettino, a caso fra tanti, per predire il futuro di un avventore). Secondo García López [1984: 106], “el mercado, a través del sistema de fiestas obliga a la comunidad al consumo de diferentes clases de bienes que provienen del sector industrial como del rural” (il mercato attraverso il sistema di feste costringe la comunità al consumo di diversi generi di beni che giungono sia dal settore industriale che da quello rurale).
Mercato e divertimenti attirano molti campesinos del circondario, sia meticci che indigeni. Per la fiesta arrivano anche molti giovani di altre comunità vicine e numerosi emigrati (di rientro da altre città del Messico o dagli Stati Uniti, dove fra l’altro hanno potuto utilizzare la legge Simpson-Rodino del 1986, per la regolarizzazione dei lavoratori stranieri clandestini). Molti tornano al pueblo appositamente per la fiesta: Paulo González Villanueva nel 1984 era tornato dal Canada, ma successivamente è andato a vivere a Zamora. Jaime González Villanueva invece era tornato dall’Ecuador per la festa del Corpus Christi (durante la quale c’è anche il torito).
Il carattere della festa, in effetti, è per vari aspetti secolare: è l’occasione in cui si indossano per la prima volta abiti nuovi o si calza un fiammante paio di scarpe in cuoio, compera di solito piuttosto recente effettuata al mercato in piazza, o si esibisce un nuovo sombrero, magari appena acquistato presso un venditore ambulante (che gira per le strade del pueblo con la sua enorme pila traballante di sombreros di varie fogge, sovrapposti l’uno sull’altro).
Per fare bella figura nella fiesta si fanno molti risparmi in corso d’anno, specialmente se un proprio familiare figurerà come moro, maricha o soldadito. C’è un’idea ricorrente in ogni fase della festa: si applica a chi si espone al giudizio comunitario svolgendo un ruolo specifico. In effetti in base all’impegno economico profuso, si viene valutati (“vale más, gastómás”, cioè vale di più perché ha speso di più; ed il costo maggiore, si sa, è quello de los toros e delle bande musicali).
Nel 1987 la banda dei soldaditos costava 2.000.0000 di pesos (nel 1982 il costo medio di una banda si aggirava attorno ai 200.000 pesos, prezzo pattuito prima del mese di agosto di quell’anno, allorquando si ebbe una forte crisi del valore di acquisto del peso; per questo i costi degli anni successivi risultano lievitati di molto). Le quote da pagarsi da parte dei comisionados erano di 15.000 pesos. Gli altri pagavano 7.000 pesos. Il primero comisionado aveva il sombrero, il secondo comisionado un fiore (la dalia, solitamente bianca, detta anche chaqualalate) sul cappello. Ma c’era anche un tercero comisionado. La banda musicale dei toros costava 2.600.000 pesos (l’ingaggio della banda è considerato un atto fondamentale della festa; si narra che se per esempio qualcuno non volesse provvedervigiungerebbe san Luís stesso su un cavallo bianco a promettere, in cambio, un buon posto di lavoro). Anche ogni comisionado de los toros versava 15.000 pesos, come quelli de los soldaditos. Nello stesso anno i moros erano 40, con un costo di 150.000 pesos per l’abito completo, la ropa, talora prestata da un famiglia all’altra. Il loro addestratore, Luís Herrero (in attività da 19 anni), percepiva 5.000 pesos. La stessa somma era prevista per il trainer dei soldaditos, Rogelio Paleo. Entrambi gli istruttori delle due danze (di moros e soldaditos) risultano poi gli stessi di anno in anno.
Per ogni tablado (corrispondente a 100 posti) nel toril, cioè nell’arena dove si svolge il jaripeo, si versano 4.000 pesos alla presidenza municipale. Il costo dell’accesso per il pubblico è di 300 pesos a persona se il jaripeo ha luogo di mattina, di 500 nel pomeriggio. Pertanto da ogni tablado si ricavano rispettivamente 30.000 e 50.000 pesos. Si può anche chiedere di ottenere un intero tablado: ve ne sono ben 60per un totale di 6.000 posti; l’assegnazione di 40 tablados su 60 si effettua per sorteggio. Per ogni jaripeo sono previsti fra 6 ed 8 tori, ma il totale giornaliero è di 14 tori. Alla fine vengono presentati di solito due toritos (torelli). In definitiva nei tre giorni si esibiscono 42 tori che provengono da sei ranchos diversi, uno per ogni jaripeo mattutino o pomeridiano. In ogni rancho c’è un caporale dei tori: provvede a governarli ed a condurli al jaripeo; si tratta di un lavoro faticoso e rischioso. Nel 1996 Francisco (detto Pancho) Rodriguez, addetto al rancho “Mustang” di proprietà di José de Jesús Villanueva Tórres, poco prima della fiesta è stato ferito gravemente dal corno di un toro, che gli ha procurato una ferita profonda alcuni centimetri. Nondimeno egli ha voluto e potuto svolgere regolarmente il suo compito.
Il costo di ciascun jaripeo di mattina o pomeriggio è sempre di 250.000 pesos (ma occorre ricordare che nel passato non era previsto alcun prezzo da pagare per la partecipazione dei tori all’evento; si narra che se per esempio qualcuno non avesse voluto offrire un suo toro per il jaripeo sarebbe giunto san Luís stesso su un cavallo bianco ed accompagnato dalla banda a promettere, in cambio dell’offerta dell’animale, un buon andamento della ganadería, cioè dell’allevamento). Il costo complessivo per los toros nei tre giorni della festa è di 1.500.000 pesos. Un comisionado od un’altra persona può offrire il pagamento di un jaripeo come omaggio per il carguero.
Nel 1987 ogni capofamiglia (jefe de casa) versava 10.000 pesos per l’organizzazione della parte della fiesta di competenza del suo barrio (nel 1980 la quota era di 300 pesos, 500 nell’anno successivo [García López 1984: 101], ma la cospicua differenza registrata negli anni seguenti si spiega con la forte svalutazione del peso avvenuta nel 1982). In genere, però, chi era impossibilitato a versare la sua quota partecipava prestando la sua forza lavoro.
Da un barrio con 350 capifamiglia si ricavano 3.500.000 pesos. Ma il quarto barrio nel 1987 aveva solo 140 jefes de casa, per cui era in difficoltà per l’organizzazione della sua parte per la fiesta. I membri della commissione erano 124 (detti comisionados o incabezados).
Per l’accoglienza delle bande musicali si comprano letti di materia vegetale (stuoie di giunco), detti petates. Dopo l’uso per la festa, vengono rivenduti. Ogni carguero deve offrire un giorno di vitto (comida) per la banda. Negli altri giorni si provvederà diversamente. Il soggiorno della banda dei toros è il più lungo e costoso perché dura 5 giorni (a partire dal pomeriggio del 24 agosto). La banda giudicata migliore ottiene un premio (per esempio nel 1986 è stato consegnato un oggetto in rame, in altri anni una coppa od un trofeo).
Il sistema di cargos e l’attribuzione del ruolo del carguero seguono una rotazione annuale e danno luogo a due figure diverse: il proprietario ed il suplente nel cargo. Il carguero e la sua famiglia, di solito di umili origini e di povere condizioni o poco più, assumono l’impegno di patrocinare un santo per un anno intero e di rivestirlo con un nuovo abito: presso la loro casa, un’apposita stanza viene adornata di fiori ed adibita al culto del santo (collegato al ruolo specifico assegnato al barrio per quell’anno). Ma il cura Rafael Rodriguez non attribuisce a tale luogo il carattere di un tempio domestico, in contrapposizione al tempio ufficiale, e lo considera solo un modo per riunirsi, ritrovarsi, solidarizzare e parlare con il carguero, dare importanza alla sua famiglia; pertanto – a suo parere – non esisterebbe alcun conflitto, neppur latente, fra la statua del santo conservata nel barrio e quella venerata in chiesa. La percezione del parroco è che comunque tutti si rechino in chiesa, dopo l’omaggio reso in casa del carguero. Anzi la chiesa cattolica sembra essere una casa comune per tutti, visto che anche i protestanti locali, alcuni battisti, visiterebbero sia il tempio che il sacerdote, così come i testimoni di Geova, tanto impegnati nelle loro visite casa per casa nel pueblo con attacchi all’eucarestia, ai preti, al matrimonio ed alla Vergine Maria. Quel che Rafael Rodriguez nega chiaramente è che vi sia una qualche continuità fra l’antica religione purépecha e quella cattolica, ma al tempo stesso attribuisce ai francescani, già operanti proprio a Nahuatzen, il merito di aver capito che i purépecha non erano affatto politeisti ma monoteisti, con la loro concezione di Tata Juriata, ovvero Tata Dios, di cui i santi non sarebbero altro che degli amici e dunque possibili intercessori.
È necessario ricordare che sin dalla fine del XIX secolo [Lumholtz 1981] era evidente che il sistema di cargos e cargueros era particolarmente dispendioso, sino a rovinare intere famiglie per i prestiti richiesti a commercianti ed altri soggetti piuttosto abbienti, che poi si rifacevano del denaro prestato impadronendosi di fatto delle terre di coloro cui avevano fatto credito. Fu forse anche questa la ragione per la quale negli anni 30 del secolo scorso gli agraristi si scagliarono contro le feste religiose, occasione di indebitamento dei campesinos e di arricchimento dei prestatori di denaro.
Infine occorre citare il netto punto di vista di van Zantwijk [1974: 281-286] sul sistema di cargos. A suo dire esso ostacola ogni forma di sviluppo aperto, non consente alla comunità di uscire dal suo contesto, restringe le possibilità di espansione economica, indirizza le risorse più cospicue verso forme di appariscenza in loco, che sarebbero un fine a se stesse. Ci sarebbe un obbligo verso il passato che impedisce di investire nel presente e nel futuro. Il rispetto della tradizione diventerebbe di fatto un impedimento al miglioramento delle condizioni di vita.
Le interpretazioni storiche, antropologiche e sociologiche della cultura religiosa purépecha o tarasca sono state varie e non tutte convergenti. Per Beals [1946] si tratta di un’ampia rielaborazione di elementi europei rimodellati dalla presenza di idee native, originali dei taraschi, sulla base di un cattolicesimo popolare di derivazione cinquecentesca e seicentesca, modificato a livello locale senza che si possano scorgere gli aspetti originali. L’accorpamento fra l’antica religione purépecha ed il cattolicesimo popolare trasmesso dai missionari avrebbe dato luogo ad una religiosità cattolica particolare, non riconducibile del tutto né alle forme ed ai riti dell’ufficialità cattolica né ai contenuti specifici della cultura religiosa purépecha: insomma né l’una né l’altra da sole, ma qualcosa di peculiare che sembra prescindere da entrambe. Per Carrasco [1976] la religione dei taraschi è cristiana, di marca controriformista, ma contrapposta al cattolicesimo ufficiale e senza rinvii ad elementi di religione indigena e preispanica. Per van Zantwijk [1974] invece il carattere autonomo, tarasco, precoloniale, appare abbastanza evidente soprattutto nelle feste, in cui il cristianesimo è appena presente, quasi a latere, in forma supplementare, non fondante. Sempre secondo il medesimo autore la religione indigena originaria sarebbe stata a carattere politeista (ma altri non condividono tale opinione), perdendo successivamente alcuni connotati ed acquisendone altri. Pertanto il contatto con gli spagnoli, con i meticci e con i missionari francescani non avrebbe prodotto alcun effetto o quasi.
Vi sono altre interpretazioni possibili su versanti un po’ più ampi: la religione indigena assume di fatto il carattere di una opposizione (di protesta, se – più raramente – è consapevole; come protesta, cioè in sostituzione della critica aperta e fattiva, se la consapevolezza è minore) [Cirese 1976: 113-118]. Inoltre essa ha pure la valenza di un’utopia ispiratrice delle azioni dei soggetti. Non manca tuttavia di trasmettere nel contempo i modelli della cultura cattolica dominante ma li rivisita, modificandoli in base alla sensibilità tipica della cultura religiosa popolare. In definitiva si può essere d’accordo con Tapia Santamaría [1986: 237-238] sul dato di fatto che “la religione popolare è un bene suscettibile di essere gestito dai gruppi popolari come risorsa nelle sue relazioni di scambio, come strumento di legittimazione e di contestazione di rapporti di dominazione, e come sintesi che racchiude nella sua organizzazione e nelle sue rappresentazioni le rielaborazioni della cultura dominante operate dai gruppi popolari”.
Sta di fatto che “la religione nei gruppi indigeni del Messico è un fenomeno assai complesso” [Jiménez Castillo 1985: 223]. Si parla di cattolicesimo popolare ma anche di sincretismo, di giustapposizione fra culture diverse, interne ed esterne, indigene e spagnole. A prima vista sembrerebbe di trovarsi di fronte a due realtà diverse, quella popolare indigena e quella ufficiale centralizzata a livello nazionale ed internazionale. Invero entrambe convivono lungo una medesima traiettoria storica e socio-antropologica: si crede alle influenze della luna e si venera la Vergine di Guadalupa, si praticano riti domestici legati al fuoco e si va in chiesa per la messa.
6. La festa dei barrios: los soldaditos, los moros, los toros e el castillo
Durante i giorni festivi tutto il pueblo presenta un’atmosfera speciale. Lungo le strade si costruiscono altarini dove si poseranno le immagini sacre nel corso delle processioni. Alle scale delle case (specie all’ingresso) viene aggiunto un mattone per permettere che vi possano salire anche anziani e bambini. Nonostante la festa, però, non si tolgono dalle soglie delle abitazioni i fiocchi neri che ricordano un lutto più o meno recente e che restano esposti sino alla loro totale consunzione.
Intensi sono gli scambi culturali con gli altri pueblos, attraverso la presenza delle bande musicali (per esempio nel 1996 sono state ingaggiate due bande provenienti dalle immediate vicinanze di Nahuatzen: la Banda San Francisco de Cherán per los soldaditos del secondo barrio e la Banda Tata Vasco de Sevina per los moros del terzo barrio), di numerosi giovani visitatori e di nuovi clienti del mercato. La dimensione interculturale si sviluppa anche grazie ai prestiti di abiti e maschere provenienti dai paesi vicini. Nella piazza si trovano in vendita alimenti speciali, erbe medicinali, polveri medicamentose, prodotti tipici della regione, solitamente portati ed esposti da indigeni purépecha. L’annuncio della festa del 2004 è anche in Internet (http://geocities.com/nahuatzen2002/nahuatzen), con la segnalazione del periodo (dal 24 al 31 agosto), dello svolgimento di peregrinaciones (religiosas), delle esecuzioni di música, dell’organizzazione di jaripeos, dell’accensione di fuegos pirotécnicos, della realizzazione di eventos culturales e della possibilità di hospitalidad. Il tutto risulta sponsorizzato con la presenza di sette loghi, con quello del municipio in testa, seguito da Mayoreo, “La Necesidad” A. C., Carpintería Irepan, Modas El Toque Nuevo, Mueblería Morales, Servimadera Centro de Acopio Nahuatzen.Ecco dunque che la fiesta è modernizzata e globalizzata in pari tempo. Si confermano le caratteristiche di base dell’economia locale (legno ed abbigliamento) e si apre la porta, grazie al momento festivo, verso mercati più ampi. Per poterlo fare, servono bene allo scopo – nella pagina di Internet – le colorate immagini della statua di san Luís sulla sinistra, della chiesa antica e di quella moderna al centro, di un giovane vestito da moro che si affaccia dietro l’angolo del tempio, di una maricha in primo piano sulla destra, con sullo sfondo un gruppo di uomini impegnati in un momento della celebrazione.
Data la grande affluenza di persone, nei giorni che precedono la festa si fanno abbondanti provviste di acqua, elemento fondamentale anche nella preparazione del cibo. La fiesta è davvero un momento straordinario, speciale: rappresenta il centro dell’anno mentre il quotidiano ne costituisce la periferia [Shils 1994]. Non è un caso che in essa si concentrino anche i riflessi di conflitti e tensioni presenti in campo familiare ed anche politico. Ma forse il segno più evidente di una contrapposizione è dato dalla presenza di due leaders (il cura ed il carguero), di due statue del santo patrono (san Luís e san Luisito, entrambi con barba, probabilmente a sottolinearne l’appartenenza all’ordine francescano, che è caratterizzato appunto dalla presenza della barba come appare anche da alcune immagini di frati risalenti all’epoca della “conquista spirituale”) e di due chiese (quella parrocchiale e la casa del carguero). Non è peraltro senza significato che pure la costruzione di una casa preveda tutta una serie di riti tra il sacro ed il profano, fra il religioso e l’extrareligioso, che sottolineano l’importanza dell’operazione e dell’edificio che sta per sorgere.
Singolare è pure la narrazione del mito fondativo del culto dedicato a san Luís. Si dice che nel corso del XVIII secolo la chiesa di Nahuatzen fosse stata costruita per un ordine proveniente direttamente dal Vaticano e che si fosse pensato a san Francesco come patrono, mentre san Luís sarebbe stato destinato a Cherán. Le casse provenienti dall’Europa e contenenti le immagini dei due santi sarebbero state scambiate. Si pensò a correggere l’errore, ma quando si provvide alla loro apertura si trovò che san Luís era tornato nel contenitore destinato a Nahuatzen. Si volle dunque rispettare la volontà de due santi. Così san Luís restò a Nahuatzen e san Francesco finì a Cherán. Durante il periodo della rivoluzione messicana, poi, si racconta che san Luís sia apparso al bandolero (brigante) Inés Chávez, che voleva distruggere il pueblo di Nahuatzen. Infatti giunto al passo di Sevina, sul ponte di Talavera, il bandito incontrò un jinete (cavaliere) che gli disse: “no les conviene entrar; asómense en esa loma y verán que ejército tan grande los espera con cañones y fusiles” (non conviene loro entrare; si affaccino su questa collinetta e vedranno quale grande esercito li aspetta con cannoni e fucili). Un messo del bandolero confermò il tutto e dunque la ritirata ebbe inizio. Quando più tardi Inés Chávez ritornò a Nahuatzen, andando in chiesa riconobbe in san Luís il cavaliere che gli aveva impedito l’ingresso nel pueblo.
C’è poi una spiegazione ufficiale anche per il ballo de los moros, fuori della chiesa, al termine della messa: sarebbe a ricordo della liberazione dei luoghi santi dai mussulmani. Per quanto concerne invece los soldaditos essi sarebbero parte dell’Esercito Reale che sostenne la lotta di difesa dai mori; va precisato che altrove – per esempio a Ihuatzio, sul lago di Pátzcuaro – i soldati non sono rappresentati da bambini ma da adulti, con divise pure francesi però napoleoniche [van Zantwijk 1974: 177]. Infine delle marichas si dice che in origine fossero solo cinque, elette per la loro buona condotta, e che venissero addette a portare l’immagine della Vergine.
La fiesta è di tale importanza che arriva ad offrire lo scenario per la realizzazione di un film dal titolo Pueblo Chico, Inferno Grande con gli attori Verónica Castro e Juan Soler. La storia, piuttosto tragica, è collocata alla fine del XIX secolo e parla di una vedova, Leonarda, che si innamora di un suo giovane impiegato, Genaro. Tutto ha inizio durante la processione di san Luís, allorquando due adolescenti, la stessa Leonarda ed Elmiro, allacciano un legame d’amore, che però non ha un seguito positivo. Leonarda sposa un vecchio milionario, Rodendo, che muore poco dopo le nozze. Leonarda resta dunque vedova ma più tardi incontra Genaro.
L’organizzazione della festa è complessa e coinvolge migliaia di persone residenti a Nahuatzen nei 4 barrios, che non hanno un nome specifico ma vengono indicati con il numero ordinale: primo, secondo, terzo e quarto. L’ordine dei 4 momenti festivi comporta una successione cronologica annuale di barrio in barrio, ognuno dei quali, in stretto andamento sequenziale, è impegnato ad assicurare la realizzazione de los soldaditos, de los moros, de los toros, de el castillo. Così, se nel 1982 il primo barrio era impegnato per los soldaditos, il secondo lo era per los moros, il terzo per los toros, il quarto per el castillo, l’anno successivo, nel 1983, il primo barrio ha avuto a che fare con el castillo, il secondo con los soldaditos, il terzo con los moros, il quarto con los toros, e due anni dopo, nel 1984, il primo barrio ha curato los toros, il secondo el castillo, il terzo los soldaditos, il quarto los moros; tre anni dopo, nel 1985 al primo sono toccati los moros, al secondo los toros, al terzo el castillo, al quarto los soldaditos. Esauriti infine i quattro turni, il primo barrio ha ricominciato da capo nel 1986 con los soldaditos e così via.
Fra il 15 ed il 24 luglio, di anno in anno, si organizza una riunione di tutti i capifamiglia di ogni barrio. Viene nominata una commissione sia per la gestione della parte specifica che tocca in turno a ciascun barrio,sia per la raccolta di fondi. In genere la commissione comprende alcune decine persone. Il 25 luglio tutti i membri delle 4 commissioni si riuniscono insieme per dare inizio a la vuelta, cioè al giro per le strade del pueblo, con lo scopo di raccogliere il necessario per la celebrazione. Ogni commissione ha un primero encabezado (primo responsabile). Qualche volta escono per il giro, insieme con il carguero, anche i gruppi di danzatori de los moros o de los soldaditos, accompagnati dalle bande musicali, secondo necessità e disponibilità. Coloro che partecipano a la vuelta fanno anche visita alle case dei cargueros e dei primeros encabezados. Successivamente le commissioni si recano casa per casa, nel proprio barrio, a raccogliere le somme dovute da ogni padre de familia. L’esazione può avvenire in unica soluzione o in abonos, cioè a credito. La raccolta di denaro continua anche nei successivi giorni di festa, con accompagnamento di banda musciale ed offerta di aguardiente a tutti coloro che si incontrano (non è possibile rinunciare all’offerta del bicchierino debitamente riempito di alcool). Nel frattempo spari di razzi (cohetes) cominciano a far pregustare il clima della festa.
Nei giorni che seguono, le marichas provvedono a riassettare la chiesa. Nelle case si preparano alacremente los estrenos, cioè le novità che caratterizzeranno la festa: vestiti, scarpe, cappelli, soprabiti, mantelli, scialli.
All’alba del 24 agosto una composta e devota processione con la statua piccola di san Luís, proveniente dalla casa del carguero de los soldaditos,raggiunge il tempio principale del pueblo, tra inni, preghiere, invocazioni ed odore d’incenso diffuso da un apposito contenitore tenuto da un’anziana signora che conduce il corteo. Prima di entrare in chiesa qualcuno ne tocca la soglia con la mano. La piccola edicola in vetro con san Luisito viene poi poggiata alla sinistra dell’altare maggiore (rispetto a chi entra in chiesa). La statua grande di san Luís si trova invece a destra. C’è pure una statua di san Francisco, insieme con un labaro del Terz’Ordine Francescano.Alcuni devoti attraversano la chiesa in ginocchio fino all’altare (tale pratica devozionale è insegnata pure ai bambini). Poi tutti assistono alla celebrazione della messa, restando in preghiera con le candele accese.
La festa vera e propria inizia allorquando a la víspera, cioè alla vigilia, nelle ore vespertine, giungono le bande musicali, che vengono dapprima accolte all’ingresso del pueblo e poi si recano sul sagrato del tempio o direttamente alle case dei rispettivi cargueros. Una prima presentazione delle danze avviene sul tardi, di fronte alla chiesa: questa fase della festa è detta el Real. La sera poi si provvede all’incendio del castillo (nel 1982 era uno solo, costato 45.000 pesos, ma in altri anni ve ne sono stati 2). Vi prendono parte con musiche appropriate anche le bande, giacché il barrio organizzatore del fuoco pirotecnico non dispone di alcun gruppo musicale. Insieme con l’accensione del castello dinanzi al tempio, ha luogo l’esibizione del torito, una piccola struttura in legno a forma di toro, con bengala ed altri materiali scoppiettanti, mossa abilmente da un pirotecnico, tra la folla impaurita ed allo stesso tempo divertita. Infine chiude la serata una gara musicale di serenatas (con musiche purépecha, classiche e popolari, paso doble)eseguite dalle tre bande, dinanzi alla presidenza municipale e fin quasi all’alba (la madrugada comincia all’una della notte). Durante tutti i giorni della festa, specialmente al mattino ed alla sera, si sentono molti scoppi.
Il 25 agosto, giorno principale della fiesta, si va in chiesa per la messa solenne officiata da un delegato vescovile (la partecipazione all’eucarestia invero non è massiccia: nella festa del 1982 risultano solo 240 comunioni), si ammirano gli addobbi predisposti da ciascun barrio e si provvede a sciogliere le promesse fatte a san Luís per ottenerne i favori. Di solito un talloncino con l’immagine del santo è predisposto dalla parrocchia per invitare alla preghiera: “Señor Dios y padre nuestro, te suplicamos, por intercesión de nuestro Santo Patrono San Luís Rey, que sepamos llevar una vida honrada y justa y así construyamos tu Reino entre nosotros, amen” (Signore Dio e padre nostro, ti supplichiamo, per intercessione del nostro Santo Patrono San Luís Rey, che sappiamo condurre una vita onorata e giusta e così costruiamo il tuo Regno fra noi, amen).Intanto dinanzi al tempio le bande si esibiscono nella mattinata musicale, detta alborada. Poi vanno a casa del loro carguero di riferimento per la colazione (almorzo). Successivamente i danzatori si recano con la propria banda in varie abitazioni per ballare e ricevere donativi in contanti od in natura. Los moros partecipano alla messa solenne, entrando in chiesa procedendo in ginocchio per andare a baciare il mantello di san Luís. All’uscita dalla chiesa eseguono la loro danza, con relativa musica. Anche los soldaditos danzano nella medesima piazza, accompagnati dalla loro banda. Per il pranzo si formano vari gruppi che si raccolgono soprattutto presso le dimore dei cargueros (che peraltro trovano pure il tempo di scambiarsi visite fra loro). Durante il convito le bande suonano qualche pezzo. Il padre, padrone di casa, è servito dalle figlie. Le donne restano in cucina sotto la sovrintenendeza di una signora anziana (tatita). Poi danzatori e bande riprendono a fare il giro del pueblo, visitando varie case, nel cui corral (addobbato a festa con lunghe strisce di carta colorata e festoni di ogni genere)si esibiscono con grande gioia e viva partecipazione dei presenti, che di tanto in tanto inneggiano con grida di giubilo come “Arriba el barrio” (evviva il barrio) ovviamente specificando anche quale (primer o secundo o tercero o cuarto). Il pavimento è di solito tutto cosparso di foglie verdi, di aghi di pino, di rametti, come segno di festa. La banda de los toros però si limita all’alborada in onore del carguero, del primero encabezado e di altre persone di riguardo, nelle rispettive magioni; solo nel pomeriggio essa fa la sua entrada ufficiale, preceduta dalle marichas. Più tardi, alla sera, vi è in piazza, davanti alla chiesa, l’accensione di due castelli, intervallata dall’accompagnamento musicale delle tre bande, che poi si trasferiscono nell’androne (portal) del municipio per un’altra gara di serenatas.
Il 26 agosto proseguono le alboradas al mattino e poi le danze ed i giri delle bande. Comincia l’attività del jaripeo, cioè de los toros (ma la rispettiva banda, con qualche fiocco rosso sugli strumenti ed insieme con le marichas, ha iniziato le performances già dal pomeriggio del giorno 24 e dunque si esibisce per 5 giorni di seguito). Un’arena (toril) era appositamente costruita in passato completamente in legno: nel 1982 aveva 44 tribune di 15 gradinate ciascuna per un totale di 660 gradinate, ognuna delle quali capace di accogliere fra 8 e 10 persone per un massimo dunque di 6.600 spettatori. Ora l’arena per los toros ha strutture più stabili, in due diversi angoli del pueblo: l’uno per il primo ed il secondo barrio e l’altro per il terzo ed il quarto.
Sono previsti per tre giorni consecutivi due spettacoli, uno al mattino e l’altro nel pomeriggio. Quello del mattino comincia con il cosiddetto toro de once, toro delle undici, perché è questa più o meno l’ora del mattino in cui è previsto l’arrivo delle marichas, che recano in mano un piccolo toro in legno o plastica od altro materiale e sono vestite con l’abito tradizionale purépecha. Arrivano al toril danzando al suono della banda de los toros, che di tanto in tanto imita il muggito taurino. Dinanzi ad alcune case sono esposte le palmas, cioè il premio per il jinete che, riuscendo a tumbar (battere) il toro ovvero che se le quede al toro (riesce a stare in groppa al toro), risulterà vincitore nel jaripeo: è un triangolo in legno di quasi un metro e mezzo per lato che sorregge, in bella mostra, vari doni (banane, mele, frutta, abiti, camicie, piccoli elettrodomestici, bottiglie di alcolici). Nella predisposizione delle palmas contribuiscono in primo luogo il padre della maricha e poi con offerte in denaro ed in natura anche parenti ed amici dell’offerente. Va precisato che non sempre c’è un legame diretto fra maricha che offre il premio e jinete impegnato nel jaripeo. Il collegamento fra i due può essere dunque del tutto casuale. Nel 1982 risulta raccolto altresì un premio in denaro di circa 2.000 pesos per ciascun jinete vincitore, a seguito di una colletta di quasi 50 pesos in ognuna delle 44 tribune del toril. Di solito i vincitori del jaripeo ricevono un fiocco rosso dal carguero de los toros. Inoltre la maricha che ha offerto la palma si toglie il suo fazzoletto per metterlo attorno al collo del vincente. Fino agli anni Settanta del secolo scorso se invece era il toro a tumbar, cioè a far cadere il cavaliere, il premio andava al proprietario (dueño) dell’animale.
Nel corso del jaripeo alcuni spettatori scendono nell’arena per affrontare il toro, magari cercando di mettersi la coda dell’animale tra le gambe, in segno di sfida od in forma bene augurante. Qualche ubriaco, magari con una maglietta rossa, può creare problemi e finire calpestato dall’animale, ma senza gravi conseguenze grazie all’intervento provvidenziale ed immediato di tutti coloro che sono particolarmente esperti nel trattare con i tori, risolvendo le situazioni più rischiose e drammatiche.
Nel pomeriggio ha luogo un altro jaripeo detto de la tarde (del pomeriggio, appunto). Nei due giorni successivi ci saranno altrettanti jaripeos o jineteadas sia de once che de la tarde.
Il 27 agosto proseguono le attività incentrate su los toros. In chiusura di giornata la banda de los toros e le marichas fanno ancora il giro del pueblo. Il rientro è nella casa del carguero. A mezzogiorno la statua di san Luisito torna nella casa del carguero de los soldaditos. Nello stesso giorno hanno anche luogo le ultime danze dei piccoli soldati e dei mori. Verso sera i due rispettivi cargueros provvedono alla consegna del simbolo della danza (una bandiera) al barrio che se ne incaricherà l’anno successivo. Folta è la partecipazione al momento del passaggio da un barrio all’altro. Si fanno ancora danze e brindisi, con gran giubilo di tutti.
Il 28 agosto si presentano nel jaripeo i tori migliori. L’affluenza di spettatori è al massimo. Si eseguono balli e musiche popolari (jarabes). Si termina nel tardo pomeriggio con un ultimo giro di banda e di marichas per le vie del pueblo ed in piazza. Poi si va a casa del carguero per procedere con lui alla consegna del simbolo (la bandiera) de los toros al barrio cui toccherà organizzare il jaripeo l’anno seguente. Sul retro delle bandiere usate per i diversi ruoli della fiesta si possono leggere alcune scritte a ricamo, come per esempio: “Rec(uerdo) de El S(eño)r Leonardo Esaino – Agosto 25 de 1975” (bandiera di colore verde e rosso) oppure “Rec(uerdo) de la familia Magaña 1980” o “San Luís Rey de F(rancia) – Nahuatzen. Michoacán, Soldaditos. Fam(ilia) Sanchez Rosas – 25-VIII-80”. Ma i ricordi più cospicui della partecipazione delle singole famiglie alla fiesta si ritrovano nelle case (fotografie di soldaditos, moros, marichas, jinetes, fiori bianchi di carta, coppe) o tra gli ex voto (collane, anelli, piccoli tori, bambole) collocati vicino alle statue.
Il 3 settembre, ottava della festa del patrono, si realizza ancora una volta il jaripeo e si assiste ai fuochi pirotecnici dei castelli. Le statue dei santi tenute per un anno intero presso le case dei cargueros vanno dapprima in chiesa e poi nelle case dei nuovi cargueros, che successivamente organizzeranno qualche cerimonia religiosa nella loro abitazione, dove in molti si recheranno a venerare le sacre immagini.I padri dei cargueros uscenti de los soldaditos e de los moros regalano ai rispettivi figli una bottiglia di aguardiente (acquavite), quasi a suggellare il compimento dell’attività assegnata e ad apprezzarne la buona gestione.
Se si dà credito, pur con qualche dubbio, a García Canclini e Sevilla Villalobos [1985: 31-34] l’origine della danza dei moros nella regione di Michoacán sarebbe da rintracciare in una relazione di fra’ Alonso Ponce relativa ad un episodio risalente al 1590 che ebbe come protagonisti i purépecha di Patamban ed i chichimecas: i primi andarono incontro ai secondi per dar loro il benvenuto e lo fecero procedendo a cavallo e vestiti da spagnoli con spade di legno ed altre armi finte; i secondi ballavano attorno ad un signore dalla capigliatura bianca ed a cavallo; dopo qualche schermaglia, gli uni e gli altri si misero a danzare insieme. L’ipotesi avanzata è che in seguito i chichimecas siano stati sostituiti dai moros. Intanto anche gli scontri sono scomparsi. La danza risulta eseguita anche più volte in un medesimo anno a San Pedro Ocumicho, Patamban, Uruapa, Ihuatzio, Cucuchucho, Janitzio, Santa Fe de la Laguna. Qualche volta oltre i moros compaiono anche i soldados. Il ballo è in tre parti (enredos) ed è accompagnato da bande musicali.In genere la danza dei soldati precede quella dei mori, almeno nell’area michoacana (altrove ci sono variazioni). Infine la larga diffusione della rappresentazione che vede protagonisti i moros in varie parti del Messico [Mompradé, Gutiérrez 1981: 245-252] fa pensare piuttosto ad una evidente derivazione europea, in particolare dalla Spagna medievale [Barman 1972a] e dalla tradizione della lotta (lucha) fra cristiani e mori che si conclude con la vittoria cristiana e l’incendio del castello moresco.
La danza sarebbe stata importata dai frati francescani sin dal XVI secolo [Mompradé, Gutiérrez 1981: 245] ma le sue origini più remote arriverebbero al 1150 ed al periodo delle chansons de geste. La prima testimonianza documentata concerne quanto riferisce Díaz del Castillo [1992] in merito all’accoglienza riservata a Cortés verso il 1524-1525 (quando giunse a Coatzacoalcos) con archi di trionfo e “ciertas emboscadas de cristianos y moros” (certe imboscate di cristiani e mori). La danza venne poi adottata dagli indigeni e dai meticci e raggiunse varie regioni e località del Messico tra cui: Chiapas, Jalisco, Veracruz, Guerrero, Aguascalientes, San Luís Potosí, Cholula, Jilotzingo (Zacatlán), Puebla, Toluca. Mompradé e Gutiérrez [1981: 250-251] precisano pure che “solían incluso construirse dos castillos simulados, baluartes de los dos bandos contendientes, quémandose al final el castillo de los moros con cohetes o “castillos” pirotécnicos” (si costruivano di solito due castelli finti, roccaforti delle due parti in contesa, bruciando infine il castello dei mori con razzi o “castelli” pirotecnici).
La tradizione dei fuochi pirotecnici come momento identitario e di socialità festiva è tuttora viva ed attuale in Spagna, dove mantiene pure contenuti satirici espressi nella sfera pubblica, perfettamente incorporati nella dialettica fra cultura tradizionale e processi di modernizzazione: emblematico è a tal proposito il caso delle Fallas di Valencia, consistenti in figure allegoriche che vengono bruciate nella notte della vigilia di san Giuseppe, al termine di una Cavalcata di marionette, dette Ninots,che danzano e suonano coinvolgendo anche gli spettatori [Costa 2002a, 2000b].
Il costume dei mori comprendeva “turbanti in seta, fiori di carta, latta, orpelli, specchi, palline di carta sottile e filo di perle” [Mompradé, Gutiérrez 1981: 251; 384, láminaVIII]. Un turbante in parte simile a quello dei moros michoacani è in uso, nelle feste religiose, pure presso i Tarahumara della Sierra Madre Occidentale [Tommaseo 1984: 94].
Per ricostruire con maggiori dettagli tutta la complessa storia della danza dei mori e dei cristiani conviene rifarsi all’opera fondamentale in questo campo scritta da Max Harris [2000], dal titolo Aztecs, Moors, and Christians. Festivals of Reconquest in Mexico and Spain. Si tratta di un lavoro ben documentato, meticoloso, certamente affidabile sul piano scientifico. La tesi principale sostenuta da Harris è che le battaglie fra mori e cristiani hanno un’evidente valenza di dissenso rispetto allo statu quo. Pertanto l’attenzione rivolta dalle popolazioni indigene a tale genere di manifestazioni pubbliche, dal carattere burlesco, ha a che vedere con il desiderio di rivedere gli indigeni messicani riconquistare il loro territorio ponendo termine alla conquista-occupazione-colonizzazione degli spagnoli-cristiani. Gli attori-danzatori che impersonano i mori si identificherebbero pienamente con gli Aztechi (o con i purépecha nel caso di Nahuatzen) al fine di svolgere una funzione profetica, di annuncio cioè della speranza che un giorno i legittimi titolari del territorio possano liberarsi defintivamente delle sovrastanti ed ingombranti presenze non indigene.
Harris si sofferma sulle celebrazioni di Zacatecas nel 1996, con 2.550 mori [Harris 2000: 3-17], e di Cuetzalan nel 1998 [Harris 2000: 18-27]. A Zacatecas nota il carattere orgiastico delle danze condotte (anche dalle donne) in preda all’alcool. A Cuetzalan utilizza la distinzione fra “trascrizione pubblica” e “trascrizione nascosta” [Scott 1990] delle manifestazioni pubbliche, cercando di cogliere il significato reale delle performances moresche: la trascrizione pubblica riguarda ciò che avviene in forma palese nel rapporto fra dominatore e dominato; quella nascosta può concernere sia chi ha potere sia chi ne è privo. Nel primo caso è difficile giungere a cogliere qual è il reale punto di vista delle élites al potere, ma nel secondo caso l’impresa è ancora meno agevole perché occorre sia entrare nelle conversazioni private sia disporre delle registrazioni di tali colloqui per poterne fare un uso scientifico. Tuttavia la situazione in quest’ultimo caso dei senza potere offre un destro in quanto sovente la trascrizione nascosta è fornita in modo patente, aperto, sebbene in forma mascherata (non a caso i mori celano il loro volto con un grande turbante e con un ampio fazzoletto che, agganciato ai due lati di una sorta di turbante, copre in buona misura il viso, lasciando scoperti solo gli occhi).
Ma la maschera non si limita a questo. Tutta la danza dei mori è una forma mascherata per dire qualcosa che a ben leggere è abbastanza evidente. In effetti “i vari modi in cui le popolazioni subordinate inseriscono la loro resistenza nella trascrizione pubblica sono testimonianza non solo della creatività umana in condizioni difficili ma del “tremendo desiderio e della volontà” di tali gruppi di esprimere pubblicamente, nonostante il rischio di punizione da parte dei detentori del potere, il messaggio della trascrizione nascosta” [Harris 2000: 24-25]. E di questa volontà non manca del tutto la consapevolezza. Così si giunge a criticare le pretese imperialistiche degli spagnoli e comunque degli stranieri (come nel caso dei francesi rappresentati dai bimbi-soldaditos di Nahuatzen, che non possono non far pensare alla presenza storica di Massimiliano d’Absburgo, inviato da Napoleone III e dichiaratosi imperatore del Messico, nella seconda metà dell’Ottocento; ovviamente la conoscenza precisa di tale possibile origine della danza dei piccoli soldati vestiti alla maniera della legione straniera non è approfondita e circostanziata ma ciò non impedisce alla manifestazione di esplicitare un disagio, espresso dal ricorso all’ironia). Alla fine però Harris propende per considerare la duplice possibilità sia di consapevolezza che di inconsapevolezza per entrambe le categorie, quella dei detentori del potere e quella dei deprivati di ogni forma di potere (se non quella di esprimersi in trascrizione nascosta).
Segue, nell’opera di Harris, una lunga e dettagliata trattazione del modello spagnolo, tra il 1150 ed il 1521, della lotta fra mori e cristiani [Harris 2000: 31-63]. Subito dopo si passa al periodo antecedente la colonizzazione in Messico, dal 1321 al 1521, per mostrare che nel calendario azteco erano già previste delle battaglie burlesche da svolgersi in occasione di feste [Harris 2000: 67-114]. La parte più significativa è però quella successiva che abbraccia il periodo messicano fra il 1521 ed il 1600 [Harris 2000: 117-169]: in essa si cercano i precedenti più rilevanti per quanto può rinviare al finto confronto fra mori e cristiani. Così si risale alla lotta simulata, fittizia, fra canoe messicane e fanteria chichimeca nel 1531 o nel 1566 in onore della Vergine di Guadalupa oppure alla rappresentazione messicana della conquista di Rodi che ebbe luogo a Città del Messico nel febbraio del 1539, avendo come scenario alcuni castelli ed una città tutta in legno, immaginata come Rodi, luogo conteso fra cristiani e turchi od infine alla conquista di Gerusalemme ricordata a Tlaxcala nel 1539 con cristiani e mori a confronto. Anche Harris non manca di citare fra’ Alonso Ponce [García Canclini, Sevilla Villalobos 1985: 31-34], viaggiatore instancabile, accompagnato dal suo segretario Antonio de Ciudad Real, autore di un prezioso diario [de Ciudad Real 1993]. Harris si riferiva ovviamente alla nota relazione di Ponce sul villaggio di Patamban e sugli indios vestiti da spagnoli e protagonisti di una finta battaglia con i chichimecas [Harris 2000: 158-159]. Alla fine del XVI secolo sono documentate da de Ciudad Real varie manifestazioni aventi come protagonisti mori e cristiani. L’ultima rappresentazione citata da Harris è quella del pomeriggio dell’8 settembre 1598, per la conquista del New Mexico, allorquando “l’intero campo celebrò con una buona messinscena la battaglia fra Mori e Cristiani, questi ultimi a piedi e con archibugi, gli altri a cavallo con lance e scudi” [Harris 2000: 163].
Anche la tradizione taurina viene da lontano e si è radicata in Messico certamente grazie all’influsso spagnolo, ma con cambiamenti sostanziali rispetto al modello della corrida. Il jaripeo non comporta la morte dell’animale ed anzi è assai più rischioso per l’uomo, come dimostrano i numerosi incidenti anche mortali che ne hanno costellato la storia più o meno recente. L’attaccamento allo spettacolo nel toril ha del religioso, del sacrale, come mostra anche la speciale preghiera che i jinetes recitano prima della sfida. Essa suona così: “Signore… noi jinetes non ti chiediamo favori speciali, solo… ti chiediamo di darci forza per cavalcare nell’arena della vita; questa vita che tu vuoi che viviamo; e… quando arriva il momento dell’ultimo ed inevitabile gran jaripeo e ci chiami là… dove le praterie son ricche di pascoli e l’acqua è cristallina: ci dica che il nostro biglietto d’ingresso è già pagato! Amen”. Il 26 agosto 1996 così il signor José de Jesús Villanueva Tórres, proprietario della ganaderia “Rancho Mustang” ha invitato i 10 jinetes a pregare, prima di affrontare nell’ordine i seguenti tori: Pilón, Halcón, Cartucho, Consejo, Chupacabras, Charrasqueado, Tesorito, Borrego, Renegado e Depredador. Per l’occasione i jinetes hanno calzato gli speroni della Vergine del Cortijo.
Nei riguardi del toro c’è una sorta di culto basato su 3 elementi: el guante, la fuerza e el gusto. El guante significa l’accettazione della sfida di organizzare un jaripeo, la fuerza riguarda la possibilità che ha una persona di accettare la sfida magari aiutato dai familiari e dagli amici, el gusto è il legame con il toro che si sviluppa attraverso la socializzazione primaria e secondaria che porta a sperimentare vari ruoli, di montatore (l’andare in groppa all’animale), di jinete (sfidando a cavallo il toro), di torero (che secondo modalità quasi affini alla corrida cerca di distrarre il toro, specialmente se il montatore è caduto) e di semplice spettatore. Va tenuto presente che in alcuni casi, come a Nahuatzen, c’è sovrapposizione fra il termine jinete e quello di montatore giacché si tratta di fatto del medesimo ruolo.
Attorno al mondo dei tori ruotano varie figure: vivandieri, commercianti, musicanti (di strumenti a fiato: música de viento), caporali (addetti agli animali), esperti nell’uso della corda per bloccare l’animale per le corna o per le gambe, collaboratori vari, membri della palomilla, cioè del gruppo di seguaci di un montatore professionale in qualità di toreri e di volontari che cercano di evitare che l’animale disarcioni chi gli sta in groppa. Gli speroni sono fondamentali per riuscire a restare a cavalcioni dell’animale, pertanto bisogna sistemarli bene e saperli utilizzare al meglio. Molto importante è il braguero cioè la corda che cinge il toro ed a cui si aggrappa il montatore. Ecco perché è fondamentale il ruolo di chi pone il braguero al toro. Gli animali taurini si dividono in vitelli (becerros, fino a due anni), torelli (novillos, da due a tre anni, non ancora domati), tori veri e propri, buoi di rimedio (de reparo). Il loro allevamento non è da tutti. Ci vogliono persone addestrate per accudirli. Necessitano terreni per il pascolo. I campesinos spesso dipendono dai padroni degli animali per i loro lavori in cui hanno bisogno di molta forza (aratura, trasporto, ecc.). In passato i tori per il jaripeo erano offerti da proprietari delle aziende, ora occorre pagarli. Si considera un pregio presentare in un jaripeo tori aventi tutti la pelle del medesimo colore. Infine occorre ricordare che “una delle ragioni fondamentali delle celebrazioni sta nell’assicurare l’impegno di qualche forma di reciprocità tra le diverse famiglie. “I tori” è uno di questi casi” [Morayta Mendoza 1992: 87].
Sovente capita che vi sia pioggia durante il jaripeo o durante altri momenti della fiesta, ma tutto prosegue come se nulla fosse. Non si presta particolare cura a ripararsi dalle intemperie. Gli ombrelli sono poco usati. La gioia festiva è pervasiva e non fa quasi pensare ad altro che non abbia a che vedere con le danze, la musica, il jaripeo.
Dopo la festa capita che vi siano “fughe” di fidanzati che poi chiedono “perdono”. Si tratta di un’usanza tradizionale che si collega all’evento festivo, durante il quale un buon numero di marichas, peraltro, si predispongono al loro matrimonio. Forse è anche per questo che una delle melodie preferite, fra quelle eseguite durante la fiesta, ha per titolo “dos arbolitos”, due alberelli, con chiaro riferimento all’unione coniugale.
LA STRUTTURA DELLA FIESTA
EL CASTILLO
forestieri
fuochi pirotecnici
dal 24 al 25 agosto
Carguero
Commissione
LOS TOROS
(Virgen del Cortijo)
giovani jinetes e marichas
jaripeo dal 26 al 28 agosto
banda
tori
Carguero
Commissione
LOS MOROS
(santa Helena)
giovani
danza dal 24 al 27 agosto
banda
cavalli
Carguero
Commissione
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“Fiori per Guadalupe”, di Judith Cleason, Elisa Mereghetti, Marco Mensa, Fotografia: Marco Mensa, Montaggio: Danilo Grossi, da “Geo Magazine”, videoteca RAI, 28 minuti.
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“Gli uomini senza volto. Storie della rivolta del Chiapas” (1996), di Massimo Tennenini e Fiamma Montezemolo, 28 minuti.
“Las fiestas de San Luís” (1996), di Roberto Cipriani e Toni Occhiello, Roma, Università di Roma “La Sapienza”, 50 minuti (reperibile sul sito: http://www.imdb.com/name/nm1698566/).
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“Ocumicho sauvé par les diables”, di Frédéric Choffat, Julie Gilbert, Cécile Gouy Gilbert, Les Films Oeil Sud, sottotitoli in francese, 26 minuti.
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“Pindekua Tembuchecua. La costumbre del matrimonio” (1989), Dirección y Guión Tecnico: Rebeca Padilla, Guión Literario: Genaro Zalpa R., Cámara: Raúl Mendieta R., Asistente de Cámara: José Felipe Martinez, Edición: Eugenia Peregrina, Musicalización: Nicanor Altamira, Voz: José Davila, Producción: Sergio Valdivia, Videoproducción Docente, Universidad Autónoma de Aguascalientes, 20 minuti.
“Purépechas, los que viven la vida” (1982), di Roy Roberto Meza, Instituto Nacional Indigenista, México, 35 minuti.
“Uomini e dei. Il Messico e l’indio messicano. I primi grandi templi”, Consulenti: Elizabeth Carmichael, Alberto Cruz, Produzione: Marco Ortiz, George Ruz, Alex Branson, Gill Bart, George Farley, Operatori: John Hooper, Colin Waldeck, Montaggio: Raoul Sobel, prodotto in collaborazione con Reiner Morits Prductions, British Museum di Londra e Museo Nacional de Antropología di Città del Messico, videoteca RAI, 27 minuti.
“Venimos, Señor, a bailarte”, Cámaras: G. Zalpa Ramirez, Dirección: Rebeca Padilla de la Torre, Edición: Ma. Eugenia Peregrina, Foto Fija: Juan Carlos Escalera, Voz: Nicanor Altamira, Productor: Sergio Valdivia, Asesor de Producción: Raúl Mendieta, Apoyos Gráficos: Rubén González, Audio: Nicanor Altamira, Mario de Avila, Videoproducción Docente, Universidad Autónoma de Aguascalientes, 25 minuti.
3. Riferimenti cinematografici
“Nahuatzen. Agosto 1982” (1982), film-ricerca di Roberto Cipriani, sonoro, super8, 30 minuti.
“Patamban, a village of potters. Daily life and work of a family” (Michoacán, Messico) (1997), di Beate Engelbrecht e Manfred Krüger, 88 minuti.
“Qué viva México!” (1931-1979), film di Sergei Eisenstein, Kino Video, 85 minuti.
Dopo una lunga fase pionieristica è giunto il tempo, anche per l’analisi qualitativa (Cipriani 2008; Cardano 2011; http://www.analisiqualitativa.com; http://www.sociologiaqualitativa.it/), di fare un salto appunto di qualità, prospettando nuovi orizzonti metodologici, nuove soluzioni analitiche, nuovi percorsi da sperimentare, nuovi traguardi da raggiungere. Ormai i tempi sono maturi per un colpo d’ala decisivo ed utile per raggiungere i livelli qualitativi delle indagini quantitative (Morgan 2013). Il buon esito del “Forum Nazionale Analisi Qualitativa” (FNAQ), che si tiene ogni anno a fine novembre presso l’Università Roma Tre, ne è una prova.
Invero tutto questo susseguirsi di riferimenti al qualitativo ed al quantitativo non è senza motivo. In effetti la letteratura sociologica più recente è ricca di proposte che compongono insieme l’approccio qualitativo e quello quantitativo, parlando di metodi misti, procedure incrociate, analisi quali-quantitativa, fecondazione reciproca fra programmi di ricerca per loro natura piuttosto diversi.
Dato per scontato che solo alcuni imperterriti fondamentalisti dei due fronti continuano a sostenere l’unicità e l’affidabilità di uno solo dei due stili d’indagine, le esperienze empiriche sopravanzano le remore dell’uno e dell’altro fronte e danno luogo a sfide provocatorie ma promettenti, a confronti ravvicinati ma produttivi, ad intuizioni ed innovazioni illuminate ma tutto sommato ragionevoli. Il punto è semmai la possibilità di prosecuzione del cammino intrapreso, senza arrendersi a chimere che dall’uno e dall’altro polo allettano i ricercatori in cerca di un esito comunque soddisfacente dei loro tentativi scientifici.
L’impresa alla quale si allude abbisogna però di collaborazioni non usuali, di strategie complesse ed articolate, di un accumulo costante di conoscenze in chiave di know how, al fine di convogliare più forze alleate per ottenere un medesimo obiettivo. Ecco dunque che per sperare in un successo almeno accettabile non sembra opportuno affidarsi ad un solo ricercatore ma a più studiosi da impegnare a pieno tempo in un medesimo programma. Se è difficile immaginare che, per esempio, nel giro di un triennio alcune centinaia di sociologi ed antropologi, psicologi e storici, si concentrino su una stessa finalità almeno si può auspicare che si creino consorzi di studio e ricerca interdipartimentali ed interuniversitari, magari internazionali, orientati a stabilire entro quali limiti sia dato operare in prospettiva empirica e teorica attorno ai temi del duplice discorso sociologico che parte da un’ottica sia qualitativa che quantitativa. Il livello alto dei risultati dipende in larga misura dal fatto che un gruppo esteso di scholars decida di lavorare in forma esclusiva attorno ad un piano dettagliato di attività, al fine di potere offrire qualcosa di nuovo alla comunità scientifica. Non solo. Sarebbe altresì auspicabile che tale iniziativa venga condotta stando insieme, in un medesimo laboratorio se possibile, scambiando continuamente riflessioni ed esperienze, conoscenze e risorse. Da questo punto di vista pure la contiguità delle azioni da implementare consentirebbe una sinergia diretta, a contatto di gomito si direbbe, in modo da stabilire contatti costanti, discussioni ripetute, decisioni motivate. Occorre dunque immaginare una comunità scientifica fatta di persone competenti e motivate, capaci di valorizzare i propri interessi individuali attraverso un’impresa condivisa.
Ma la cellula operativa iniziale non dovrebbe limitarsi ad un ambito ristretto di cooperazione quanto piuttosto cercare altri apporti esterni, collaborazioni internazionali, consulenze di matrice straniera. Certamente la scelta da effettuare in quest’ultima evenienza è piuttosto delicata perché rischia di far muovere il gruppo esteso di lavoro verso destinazioni non adeguate. L’invito al cooperatore internazionale andrebbe esteso anche alla sua équipe di ricerca o almeno ad alcuni componenti più significativi ed esperti. Così si creerebbe una rete solidale di condivisione delle potenzialità e degli scopi finali.
Basti pensare alla necessità di avere a portata di mano, sotto controllo, l’intera linea di produzione scientifica: dalla ricerca di base al “prodotto finito”. Passi pure quest’ultimo termine, ma l’intento è quello di far sì che per esempio nel caso dell’analisi qualitativa o quantitativa computer-assistita sia possibile intervenire sin dall’inizio, cioè a partire dalla progettazione del software da usare, senza ricorrere a materiale inventato da altri con fini diversi, forse persino solo di natura commerciale, cioè profit oriented. I ricercatori coinvolti dovrebbero quindi poter intervenire on line sulla procedura da mettere in atto, senza doversi assoggettare ad alcune caratteristiche del programma informatico in uso, il quale peraltro rischia di diventare facilmente, se non ben gestito, una gabbia, una palude, da cui non si riesce a districarsi, con il risultato di avere informazioni finali che provengono esclusivamente dal tipo di impostazione delle operazioni logiche previste dal software. Invece andrebbero sviluppate al massimo le capacità euristiche dello studioso, le sue abilità acquisite, le sue conoscenze specifiche. In definitiva l’operazione prevista è di tale complessità che richiederebbe metodologie multiple, atte a verificare senza sosta le dinamiche in atto, evidenziandone le carenze ed enfatizzando gli aspetti positivi, onde portarli a maturità completa ed affidabile.
Per far questo in modo confacente e mirato appare indispensabile il ricorso alla comunità internazionale degli studiosi specialisti del campo. Anch’essi, del resto, hanno bisogno di confrontarsi con i colleghi sull’andamento delle loro suggestioni originali, onde rilevarne gli effetti e le possibilità di miglioramento, grazie al supporto dei colleghi.
Su un aspetto, segnatamente, sembra indispensabile insistere: la ricerca sociologica ha a che fare con singoli individui, portatori di caratteri e comportamenti, attitudini ed abitudini, tutto un mondo di azioni sovente uniche ed imprevedibili, che vanno colte, descritte, classificate, interpretate, correlate, rilette, riposizionate in un contesto teorico-empirico. Orbene ognuna di queste operazioni va realizzata nel pieno rispetto dei criteri del rigore scientifico e della privacy personale dell’intervistato o dell’intervistata. In merito c’è altresì una deontologia professionale da osservare, senza tradire la fiducia dei soggetti coinvolti in un’indagine. Non basta usare degli pseudonimi per coprire, mascherare, l’identità reale del soggetto, giacché da molti indizi presenti nel testo raccolto attraverso un’intervista è possibile risalire a chi di fatto ha concesso l’intervista.
Quello che resta irrisolto è però il passaggio dal livello singolare a quello universale, dal soggetto alla comunità di sua appartenenza, dall’uno ai molti. Se è indebito transitare da un’ottica tutta peculiare a livello di singola persona per desumerne tratti generali di un gruppo assai più numeroso è altrettanto criticabile il voler presumere che un insieme di numeri, come frequenze e percentuali, spieghi in pieno quelli che sono i motivi, le contingenze e gli scopi relativi ad un particolare individuo che sia membro di una comunità e/o di una società. L’approccio scientifico non può prescindere da una sua precisa contestualizzazione e da un riferimento diretto all’apporto individuale. Senza condividere necessariamente le posizioni dell’individualismo metodologico alla maniera di Popper (1973), Boudon (1983) ed Antiseri (1996) nondimeno si può dimenticare che il sociale è pur sempre un precipitato che deriva dal livello iniziale, basato sull’individualità da cui si parte per accumulare dati su dati, tutti di natura soggettiva anche se inquadrati nel sociale.
Ecco dunque che una formulazione utile a questo riguardo può essere il dare un taglio più qualitativo al quantitativo e, d’altra parte, un profilo più quantitativo al qualitativo. Il che non significa affatto voler modificare o persino deformare il qualitativo a vantaggio del quantitativo o viceversa porre il quantitativo al servizio del qualitativo, ma piuttosto cercare più punti di vista, un maggiore numero di corroborazioni, per rendere ancora più valida la risultanza finale.
Tutto quanto suggerito sinora non può approdare a gestioni parziali, parcellizzate, della ricerca. Si può pensare invece ancora più in grande, se possibile studiando la messa a punto di un vero e proprio masterplan, capace di prevedere linee plurime di intervento, fasi modulari di ricerca sia teorica che empirica, intrecci non sperimentati in precedenza, così da esplorare nuove potenzialità, nuovi tragitti, che conducano ad esiti meno prevedibili.
Indubbiamente un progetto simile risulta pretenzioso, ambizioso. Ma appunto per questo merita apposita attenzione e specialmente un rilevante investimento a livello economico e scientifico-accademico. Se non si compie un simile sforzo ben difficilmente si riuscirà a superare lo stallo attuale imposto allo sviluppo delle scienze sociali, per ragioni politiche considerate “superiori” ma in realtà miopi: disinvestire nella ricerca significa porre le premesse per conseguenze negative cui si dovrà poi porre riparo con l’impiego di risorse economiche ben maggiori di quelle non rese disponibili per la ricerca sociale.
2. Un programma scientifico a lunga gittata
Le linee programmatiche di una nuova sociologia dell’analisi qualitativa si basano su quelle che sono le tendenze emergenti.
Innanzitutto va approfondito l’argomento concernente la dimensione scientifica dell’analisi, cui faranno seguito gli approfondimenti specifici riguardanti nell’ordine la soggettività, l’approccio biografico, la costruzione della teoria a partire dai dati (Grounded Theory), l’indagine computer-assistita, la ricerca visuale.
L’affidabilità di ogni ricerca (a carattere qualitativo e/o quantitativo, non fa differenza) è legata indissolubilmente al suo taglio scientifico, che se da un lato paga lo scotto di un’obsolescenza scontata, già al momento di cominciare ad investigare, dall’altro contribuisce comunque a porre le basi del nuovo che verrà dopo: il sapere è tendenzialmente cumulativo ed auto-correttivo. Oggi si possono indubbiamente criticare i limiti de Il contadino polacco in Europa ed America (Thomas, Znaniecki 1968), opera eminentemente qualitativa, ma riesce difficile negare che abbia offerto un contributo decisivo alla storia del pensiero sociologico.
Tutto sommato, talune aperture metodologiche avviate da Thomas e Znaniecki tra il 1918 ed il 1920 appaiono ancora di straordinaria attualità, come ha sostenuto in modo convincente Giulia Sinatti (2008), specialmente in relazione al contributo teorico concernente il fenomeno migratorio, ma non solo, in quanto la loro ottica metodologica rimane pur sempre un parametro di riferimento classico, ben oltre le discussioni dapprima avviate criticamente (Blumer 1939) e poi riproposte con qualche ripensamento (Blumer 1979).
La Nota metodologica che introduce l’opera thomasiana e znanieckiana merita da sola una trattazione ad hoc, perché è ricca di suggestioni originali e di punti qualificanti che indicano la strada da seguire per ricerche dal medesimo taglio teoretico e contenutistico. Però va anche detto che varie parti della Nota pagano lo scotto ad una polemica, molto contingente, nei riguardi delle scienze affermate da più tempo. In realtà la trattazione metodologica preliminare è svolta specialmente in chiave difensiva, per legittimare l’approccio qualitativo, nonostante la sua debolezza sul piano delle generalizzazioni da esso ricavabili. E dunque essa parla preferibilmente di “cause” e non di trends, fa il verso alle scienze esatte enfatizzate dal positivismo dell’epoca e talora cade in contrapposizioni un po’ forzate e strumentali al fine di dare credibilità a scelte di base assai diverse da quelle più in voga in quella temperie storica. In effetti non era facile proporre narrazioni, documenti personali ed una sola biografia (quella di Wladek Wiszniewski) a confronto, per esempio, con le corroborazioni statistiche che erano state utilizzate da Durkheim (1969) nel suo studio sul suicidio.
Secondo Sinatti (2008, p. 4) Thomas si mostrava più propenso a lasciar parlare da soli i documenti raccolti, diversamente da Znaniecki, più attrezzato per congegnare interpretazioni sistematiche, complesse ed alquanto elaborate. In tal modo le due intelligenze sociologiche si compensavano a vicenda, fornendo un risultato apprezzabile nel suo insieme, in particolare per quanto riguardava la connessione fra comportamento umano e sua collocazione all’interno di una più ampia contestualizzazione in chiave di mutamento sociale (Sinatti 2008, p. 5). La base di partenza erano le lettere di corrispondenza fra polacchi in patria ed emigrati, le storie di vita ed i resoconti biografici, lettere pubblicate dai quotidiani, documenti di carattere associativo, dati parrocchiali e giuridici, dunque un insieme di informazioni “naturali” e “spontanee”. Su questi elementi si appuntò la critica di Blumer perché non erano rappresentativi, sufficienti, affidabili e verificabili. Soprattutto appariva scarso l’apparato interpretativo applicato alla gran mole di dati disponibili e pubblicati. Si dubitava anche delle scelte operate dagli autori nell’individuazione delle informazioni da trattare. Nondimeno il tentativo statunitense-polacco sembrava aprire un nuovo orizzonte all’analisi qualitativa, per la prima volta organicamente presentata e supportata a livello di pubblicazione scientifico-accademica. Il contributo maggiore risultò sin da subito essere la proposta di studiare i percorsi biografici. A ciò si aggiunse la novità di partire da singoli casi per un’analisi sociologica compiuta, in un quadro socio-culturale ben definito. Da qui nasceva il rinvio sostanziale alla “situazione” come piattaforma fondante del discorso scientifico promosso dalla sociologia. Come non ricordare in merito la nota espressione “definizione della situazione” (Thomas 1923, pp. 41-69) che lungi dall’essere un mero situazionismo di maniera si trasforma in opzione teoretica di prim’ordine, che successivamente offrirà sviluppi ben più consistenti attraverso l’interazionismo simbolico, l’etnometodologia, la teoria fondata sui dati, le diverse correnti di theory building, dunque di costruzione della teoria in modo innovativo (Cresswell 2012) rispetto agli approcci classici. Per non dire delle numerose teorie dell’azione sociale. Insomma Thomas e Znaniecki erano autori “seminali” senza precedenti, che poco si preoccupavano di problematiche istituzionali, politiche, amministrative e di grandi teorizzazioni astratte senza radici empiriche. Semmai il loro interesse andava ai gruppi familiari ed ai gruppi primari, produttori di cambiamento sociale ben più di altre realtà, come pare suggerire la stessa Sinatti (2008, pp. 7-8, 15-17), che nella sua conclusione (Sinatti 2008, p. 19) sottolinea altresì il carattere esemplarmente interdisciplinare dell’opera di Thomas e Znaniecki, anticipatori di futuri sviluppi nel campo della sociologia comparata internazionale, visto che entrambi hanno dovuto affrontare un processo di “spaesamento” (dépaysement) non solo geografico, ma anche disciplinare e metodologico.
3. Scienza e non scienza
Ci si chiede che cosa sia la scienza e si tende a rispondere che essa è una rappresentazione, quanto più fedele possibile, della realtà. Ma di fatto sono molte le rappresentazioni della realtà. E dunque un’ulteriore domanda si pone: quale di tali rappresentazioni è la più affidabile, la più verosimile? Appunto è in gioco la verosimiglianza, ammesso che si possa parlare dell’esistenza di una verità come fatto scontato. Intanto chi fa scienza sa bene che l’obiettività come parametro di riferimento è una chimera priva di fondamento, perché l’esperienza mostra che si tratta di una posizione piuttosto autoreferenziale e per di più irrealizzabile, del tutto utopica, tante e tali sono le interferenze che intervengono. Insomma non è facile essere del tutto sicuri di un dato. Occorre sottoporlo sempre ad analisi critica, ripercorrerne la costruzione e la metodologia attraverso la quale lo si è ottenuto. In fondo va anche considerato che la stessa scienza è un portato culturale che risente di condizionamenti di ogni tipo.
La validità di un risultato scientifico non è un esito improvvisato, in quanto scaturisce da tutto un processo di scelte, negoziazioni, divaricazioni, approssimazioni, gradualità, senza pregiudizi di sorta, in una prospettiva di epoché, cioè di sospensione di qualsiasi giudizio preliminare di valore. Le descrizioni e soprattutto le interpretazioni già segnano un percorso da seguire e dunque non sono certo ininfluenti, ma segnatamente sono esse stesse figlie di un orientamento di partenza che comunque opera in ogni studioso.
Forse si sottovaluta un carattere peculiare della scienza: la sua discorsività, la sua connotazione relazionale e comunicativa, il suo vissuto intersoggettivo come dinamica fra studiosi, di diversa matrice ideologica e disciplinare. Ed in generale un discorso in atto è tendenzialmente aperto, non censurante, non esaustivo, disponibile, pronto a seguire ogni potenziale rivolo di ricerca.
Se anche può nascere dal desiderio di indagare la realtà (David 2005), rispondendo ad una curiosità di base, l’operazione scientifica riesce ad essere tanto più produttiva quanto più è capace di autonomia, libertà, indipendenza. L’affidabilità di una conclusione, sempre e comunque da ritenere provvisoria (“fino a prova contraria”), è messa al vaglio da parte della comunità scientifica che la soppesa, la critica, la ribalta, insomma ne misura in qualche modo la portata e ne accetta o rifiuta il contenuto ed eventualmente sospende una presa di posizione in merito.
Quali sarebbero tuttavia i criteri, possibilmente universalistici, che dovrebbero presiedere ad ogni azione investigativa? Non è facile stabilirli in via previa. Nondimeno converrebbe indagare l’origine dei valori che presiedono all’attività scientifica del singolo ricercatore, in modo da coglierne il peso, l’incidenza, come pure l’apporto in chiave fuorviante rispetto a talune situazioni empiriche concrete. Ne emergerebbero gli interessi diretti dello studioso, la cui prospettiva analitica risente del fatto di essere in qualche misura preordinata e di rifarsi ad una certa percezione della realtà. Sarebbe tuttavia un indubbio valore aggiunto la capacità del ricercatore di essere consapevole dei limiti e dei riverberi delle sue risultanze d’indagine, avviando peraltro un utilissimo processo di riflessività e di rivedibilità, foriero di possibili innovazioni metodologiche e procedurali, che renderebbero più flessibili, cioè modificabili, le prassi già sperimentate.
Invero c’è ancora chi nega il carattere di scienza alla sociologia a ragione di alcune sue incongruenze e limitazioni. Ciò si deve anche a varie dinamiche manifestate proprio in campo sociologico, con caratteri ibridi, teorie assai diverse, metodologie stratificate per complessità e specificità delle tecniche (Denzin 2011). Pure per questo la scienza sociologica appare continuamente in bilico fra collettività ed individualità, tra metodiche e strumenti di analisi, fra classificazioni e stili di ricerca, fra comparazioni e spiegazioni (Boudon 2010). Si arriva perciò a dubitare che la sociologia sia solo una disciplina e non una scienza (Coenen-Huther 2012a), senza negare però la possibilità di un progetto scientifico, registrando tuttavia una prevalenza delle procedure metodologiche rispetto alla teoresi.
Fra l’altro la questione relativa ai giudizi di valore può essere superata adottando la modalità del riferimento (ovvero del “rapporto”) ai valori, che può permanere ma senza inficiare la metodologia di ricerca, il cui rigore dovrebbe garantire il livello di scientificità, in un’ottica di capacità critica ed auto-critica, cosciente appunto del fatto che esistono dei valori soggettivi a cui si fa capo (Coenen-Huther 2012b).
Il tema dei valori è poi strettamente correlato alla problematica della soggettività nella ricerca scientifica (Gould 1985) e richiama il memorabile ed emblematico invito rivolto in passato da Thomas Henry Huxley (1962), eminente umanista e biologo, darwinista ed agnostico, promotore e riformatore dell’insegnamento scientifico, vissuto nel XIX secolo: occorre mettersi di fronte al fatto come un piccolo fanciullo, essendo preparati a mettere da parte ogni nozione preconcetta e seguendo umilmente la natura ovunque e verso qualunque abisso essa conduca; altrimenti non si imparerà nulla. Una simile conclusione, citata esplicitamente anche da Gould, fa il paio con l’idea stessa di serendipity, sostenuta fra gli altri da Robert King Merton (1948). Essa infatti risponde in pieno alle quattro funzioni mertoniane per lo sviluppo della teoria sociale: un dato imprevisto, anomalo e strategico esercita una spinta notevole per dare inizio alla teorizzazione, i nuovi dati hanno un’influenza diretta sull’elaborazione di uno schema concettuale, i nuovi metodi della ricerca empirica orientano verso ulteriori centri di interesse teorico, la ricerca empirica incide precipuamente sulla produzione di concetti chiari.
Non si tratta, peraltro, solamente di distinguere fra scienze umane, tendenzialmente più sorrette dalla soggettività, e scienze cosiddette esatte, più orientate al rigore scientifico. Pare invece più opportuno pensare in termini omogenei, senza riferirsi a posizioni dicotomiche in chiave scientifica ma proponendo una visione unitaria della scienza, capace di guardare con una medesima prospettiva a criteri metodologici generali che riescano ad accomunare sociologia e fisica, antropologia e storia, psicologia e matematica.
Ogni studioso si porta dietro le sue precognizioni, i suoi punti di vista. Già l’esserne consapevoli è un buon inizio di riflessione scientifica, altrimenti si rischia di compiere errori madornali, quali conseguenze dirette dei pregiudizi soggettivi. Naturalmente la duplice prospettiva classica della “scoperta” (indagine a tutto campo con raccolta libera di dati) e della “giustificazione” (procedura di verifica di specifiche ipotesi predefinite e valutazione della loro sostenibilità) mantiene una sua validità, ma la prima e la seconda prospettiva possono anche integrarsi. In altri termini, conviene non porre limiti, quale che sia l’itinerario investigativo proposto. Si sa che molte scoperte decisive sono avvenute anche in modo del tutto casuale. Ma occorre sapere che né il procedere per induzione dal particolare all’universale né quello per deduzione dal generale al particolare sono garanzia di buon esito e di credibilità. Charles Peirce (2001) proponeva la soluzione dell’abduzione, non a caso, proprio perché convinto di dover tenere ben presenti al medesimo tempo entrambi gli approcci. In effetti un induttivismo ingenuo che si affidi del tutto alla “eloquenza dei dati”, che presuntivamente parlerebbero da soli, dà appena un’impressione di essere capaci di costruire teorie, se non si accompagna il processo scientifico con adeguati lumi di orientamento: non necessariamente vere e proprie ipotesi di lavoro ma almeno i blumeriani “concetti sensibilizzanti” (Blumer 1954).
Inoltre, come ribadisce e prova esemplarmente lo stesso Gould (uno zoologo prestato a tutte le scienze), il soggettivismo latente e persino inconsapevole ha già dato conferme molteplici di operazioni improduttive e soprattutto fuorvianti per la conoscenza scientifica. Sono sostanzialmente tre le modalità inefficaci per fare scienza: il ricorso intenzionale alla frode (inventando o modificando le informazioni di base), la finalizzazione consapevole o inconsapevole (orientando i dati verso un’interpretazione preferita rispetto ad altre possibili) e il pregiudizio invalidante (manipolando le risultanze o indirizzandole comunque verso una lettura appunto pregiudiziale, cioè particolarmente desiderata, quale espressione di un vero e proprio wishful thinking).
In particolare la frode può pure risultare gradita nei suoi contenuti ad un buon numero di studiosi, nella misura in cui appare utile a finalità di convenienza immediata e/o personale, mentre la finalizzazione – fosse anche inconscia – può rispondere esclusivamente a quanto il ricercatore si aspetta dalla conclusione della sua indagine, pur rigorosa e metodologicamente ineccepibile, almeno all’apparenza; in terzo luogo, il pregiudizio invalidante può inserirsi in un protocollo puntuale e formalmente corretto, proponendo però un’ermeneutica fondata sulla scorta di propensioni personali.
Nello spirito di totale apertura verso ogni possibile andamento dell’indagine, non è detto che la soggettività sia sempre e solo portatrice di nocumento per la scienza. In fondo lo scienziato è pur sempre un individuo, che in quanto tale non può dismettere totalmente la sua visione del mondo; tuttavia non è escluso che possa altresì riconoscere il peso della sua soggettività e delle distorsioni che ne possono derivare, facilitando così una più convincente rimodulazione delle risultanze.
Soprattutto, infine, andrebbe accolto un orientamento a fare i conti con le scoperte che si susseguono nei diversi campi disciplinari. In tal modo se non è possibile giungere al traguardo di una supposta verità, spesso auto-poietica, auto-affermata, almeno sarà dato ottenere un adeguato livello di onestà scientifica, oltre che di rigore metodologico (Maxwell 2013).
4. Dalla sociologia alla fisica e ritorno
La scienza tende ad unire le discipline, ma queste ultime nel loro prediligere lo specialismo ed un certo isolamento auto-protettivo tendono a diventare sempre più ghettizzate, corporative, auto-referenziali, escludenti ma anche marginali rispetto all’evolversi del dibattito scientifico. Superata la due volte secolare diatriba fra scienze della natura e scienze dello spirito, dall’unità del sapere hanno invece tutti da guadagnare attraverso la frequentazione reciproca, la discussone aperta, il confronto franco e non strumentale per meri fini di carrierismo accademico.
Non dovrebbe dunque suonare strano che un sociologo si interessi di fisica o che un botanico insegni e faccia ricerca di fitosociologia o che un biologo tenti di servirsi di paradigmi sociologici per studiare le comunità di microfloraDNA. Le problematiche da indagare sono più omogenee di quanto non si pensi, specialmente se si pone attenzione al tema comune della misurazione e della costruzione di teorie.
Abituati come siamo a ragionare solo in termini geometrici di altezza, lunghezza e larghezza ed in termini cronologici di tempo, siamo inclini a ritenere che solo queste quattro siano le dimensioni della realtà di cui ci si debba interessare da studiosi. Ed invece diverse altre prospettive vanno aggiunte, per avere un maggiore e più diretto esame (e controllo scientifico) delle dinamiche in atto. Per esempio si può fare ricorso alla “teoria delle stringhe”, che ha un carattere fisico-matematico unificatore ed utilizza una trattazione quantistica delle interazioni gravitazionali. Sono dunque onde di gravità quelle che vengono studiate nel loro propagarsi a dieci dimensioni (superstringa) attraverso lo spazio ed il tempo insieme, mentre se le dimensioni aumentano sino ad essere ventiquattro si ha la stringa bosonica. L’esame scientifico in atto da tempo riguarda non tanto le particelle quanto le vibrazioni delle stringhe, sia aperte che chiuse, e soprattutto il loro modo di vibrazione, che definisce la massa ovvero l’energia di ogni particella. La costante di Planck (h=6,626×10-34Js) moltiplicata per “v” (frequenza di un’oscillazione) dà come risultato l’energia “E” emessa o assorbita nell’oscillazione ed è chiamata altresì “quanto di azione”. A titolo esemplificativo si ricorda che un elettrone vibra circa cinquecentomila miliardi di volte in un secondo. L’universo è energia, vibrante lungo campi e reti e racchiusa nella massa. Il tempo è il moto dell’energia e dell’espandersi della materia e lo spazio è il network dell’energia. Il tutto deriverebbe da un “vuoto ricco”, pregnant void, primigenio, anteriore alla gravità, all’elettromagnetismo ed al nucleare (sia forte che debole).
Detto altrimenti non si guarda più (o almeno non solo) agli elementi di base rappresentati dagli atomi (aventi un nucleo, dove si concentra quasi tutta la massa, circondata da un nugolo di elettroni; ma ci sono anche protoni e neutroni, per esempio rispettivamente 92 e 154 nell’atomo di uranio), dagli elettroni (dotati di carica negativa e di massa leggerissima), dai protoni (dotati di carica positiva e con massa circa 1480 volte superiore a quella degli elettroni) e dai neutroni (aventi massa circa uguale a quella dei protoni ma carica nulla).
I neutrini, da diversi anni oggetto di studio nei laboratori situati sotto il Gran Sasso e quasi privi di massa (come i fotoni, dunque pura energia), stanno forse passando ad un rango di minore attenzione nel campo della ricerca avanzata.
Le complicazioni non si riducono solo a quanto appena detto. Vi sono altre particelle elementari che presentano caratteri ben più stratificati: i pioni (che fanno parte dei mesoni) possono avere sia carica positiva che negativa ma pure neutra.
Si pensi poi, a mo’ di esempio, a quella che è la nostra stessa posizione definita da tempo e spazio nell’universo. Occorre pensare che lo scorrere fra l’alto ed il basso significa rifarsi ad una medesima dimensione. Lo stesso dicasi fra l’avanti e l’indietro. Così non è, tuttavia, se ci si muove verso il basso ed in avanti o verso l’alto ed indietro.
Più interessante e scientificamente produttivo è pensare che la nostra posizione (o quella di un puntino segnato su un foglio di carta) sia estensibile, allungabile, ipoteticamente verso qualunque direzione, al di là delle quattro dimensioni cui siamo abituati. Così la gravità altro non sarebbe che un elemento fornito di massa da cui hanno origine tante linee gravitazionali orientate in ogni senso possibile, immaginabile o meno, dunque verso l’infinito. Anche se lo spazio reale non è multidimensionale nondimeno si può generalizzare l’idea di molte altre dimensioni, oltre quelle consuete della nostra conoscenza quotidiana.
I progressi della fisica ci stanno abituando a ritenere possibile ciò che in passato era del tutto escluso. A parte l’indivisibilità, per definizione, dell’atomo che ormai viene diviso in più elementi, anche gli elettroni mostrano una tendenza a scomporsi in più particelle, dette anyoni, che mantengono una parte della carica negativa originale dell’elettrone da cui provengono.
Esisterebbero inoltre universi con varie dimensioni, all’interno di uno spazio immenso (iperspazio) che tende ad espandersi e registra collisioni fra i diversi universi, che a seguito del loro incontro-scontro si annullano a vicenda. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto in quel Big Bang (non esente da dubbi e discussioni) di circa 14 miliardi di anni fa da cui deriverebbe l’universo attuale.
Orbene le collisioni sembrerebbero favorire la sopravvivenza di universi con tre e sette dimensioni. Il nostro universo tridimensionale sarebbe però solo un pezzo dell’intera realtà, che a sua volta potrebbe anche avere caratteri con sette dimensioni. Va comunque considerato che le tre dimensioni spaziali fanno poi i conti con la dimensione temporale: spazio e tempo sono strettamente connessi fra loro ma permangono diversi (Sachs 1969). A livello soggettivo vale la pena di sottolineare che le percezioni mutano significativamente: una persona può vedere due oggetti separati solo nello spazio, un’altra li percepisce come divisi sia nello spazio che nel tempo; un individuo può guardare a due fatti come scissi solo nel tempo, un altro invece anche nello spazio. Sulla base di tali dati di fatto è evidente che una narrazione biografica, ad esempio, può orientarsi a fornire visioni diversificate di un medesimo evento o fenomeno, da parte di un medesimo soggetto o di più soggetti, a loro volta collocati in spazi e tempi differenziati, quindi con una complessificazione accentuata che rende ardua ogni operazione analitico-interpretativa.
La libertà di movimento nelle dimensioni e nelle percezioni spazio-temporali comporta in ogni caso almeno un limite auto-evidente: non si riesce ad essere presenti in ogni spazio ed in ogni tempo. Nessuno sarebbe in grado di tornare indietro nel tempo per riuscire a vivere in un’epoca oramai trascorsa: lo si fa solo mentalmente, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di imprecisione, infondatezza, inaffidabilità, anche nel caso in cui si faccia riferimento diretto a fonti storiche coeve con l’epoca cui si intende ritornare. Ognuno di noi si trova in un ambito, in un “cono di luce” creato da una sorta di illuminatore che produce lo spot, cioè il punto illuminato entro cui ciascuno di noi è collocato. Per questo se si gode di una bella giornata di sole alle ore 12 di un certo giorno potrebbe darsi che in quel preciso istante il sole stesso sia già esploso e non produca più alcuna luminosità; il che è possibile in quanto la luce solare impiega circa 500 secondi per giungere sulla terra, per cui l’evento catastrofico potrebbe essere avvenuto, in ipotesi, alle ore 11,55 del luogo terrestre in cui ci si trova. In altri termini la posizione del sole e quella della terra sono all’interno di due diversi “coni”, per cui solo se si ha o si supera la velocità della luce sarebbe in astratto possibile assistere all’esplosione solare, ma intanto l’operazione a ritroso sarebbe impedita perché l’andamento del tempo è dal passato verso il futuro e solo la fantascienza e la fiction cinematografica consentono di invertire tale direzione. Non si può accedere a tutto il tempo ed a tutto lo spazio, così come non è praticabile la conoscenza compiuta di ogni fenomeno, comportamento ed atteggiamento umano.
Si resta quindi entro i confini della quadrimensionalità rappresentata dalle tre dimensioni spaziali e da quella temporale. Si ipotizza, da parte dei fisici, che la quinta dimensione possa essere la gravità, oppure l’elettromagnetismo (come rapporto fra correnti elettriche e campi magnetici) costituente un’unica forza insieme con la gravità, od anche la stessa massa di cui è ricco il nostro universo.
Nella ricerca di ulteriori dimensioni, nell’ambito della “teoria delle stringhe”, gli sviluppi riguardano più lo spazio e segnatamente l’iperspazio che non la temporalità. Insomma i viaggi nel tempo si confermano impraticabili (almeno per ora, ovvero allo stato delle conoscenze attuali). Ma, secondo Itzhak Bars, è immaginabile una seconda dimensione temporale sia pure solo teoricamente e senza alcuna possibilità di attraversare il tempo. Occorre precisare che la proposta di Bars su una sesta dimensione potrebbe funzionare all’unica condizione che vi sia anche un’ulteriore dimensione spaziale, oltre le tre già note.
Piuttosto discusso è il sistema numerico degli “ottonioni”, che hanno appunto otto dimensioni ed abitano uno spazio rarefatto, in cui è permesso creare combinazioni di vari elementi, fare divisioni ed usare tutte le formule algebriche, dando luogo ad una singolare struttura matematica, nota come “gruppo di Lie eccezionale E8”. Invero si resta sinora a livello di pure supposizioni, su cui si lavora da circa quaranta anni.
Prima di completare il percorso per giungere alle dieci dimensioni della teoria delle stringhe conviene aggiungere alcuni riferimenti sulla quantistica e sulla relatività.
La quantistica prende in esame i quanti cioè la minima quantità indivisibile di una grandezza, che cambia in modo discontinuo. Secondo la “teoria dei campi” ogni particella va associata ad una interazione: i fotoni, come quanti di luce, al campo elettromagnetico ed i gravitoni, come quanti di interazione, al campo gravitazionale. La meccanica quantistica, in particolare, studia la quiete ed il moto dei corpi, però non tenendo conto dei fenomeni di tipo relativistico e sostenendo l’impraticabilità di previsioni esatte sull’esito di una misurazione, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg (1971).
La “relatività generale”, d’altra parte, considera i fenomeni proprio in chiave relativistica, cioè in relazione al sistema di riferimento, per cui tempo e spazio (unificati in un’unica forma quadridimensionale) vanno correlati ad un osservatore “inerziale”, che permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Inoltre l’energia (“E”) e la massa (“m”) sono equivalenti, secondo la nota formula einsteiniana E=mc2 (Einstein 1923): la massa dipende dalla velocità della particella, ovvero dall’energia prodotta, giacché “m” rappresenta la massa a riposo e “c” la velocità della luce. Infine nello stesso ambito teorico è inserito anche lo studio delle dinamiche gravitazionali.
Il tentativo di mettere insieme la meccanica quantistica e la relatività generale mira alla costruzione di una “teoria del tutto”, secondo cui tutte le particelle della materia trasmettono le loro forze, cioè la loro energia, in modo vibratile, azionando piccole stringhe (da cui deriva appunto la denominazione di teoria delle stringhe). Queste ultime conservano nondimeno un carattere monodimensionale, che si situa in uno spazio con dieci dimensioni, di cui nove sono spaziali ed una è temporale.
Sono almeno cinque le categorie di teorie delle stringhe che si confrontano nel campo della ricerca. Intanto una teoria delle stringhe a ventisei dimensioni pare ormai del tutto accantonata. Invece merita maggiore attenzione una teoria delle stringhe con undici dimensioni detta “teoria-M”, che prevede l’unificazione delle dieci dimensioni in una sola, l’undecima nella fattispecie.
La prospettiva più promettente riguarda le antiparticelle, che in alcuni casi (fotoni, pioni, eta) coincidono con le particelle stesse, in altri differiscono totalmente (gli elettroni, che hanno carica negativa, si ritrovano antiparticelle con carica positiva, mentre i protoni, dotati di positività, si confrontano con antiparticelle negative; i neutrini, infine, interagiscono con antiparticelle che sono elettroni o muoni, entrambi negativi).
Le origini delle particelle e delle antiparticelle sarebbero piuttosto remote e risalirebbero al Big Bang, dopo del quale materia ed antimateria si sarebbero annientate vicendevolmente, rompendo la simmetria preesistente (Alfven 1971). Prima di allora le particelle erano pura energia e non avevano massa, muovendosi alla velocità della luce. Nell’universo c’era una sorta di etere, che è stato definito “campo di Higgs”, di cui le particelle non facevano alcun uso. Ma un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang l’etere-campo di Higgs acquistò maggiore consistenza, per cui le particelle dapprima assolutamente libere cominciarono ad impattarsi con esso e ad acquistare massa, ingrossandosi e rallentando il loro libero vagare. Quanto maggiore era l’interazione dell’impatto tanto maggiore era l’acquisto di massa. A ben pensarci, l’esistenza di tali masse ha consentito alla fine la nostra stessa esistenza. Al momento questa è la spiegazione più corroborata ed affidabile, ma non è detto che sia l’ultima ed unica possibile.
Qualche elemento di materia sarebbe rimasto dopo la grande collisione. Trovare, poi, oggi residui di antimateria è impresa quasi irrealizzabile (anche perché si suppone che essa abbia vita solitamente breve). Ci sono riusciti in pochissimi.
Nel 1983 a Ginevra il team di Carlo Rubbia (premiato nel 1984 con il Nobel) aveva scoperto tre “bosoni intermedi”, W+, W–, Z0, particelle-tramite (quanti) di interazioni deboli, aventi una massa 100 volte superiore a quella del protone. Nel 1995 vennero reperiti 9 atomi di antimateria, specificamente di anti-idrogeno (antiprotone con carica negativa, contrapposto al positrone, con carica positiva), ma si annientarono. Nel 1997 furono creati 50.000 atomi di anti-idrogeno, però sfuggiti nel nulla perché dotati di energia eccessiva. In seguito nel 2002, pure presso il CERN di Ginevra, vennero prodotti per 1,7 decimi di secondo, con l’LHC (Large Hadron Collider, un anello sotterraneo di 27 chilometri), altri 38 atomi di antidrogeno (l’idrogeno è l’elemento più presente nell’universo), raffreddati a meno 272 gradi e, con l’aiuto di un campo magnetico, allontanati dalle pareti verso il centro del contenitore, affinché non si annullassero. Nel laboratorio di Brookhaven, ad Upton negli Stati Uniti, è stato individuato nel 2011, grazie all’acceleratore Relativistic Heavy Ion Collider, un nucleo di anti-elio 4, detto anche particella Alfa (l’elio è il secondo elemento più presente nella realtà). Sempre nel 2011 è stata inviata in orbita, con lo shuttle Endeavour della NASA, una stazione spaziale internazionale per condurre l’esperimento Alpha Magnetic Spectrometer per cercare anti-elio o anti-carbonio.
Alla fine è giunto l’annuncio ufficiale del 4 luglio 2012: la scoperta di una “particella messaggero” (ragioni editoriali l’hanno battezzata anche come “particella di Dio”), il “bosone di Higgs”, particella con spin (momento angolare o di rotazione) nullo e massa, di circa 125 GeV (miliardi di elettronvolt), quasi 130 volte maggiore di quella del protone, compatibile con il “Modello Standard della fisica” delle alte energie. Quest’ultimo è basato su due tipi di particelle: leptoni (divisi in neutrini, elettroni e muoni) ed adroni (comprendenti mesoni, cioè pioni, kaoni ed eta, nonché barioni, cioè protoni, neutroni, lambda, sigma, csi ed omega). Inoltre il modello prevede quattro interazioni (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare debole e forte) e varie particelle-messaggero, cioè i bosoni, trasportatori di interazioni (Chew, Gell-Mann, Rosenfeld 1977). Proprio i leptoni e gli adroni sarebbero i costituenti principali della materia, giacché aggregano le particelle più piccole, i quark, che rappresentano l’infinitesimale, l’infinitamente piccolo, al livello di un miliardesimo di miliardesimo di metro.
“La teoria della relatività ha modificato drasticamente non solo la nostra concezione delle particelle, ma anche la nostra rappresentazione delle forze che agiscono tra di esse. In una descrizione relativistica delle interazioni, le forze tra particelle – vale a dire la loro mutua attrazione o repulsione – sono rappresentate come scambio di altre particelle” (Capra 2009, p. 97). Per di più “nella fisica moderna, l’universo appare quindi un tutto dinamico, inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale. Nell’esperienza che se ne può avere i concetti tradizionali di spazio e di tempo, di oggetti isolati, e di causa ed effetto, perdono il loro significato” (Capra 2009, p. 98).
Torna utile specificare che gli studi sul bosone di Higgs sono stati svolti secondo la seguente procedura: fasci di protoni vengono fatti circolare in senso opposto nel tunnel del CERN, quasi fino alla velocità della luce, e sono condotti a collisione in corrispondenza di quattro impianti di sperimentazione, dei quali ATLAS e CMS sono i più grandi ed hanno permesso l’individuazione del bosone di Higgs. Il Large Hadron Collider ha portato anche a verificare la presenza di tutte le particelle del “Modello Standard della fisica”: sia leptoni che adroni.
Tutto ciò è ormai acquisito (anche se rivedibile), ma invero si conosce scientificamente solo il 4% dell’universo, il resto (96%) è fatto di energia (73%) e materia oscura (23%) di cui nulla (o quasi) si sa.
Intanto questo excursus sulle ultima novità della fisica è una salutare full immersion che suggerisce soluzioni e procedure che possono essere utilmente implementate anche nel campo della sociologia, ormai non più circoscrivibile al vieto dilemma fra qualitativo e quantitativo e perciò affrancabile da pastoie impelaganti e diatribe datate.
Il taglio da dare ad una nuova sociologia degna del presente non può essere quello di fare battaglie di retroguardia ancorate al settorialismo delle denominazioni didattiche ma piuttosto di cercare sempre più le compartecipazioni pluridisciplinari. Non si tratta di trovare qualche collega amico e compiacente. Occorre ben di più: una programmazione a largo raggio per far sì che numerosi e qualificati studiosi si concentrino su obiettivi comuni, pluriennali, internazionali, dedicati al raggiungimento di mete chiare e condivise. A questo proposito quel che emerge in modo evidente è la necessità di una rete solida di collaborazioni e di scambi, con incontri e confronti costanti, badando alla messa a punto di protocolli dettagliati di ricerca e di sperimentazioni rigorose. L’esempio del CERN di Ginevra è quanto mai eloquente: il risultato raggiunto nasce da migliaia di soggetti coinvolti e da varie decine di contributi nazionali in termini di risorse economiche e strutturali.
Esemplare è poi la prospettiva multidimensionale, che non concerne solo la ricerca del bosone di Higgs ma che si basa prioritariamente su uno stile d’indagine aperto ad ogni soluzione, senza dover rinunciare aprioristicamente a parametri-guida come il “Modello Standard della fisica” o il “Modello Standard esteso” (che riunisce in un unicum l’interazione elettrodebole e quella elettroforte). Il rinvio speculare al campo sociologico non appare molto convincente, visto che ancora si distingue fra standard e non standard (Ricolfi 1995; Marradi 1996).
Un’altra lezione proviene dalla scelta di studiare essenzialmente ciò che ha una minore visibilità, anzi nessuna visibilità immediata. Dunque l’analisi dell’infinitamente piccolo è un percorso non trascurabile, visto che può produrre esiti imprevedibili e strategici per la conoscenza della realtà. Basti considerare la valenza della teoria delle stringhe, che fa capo ad un elemento di per sé secondario, di appendice. Eppure proprio attraverso le vibrazioni delle stringhe passa l’energia, per cui la massa si anima ed interagisce. A parte questo, è proprio il caso di sottolineare che anche il più piccolo gesto, il movimento meno percettibile, è passibile di essere foriero di cambiamenti decisivi.
Un altro contenuto merita attenzione. La realtà è quanto mai complessa e frastagliata nelle sue forme consolidate ed in quelle cangianti, nelle sue articolazioni e movenze,. Ciò che appare non è detto che corrisponda ad un dato di fatto. Solo un’indagine accurata ed incondizionata (per quanto possibile) riesce a garantire un buon livello di scientificità. Occorre ribadire che la certezza assoluta della verosimiglianza di un dato non è mai scontata. Tutt’al più sarà offerto un quadro quanto più preciso possibile, lasciando però aperto il campo a revisioni e rovesciamenti dell’approccio interpretativo.
Anche la problematica delle dimensioni spaziali e temporali la dice lunga su molte prassi di ricerca piuttosto affrettate e superficiali. La contestualizzazione è un must di ogni studio sia empirico che teorico. In particolare va ribadito che esiste da parte dei soggetti una larghissima variabilità delle percezioni. Un intervistato non risponderà sempre allo stesso modo ad una medesima domanda: molto dipenderà dalle contingenze, dalla situazione emotiva e dai condizionamenti del momento o del passato o di un prevedibile futuro. Insomma converrà sempre e comunque avere bene in mente che ogni tentativo di conoscenza è soggetto a limiti di varia natura ed origine.
Anche il mito della narrazione relativa alle dinamiche del Big Bang si presenta istruttivo. Lo si potrebbe avvicinare al carattere onnicomprensivo, esaustivo, di una grande teoria di fondo: quella dello struttural-funzionalsimo o dello strutturalismo tout court. E nondimeno uno scenario teorico di larga massima giova ai ricercatori per avere un parametro orientativo, magari da decostruire in corso d’opera.
Dopo tante intuizioni iniziali e successive ricerche di prove legate al quadro dei citati “Modelli Standard” qualche risultato è giunto grazie ad un’indagine condotta in ogni possibile campo, senza interferenze di natura ideologica e senza manipolazioni strumentali. Insomma si è di fronte ad un modello esemplare di fare ricerca, che riesce a valorizzare anche l’assenza di dati (il riferimento è al pregnant void ricordato sopra), fino a spiegarla e reinserirla nel frame complessivo dell’analisi.
5. La soggettività
Ritorno del soggetto, autonomia del soggetto, autenticità del soggetto ed altre sollecitazioni affini sono fra i temi più ricorrenti nella recente letteratura sociologica e non (Farina, Kirchmayr 2001). Il soggetto è non solo il protagonista di un lavoro d’indagine ma diventa sempre più un attore principale della ricerca, interloquisce con lo studioso e pone problemi deontologici e procedurali (AA.VV. 1991; Hall 2004). Insomma il soggetto è sempre più relazionale (Donati 1991) e promuove nello stesso tempo identità e reciprocità (Melucci 1991).
Se si nega l’oggettività è possibile invece sostenere la soggettività come elemento irrinunciabile dell’analisi sociologica (Letherby, Scott, Williams 2012)? Se per soggettività s’intende il lasciare campo libero alle opzioni individuali dello studioso-ricercatore è logico che ci si trova sul versante perfettamente opposto a quello della pretesa oggettività, solo che stavolta la pretesa risiede nell’orientamento ideologico e metodologico di chi, inconsciamente o meno, pensa di imporre il suo punto di vista. E dunque tale tipo di soggettività non trova facilmente cittadinanza nella scienza. Se invece per soggettività si indica il ruolo centrale dell’attore sociale in questione allora si può discutere sul senso e sui limiti della soggettività.
Ci si chiede dunque se un corretto approccio alla realtà da esaminare debba o meno prevedere una relazionalità (forte o debole) fra il sociologo ed il suo interlocutore. L’introspezione e la riflessività (Alvesson, Sköldberg 2009) assumono un ruolo decisivo in tal contesto operativo. Il sé, dall’una e dall’altra parte, è pur sempre un attore sociale, che si porta dietro il suo carico di pregiudizi, valori, modelli di comportamento, ma in pari tempo è libero di esercitare il suo potere di agire o non agire, operare in un certo modo od in un altro. La consapevolezza della soggettività nasce dal constatare l’esistenza di altre soggettività e di altri eventi ed oggetti.
Ogni soggettività è in primo luogo la risultanza di un lungo processo di socializzazione, di discorsi sentiti e fatti, di esperienze subìte o gestite, insomma di azioni ricevute ma anche compiute, in un processo continuo di interazioni, interferenze, condizionamenti, influenze. Il tutto si accompagna sovente con una ricerca di identità, di ruolo nella società, di spazio indipendente. In termini sociologici diventa persino arduo distinguere fra soggettività ed identità, data la loro evidente interconnessione. Il problema potrebbe risolversi guardando all’unità dell’individuo. Ed in tal caso emergerebbe chiaramente una sorta di parallelismo con quanto avviene in fisica, allorquando si tende ad unificare spazio e tempo per meglio comprendere i fenomeni in esame. In fondo la stessa soluzione del narrare autobiografico risponde bene a questa istanza unificatrice, giacché chi racconta mette insieme soggettività ed identità (ma anche spazio e tempo della sua persona). Ovviamente la soggettività è maggiormente in gioco a livello di sentimenti, di coscienza esistenziale e di conoscenza della realtà.
La soggettività è chiamata in causa specialmente nella definizione della situazione: prima di ogni azione comportamentale auto-determinata c’è sempre una fase di esame e decisione che noi possiamo chiamare “definizione della situazione”. Ed in effetti non solo atti concreti dipendono dalla definizione della situazione, ma gradualmente un’intera condotta di vita e la stessa personalità dell’individuo deriveranno da una serie di tali definizioni (Thomas 1923). Ancor prima di questo scritto di Thomas, va annoverato quanto aveva pubblicato la Carnegie Corporation (1919) in occasione di uno studio sull’assimilazione nella società americana: “la partecipazione comune in attività comuni implica una comune ‘definizione della situazione’. Di fatto ogni singolo atto, ed alla fine tutta la vita morale, dipende dalla definizione della situazione. Una definizione della situazione precede e limita ogni possibile atto, ed una ridefinizione della situazione cambia il carattere dell’azione”. Questa citazione è stata pubblicata da Park e Burgess nel 1921. In verità Thomas aveva lavorato con Park proprio al progetto della Carnegie Corporation ma il suo nome non è poi comparso come autore, il che non esclude affatto la sua paternità per il concetto di definizione della situazione. A voler comunque proseguire nella ricerca sulla prima formulazione del medesimo concetto occorre risalire a George Herbert Mead (1982, p. 53): “gli scienziati presentano dati a se stessi e costruiscono un’ipotesi che spiegherà dati apparentemente in conflitto. Questo è un perfezionamento. Dov’è il meccanismo che rende possibile il processo? Il suggerimento è nella nostra conscia, subconscia, condotta sociale. Si tratta di quella condotta sociale in cui noi siamo consapevoli delle nostre risposte agli altri, risposte che hanno un significato per noi stessi, e noi tendiamo a rispondere alle cose che diciamo agli altri”. Pur nella complessità del linguaggio sociologico di Mead alcuni aspetti alludono ad una sorta di definizione della situazione: che cosa è la condotta sociale avveduta, consapevole, che tiene conto di quanto si è detto agli altri e di quanto questi ultimi dicono a loro volta? Sono tutti elementi che servono a definire il profilo che descrive la situazione creatasi. Il passo citato risale ad una lezione del 1914.
Ancora più remoto, e forse più convincente, è un ulteriore brano che rimonta al 1909 (Mead 2001, pp. 4-5): “in questo campo della consapevolezza sociale si presentano gradualmente oggetti – oggetti sociali, i sé, il me, e gli altri. Desidero discutere un po’ il processo attraverso cui tali oggetti si presentano. Che questi processi sociali istintivi siano intimamente connessi con le emozioni e che molte delle cosiddette espressioni delle emozioni siano tracce o prime fasi di reazioni istintive è stato riconosciuto in ogni trattazione psicologica delle emozioni e degli istinti, ma, per quanto ne so, la funzione che tali espressioni delle emozioni possono avere nel processo di mediazione della condotta sociale e di formazione degli oggetti nella coscienza sociale non è stata studiata in modo adeguato”. In questo brano sono messe in risalto le emozioni che si collegano di fatto ad una primordiale, quasi istintiva, definizione della situazione, allorquando avviene un incontro fra soggetti diversi. E si apre ad un’idea di mediazione e di formazione che non può non approdare ancora una volta alla definizione della situazione. Infine “per ritornare alla situazione al di fuori della quale le emozioni si presentano, la consideriamo una in cui l’inibizione mediante impulsi conflittuali rende necessario il riadattamento. La situazione è una situazione sociale. Il riadattamento sarà un riadattamento sociale”. Come si vede, in quest’ultima parte, il richiamo all’idea di situazione è quanto mai esplicito ed ancora una volta si presenta la dimensione emozionale, derivante direttamente dalla percezione che si ha dell’interlocutore non appena un incontro abbia luogo.
Si può ipotizzare una certa affinità fra Mead e Thomas sulla soggettività, ma un altro autore da non trascurare è Alfred Schütz (Sacchetti 2012), come mette bene in evidenza pure Luigi Muzzetto (2006, pp. 20-21): “l’immagine della soggettività presente nel pensiero di Schütz è complessa: richiama sia le articolazioni dell’io di Scheler e di Husserl, per poi muoversi verso l’io di di James e di Mead, sia la struttura della coscienza di Husserl e Bergson. Sebbene l’autore sviluppi solo in parte il concetto dell’io, mostra comunque l’esistenza della possibilità di una sintesi efficace tra il percorso di Mead e quello di Weber. L’analisi dei processi della coscienza e dell’interazione mostra il carattere mobile e articolato del senso”. Inoltre “l’accettazione del mondo taken for granted di una serie di conoscenze è un tratto costitutivo del senso comune. Occupa quindi un posto strategico sia nella dimensione soggettiva sia in quella sociale”. Il tutto s’impernia sulla vita quotidiana, ambito principale ma non unico dell’approccio schütziano, che privilegia la libertà dell’attore sociale.
Tale libertà non può essere negata al ricercatore ma nella conduzione delle interviste (Bichi 2007) non mancano interferenze, deviazioni e manipolazioni (Winker, Menold, Porst 2013).
Martuccelli e de Singly (2009) preferiscono enfatizzare il carattere duale dell’individuo, di origine durkheimiana (ovvero gli “stati mentali” personali e le abitudini ed i sentimenti di derivazione sociale) (Durkheim 1962) e vanno anche ben oltre, prospettando un individuo trasversale fra tradizione e modernità, fra diverse esperienze nazionali, tra forme molteplici di modernità, nell’ambito di una nuova sociologia delle società ma su scala individuale.
Propone di risolvere diversamente i problemi dell’individuazione Enzo Campelli (2011) – da lungo tempo impegnato sul tema della soggettività (Campelli 1991) -, riproponendo la vexata quaestio sulla verità: “la tensione di verità costituisce una dimensione fondamentale delle ragioni che inducono al lavoro scientifico ma non pertiene ai suoi risultati” (Campelli 2011, p. 152). La soluzione suggerita è “il richiamo all’asseribilità argomentata, che costituisce il solo debole e parziale strumento di confronto e di preferibilità possibile alle analisi del sociologo. Tanto la convinzione inattuale dell’attingibilità di una verità semplice e intera, che si contrapponga definitivamente alle infinite versioni diverse da essa, quanto il suo contrario, cioè la presunzione di una totale libertà dell’interpretare, completamente svincolata da ogni fattualità, costituiscono pratiche di deresponsabilizzazione” (Campelli 2011, pp. 151-152).
Alle caratteristiche del contesto (context sensitivity) fa appello, infine, Mario Cardano (2011) che insiste sull’argomentazione, alla pari di Campelli, ma aggiunge, fra l’altro, la teoria della probabilità e l’estensione della predicabilità (in sostituzione della generalizzazione).
6. L’approccio biografico
La narrazione biografica ha una storia così protratta nel tempo che travalica di gran lunga il secolo e mezzo di vita della sociologia. Nel frattempo essa ha assunto un carattere scientifico ampiamente riconosciuto ai fini della conoscenza di una società, di una comunità, di un’organizzazione.
Anche la storia orale rientra ormai tra le cure preminenti di varie istituzioni, ivi comprese quelle governative. Va segnalato come esemplare il caso degli Stati Uniti che presso la Columbia University di New York hanno raccolto, dal 1948, innumerevoli documenti di oral history, che rappresentano un patrimonio di grande pregio per la storia confederale. Si tratta della celebre The Oral History Collection, che ha un suo Research Office molto attivo ed efficace, che pubblica periodicamente il catalogo della raccolta e rende conto delle testimonianze rese da migliaia di persone (oltre cento ogni anno) per lasciare traccia duratura delle varie attività svolte negli USA nel campo delle arti, degli affari, dell’educazione, della storia, delle relazioni internazionali, del giornalismo, del lavoro, della giurisprudenza, della biblioteconomia, della letteratura, della medicina, delle scienze fisiche e naturalmente pure delle scienze sociali (ogni anno vengono catalogati materiali per alcune decine di migliaia di pagine). Varie centinaia di libri sono stati dedicati a quella che viene indicata in modo abbreviato come COHC. Una buona parte dei materiali è microfilmata ed è accessibile anche in altre sedi scientifiche. Diversi progetti e finanziamenti riguardano principalmente lo studio dei materiali raccolti.
Qualcosa di simile, ma con un diverso orizzonte scientifico ed operativo, è reperibile anche in Italia ad Anghiari con la Libera Università dell’Autobiografia ed a Pieve Santo Stefano, dal 1998, con la Fondazione Archivio Diaristico, attualmente sotto la direzione di Duccio Demetrio (1996), dopo l’iniziale apporto di Saverio Tutino, direttore della rivista semestrale Primapersonae promotore di un concorso per diari denominato “Premio Pieve”, ora intitolato anche a suo nome.
Più recente è l’iniziativa di una banca della memoria (www.bancadellamemoria.it), che raccoglie migliaia di interviste video, a cura di Lorenzo Fenoglio, Franco Nicola, Luca Novarino e Valentina Vaio (Papi 2009). L’interesse per la conservazione della memoria e la sua metodologia specifica sta crescendo in misura rilevante (Yow 1994; Galli, Padovani 2000; Leone 2001; Cavallaro 2002; Rampazi, Tota 2007).
In campo strettamente sociologico sono le storie di vita il più cospicuo apporto all’analisi qualitativa. In Italia ormai da più decenni la produzione editoriale non cessa di mettere in circolazione materiali sia biografici che autobiografici. Come ben sintetizza Paolo Montesperelli (1995, p. 18) “sia le critiche sia le repliche evidenziano l’elevata complessità di molte questioni epistemologiche legate alle storie di vita. Non è vero perciò che le storie di vita costituiscano un modo facile di fare ricerca”.
L’utilizzo dei documenti biografici (o meno) si presta a diversi ed inusitati approcci: per esempio si può collegare la dinamica dell’andamento del racconto con la teoria dell’azione (Petitat, Baroni 2000). In altri casi una trattazione particolarmente avvertita riesce a far scaturire interpretazioni e classificazioni da testi letterari classici come da altre fonti (Jedlowski 2000) e pure da comunità narrative: dopo un brillante ed informato excursus, si formula la proposta di una sociologia della narrazione suddivisa tra “la facoltà di narrare” e “l’interpretazione narrativa della realtà”.
Scende direttamente sul terreno dell’indagine empirica la raccolta di Storie di ordinaria povertà curata dal CRIPES-Centro Ricerche Politiche Economiche e Sociali (2000) di Roma, per conto della Regione Lazio. L’operazione è meritevole di attenzione, anche se manca un apparato metodologico ed interpretativo.
Le problematiche dell’analisi qualitativa applicata alla biografia sono di varia natura (Bonica, Cardano 2008; Lichtner 2008) ed hanno a che vedere con l’intreccio che va dipanato fra io ed alter, fra strutture sociali e società nel suo insieme, fra vite individuali e riverberi sociali, fra testualità ed oralità, fra tempo e memoria, per non dire della complessificazione derivante dall’intertestualità. Sullo sfondo rimane poi, non sempre risolto, il tema della rappresentatività, che non si può ridurre alla sola rappresentazione agita dal soggetto intervistato. Altri dilemmi metodologici possono riguardare il rapporto fra vero e falso nei testi di natura autobiografica o le opzioni etiche relative all’interlocuzione con l’intervistato (Toti 2007).
L’esperienza del raccontarsi, oltre che vissuto scientificamente orientato verso un uso analitico ed interpretativo, si trova ad essere altresì una modalità terapeutica, consapevole o meno, tanto da convergere talora con un profilo di tipo psicoterapeutico. Ed in effetti suggestioni concernenti la narrazione come terapia provengono da più parti, da Duccio Demetrio (1996) come da Mario Cardano (Bonica, Cardano 2008). Il discorso del narrare curativo si estende sino alla medicina in generale (Cipriani 2010), alle medicine alternative (Secondulfo 2009) ed allo sciamanesimo femminile (Tedeschi 2011, pp. 233-306).
Un’ultima ma non meno importante considerazione attiene alla cosiddetta ermeneutica oggettiva proposta da Ulrich Oevermann (1979) ma non particolarmente diffusa, probabilmente anche a ragione di una barriera linguistica dovuta alla lingua tedesca (Gerber 2007). Nello schema teoretico dell’ermeneutica oevermanniana le ipotesi di lavoro nascono solo dopo un’accuratissima analisi del contenuto dei testi. La procedura prevede che si possa cominciare a fare una generalizzazione solo quando una certa struttura tende ad essere regolare e ripetuta. Non si tratta però di conteggiare il numero di conferme di un andamento. Ed in ogni caso l’essenziale consiste nella fase iniziale (piuttosto lunga) di disamina approfondita e continuata del contenuto testuale, cui si accompagna un’ampia discussione da parte del team di ricerca. Il carattere oggettivo è dato dalla presenza di “strutture oggettive” nel testo stesso. L’oggettività viene sottoposta a sua volta ad un processo di possibile falsificazione, dunque la verifica non è necessariamente data per scontata. In definitiva si ha oggettività e falsificabilità al tempo stesso.
Oevermann si rifà a Mead (1982; 2010) per il linguaggio come condizione di socialità, a Chomski (1977) per le regole creatrici di senso (non quello del soggetto ma quello oggettivo creato dalle regole del linguaggio) ed a Peirce (2001) per il processo abduttivo. L’obiettivo è di distinguere fra senso soggettivo e senso oggettivo, dovuto quest’ultimo alle regole comuni, comunitarie e/o universali del linguaggio. Le strutture di senso da individuare possono essere manifeste o latenti per cui ogni sequenza testuale va analizzata molto attentamente. Proprio per questo il procedimento comporta un largo impiego di tempo. E lo si apprende attraverso un’esperienza diretta nel gruppo di ricercatori condotto da Oevermann stesso. Intanto qualche utile informazione metodologica di massima è accessibile anche in lingua francese (Wernet 2000): in un primo momento (Geschichten=storie) la sequenza testuale da esaminare viene decontestualizzata e se ne propongono le più diverse interpretazioni, senza sceglierne alcuna; successivamente (Lesarten=letture) le storie raccolte nella fase precedente vengono raggruppate in modo da costituire dei “tipi di significato” (Bedeutungstypen), che non sono specifici del caso in esame ma Lesarten, modi di lettura, provando inoltre a vedere se i tipi emersi resistono anche ad una sorta di verifica per opposizione, attraverso una storia contrastante (kontrastierende Geschichte), diversa, opposta; da ultimo avviene la ricostruzione di quella che è la struttura del caso (Fallstruktur) mettendo a confronto le modalità di lettura, Lesarten (ottenute nella tappa antecedente), con il contesto reale, che alla fine viene recuperato per stabilire la leggibilità del testo mediante ipotesi sulla struttura del caso (Fallstrukturhypothesen). Il tutto richiede un’accentuata competenza linguistica da parte dei ricercatori.
Sono infine cinque i principi dell’ermeneutica oggettiva: indipendenza del contesto (Kontextfreiheit) da applicare nella prima fase allorquando non si tiene conto di alcun sapere previo né dei con-testi che precedono o seguono; letteralità (Wörtlichkeit) come rispetto assoluto del testo (anche degli errori grammaticali) senza introdurre approssimazioni o modifiche; sequenzialità (Sequenzialität) che è fondamentale nell’analisi in quanto presenta e suggerisce un certo ordine utile per la creazione di senso; estensività (Extensivität) che significa un intenso lavoro per sperimentare tutte le strade possibili per tentare di falsificare le ipotesi in atto sulla struttura del caso; economia o parsimonia (Sparsamkeit) tesa ad evitare sforzi e tentativi inutili e grossolani, ad esempio in chiave psicoanalitica. La procedura per congetture e confutazioni sembra riecheggiare quella popperiana (Popper 2009).
7. La Grounded Theory
Probabilmente la maggiore e più diffusa novità teorico-metodologica degli ultimi decenni nel campo dell’analisi qualitativa è stata quella prospettata da Barney G. Glaser ed Anselm L. Strauss con la loro Grounded Theory (Urquhart 2012), ovvero teoria fondata o basata (sui dati) (Glaser, Strauss 2009).
Seguendo la lettura dettagliata che ne offre Massimiliano Tarozzi (2008, pp. 10-12), la Grounded Theory è al medesimo tempo un “metodo generale”, complessivo, di analisi di tipo comparativo ed anche un “insieme di procedure” in gradi di produrre “sistematicamente”, cioè in modo rigoroso e non semplicemente in maniera soggettiva, una teoria “fondata sui dati” e “capace di dar conto della realtà presa in esame”. Essa va oltre il carattere linguistico ed ermeneutico (connesso ai significati) e mira a reperire regolarità concettuali nel fenomeno o nei fenomeni in esame. Il problema della rappresentatività viene affrontato mediante il “campionamento teorico” che estende in progress, durante l’indagine, numero e caratteristiche dei soggetti, per cui non vi è un numero prefissato di individui da intervistare ma questi vengono individuati e coinvolti a mano a mano che si rende necessario avere informazioni su una certa area tematica, concettuale. Raccolta ed analisi dei dati procedono di pari passo e dunque è possibile intervenire in corso d’opera con un andirivieni continuo fra terreno d’indagine ed analisi mediante codifica (Saldaña 2012). Altro carattere connotativo della teoria fondata sui dati è la costante presenza dell’analisi comparativa fra i dati, delle codifiche effettuate, delle categorie concettuali, tutte fortemente radicate nei dati empirici in un nesso senza alcuna soluzione di continuità. Insomma non si tratta di descrivere quanto, invece, essenzialmente di lavorare per concetti. Da ultimo, ma tale fase non è la meno importante, vanno predisposti memo (note sull’andamento della ricerca e sulle intuizioni che emergono di volta in volta, vero e proprio impianto per stratificazioni successive) e diagrammi (mappe concettuali, grafici, schemi, schizzi, profili). Questo insieme articolato di forme e contenuti a carattere metodologico e teorico rimanda principalmente a due grandi correnti del pensiero filosofico-sociologico, dapprima il pragmatismo con Dewey, per il quale “una teoria fondata è applicabile tanto nelle situazioni quanto alle situazioni” (Glaser, Strauss 2009, p. 217), e poi l’interazionismo simbolico con Blumer, il quale però si era limitato alla “formula generale di attenersi ai dati” (Glaser, Strauss 2009, p. 42, nota 15) senza avventurarsi in merito alla produzione della teoria Ma in realtà pure Peirce, mai citato da Glaser e Strauss, sembra svolgere una funzione latente con la sua idea di abduzione.
Glaser e Strauss hanno fatto scuola ma hanno posto le premesse per lo sviluppo di linee di pensiero non sempre convergenti. Dopo la morte di Strauss nel 1996, Glaser è rimasto giudice di fatto unico che dal suo punto di vista approva o meno la purezza e la legittimità della Grounded Theory. Nel contempo, come segnala Tarozzi (2008, p. 37), sono tre i filoni tuttora in attività: in primo luogo quello classico dello stesso Glaser (1998), quello della “piena descrizione concettuale” entro precise categorie e tecniche di Corbin e Strauss (Corbin, Strauss 2007) ed infine quello costruttivista di Charmaz (2006; Bryant, Charmaz 2007) che insiste molto sulla relazione fra ricercatore ed attori sociali e sul significato attribuito ai fatti. Le differenze su alcuni punti sono notevoli, specie per quanto riguarda la codifica: solo sostantiva e teorica in Glaser, aperta, assiale e selettiva in Corbin, invece iniziale, focalizzata, assiale e teorica in Charmaz, che presenta chiaramente e dettagliatamente i vari passaggi della codifica iniziale, focalizzata, assiale e teorica (Charmaz 2006, pp. 42-71) nonché le modalità di scrittura dei memo (Charmaz 2006, pp. 72-95). Obiettivo comune resta comunque il far emergere una core category concettuale, cioè un concetto od un gruppo di concetti affini in grado di organizzare l’area di ricerca e dunque di fare da base di partenza per la costruzione finale della teoria. Una citazione a parte merita anche un’altra coppia di “scuole” di pensiero che si ispirano alla Grounded Theory: si tratta, in primo luogo, della cosiddetta analisi situazionale di Clarke (2005), che studia in particolare il contesto dell’azione, mediante “mappe situazionali” che possono essere orientate a reperire aspetti umani e non umani insieme con le relazioni che intercorrono fra essi, ad esaminare attori collettivi ed elementi non umani in situazione di patteggiamento ed infine ad osservare le posizioni assunte o meno dai soggetti sociali a fronte di specifiche questioni; in secondo luogo è da registrare uno sviluppo della Grounded Theory denominato “analisi dimensionale”, dovuto soprattutto a Schatzman (Bowers, Schatzman 2009).
8. L’indagine computer-assistita
Da diversi anni alcuni teorici e metodologi di larghe vedute, anticipatrici di sviluppi futuri, avevano colto nel segno presagendo una stagione straordinaria per la ricerca sociologica supportata dalle nuove tecnologie informatiche (Yamashita, Besser, Duster and Piazza, Hout, 1997; Seale 2002).
Al momento attuale proliferano programmi di ogni sorta, adatti a varie finalità, ad applicazioni nemmeno immaginabili fino a qualche tempo fa. Certamente il computer aiuta molto nel lavoro di analisi nella misura in cui è in grado di gestire molti dati contemporaneamente e di cercare rapidamente un’informazione da elaborare nonché di connettere fra loro elementi diversificati di un approccio e riferimenti a persone e loro caratteristiche. Ma sarà sempre il ricercatore a decidere il da farsi, gli incroci da effettuare, le connessioni da scegliere, le sperimentazioni da implementare (Flick 2009; Silverman 2013).
Per chi era abituato a lavorare con forbici, colla e pennarelli colorati si tratta di un salto notevole di qualità ma soprattutto di un cospicuo risparmio di tempo. Ma occorre sapere bene che cosa fare, che cosa cercare, come organizzare il lavoro.
Forse il momento più delicato è quello della scelta del programma adatto al nostro ambito di ricerca. Dopo gli inizi dominati dal ricorso a The Ethnograph, un software statunitense “dedicato” al trattamento delle note raccolte sul campo dagli etnografi e dagli antropologi, attualmente i prodotti di maggior successo e diffusione sono l’australiano NVivo (Bazeley 2013), giunto alla sua decima versione, ed il tedesco Atlas.ti. Ma non mancano altre ottime soluzioni, meno accreditate solo perché meno pubblicizzate e poco distribuite. Ovviamente vi sono preferenze consolidate, per cui è difficile che uno studioso dopo aver cominciato a lavorare con un particolare tipo di software si convinca poi a passare ad un altro programma. La fatica dell’apprendimento di una procedura non viene replicata, di solito, per non sottoporsi agli imprevisti, sempre possibili, di una nuova soluzione informatica. Anche per ragioni di tempo si opta per proseguire lungo la medesima modalità già conosciuta, a meno che non vi siano segnali rilevanti di una scarsa efficacia del mezzo prescelto in precedenza. Solo allora, con molta più prudenza, ci si avventura lungo un altro percorso. Conviene, ad ogni buon conto, raccogliere pareri e suggerimenti fra i colleghi, gli esperti di programmazione elettronica, i tecnici specializzati ed altri studiosi che abbiano già sperimentato a fondo quello che si sta per scegliere a propria volta.
Fra i tanti strumenti in circolazione ha una buona affidabilità T-LAB,che ha la caratteristica di unire insieme possibilità analitiche di tipo linguistico ed elaborazioni statistiche. Si possono esplorare, comparare e trasformare in mappe i contenuti di vari testi: trascrizioni di articoli, discorsi, libri, documenti, interviste, risposte libere a domande di un questionario ed altro ancora. T-LAB consente di gestire i dati in modo “amichevole”, facile, per esempio con l’analisi delle co-occorrenze di termini, le comparazioni fra coppie di parole, la creazione di mappe concettuali, le concordanze. Si può altresì condurre un’indagine tematica sulle unità di contenuto (frasi e/o paragrafi), un’analisi delle corrispondenze multiple, una cluster analysis. Il necessario (demo, manuale ed introduzione) è disponibile in quattro lingue: inglese, francese, italiano e spagnolo. In proposito si può consultare il sito: www.tlab.it.
Particolarmente consigliabile è un ottimo sussidio predisposto da Giuliano e La Rocca (2008), che presentano in forma ampia e ben documentata la Grounded Theory, Atlas.ti, NVivo, Lexico3, TaLTAC (quest’ultimo provvede sia all’analisi lessicale che a quella del contenuto).
9. La ricerca visuale
Un’altra prospettiva che fa presagire un futuro ben promettente ha radici quanto mai salde nella storia delle arti visive ed ora procede a ritmi sempre più accelerati sino a diventare essa stessa protagonista sulla scena scientifica. Si era abituati ai classici documentari storico-geografici che puntavano molto sulla dimensione estetica, sull’enfatizzazione del bello artistico, fotografico e cinematografico, videografico e computergrafico. Da un po’ di anni si stanno affermando proposte dichiaratamente volte a presentare esiti di ricerca, appunti di campo, intuizioni per immagini, contenuti seri ammantati con una sceneggiatura accattivante e costellati di frasi ammiccanti ed allusioni dotte. Insomma il vecchio prodotto d’arte alla maniera della documentaristica di Folco Quilici non rientra più negli obiettivi da raggiungere da parte delle nuove generazioni di studiosi, piuttosto attenti a voler cogliere la datità del terreno d’indagine ed a riproporre squarci di realtà attraverso strumenti più semplici e privi di sofisticazioni estetizzanti.
Si prenda ad esempio l’opera di Bourgois e Schonberg (2009) sugli eroinomani senza fissa dimora. Si è di fronte ad una narrazione fortemente impregnata di visualità, quasi altrettanto quanto le immagini che aprono il volume, ben dodici (ma molte altre seguono all’interno del testo) senza soluzione di continuità dopo la pagina del titolo, e/o quanto il film Sidewalk, una sorta di epopea della miseria e della tossicodipendenza, un’ora di sequenze che lasciano il segno e che fanno da sostegno visivo a tutta una serie di riflessioni che si leggono nel testo. Per Spike Lee è affascinante e commovente il vedere i personaggi passare dal testo originale al documentario, prendere vita per strada, offrendoci dettagli della loro vita, che prende letteralmente corpo dando un taglio diverso al senso del libro, che corroborato dall’apporto visuale quasi assume un altro significato. Le storie di Ron, Mudrick, Ishmael e Butteroll divengono un filo conduttore di prim’ordine che giunge sino nelle aule universitarie e nei congressi dei sociologi.
Dopo il contributo pionieristico di Leonard M. Henny (1986) la sociologia visuale ha conosciuto progressi significativi di cui danno conto Faccioli e Losacco (2010), fra i primi in Italia a sostenere la linea di un approccio sociologico visuale che formula una teoria dell’immagine e del processo di visione, lavorando con le immagini e sulle immagini, nonché restituendole come narrazioni visuali e dunque produzioni di film e video. In particolare i due autori distinguono fra una versione tutta metodologica orientata ad usare l’immagine come strumento di raccolta dei dati ed una versione disciplinare, autonoma, indipendente, che studia i processi visuali e l’uso che gli individui sociali fanno delle immagini.
Anche gli enti televisivi e le case di produzione stanno scoprendo il valore della visualità a connotazione scientifica. Dopo le iniziali proposte di rassegna internazionale promosse da Jean Rouch al Musée de l’Homme a Parigi e dalla RAI in Italia con l’International Festival of Ethnographic Film, ora sono numerose le iniziative che sorgono in diverse località italiane ed estere. Ma non sempre è facile stabilire quanto scientifico siano un certo impianto ed un certo risultato. Ci ha provato con acume e lungimiranza Howard S. Becker (1995), per cui le fotografie assumono il loro significato dal modo in cui le persone coinvolte le comprendono, le usano ed attribuiscono loro un significato, mentre la sociologia visuale ha un carattere prettamente professionale, accademico. Ma nella pratica – aggiunge Becker – si può leggere un’immagine di un documentario come sociologia visuale o come fotogiornalismo, oppure si può leggere un’immagine sociologica come giornalismo e come documentario od infine si può leggere un’immagine giornalistica come sociologia visuale e come documentario. Per altri (Kissmann 2009; Mitchell 2009) la sociologia visuale ha un carattere precipuamente interdisciplinare.
Non mancano tentativi di coniugare la sociologia visuale con la Grounded Theory (Konecki 2011). In pratica molto è in movimento, per cui le discussioni metodologiche si susseguono senza soste (Pauwels 2011; Pink 2013). Non a caso la rivista L’Homme ha dedicato un numero monografico all’approccio visuale (De l’Anthropologie Visuelle 2011). Insomma tanto fervore, dal biografico sino al visuale, è qualcosa di inedito nella storia delle scienze sociali.
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Roberto Cipriani
University Roma Tre, Italy
Résumé
Des Données Empiriques à la Construction de la Théorie : L’approche classique de la sociologie et des autres sciences aussi se rapport à l’usage des hypothèses et des procédures de vérification des hypothèses pour établir les effets, s’il y en a, de certaines variables dans les cas étudiés. Mais d’autres savants suggèrent d’autres solutions pour éliminer la présence des hypothèses et pour privilégier une approche interprétative – opposée à celle hypothétique et déductive –. De toute façon dans cette dernière approche il y a des problèmes pour le chercheur : comment approcher les données et les analyser pour assurer la fiabilité des résultats ? La suggestion de Blumer d’utiliser les “concepts sensibilisants” semble correcte pour arriver à une interprétation fiable mais capable aussi de construire une théorie. Cette procédure peut se réaliser grâce à l’aide des logiciels.
Abstract
The classical approach in sociology, as much as in other scientific fields, concerns the use of hypotheses and hypothesis testing processes to determine what, if any, effects can be attributed to particular factors in the field being studied. But other scholars suggest another procedure which eliminates the presence of previous hypotheses and privileges an interpretive – as opposed to a hypothetic-deductive – approach to data analysis. However, in the latter approach crucial questions appear for the researcher: how does one approach the data and data analyses to ensure the credibility of findings? Blumer’s suggestion about “sensitizing concepts” seems to be appropriate in order to reach not only a reliable interpretation of data but also the possibility of “building theory”. This process could be supported by computer-assisted research.
Mot clés
Méthodologie, Approche Qualitative, “Concepts Sensibilisants”, Analyse Assistée par l’Ordinateur, Grounded Theory
A methodological solution becomes more and more reliable: to build a theory starting from data rather than from theory-driven hypothesis testing. The latter opens a new debate between competing and perhaps conflicting positions: the classical approach through previous hypotheses, and an orientation influenced by Grounded Theory (Glaser and Strauss 1967; Charmaz 2006; Corbin and Strauss 2008), which eliminates any kind of hypotheses and offers a range of different scientific views, also thanks to the added presence of “sensitizing concepts” (Blumer 1954) coming out from empirical results, therefore not previously established but inserted after the fieldwork.
The Grounded Theory approach
Actually, in adherence to the Grounded Theory the aim is to build sociological theory starting from the collected data: before the analysis the researchers are involved in the construction of a list of nodes, keywords, items, considered meaningful for both the analysis of material and the purpose of the research. A first draft of this list can be useful to check if chosen “sensitizing concepts” are present or not in the contents of interviews. The purpose is to construct a reliable grid of concepts for the analysis and interpretation of data, a kind of “dictionary”, formed by words selected to support the qualitative approach.
It is not by chance that Paul Boghossian (2006) has suggested an overcoming of constructionist approach to come back to the empirical data in themselves. Of course, the existing computer packets, and probably those that will developed in the future, are helpful tools but cannot substitute for the work of a researcher, engaged in a theory building process (Urquhart 2007: 348-350). The Grounded Theory approach refers exactly to a research process where “the researcher analyzes the data and identifies analytic leads and tentative categories to develop through further data collection. A grounded theory of a studied topic starts with concrete data and ends with rendering them in an explanatory theory” (Charmaz 2007: 2023).
Sociological implications
Many programs of qualitative analysis have been developed to respond to theoretical demands of contemporary researchers. But rather than producing results in the way that statistical processing packages analyse data sets and produce statistics, QDA (Qualitative Data Analysis) programs (Lewins and Silver 2007) are powerful supports in treating and controlling data. In the richness of elements offered by qualitative contents researchers can find new concepts, new categories, raising other issues, and generating theories.
For instance a software like NVivo or Atlas-ti supplies many functions besides retrieval and encoding. NVivo, in particular,supports qualitative research, and it is classifiable, at least in part, as tailored to the construction and representation of theory. According to Bryant and Charmaz (2007: 24), however
ultimately the research process must remain under the control of researcher(s). Glaser and others are correct to be wary of use of software, particularly when researchers come to rely upon it. Yet, cases abound where use of some form of electronic repository, plus sorting and retrieval facilities has proved useful. Researchers must understand both the benefits and the dangers of use (and reliance upon) software support.
It is in the choice of “sensitizing concepts” that researcher plays a key role because “such theoretical categories can sensitize the researcher to identify theoretically relevant phenomena in their field” (Kelle 2007: 207). This helps to distinguish between common sense categories, coming from common sense language and knowledge, and directions along which to look in a methodological and heuristic perspective. As a matter of fact
sensitizing concepts can fulfil an important role in empirical research, since their lack of empirical contents permits researchers to apply them to a wide array of phenomena. Regardless how empirically contentless and vague they are, they may serve as heuristic devices for the construction of empirically grounded categories (Kelle 2007: 208).
ReconsideringGrounded Theory
In the context of “building theory” process, Grounded Theory has gone through many and significant changes since its first introduction. “Quite apart from the question of whether it is desirable to defer theoretical reflection, the notion that one may conduct research in a theory-neutral way is open to some doubt” says Alan Bryman (1988: 84-85), a quantitative and qualitative methodologist. Besides
there may be considerable practical difficulties associated with field-work conducted within a grounded theory approach. For instance Hammersley (1984), drawing on his experience of conducting a school ethnography, has suggested that when field-work entails tape recording of conversations, interviews, lessons, and the like, the time needed to transcribe such materials may render the grounded theory framework, of a constant interweaving of categories and data, almost impossible to accomplish. One might also question whether what the grounded theory approach provides really is a theory. Much of the discussion of the approach and its associated procedures seems to concentrate on the generation of categories rather than theory as such (Bryman 1988: 85).
Some changes had been initially co-proposed by Glaser and Strauss (1967), and then developed separately by these two, thus generating two different groups following one or the other scientist.
According to Bryant and Charmaz (2007: 33),
through developing this method, Glaser and Strauss aimed to provide a clear basis for systematic qualitative research, although Glaser has always argued that the method applies equally to quantitative inquiry. They intended to show how such research projects could produce outcomes of equal significance to those produced by the predominant statistical-quantitative, primarily mass survey methods of the day. What they also achieved was a redirection of positivist-oriented concern among qualitative researchers seeking reliability and validity in response to criticism from quantitative methodologists. Glaser and Strauss offered a method with a solid core of data analysis and theory construction. Their method contrasted with the strategy of those who sought procedural respectability through collection of vast amounts of unanalysed, and often un-analysable, data.
After Strauss died, Glaser has been holding the stage with his strong committed attitude and fully oriented towards ‘his’ Grounded Theory. Barney Glaser (1992) has pushed through his scientific and methodological option far off the former threshold, which was already quite revolutionary for sociological tradition in the US, and not only there. The most problematic issue of Grounded Theory is the total absence of an orientating perspective in sociological research. In other words, if the idea of giving up detailed hypothesis for the research may be considered, not the same can be said regarding other potential inquiries to introduce in the guidelines of the research. However, once refused the traditional initial research-hypothesis, an incipit can be a good solution to start and, though temporary and open, it can represent a referring point, a focus, an orientating spot, a common basis from where inquiries can take off. Therefore, reconsidering Grounded Theory is even more possible if we take into account what Herbert Blumer maintained, the same Blumer who criticized the supposed absence of methodology of Thomas and Znaniecki (1918-1920) in their famous qualitative fieldwork on The Polish Peasant. On this note, as Blumer suggested (1954: 7), “sensitizing concepts” can be a good solution, so to have at least some conceptually defined contents, which may represent some sort of guiding lines, or a rough draft that, even though of generic references, could be able to guide operative choices during the research.
“Sensitizing concepts”
As Blumer maintains, “sensitizing concepts” offer a wide general sense of reference and guidance in approaching empirical instances. In such a way, there is a close relation between concepts and data. Use of “sensitizing concepts” can be very diversified. Concepts can be taken directly from data, that is the case of Grounded Theory purists, who refuse any other solution that does not start from data (the head of the list in this integral and militant approach is Barney Glaser). According to other scientists, “sensitizing concepts” must be confronted with data and they have to be formulated starting from already existing sociological literature on the subject. In this way the relation with empirical data is quite loose, because conceptualization comes before any data collecting. However, there is another solution that cumulates advantages coming from the store of scientific knowledge, previously accumulated, and empirical information collected. It means to keep memory of the previous research made on the same subject and formulate a first draft of some guidance concepts, or “sensitizing concepts”, to be verified on fieldwork of the research. In operative terms, the researcher can propose his own results, at least at a first step, or results acquired by other researchers on the same subject. Therefore, the researcher can prepare a list of temporary concepts, as much as it is possible.
In the second phase, the temporary list of concepts is compared with empirical data collected, in order to verify, through a simple table of presences and absences related to single concepts, whether or not conceptual formulas can be found in the texts, in interviews, in the data-base at disposal. Such verification can be carried out with a certain precision on all data or on just a significant part of them. However, before setting up a definite series of “sensitizing concepts” to be used in subsequent data analysis steps, a good approach could be that of discussing every choice with all researchers and collectors involved in the research in order to decide which concepts should be definitely included, excluded or added. If research is conducted by an individual the choice can be made by the same person in different steps, one after another, in order to reach a final decision.
Actually, in Kelle’s (2007: 209) terms,
a wide array of sensitizing categories from different theoretical traditions can be used to develop empirically grounded categories. Many researchers find it easier to let categories emerge if one stays with one particular theoretical tradition, however Glaser is certainly when with his frequent warnings that the utilization of a single pet theory will almost necessarily lead to the neglect of heuristic concepts better suited to the specific domain under scrutiny. There are heuristic concepts which capture a broad variety of different processes and events and nevertheless may exclude certain phenomena from being analyzed: thus the extended use of concepts from micro-sociological action theory (e.g. actors, goals, strategies) can preclude a system theory and macro-perspective on the research domain. A strategy of coding which uses different and even competing theoretical perspectives may often be superior to a strategy which remains restricted to a limited number of pet concepts. Furthermore, analysts should always ask themselves whether the chosen heuristic categories lead to the exclusion of certain processes and events from being analyzed and coded, since this would be an attribute of a category with high empirical content which refers to a circumscribed set of phenomena.
Abduction and retroduction
At this point the old dilemma between induction and deduction is solved because the modality of “sensitizing concepts” is to be a sort of abduction or retroduction (Fann 1980) that explains phenomena starting from facts but not only in an inductive way. According to Peirce (1868, 1984), the father of pragmatist movement, one abduces or retroduces with the acceptation of a hypothesis in order to explain a given phenomenon. However, the starting point is always the formulation of a hypothesis that has to be verified by facts. This is Peirce’s logic of science. Furthermore, according to Peirce a concept is significant when it produces effects. For “sensitizing concepts” it is quite evident that they are directly related with data. Finally, categories (or concepts) have to be determined both at the beginning and at the end of the analytical procedure.
One might say that knowledge is based on observing facts (Peirce 2001: 289). The following example can be useful: observing an ink-pot, this is a fact; however, before one can say that, one can have sensitive impressions, in which there is no idea of an ink-pot, or of any separated object, or of a ‘self’, or of the act of observing; and the fact of seeing an ink-pot in front of oneself is the outcome of a number of mental operations over such sensitive impressions. Only when the cognition has developed into a proposition or idea over a fact, one can directly control the process. As a matter of fact it is an idle question to discuss ‘legitimacy’ of what cannot be checked. Therefore, all observations should be accepted as they occur. In a certain way, Peirce’s (1931-1958) use of the language is quite old fashioned, and above we have presented a paraphrase of his speech, but the intuitions contained are significant and anticipate times. Particularly explicit is the following statement: “The first thing to do is to propose a questioning hypothesis. Secondly, one should verify feasibility limits with experimental tests”. Hypothesis is an instrument of Peirce’s scientific and philosophic work (2001: 290). He maintains that with hypothesis he does not only mean a supposition on an observed object; in particular, he means that the initial position of a hypothesis and how is it considerate, either as a simple question and at any degree of faith, can be seen as an inferential step that Peirce suggests could be called abduction. This includes the preference for one hypothesis among others to explain the facts, until such preferred hypothesis is neither proved on a previous relevant knowledge, nor verified over other hypothesis already being proved. Finally, Peirce (2001: 304) mentions some of the problems from absolute absence of hypothesis in research. There are scholars who affirm that no hypothesis can be accepted, not even as a hypothesis, until its rightness or wrongness can be directly perceived. Peirce holds the opinion that this is what Auguste Comte (the social philosopher who actually first formulated this) had in mind. Of course, this abduction presupposes that we should believe only what we see, and there are authors who maintain that to make predictions is not a scientific attitude. Therefore, this should also mean that expecting something from research is not a scientific attitude as well. One’s opinion should be limited to what effectively can be perceived, maintains Peirce, as well as he seems to be perfectly aware that such a position cannot be coherently held. In a certain way, this position is auto-denying because it is an opinion based on more than effectively can be perceived.
The computer-assisted qualitative analysis
Analysis of qualitative data, according to the methodological indications of Grounded Theory and its feasibility offered by the software NVivo, operates at two major levels: nodes, that is to say the key-concepts, and memos, that is to say observations, considerations, theoretical and scientific perceptions coming from data handling. Sometimes one may work a lot, or mainly, on nodes and just a little with memos, which may be neglected and written very seldom. The absence or insufficient number of memos may represent a serious damage for more important operations within the research. As a matter of fact, not only nodes can be in relation to each other, but also memos, and memos can be in relation with nodes, thus enriching with no limits interpretive potentiality of researchers. The group of memos, but also every single memo, is a vital piece of the chain through which one should pass to build theories, attempt interpretations, set significant relations with different parts and results of a research. Memos are the traces of our thoughts over the research problems. Such thoughts in progress may change, but can also consolidate, according to: central and marginal variables; principal and secondary ones; with a hierarchy at any level; with the tree system, which defines priorities and gradual differences of the considered elements. The next passage, which defines one or more theories, is the peculiar job of social scientist, who assumes the role of transforming empirical data into abstract theories.
Quantity and quality in the research on jubilant people
Many of the results of our inquiry with the questionnaire carried out among pilgrims at the Jubilee 2000 (Cipolla, Cipriani 2002) are validated by qualitative research among the 96 jubilant people interviewed. Not only do we have confirmations, but there are also details that strengthen what is said in the conclusion of the quantitative volume Pellegrini del Giubileo (Pilgrims of the Jubilee).
The Jubilee has represented many different things for the participants, both for individual subjects and for the various ‘pilgrims’ compared. In this sense it is possible to understand a more-or-less strong attitude, which is a praxis as well, that can be considered a form of auto-direction (scarce institutional direction), which includes one-third of the sample. On the other hand, we find faithful believers, who are another third of the sample, with a further third who are in an intermediate position or of a more solipsistic nature…. [Moreover,] from our data emerge a critical ability and an autonomy on the part of jubilant people that is dearly greater than what we would have expected, owing to an interplay of orthodoxy and heterodoxy which is not easy to understand and is highly articulated (Cipolla 2002: 14).
The hypothesis formulated by Luigi Berzano and Daniela Teagno, according to which “the pilgrim, arriving in Rome in 2000, perceived and lived the Jubilee according to his sensibility and religious education” is confirmed. “The importance of tradition, spiritual experience, cultural events, and touristic occasion expresses a wide variety of possibilities of approaching religion (belief, experience, belonging, practice, etc.), which are realized in just as many forms of sensibilities and religious subcultures”. Our group of 96 interviewees is likewise “situated within a religious model of Catholic origins, which is why one seems not to notice the process of secularization: such a strong presence of regular practicing believers is particularly significant”. It is not by chance that the pilgrimage to Rome “is, for the faithful, a way to express one’s real religiosity: which is a religious practice more than an intellectual activity, made of materiality and symbolism”. Moreover it is “difficult to talk about a pilgrimage, not only for quantitative reasons, but also for the great number of participants coming from all over the world, because those have different orientations and behaviors, which lead to a plural modality of interpreting and living the Jubilee event” (Berzano and Teagno, 2002: 44-46).
An experiment on the Jubilee of the year 2000
Our results of a qualitative research on jubilant people, to say pilgrims participating in the Jubilee of the Year 2000 in Rome, give a contribution to the sociological analysis and interpretation of a collective phenomenon of mobility (be it religious or not), and to the process of “building theory”.
The qualitative research carried out in 2000 and the years after, starting from data collected over 96 pilgrims in Rome (from 18 countries, and speaking 8 different languages) in occasion of the Great Jubilee of 2000 (Cipriani 2003; 2006), has been, as far as we know, the first research in Italy based on Grounded Theory and realized with NVivo. Actually not all resources of the software have been used. However, the results are to be considered quite promising, even if further interpretations of collected data are still possible. This research shows the outcome of a triangulation between the software DiscAn, invented by Pierre Maranda (a Canadian anthropologist), the Analysis of Lexical Correspondences, and the results of operations with NVivo.
The interviewees, both men and women, presented diverse backgrounds, resulting from their freedom of expression, without any kind of restriction and with no pre-defined questions and pre-coded responses, giving way to a high level of spontaneity in the answers and as consequence a deeper knowledge of some issues concerning the Jubilee.
When the qualitative and quantitative approach are used simultaneously the outcome is very rich and permits to reach more evidences. To give an example, at the end the most important concepts are situated in the following manner:
Religiosity (religiosità) appears as the core category, together with jubilee (giubileo) and faith (fede), and also emotion (emozione). Church is marginal, and the family too is peripheral. Another similar graphic construction is suggested through the software NVivo, which presents a clear relationship between the same primary concepts (religiosity, faith, jubilee, emotion):
To complete the illustrations of results a semantic map, created through DiscAn, confirms the key role of Jubilee (as a central relay=R), religiosity (as a source=F), and faith (as a relay=R). In this case, however, emotion doesn’t seem so relevant: it is a relay but isolated.
The documents gathered could be used for other interpretations too, but our outcome has been useful to build a provisional theory of events based on collective religious mobility. The final theoretical framework is the following, in short:
PRIMITIVE GENERAL TERMS
PRIMITIVE PARTICULAR TERMS
SECONDARY PARTICULAR TERMS
STATEMENTS
ARGUMENTS
SCOPE CONDITIONS
Events (pilgrimages)
Religiosity
Faith
If there is a background religiosity a participation in the events like Jubilee is foreseeable.
Religiosity is the motivation for pilgrims mobility.
Relative applicability
Mobility
Jubilee
Church as institution
It is rare that a non believer could be a pilgrim.
If an individual is Catholic he will participate in Jubilee.
Possibility of enlargement
Collectivity
Higher religiosity corresponds to higher participation in the events of collective religious mobility.
Faith is a good support to participate in pilgrimages.
Possibility of modifications
Jubilee is much more a relay than a source of collective. behavior.
Faith comes from official Church teaching.
Use of a general condition
Church is marginal in the phenomenon of collective mobility.
Motivations to participate in pilgrimages do not come from official Church teaching.
No details of specific conditions
Jubilee motivations are complex.
Temporary, local, and undefined applicability
Quantitative approach and qualitative approach can be very fertile if treated and balanced together with methodological rigor and scientific attention, which means to aim at keeping the best of both different approaches. These can unveil useful elements over social action motivations, the preeminent values orienting experience, more recurring sociological categories in the perception of social reality, and finally, the connections that motivate most significant choices.
Conclusions
As a general rule, according to the analysis of content of the 96 biographies gathered, some conclusions can be drawn. Without pushing through a certain limit the level of analysis, according to the usual criteria of Grounded Theory (Glaser and Strauss 1967; Strauss and Corbin 1990), we suggest some interpretation, the validity of which remains partial and temporary, but can be considered rather innovative in light of previous attempts. The plurality of scientific modalities and techniques applied, from the software NVivo to psycho-sociological perspectives, offers sufficient guarantees of reliability not always acquired with other solutions. Hence, with these cautions, it is possible to explain some significant or exemplary trends.
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Roberto Cipriani, The Many Faces of Social Time: A Sociological Approach.
Abstract
Do all clocks and calendars refer to the same time? E.E. Evans-Pritchard reported that the Nuer culture divided time into ‘ecological’ and structural temporal categories. Alheit made a distinction between everyday, routinized, cyclical time and life-experience time.
Time is capable of devouring everything; it can reach beyond what has already been; it can sunder itself from the past, without turning back.
Social time has many facets: it may be very short, short, long or very long. Immobility within life space, as time passes, is tantamount to continuous change in space and time. Finally, a categorisation of time might be founded on four modalities: micro-time, meso-time, macro-time, mega-time.
Biographical note: Full professor of Sociology and chairman of the Department of Sciences of Education (University of Rome 3), and president of the European Council of National Sociological Associations (ESA). He has also served as editor-in-chief of International Sociology. He has been president of the Italian Sociological Association. Publications: Sociology of Religion. An Historical Introduction (translated into Chinese, French, Portuguese, Spanish) and The Sociology of Legitimation.
Key words: social time, space, chrónos, kairós, eonic time
Disciplines: cultural anthropology, sociology
The concept of time is, perhaps, one of the most difficult to grasp. This applies not only to the study of time in sociology but also in other fields. The astronomer Anthony Aveni, for example, writes that “in Webster’s dictionary, the word is given more space than widely used nouns like ‘thing’ and ‘God’, occupies a greater space than basic adjectives such as ‘good’ and ‘bad’, more space than ‘space’, its archetypal counterpart . . . it is difficult to find a word which has more descriptions or contrasting and contrary meanings than this apparently innocuous term. . . Time is, above all, an idea: the idea that an ordered sequence can be recognised and accepted by our cognition. The philosopher C. H. Broad posited: ‘all the events of world history fall into place in a single series of instants’ or as Ecclesiastes (3.1) holds ‘there is a season for everything, a time for every occupation under heaven’. But time is also a measure, a measure of intervals between events. As a measurable quantity, we consider time as being unlimited, continuous, homogeneous, unchangeable, indivisible and infinite” (Aveni 1993: 11-12). It is this tangle of definitions which justifies the use of expressions attesting to the “multiple and polysemic character of time” (Gasparini 1990: 11), or to multiple temporalities (Novotny 1989).
The question then arises: does ‘time’ really refer to an ‘ordered sequence’ within what we consider as being ‘our knowledge’? What bestows order on a similar sequence (Gasparini 2001; Belloni 2007)? Is it a clock or a calendar perhaps? Do all clocks and calendars refer to the same time? Let us assume for a moment that this be the case (although we are aware that it is not) and we are obliged to answer the following query: what characterises this sequential dimension within the ambit of what we know as our knowledge? Is it linearity, an unbroken succession or reflexivity? Is it a pattern within an organic, homogeneous whole, endowed with continuity, devoid of splits and sunderings, and therefore unchangeable?
I will advance the opposite hypothesis: time can be seen as referring to a plurality of temporalities and to a multiplicity of forms of knowledge, whether consolidated or as yet to be acquired.
Typologies of time
Although we may consider the categories of past, present and future as self-evident, other forms of temporality are not.
Referring to the work of the African-studies expert John Mbiti, Bernardo Bernardi (1974:71), for example, pointed out that in Swahili culture there are only two temporal parameters: the present and the past. The first is sasa which means ‘now’/’in the present’, the second zamani which means ‘in the past’/’formerly’. Both of these, that is micro-temporality and macro-temporality, unite to give rise to myths, dreams and heroes, located, obviously, at the origins.
Evans-Pritchard (1975) reports that for the Nuer people time is divided into an ‘ecological’ and a structural aspect. The Nuer divide their existence into two seasons, that of tot, the rainy season and that of mai, the dry season. This ecological distinction, however, structures their socio-economic life according to the activities determined by ecological time during which the Nuer follow a well-defined rhythmic cadence: from the cultivation of millet and maize to the burning of grassland, from gardening to fishing, from life in the fields to life in the village, with the former season spanning the period from May to October, the latter that from November to April.
In the Nuer culture, further temporal dimensions are applied to the succession of age-ranges related to the development of specific skills. The first phase occurs before initiation and lacks specific characteristics. Upon entry into adulthood, the second phase revolves around the activities of the warrior when the use of physical force is fundamental; the third phase is that of family responsibilities; the fourth grants access to positions of power; the fifth is that of old age and plays a sacred or mystical role.
Similar dichotic concepts of time are by no means exclusive to non-Western peoples (Moen 2003).
Peter Alheit of the University of Bremen, with more ideological zeal than scientific acumen perhaps, investigated the meaning of the ‘discovery’ of time and addressed, in particular, the issue of its management by individuals who wish to control the time of others. Alheit divided time into two main types: everyday, routinized and cyclical time on the one hand; life-experience, that is, existential, linear, continuous, coherent time, on the other. Doubts arise concerning the validity of this dichotomy and above all regarding the specific features of the two time dimensions he hypothesised. Nonetheless, many aspects of his analysis seem convincing.
The main question arising is whether ‘our time’ is really ‘our’ time (Alheit 1994:306). There is a genuine contradiction between availability of time and its annulment by external events in which the social actor has no say. This is the reason why the “battle for time is central to the class struggle in capitalist societies” (Alheit 1994:315; although this suggestion is, in actual fact, drawn from Negt 1984:36).
Time as chrónos and kairós
“All around us nature transmits its own rhythm, which is clearly cyclical. We do not know how the living world acquired its sense of rhythm; whether the beat of life stems from some exterior mechanism or is the outcome of an internal vibration. Nevertheless, we know that all those who belong to the sphere of living beings, from oysters to kings, emulate the movements and changes of the heavens and the seasons” (Aveni 1993:385). There is, therefore, a pre-established something which moulds our actions or, in any case, bestows a certain order on them. The alternation of light and darkness, the transition from one season to another, the phases of the moon, tides (it is interesting and instructive to note that ‘time’ and ‘tide’ , in English, have the same root, tid).
The reference made by Aveni to oysters is no coincidence. During a well-known scientific experiment, oysters were transported from New Haven, Connecticut to the Northwestern University in Evanston, Illinois. It was noticed that the oysters opened their shells in keeping with the pace of the local time of their new habitat. “It was as if they had adapted their life cadence to the full moon as observed in Evanston rather than to that observed in New Haven. Did this low life form actually perceive the presence of the moon through the impenetrable walls of the laboratory?” (Aveni 1993:25).
Whatever the answer to this question may be, it is, in any case, evident that times and rhythms exist which, to no small degree at global level, regulate a large part of the ebb and flow of life, of procreative and developmental periods, despite environmental diversity and the peculiar characteristics of different living species.
For this reason, it is correct to say that “we never perceive time directly; there is no particular organ which controls time the way the eyes perceive light and the ears react to sound or the tongue to flavour. Nevertheless, all living organisms perceive time and react to changing phenomena” (Aveni 1993:37).
This way of relating to an external order, which marks and places a whole series of events in a linear and/or circular sequence, provides an idea of what we mean when speaking of time as chrónos.
Theogony emphasizes the cyclical nature of events. Uranus did not want others to surpass him and threaten his power, so he forced them to return inside their mother’s womb. Chronos ate his children when they were born. Zeus, like Chronos, avenged his mother. Uranus was castrated; Chronos had to regurgitate the children he had eaten. In any case, within this succession of events, Chronos represents the element of transition or change generated by Uranus which leads to the birth of Zeus.
In classical Greek culture, there is another connotation of time, contained in the word kairós, which refers to a kind of time which is opportune, proper, right, in reference to an action to be accomplished, to a decision to be reached, or to an initiative to be undertaken.
In classical Greek art, Kairos is portrayed in a manner similar to Hermes (the Roman Mercury). He is handsome, young, perpetually in motion, swift, constantly running; he has wings on his feet and on his back, he continually escapes the efforts of those who try to stop him. It is practically possible to catch him, and if one manages to grasp him, it is only for a fleeting instant and in that case only by a lock of the hair on his forehead (the nape of his neck is clean-shaven to prevent others from seizing him from behind).
It was by no chance that the sculptor Lysippus paid great attention to the theme of kairós and that this attention spread into the artistic culture of Greece and Rome. It should also be recalled that the Macedonian poet Posidippus wrote a fictional dialogue between an admirer of the bronze relief of Kairos and Kairos himself.
Here are the essential exchanges of the dialogue. Looking at the sculpture, the interlocutor asks from where the sculptor comes and who he is. The answer is ‘Lysippus of Sicyon’. Turning again to the figure represented, the interlocutor asks him to reveal his name.
It is Kairos, the one who overtakes all. Like time, the winged god, passes everything by, outruns everything, leaves all events behind him in the past.
The following part of the dialogue is extremely relevant and significant, concise and effective.
‘Why do you travel on tiptoe?’
‘I’m always on the run’.
‘Why have you got wings on your feet?’
‘To move more speedily than the wind’.
‘Why do you hold a knife in your right hand?’
‘To inform men that I can stab better than a dagger’.
‘Why have you got a lock of hair on your forehead?’
‘To be grasped by those who overtake me’.
‘Why is nape of your neck clean shaven?’
‘If I am the one who overtakes, no-one can grasp me from behind’.
‘Why has the artist sculpted you?’
‘To provide me as an example for men”.
Time can devour everything; time can overtake what has already been; time can sunder itself from the past for good, without turning back. It grinds event after event, returning each one to the bowels of the earth from which it was born, condemning each to oblivion, to the river Lethe, that is, to forgetfulness. But, above all, time is, by its very nature, un-stoppable. The very moment we try to outline it, it escapes our grasp and seems to elude all our clumsy efforts at blocking it. To be even more precise, the attitude of time seems to be one of total indifference towards what it leaves behind.
Through the use of time, the social subject takes possession of the world and moulds it to meet his or her expectations. He/she must, nevertheless, also take the limitations imposed by time itself into due account. Mongardini is perfectly right when he paraphrases Guyau’s splendid image of time as “the distance between cup and lip” (Mongardini 1994:9). But it is, perhaps, useful to refer once more to the Greek myth of Kairos which allows us to consider time, from a spatial point of view, as the brief distance between the hand of a person who succeeds in outdistancing time, and the lock of Kairos’ hair which he/she may now grasp.
The real drama, however, occurs during the clash between chrónos and kairós, that is, between social exigencies and individual needs. The latter are certainly disregarded and devoured by the pace imposed by chrónos. But one must not imagine that physical or numerical time is the only key to the interpretation of social facts.
The debate about social time (Nugin 2010) has many ramifications. For this reason – as Guyau saw it – we have to take a complex, interdisciplinary approach to it. This approach should not be based on one discipline alone. Jean-Marie Guyau (1854-1888) was the advocate of a sort of secular religion. He argued, in contrast to the position of Spencer which held that the distinctive feature of time was length. According to Guyau, “it runs, therefore, against the laws of evolution, to construct space by means of time when it is, to the contrary, through space that we arrive at the representation of time” (Guyau 1994:44). Finally, “for us, eternity is either nothing or chaos; time begins with the introduction of order into feeling and thought” (Guyau 1994:92).
This way, it is the social subject who, through his or her emotions, passions, and reflections generates time which is always a blend of and a toing and froing between chrónos and kairós (Cipriani 1997).
In the context of non-logical action and, thus, with reference to the concept of non-economic time, Pareto has something useful to say. In the words of Busino “it can be said that the descending phase causes the ascending phase which follows it and vice versa. But this only in the sense that the ascending phase is indissolubly tied to the descending one which precedes it and vice versa. This suggests, therefore, in more general terms, that the different phases are simple manifestations of a single state of things and that it is observation which makes them appear to succeed each other in such a way that the sequence is experimentally uniform. There are various types of oscillation, depending on the time they take. This oscillatory time may be very short, short, long or very long.
As we have already seen, the shortest oscillations are usually accidental in that they manifest fleeting forces; those which occur over a particularly long time usually manifest enduring forces. The very long ones, because of our lack of knowledge of the distant past, and because it is impossible to foresee the future, can fail to reveal their oscillatory properties and appear to manifest a movement proceeding constantly in one direction” (Busino 1988:xxiv). It would seem that time is a succession of waves, of oscillations, a feature typical also of social phenomena.
This kind of motion, a to-and-fro-like process, characterises the course of history, in particular the sequence of access to power by different elites; first the lions, then the wolves. According to the theory of elite group circulation, power-shifts between elite group are pending when a given phenomenon reaches its peak: “when a phenomenon reaches its greatest degree of intensity, the opposite oscillation is imminent” (Busino 1988:xxiv). But the duration of the power of these elite groups is destined to be short lived. To paraphrase Pareto, time is the cemetery of elite groups.
Time as synthesis
Norbert Elias’ reflections on time (Tabboni 2001) provide a fine example of the sociology of knowledge, in the sense that the nucleus of his approach focuses on the symbolic features of the use of time. Elias argues that “we cannot see time or hear it, neither can we taste it or touch it; it is a problem which still awaits solution. How can we measure something which we are unable to perceive with our senses? Is an hour invisible?” (Elias 1986:7). The very object of study seems, therefore, to escape our grasp. Like an ideology, a utopia or a symbol which cannot be tested empirically and factually, time cannot be measured. “But”, someone might object, “there are clocks”. To this Elias answers: “clocks certainly help us to measure something; nevertheless this something is not exactly time, which is invisible, but something which is very tangible like the length of a working day or the eclipse of the moon, or the speed of an athlete who runs the 100 meters” (Elias 1986:7).
The question of time is centred on a series of relations, that is, on the way two or more events are placed in relation to each other producing a series. Time, then, becomes a social institution which clocks represent without themselves being ‘time’. It might be observed to this regard, that no sociologist will study time simply by referring to the instruments which conventionally measure it. This would lead, at most, to a study of the relationship between the material object, its form, its content, its mechanism and the culture of the era in which it has been made and used. This would be sociology of material culture and not strictly speaking sociology of time.
Watches and calendars, therefore, cannot be considered as phenomena to be studied except insofar as “they are also something different from a physical series of events. In fact, a physical sequence acquires the characteristic of a temporal device only when, beside its physical aspects, it has the characteristic of a mobile social symbol and as such only if it is placed within the communicative circuit of human society either as a means of information or regulation” (Elias 1986:21). More to the point, “time at the present stage of development is a high-level symbolic synthesis, thanks to which it is possible to relate positions of physical or natural becoming, of social becoming and the course of an individual life” (Elias 1986:23). In other words, time functions as a universal parameter for the natural world or for the individual and society.
There is, however, a drawback to this. “When in the course of their development, symbols reach a very high level of conformity with reality, it becomes very difficult for human beings to distinguish symbols from reality” (Elias 1986:31). This because of a tendency to reify time, as if time were a reality rather than a symbol and, as such, “an apprehended social synthesis”, also arises (Elias 1986:37).
Given these premises, it is easy to understand how Elias’ analysis finds a place within a broader approach to social phenomenology. Beginning with his work on civilizations, that is, on the connection between ‘auto-constriction’ and ‘hetero-constriction’ as well as on the themes of involvement and detachment; the whole analysis is conducted within the framework of a sociology of science or knowledge. In this perspective, time appears as “a means of orientation which is socially institutionalized” (Elias 1986:43). Time does not exist in itself but is constructed by society through individuals.
Elias speaks of the tri-polar function of a temporal relation. There are, first of all, social subjects who create and put the relation into place. Secondly, there are the individuals themselves as a ‘continuum of changes’ from birth to death. Finally, there are other events which are put into relation with the course of life. One has to specify, in any case, that the ‘continuum of changes’ “connects an early stage to a later stage” (Elias 1986:60 n.3).
Norbert Elias does not renounce the use of the category of space and, following Einstein and Minkowski, holds that a change in time is a change in space and vice versa. To remain motionless in the space in which one lives while time passes, is tantamount to continuous change (Rosa, Scheuerman 2008) in space and time (Urry 2000). In fact, human subjects change as members of a changeable society in a world which also changes. Both society and the world occupy a space; change takes place therefore also within space (Elias 1986:121).
The work of Elias also addresses specific questions regarding the concept of time applying a multi-disciplinary approach to a broad-ranging historical time-line from Galileo to Einstein. Elias also notes that mathematics provides more glory than literature and endures longer in time (Elias 1986: 154-155).
Time in a sociological perspective
Among the first sociologists to study time systematically, Sorokin and Merton tried, as early as 1937, to delineate the concept of social time; in particular, they drew attention to the fact that “periods of time which are quantitatively the same can be made socially unequal and periods of unequal time can be rendered socially equal . . . We can say that our studies have foregrounded the fact that social time, as distinct from astronomical time, is qualitative and not purely quantitative; and that these qualities derive from beliefs and customs which are common to groups, and that they serve, moreover, to denote the rhythm, pulse, the throb of society” (Sorokin and Merton 1985:39).
The theme of social time which Sorokin and Merton merely outlined, was addressed later and defined more accurately by Sorokin who spoke of plurality of time types (from physical to psychological time) conditioned by socio-cultural contexts and accompanied by other kinds of social and cultural time. A given context is reflected by the various forms of time it expresses; therefore the social sciences require an adequate concept of socio-cultural time. Thus, time in an ideational culture, will be of an ideational type while time in a sensorial culture will have sensorial features.
One of the most original contributions to the sociology of time was that made by Robert Merton (1985) who analysed the social expectations of duration, by no means a totally novel concept but one which he defined in original terms (Barbano 1986:15-19). “The social aspects of duration – SAD for short – envisage temporal durations which have been collectively elaborated or socially prescribed and have become an inherent part of social structures of various types: for example, the length of time during which an individual is expected to fulfil certain institutional roles (such as his/her position in an organisation or membership of a group); the foreseeable duration of different types of social rapports such as friendship or a professional-client relationship); the duration of particular tasks performed by individuals, because they have been previously defined are expected” (Merton 1985:175).
The analysis of time provided by Niklas Luhmann provides quite a different formulation. Its impeccable systematic character, however, reveals, in the longrun, a substantial adherence to the mechanisms of the complexity of a capitalist society, and to its pervasive rationalisation. For Luhmann, contemporary Western society’s peculiar characteristic of ‘not having time’, is simultaneously an inexorable fact and a privileged point of view through which to distinguish the various temporal limits and bonds which constellate the social life of individuals.
Within this perspective, it is the time of the individual which must adapt to social time and not vice versa. In fact “it becomes evident that the individual dimensions and vicissitudes of the world remain dependent upon each other, despite their elements of mutual invariance, because the complexity of every individual dimension becomes significant only in reference to other dimensions” (Luhmann 1985:121).
Hence the need to make split-second decisions, without having all the necessary information, and without being able to weigh up alternative solutions. The only possible information-communication choice available is of an imperative nature because it is part of a global planning mode (Castells 2001) predefined by others on the basis of declared rational requirements. One of the imperative systems which has the greatest impact is that of deadlines which “give rise to further deadlines and so, temporal pressure generates itself” (Luhmann 1985:124).
Zerubavel speaks of rigid structures of succession (i.e. the order of happening), fixed durations, standard temporal placement (which refer to the ‘when’ of the happening), uniform frequencies of recurrence (which refer to ‘how’ frequent). All these cases refer to normative orders of succession. Zerubavel examined Benedictine monasticism which he held to be one of the most eloquent examples of temporal regularity. Furthermore, he discussed the development of various calendars and their symbolic functions. Then he went on to discuss “how time functions as the context linking the meaning of actions and social situations to the particular field of religion” (Zerubavel 1985:17). Finally, he analysed the differentiating function of time which distinguishes the public sphere from the private.
As to the issue of the uniformity of temporal placement, Zerubavel underlined the importance of ‘right time choices’ which to some extent recalls the Greek concept of kairós. He wrote that “in general terms, we possess rather well-defined notions of what constitutes the ‘right time’. It is almost inconceivable that a ballet, for example, be scheduled in the morning (even on non-work days). It must be acknowledged, therefore, that to place, or refrain from placing, certain activities and events within certain time slots is very often a matter of pure convention” (Zerubavel 1985:30). In other words, there is a difference between the need to sow crops at a certain time and that of going to the synagogue on Saturday, to the Mosque on Friday and to church on Sunday. Some activities have to take into account a natural order, others an order which is socially defined.
What Rudolf Otto (1917) called the ‘numinous’ and described as a mysterium tremendum is found in every experience of the sacred from religion to magic. The relation with the sacred can lead to a loss of the perception of time, to ecstasy, to spatial and temporal disorientation, to mystical contemplation, that is, to the non-rational limits of religion, including orgiastic experiences. Mysticism, power and energy are essential connotations of the numinous but the element of the fascinans which harmonizes the contrast with the tremendum should not be overlooked. These regard endeavours made by human beings to dominate the mystery of reality.Attempts can be made to identify with the numinous through magical practices or practices aimed at bringing the numen to reside within the human subject through possession or divinization. These are short-cuts used to annul time, its differences and its limits. This concept is expressed in hymn 1727 by Ernst Lange, quoted by Otto, where the majesty of God is defined as follows: ‘all that you are has no end or beginning, all my thoughts lose themselves’.
The socio-religious perspective
The essay published in Mélanges d’histoire des religions (1909) by Marcel Mauss and Henri Hubert, Étude sommaire de la représentation du temps dans la magie et la religion, is, without doubt, a turning point in the socio-religious analysis of time. This essay, although short, is finely posited and was assumed as a touchstone for later studies. Hubert and Mauss started from a position they had already forwarded in the Année Sociologique (1900-1901,5:248): “We assume that the actions and representations of religion – and we now wish to add – of magic, imply notions of time and space which are quite distinct from ordinary notions of time and space. Given the fact that rituals and mythical events take place in space and time, we argued that it was necessary to ask how, in the case of myths and rituals, the theoretical fragmentation of time and space might be reconciled with the infinity and immutability of the sacred within which both myths and events occur. To simplify our vocabulary, we attribute to the term ‘sacred’ all its possible connotations, using it therefore, to refer to the religious sacred and, at the same time, the magical sacred, to the sacred in the strict sense, and to mana, in spite of the fact that in a previous work [Hubert and Mauss 1975] we distinguished between these two sets of meanings” (Hubert and Mauss 1972:95).
Given that religions are at the origin of calendars, Hubert and Mauss continue by stating that “time is a condition necessary to magical and religious actions and representations” (Hubert and Mauss 1972:96) and establish the historical construction of specific calendars for the celebration of rituals, of magical deeds and for the performance of religious actions. Hubert and Mauss do not underline the quantitative notion of time (i.e. chrónos) but sustain, to the contrary, the view that “in the case of both religion and magic, the successive segments of time are not homogeneous and the parts which appear to be equal in size are not necessarily equal nor are they equivalent: what is homogeneous and equivalent are those segments which are considered similar by virtue of their position in the calendar” (Hubert and Mauss 1972:101).
Mircea Eliade made frequent reference to an ‘eternal return’, to a ‘return to the origins’, a regressus ad uterum, to a ‘turning back’, to an ‘annual rebirth of the world’ and to a ‘new beginning’. Specifically, in eschatological myths, “the knowledge of what happened ‘in the beginning’, that is, of cosmogony, provides us with knowledge of what will happen in the future . . . Because of its duration, the world decays, and consumes itself; thus it must be symbolically re-created each year. The idea of the apocalyptic destruction of the world was accepted because backed by a known cosmogony, that is, the ‘secret’ of the origin of the world” (Eliade 1985:104).
This approach holds that the present belongs to a set which also includes the past and the future, though the pathway leading to liberation from time, and therefore to spiritual salvation, as contemplated by Yoga or Buddhism, is open. The roots of this process of liberation are archaic. Referring to this process, Eliade remarked that “the different Hindu philosophies, and techniques of asceticism and meditation, all pursue the same end: to cure human beings of the pain provoked by existence in time. In Hindu thinking, suffering is caused and prolonged indefinitely in the world by karma, by temporality: the law of karma imposes innumerable transmigrations, the eternal return to existence and, therefore, to suffering” (Eliade 1985:113).
To free oneself from the law of karma, it is necessary to ‘burn’ all the karmic residues of the future. This is achieved by ‘turning back’, by detaching the Self from the present in order to return to the origins, that is, to the moment in which time began. This way the one discovers and understands the errors of the past, of past lives, but one also reaches the limit of non-time, that is, the point before time broke into the world with the first manifestation of existence. This limit outside of time coincides with eternity understood as the end of time and of the human condition. This pathway provides an exit from time and an entrance into immortality. Time ends and loses its meaning when the subject overcomes it through memory, by means of an anamnesis which has to be carried out with the utmost attention, seeking every detail of past life.
The distinction which Eliade goes on to make discerns between historical time and liturgical time which has less affinity with psychoanalytic procedures. He speaks of the incarnation of Christ, which occurred in historical time, but which cannot be reduced to its mere historical dimension, because this incarnation, followed by resurrection and ascension, has a mythical character. Salvation, then, occurred in a historical context, but to attain it, human beings must live out the drama of Christ in a ritual or liturgical form which is “the periodical repetition of the illud tempus, of ‘the beginnings'” (Eliade 1985:203). This liturgical time which is cyclical in nature, becomes linear following the Judaic model. There will be, therefore, only one incarnation and only one final judgment.
The ritual dimension of symbolic time
Victor Turner’s Ritual Process (1969) has become another touchstone for the sociology of time and has influenced sociological analyses greatly. Turner made diachrony the focus of the study of the structural form of society. The key to understanding social dynamics is the “processual model, that is, the diachronic profile of social processes, even when regular and rhythmic events can be measured in statistical form and have a synchronic structure” (Zadra, 1972:8; Giesen 2004).
A significant part of Turner’s discussion consequently centres on two main points: first, on the relation existing in society between structure and anti-structure and, secondly, on ‘liminality’, the transitional stage from the former to the latter. The structural element appears to be stable and somewhat slow to change at action and interaction level. Anti-structure, on the contrary, is more dynamic, more complex and devoid of spatial or temporal support: “anti-structure is both ‘communitas’ and ‘liminality’. Communitas, from a social-structural point of view, is a situation of undifferentiated, egalitarian, and direct social relations, close to the spontaneity and immediacy of the dialogic relation described by Martin Buber. It gives rise, nevertheless, to a different kind of structuring, which is of a symbolic kind” (Zadra 1972:9; 1985).
Zadra extended the analysis of diachrony and social dynamics by relating the ritualization of specific symbolic actions to the dynamics of the intersubjective communication involved in the formation of a social bond (Zadra 1987:193). The analysis provides, therefore, a significant theoretical basis for the definition of the way that communitas and its anti-structural symbolic features constitute an effective process in social life.
In particular, symbolic actions create different relational paradigms (Zadra 1987; 1989). The study of the calendar distribution of symbols allows one to distinguish between a plurality of dominant symbols which coordinate the processual aspects of a symbolic system. Symbolic periodicity is not, therefore, a uniform quantitative time distributed over an extended calendar period. Instead ‘symbolic time’ is highly discontinuous, centred as it is on a specific point with which every other point of calendar time is correlated. Dominant symbols are ritual actions performed within a given social group. They express the mythos of the group and an interpretation of its history; they carry an idiosyncratic interpretation of what that group considers as the principles of reality and the legitimate order of society, more specifically, they define the passage from disaggregation and conflict to social relationship. Symbolic periodicity, therefore, provides the paradigmatic form capable of bestowing sense and meaning on a social bond or, in theological terms, a covenant. Variations which occur within the processual resolutions brought about within symbolic periodicity reveal divergent concepts of society, action, freedom and power (Zadra 1985:30; 1987; 1989).
‘Symbolic time’ thus refers to the configurations of temporality present within a religious system: (1) the periodical distribution of the symbols over an extended unit of time; (2) the performative relationship between the symbolic and social systems; (3) the link between temporality, action and normativity stated within a given religious tradition (Zadra 1987: 193).
Symbolic time thus refers to the point of intersection between a plurality of ‘times’. The rise of different, often conflicting, calendar forms is related to changes in the way history and individual action are interpreted within a religious tradition, and also to conflicts which occur between the power-form enacted in the structural order of society and that enacted within the symbolic order (Zadra 1989:312).
Is time indefinable?
In the physical sciences, a series of problems related to time urgently require solutions (McTaggart 1908). The stalemate reached when trying to understand time is common to both the social and the physical sciences. As far as understanding the latter is concerned, recourse is made more frequently to abduction as an intermediate step in temporal analysis, than to deduction and induction. Even non-monotonic logic seems unable to provide definitive results. In short, Prigogine’s (1980) ‘forgotten dimension’ of time makes a tentative return to the scientific world after the abandonment of Newton’s idea of absolute time and mathematical time and after Einstein went beyond the concept of simultaneity. Further innovative suggestions were made by Minkowski, with his idea of the four dimensional space-time continua, and by Einstein who assimilated space and time within the three dimensions of space.
Even Henri Bergson’s (1926) well known ideas of durée and élan vital are inadequate, and so have lost their appeal. Time is no longer only a question of sentiment (Vicario 2005) but of knowledge, as Elias put it so effectively (1986). At the moment, confronted by dissipative structures which shatter the homogeneity of space and time, we need to find new ways of understanding time which are not linked to classical mechanics or to claims of predicting the future without taking the entire previous situation into account.
A striking example of this is the so-called ‘Yale Shooting Problem’ which revolves about a specifically temporal kind of question: initial conditions are defined once and for all, and they are not described in a complete way; this therefore is an impediment to long-range forecasting. The emphasis is placed on the initial condition about which, however, little information is provided; little information is made available concerning other factors subject to change. Prediction errors are therefore numerous. Here is the temporal question posed in the ‘Yale Shooting Problem’ (Shanahan 1990; Magnani 1995, 1996):
Fred is alive.
A gun is loaded.
There is a pause.
The trigger is pulled.
Is Fred alive?
The most obvious answer is that Fred is dead. According to classical logic, one could argue either that Fred is dead or that the gun was unloaded in the pause, and that Fred is still alive. In reality Fred is not dead; it is therefore necessary to change the forecast of death made previously and to forward a new one based on the explanation of what actually happened. Starting from the fact that Fred is alive, non-monotonic logic permits us to suppose that a specific datum is missing from our cognitive approach: something has happened whereby something or someone has unloaded the gun, or some other circumstance has arisen whereby Fred is allowed to live. After ascertaining this, various hypotheses and other explanations can be abducted from which further time typologies and forecasts may be deduced.
Time as αỉών
The Italian language, for instance, flattens the multi-dimensionality of time (tempo) considerably, as it does not make distinctions between the term indicating duration, chronometric extension, measurable period (tempo), and that indicating climate, seasons, meteorological conditions (tempo).
The English language, on the contrary, provides this type of distinction by using the term time to indicate the temporal phenomena, and weather, for atmospheric phenomena.
The ancient Greek language is even more precise in that it not only separates χρόνος [chrónos] from καιρός [kairós] but adds an aeonic aspect, that of multi-dimensional time as expressed through the concept of αỉών [aión], which includes the notions both of temporal duration extendable to include entire life spans, and of timeless duration, that is, eternity, absolute uninterrupted continuity. In the latter sense, time is never-ending, incessant, continuously flowing; it has neither a beginning or an end.
There is another term which completes the picture: αỉών a term which conveys both the present time, the current century, and those who live in it. As a consequence, time and humanity converge until they merge completely. In fact, there is an uninterrupted continuous link between humanity and its era.
Αỉών as a wordis akin to a series of closely related classical Greek lemmas, which form an intricate web of meaning capable of helping us to obtain a better grasp of time without limits. Αỉών recallsthe concept of age, the Latin aevum, where the “v” of aevum is a survival from the older Aeolian form αỉFών [aiuón] from which aevum derived, and which then contained the Aeolic digamma (F) later dropped in Greek. Αỉών may also be associated with the Greek adverb αỉεί [aiéi] meaning continuously. The connection becomes even more evident when the last syllable is shortened to become αỉέν [aién]. It appears in the much-used expression ảεί χρόνος [aéi chrónos], which, when translated, means time as a whole, eternity. Indeed, in many cases ảεί (or αỉεί) is used as a pleonasm accompanying other terms denoting time.
It might be affirmed that αỉών refers to time as it is, to time that flows, or to “forever” that is a duration that has the incessant character of eternity. To αỉών, Homer often adds ψυχή [psuké], to indicate life, its duration. However, it must be pointed out that Homer’s ψυχή must not be intended as soul but something that is not well defined, located in the body, but separate from it. It descends under the ground after physical death and remains a shadow, an appearance, unaware of itself although it continues to exist.
It is no coincidence that the expressions εỉς αỉῶνα [eis aióna] and πρòςαỉῶνα [pròs aióna] both mean forever, eternally. In the XXII book of Homer’s Iliad (where the mortal combat between Hector and Achilles takes place) in verse 58, αỉών is referred to as time-length. In Euripides’ tragedy “The Phoenician Women” (in the translation by F. Diano) in verses 1482-1488 there is still a sense of time as duration in the words of Teiresias, who, old and blind, with a golden crown on his head states that “and the sons of Oedipus made a gross mistake in wishing to throw over it the veil of time, as if forsooth they could outrun the gods’ decree; for by robbing their father of his due honour and allowing him no freedom, they enraged their luckless sire” (translation by E. P. Coleridge).
In Aeschylus’s Choephoroi (The Libation Bearers) -translation by E. D. A. Morshead – in verse 346 the reference is not to time-length but to mankind, to the world. And ảπòαỉῶνos [apò aiónos] and ẻξαỉῶνos [ex aiónos] must be translated with ab aeterno, that is since the world was the world. It remains that the meaning of time without duration or, in any case extremely long time, and the time of a human life span, of those living in an epoch, in an age, in a era, is expressed in the same terms. The latter is ambivalent, both because of the number of years that have already been lived, and also because of the far broader time period implied.
Appropriately provided with adjectives or accompanied by some kind of qualifier, an adverb maybe, αỉών expands to include not only the past but the present and future as well. It thus becomes μέλλων αỉών [méllon aión], the future age, posterity, and νύν αỉών [nún aión], the present age, the people of today. This way, it poses itself asαỉῶνoς [aiónos], through the ages. And it is within the dimensions of time that the divine entity itself, the eternal – that is the αỉών par excellence, which lives seculaseculorum, εỉς τοὺς αỉῶνας τῶν αỉῶνων [eis toùs aiónas tón aiónon] – that is forever and ever, places itself.
As in the case of χρόνος and καιρός, αỉών too has itsown mythological significance and its own divine nature, as Aỉών is Eon, the son of Chronos (now seated as the personification of time in many places: for instance on the left side of the medieval clock of Lund cathedral). We can, therefore, deduce that the term has an evidently sacred character, that Aristotle too believed that it derived from ảεί, with which shares the same lexical root. Moreover, confirmation of its religious character derives also from the fact that the term eons in neo-Platonic and Gnostic philosophies is used to indicate a host of intermediate deities abiding between the supreme Godhead and the world of empirical reality. In the Gnostic conception the closer the eons draw to matter the less they are influenced by the divine dimension, the less they are the emanation of God, who constitutes them in couples (called Sygyzy) to form the Pleroma, from which both the Demiurges, the creators of the world and of man, and Christ, the saviour of man and revealer of the knowledge of God, originate.
In conclusion, eonic time contains within itself a broader range of possible ways of conceiving time in its multi-dimensionality.
Conclusion: from micro-time to mega-time
Time is never homogeneous, it is multi-facetted and its aspects are distributed over its various contexts.
The perception of time itself differs according to variations in sociological environments. It is not so much a question of the chronometric duration or of the perception that time flows slowly or rapidly. There are, instead, limits that are not easily definable, durations which cannot be foretold, potential extensions that cannot be programmed. In other words, every definition, however minimal, of the concept of time implies numerous adjustments, specifications, clarifications, that cannot always define the essence of the discourse in one or more of its phrases.
The key-point lies probably in asking where time “resides” (and therefore where it does not “reside”). Taking for granted that it is de facto an experience of the subject as a social actor, it is necessary to qualify a similar experience in phenomenological terms, paying attention to the different connotations that time assumes or seems to assume on different occasions.
A superficial categorization might be founded on four modalities that an empirical analysis can help to identify as the existential path followed by every social individual: micro-time, meso-time, macro-time, mega-time.
Micro-time concerns the direct experience of a reduced, minimal, easily controllable time-space, as it is literally associated with the instant, the fleeting moment that flows rapidly. Tertullian, a Christian author who lived between the II and III century after Christ, writing in Latin uses the expression in atomo when referring to a similar small, indivisible part, with a view to describing something that happens in an instant, fugaciously. Life, when all comes to all, is a series of micro-times that follow each other in an uninterrupted sequence and end with the last breath or with the empirical verification of a flat encephalogram.
It is, then, a series of micro-times that produces meso-time, an entire existence, studded with experiences, whether cognisant or incognisant, with phases of wakefulness and sleep (and dreams), during which the possibility to wander is considerable, especially if one takes into account that the social actors are unable resort to memory to return to the past or to fantasy to envisage the future. Indeed, re-proposing a poetic formulation from the past, one expressed by the Italian poet Ugo Foscolo, it is possible to anticipate “the wings of time” and connect “the fugitive present moment” to the entire “space of centuries and centuries”. But all this is possible only if existential meso-time is in operation, if the meso-time of the person who thus exercises his/her faculties is in function. In explicit terms, it must be said that the unborn, the still-born, and the dead do not enjoy a similar possibility. It must, however, be taken into consideration that the pre-natal life of the foetus can be surprising, as recent scientific acquisition shows; the intrauterine unborn entertain initial forms of thought and therefore are probably able to entertain some notion of time. The micro-time itself which concludes meso-time with the passage from life to death, if one is aware of it, if present to oneself, permits one to roam freely, to return mentally to a very long chain of events, and also to imagine, to foreshadow, the future of one’s own body and/or soul (in the case of those who believe in life after death or in other means by which to make one’s existence continue for example through reincarnation). Beyond the extreme moment, the mental anticipation of what will happen afterwards can also lead to a peculiar situation, that of “remembering the future”, creating contents within the memory store related to certain images conjured up at a given moment and related to one’s own or someone else’s future.
Macro-time spans not only individual and social micro-times and meso-times, but also other regions which reach beyond the usual limits of the micro and meso dimensions. In particular, those realities that are experienced once minor thresholds have been passed. These thresholds delimit, respectively, moments and existences, that is micro-times and meso-times. Similar transitions are possible thanks to the enormous quantity of historical and technical notions available to be learnt and experienced – it is appropriate to remark – over time, centuries, millennia. Practically speaking, macro-time is constituted by that sum total of periods, events, people, and things that precede contemporaneousness and/or follow it, eventually. On macro-time there is considerable detailed information available, as an anamnestic key to the past and as anticipatory access to the future. For example, a centuries-old document or piece of cinema footage, dating back to the end of last century, broadens, in terms of the historical access, the extension of individual mini-times. On the other hand, futurological studies, with their more and more refined methodologies and techniques, design highly probabilistic scenarios which delineate the demographic, technological, economic (Rizzello 2004; Lawson 2005) and social characters of the future. What Leonardo da Vinci or, later, Jules Verne, anticipators par excellence of future inventions and discoveries, experienced exceptionally, is now a daily possibility available to avant-garde scientists, who outline innovations as yet to be created. In conclusion, macro-time dilates both backwards, towards what has already happened, and forward, towards what has yet to be.
As to mega-time, this term may be used to define the entire arc extending from the supposed origins of the universe to its hypothetical dissolution. But it is probably more opportune to talk here about a kind of “time without time”, incommensurable, limitless, without any effective interruption or beginning; a temporal (or a-temporal) infinite, capable, therefore, of overcoming, annihilating all and every space-time dimension. In this sense it may be placed within all kinds of metaphysical hypotheses, sustained by the various religious confessions which see in a meta-temporal shrine the point of arrival of the human existential parabola and the place (or rather non-place) where the conjunction between the earthly and divine dimensions takes place, as remuneration for having lived a just life.
If one wished to use a geometrical metaphor one might say that micro-time corresponds to a point, meso-time to a section, macro-time to a large segment of a straight line, mega-time to a straight line whose points of origin and conclusion are unknown.
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Grounded Theory, Sensitizing Concepts, and Computer-Assisted Theory Building
Roberto Cipriani
University Roma Tre, Italy
Abstract
The classical approach in sociology concerns the use of hypotheses and hypothesis testing processes to determine what, if any, effects can be attributed to particular factors in the field being studied. But other scholars suggest another procedure which eliminates the presence of previous hypotheses and privileges an interpretive – as opposed to a hypothetic-deductive – approach to data analysis. However, in the latter approach crucial questions appear for the researcher: how does one approach the data and data analyses to ensure the credibility of findings? Blumer’s suggestion about “sensitizing concepts” seems to be appropriate in order to reach not only a reliable interpretation of data but also the possibility of “building theory”. This process could be supported by computer-assisted research, namely using NVivo as dedicated software for qualitative analysis. However, not all kind of operations can be performed by the computer, no matter how appealing the market offering may be. Every single passage has to be monitored, and nothing can be taken for granted.
The presence of many – sometimes contradictory – theories is arguably considered a strength in the social sciences. The multitude of available theories today makes it seem impossible to have a grand theory, a specific unique theory that may be applied to all situations at all times in order to explain social phenomena. Therefore another solution becomes more and more reliable: to build a theory starting from data rather than from theory-driven hypothesis testing. The latter opens a new debate between competing and perhaps conflicting positions: the classical approach through previous hypotheses, and an orientation influenced by Grounded Theory (Glaser and Strauss 1967; Charmaz 2006; Corbin and Strauss 2008), which eliminates any kind of hypotheses and offers a range of different scientific views, also thanks to the added presence of “sensitizing concepts” (Blumer 1954) coming out from empirical results, therefore not previously established but inserted after the fieldwork.
The Grounded Theory approach
Actually, in adherence to the Grounded Theory (Gherardi, Turner 1987; Gherardi 1990) the aim is to build sociological theory starting from the collected data: before the analysis the researchers are involved in the construction of a list of nodes, keywords, items, considered meaningful for both the analysis of material and the purpose of the research. A first draft of this list can be useful to check if chosen “sensitizing concepts” are present or not in the contents of interviews. The purpose is to construct a reliable grid of concepts for the analysis and interpretation of data, a kind of “dictionary”, formed by words selected to support the qualitative approach.
Until some decades ago scholars could not rely on any applicative software to assist their work. This was essentially due to two related factors. On the one hand, computer programmers (and above all the companies which produced and distributed software) had very little interest in creating programs that would be used by just a few scholars. On the other hand, researchers themselves did not endorse a strong request for computer programs, because they saw in the computer-assisted procedure a too rigid (and basically quantitative) cage for the richness and depth of their qualitative data.
Now things have changed in a relevant way. Qualitative research has been rediscovered and is attracting a growing interest, while the widespread use of personal computers has contributed to modify in a radical way the behaviour of qualitative researchers who, starting from word processors, have learned to appreciate computer resources. Today, more than in the past, qualitative sociologists are conscious that new technologies can have an enormous impact on sociological methodology because they increase sources of knowledge, and create a large amount of information. However there is a real knowledge revolution with an excess of information, and data to verify, but specific software can help analytical procedures in order to prepare more convincing explanations, and to construct more interesting interpretations. It is not by chance that Paul Boghossian (2006) has suggested an overcoming of constructionist approach to come back to the empirical data in themselves. Of course, the existing computer packets, and probably those that will developed in the future, are helpful tools but cannot substitute for the work of a researcher, engaged in a theory building process (Urquhart 2007: 348-350). The Grounded Theory approach refers exactly to a research process where “the researcher analyzes the data and identifies analytic leads and tentative categories to develop through further data collection. A grounded theory of a studied topic starts with concrete data and ends with rendering them in an explanatory theory” (Charmaz 2007: 2023).
Sociological implications
Many programs of qualitative analysis have been developed to respond to theoretical demands of contemporary researchers. But rather than producing results in the way that statistical processing packages analyse data sets and produce statistics, QDA (Qualitative Data Analysis) programs (Lewins and Silver 2007) are powerful supports in treating and controlling data. In the richness of elements offered by qualitative contents researchers can find new concepts, new categories, raising other issues, and generating theories.
For instance a software like NVivo or Atlas-ti supplies many functions besides retrieval and encoding. NVivo (Coppola 2011), in particular,supports qualitative research, and it is classifiable, at least in part, as tailored to the construction and representation of theory. The descriptive/interpretative approach is based upon the techniques of ‘cut and paste’, to say ‘cutting’ from the whole those segments of text referring to a certain topic and then ‘pasting’ them so as to gather all materials and to compare different segments referring to a certain topic. In the approach based upon the construction of theories, the researcher’s intervention aims at drawing from data the elements of a new theory through observation and analysis, through the definition of concepts and categories.
According to Bryant and Charmaz (2007: 24), however
ultimately the research process must remain under the control of researcher(s). Glaser and others are correct to be wary of use of software, particularly when researchers come to rely upon it. Yet, cases abound where use of some form of electronic repository, plus sorting and retrieval facilities has proved useful. Researchers must understand both the benefits and the dangers of use (and reliance upon) software support.
In any case the data are the core of all investigations.
The importance of empirical data
All scientific activities, being a process of knowledge acquisition, cannot ignore a close relation with empirical data, which is to say with the empirical events that constitute the immediate object of a discipline such as sociology. This relation with data may be of two types: a direct or an indirect one. A social researcher can directly collect data for his study or he can take advantage of data collected by other researchers within a commonly shared research project. However, a personal commitment of the researcher in collecting data is appreciated, in order to be able to interpret and analyse what emerges from the empirical fieldwork. In this way, major external influences of many different researchers can be avoided.
It is in the choice of “sensitizing concepts” that researcher plays a key role because “such theoretical categories can sensitize the researcher to identify theoretically relevant phenomena in their field” (Kelle 2007: 207). This helps to distinguish between common sense categories, coming from commonsense language and knowledge, and directions along which to look in a methodological and heuristic perspective. As a matter of fact
sensitizing concepts can fulfil an important role in empirical research, since their lack of empirical contents permits researchers to apply them to a wide array of phenomena. Regardless how empirically contentless and vague they are, they may serve as heuristic devices for the construction of empirically grounded categories (Kelle 2007: 208).
However, one thing is sure: the importance, and centrality of empirical data in social research. This cannot be denied without consequences on the usefulness and reliability of sociological analysis. Therefore, if everything starts from data, the practice of collecting data must be considered as a grounded and qualifying moment of the scientific activity, from which the entire development of further steps within research is depending.
Proposing a “building theory”
In almost one century of sociological research, in different geographical and political environments as well as social and economical diversities, the prevailing approach was to refer to one or more theories and/or to one or more guiding hypothesis. For centuries a Galilean or Cartesian perspective has always been followed, that is to say a precise theoretical structureto be verified by experiments and proofs in order to examine the response on an hypothetical level.Only recently alternative perspectives have been suggested, which may turn upside down usual current research practices. Therefore, the actual research praxis based on a former theoretical setting of concepts and eventual relation among given variables, either dependent or independent ones, would change in favour of a direct face-to-face approach, thus involving motivations, behaviours and attitudes of social actors in the process of research-hypothesis construction. That is to say, reading data before formulating hypothesis. At this regard, some sociologists maintain that it is no more necessary to formerly hypothesize bindings between phenomena, because all necessary information for theory construction in sociology are already shown by data, and through the Grounded Theory, the process of constructing theory can be carried out the other way round: starting from collected data on fieldwork (Strati 1997; 1999; 2008), the theory is data-oriented, read and assembled.
The methods of qualitative analysis are mostly characterized by the collection of an enormous quantity of data which are rich in qualitative aspects, variables, and differences. In the richness of such elements offered by life histories, for example, the researcher often risks being engulfed by the quantity of data, and not always able to deepen the research as much as one would like. Furthermore, while the phases of quantitative research are fairly well structured, in qualitative approach – and especially in Grounded Theory – the collection of data, the choice of categories, and the building of theories don’t follow a linear path, but imply a circle that recurs repeatedly during the analysis. Afterwards there will be new categories, raising other issues that can be faced by means of new data, thus generating a very complicated process. The categories developed during the research produce further classifications. Therefore the use of computers and specific programs is an important support not only relieving from a series of repetitive actions in the text codification but also helping with instruments tailored to deal with categories of concepts, and at the end with theories.
ReconsideringGrounded Theory
In the context of “building theory” process, Grounded Theory has gone through many and significant changes since its first introduction. “Quite apart from the question of whether it is desirable to defer theoretical reflection, the notion that one may conduct research in a theory-neutral way is open to some doubt” says Alan Bryman (1988: 84-85), a quantitative and qualitative methodologist. Besides
there may be considerable practical difficulties associated with field-work conducted within a grounded theory approach. For instance Hammersley (1984), drawing on his experience of conducting a school ethnography, has suggested that when field-work entails tape recording of conversations, interviews, lessons, and the like, the time needed to transcribe such materials may render the grounded theory framework, of a constant interweaving of categories and data, almost impossible to accomplish. One might also question whether what the grounded theory approach provides really is a theory. Much of the discussion of the approach and its associated procedures seems to concentrate on the generation of categories rather than theory as such” (Bryman 1988: 85).
Some changes had been initially co-proposed by Glaser and Strauss (1967), and then developed separately by these two, thus generating two different groups following one or the other scientist.
Sometimes, the contrast between the two founders of Grounded Theory has become quite heated and probably over the top, notwithstanding a few statements of agreement in order to calm down the bitterness reached within the scientific face-to-face debate.
According to Bryant and Charmaz (2007: 33), “
through developing this method, Glaser and Strauss aimed to provide a clear basis for systematic qualitative research, although Glaser has always argued that the method applies equally to quantitative inquiry. They intended to show how such research projects could produce outcomes of equal significance to those produced by the predominant statistical-quantitative, primarily mass survey methods of the day. What they also achieved was a redirection of positivist-oriented concern among qualitative researchers seeking reliability and validity in response to criticism from quantitative methodologists. Glaser and Strauss offered a method with a solid core of data analysis and theory construction. Their method contrasted with the strategy of those who sought procedural respectability through collection of vast amounts of unanalysed, and often un-analysable, data”.
After Strauss died, Glaser has been holding the stage with his strong committed attitude and fully oriented towards ‘his’ Grounded Theory. Barney Glaser (1992) has pushed through his scientific and methodological option far off the former threshold, which was already quite revolutionary for sociological tradition in the US, and not only there. The most problematic issue of Grounded Theory is the total absence of an orientating perspective in sociological research. In other words, if the idea of giving up detailed hypothesis for the research may be considered, not the same can be said regarding other potential inquiries to introduce in the guidelines of the research. However, once refused the traditional initial research-hypothesis, an incipit can be a good solution to start and, though temporary and open, it can represent a referring point, a focus, an orientating spot, a common basis from where inquiries can take off. Therefore, reconsidering Grounded Theory is even more possible if we take into account what Herbert Blumer maintained, the same Blumer who criticized the supposed absence of methodology of Thomas and Znaniecki (1918-1920) in their famous qualitative fieldwork on The Polish Peasant. On this note, as Blumer suggested (1954: 7), “sensitizing concepts” can be a good solution, so to have at least some conceptually defined contents, which may represent some sort of guiding lines, or a rough draft that, even though of generic references, could be able to guide operative choices during the research. The following section addresses Blumer’s idea of “sensitizing concepts” in use.
“Sensitizing concepts”
Blumer’s suggestion appears to be quite convincing because it avoids any absolute conceptualizing, or abstractly formulated ideas, which may turn out to be of no relation to empirical data. It is not by chance that especially sociologists open to qualitative solutions are keen on using “sensitizing concepts”. Some basic hardness may be restraining the research into a pre-definite course, instead of leaving it open to unforeseeable resources of data. Besides, as Blumer maintains, “sensitizing concepts” offer a wide general sense of reference and guidance in approaching empirical instances. In such a way, there is a close relation between concepts and data.
Use of “sensitizing concepts” can be very diversified. Concepts can be taken directly from data, that is the case of Grounded Theory purists, who refuse any other solution that does not start from data (the head of the list in this integral and militant approach is Barney Glaser). According to other scientists, “sensitizing concepts” must be confronted with data and they have to be formulated starting from already existing sociological literature on the subject. In this way the relation with empirical data is quite loose, because conceptualization comes before any data collecting. However, there is another solution that cumulates advantages coming from the store of scientific knowledge, previously accumulated, and empirical information collected. It means to keep memory of the previous research made on the same subject and formulate a first draft of some guidance concepts, or “sensitizing concepts”, to be verified on fieldwork of the research. In operative terms, the researcher can propose his own results, at least at a first step, or results acquired by other researchers on the same subject. Therefore, the researcher can prepare a list of temporary concepts, as much as it is possible.
In the second phase, the temporary list of concepts is compared with empirical data collected, in order to verify, through a simple table of presences and absences related to single concepts, whether or not conceptual formulas can be found in the texts, in interviews, in the data-base at disposal. Such verification can be carried out with a certain precision on all data or on just a significant part of them. However, before setting up a definite series of “sensitizing concepts” to be used in subsequent data analysis steps, a good approach could be that of discussing every choice with all researchers and collectors involved in the research in order to decide which concepts should be definitely included, excluded or added. If research is conducted by an individual the choice can be made by the same person in different steps, one after another, in order to reach a final decision.
Actually, in Kelle’s (2007: 209) terms, “
a wide array of sensitizing categories from different theoretical traditions can be used to develop empirically grounded categories. Many researchers find it easier to let categories emerge if one stays with one particular theoretical tradition, however Glaser is certainly when with his frequent warnings that the utilization of a single pet theory will almost necessarily lead to the neglect of heuristic concepts better suited to the specific domain under scrutiny. There are heuristic concepts which capture a broad variety of different processes and events and nevertheless may exclude certain phenomena from being analyzed: thus the extended use of concepts from micro-sociological action theory (e.g. actors, goals, strategies) can preclude a system theory and macro-perspective on the research domain. A strategy of coding which uses different and even competing theoretical perspectives may often be superior to a strategy which remains restricted to a limited number of pet concepts. Furthermore, analysts should always ask themselves whether the chosen heuristic categories lead to the exclusion of certain processes and events from being analyzed and coded, since this would be an attribute of a category with high empirical content which refers to a circumscribed set of phenomena.
Proposing a procedure
The following procedure represents a first important brain-storming, a sort of theoretical-empirical confrontation on methodology to use, on the key-points of the research, on major themes to analyse. The flux diagram of this sociological work could be as follows:
Reading through existing bibliography on the subject
↓
Formulation of a first draft of concepts
↓
Quick confrontation of the initial list of concepts and empirical data collected
↓
Discussion of the first draft with collectors and researchers
↓
New formulation of a list of “sensitizing concepts”
↓
Starting the analysis procedure on the basis of chosen “sensitizing concepts”
Through this solution it is possible to avoid the enclosure of sociological activity within a too tight conceptualization, so that scientists have clear references, when approaching data, without the risk of getting lost in a wide empirical variety, as if data could speak by themselves. In order to overcome such die-hard positivistic utopia, other ways have to be discovered, with less risks, so to have some references to get oriented by, as a conceptual compass that constitutes a commonly shared reference among scientists, even without pretending a one-sense scientific analysis. Obviously nothing can avoid making the way the other way round, if necessary, that is to say to renounce to the conceptual drafts considered as definitive at an initial phase. In other words, the list of “sensitizing concepts” does not have to be unique. The list can change one or more times, until a satisfying and fertile formulation of data interpretation is found. Also in this case it is not possible to speak in terms of a saturation of the research, because new subjects of knowledge can be useful for a convincing knowledge of social reality. Actually, this possible diversification in the construction of concepts seems to answer better to the complexity and variables of the social world, which is not easily submitted to pre-constituted and restraining images. On the other hand, ingenuously presuming that everything could come simply and naturally from data is not an option which helps to legitimate scientific foundation of a qualitative approach. Finally, the conceptual dimension of inquiry cannot be completely postponed to the end of analysis, because singular situations do not produce conceptual categories per se. Certainly, researchers should avoid superposition of incautious and logical demonstrationscompletely out of empirical reality. However, the opposite solution cannot be accepted as well, because it risks to open the way to quite diverging lectures and easily subject to personal influences. Concepts and procedures would keep under control such risks, operating a mediation between theory and empirical activity, between ideological assumptions of the researcher and freedom of the research, between methodology thoroughness and knowledge autonomy.
Besides, another fact has to be considered: no inquiry is perfect, neither for methodology nor for contents. We can easily hypothesize that all acknowledgment activity is subject to indefinite perfectibility. Such perfectibility concerns at first the ‘focus’ of each scientific undertaking, that is to say the used ‘set’ of concepts. Science cannot be without concepts, neither can scientists endlessly discuss or renounce to assert concepts even if they are temporary and revocable, waiting for better solutions.
Abduction and retroduction
The suggestion related to the previously showed flux diagram of sociological work accomplishes two functions: on the one hand it allows concepts to constitute an input, which means an introduction of tools finalized to an adequate knowledge of reality; on the other hand it can also work as output because the results are directly emerging from data. The modality of “sensitizing concepts” is a sort of abduction or retroduction (Fann 1980) that explains phenomena starting from facts but not only in an inductive way. According to Peirce (1868, 1984), the father of pragmatist movement, one abduces or retroduces with the acceptation of a hypothesis in order to explain a given phenomenon. However, the starting point is always the formulation of a hypothesis that has to be verified by facts. This is Peirce’s logic of science. Furthermore, according to Peirce a concept is significant when it produces effects. For “sensitizing concepts” it is quite evident that they are directly related with data. Finally, categories (or concepts) have to be determined both at the beginning and at the end of the analytical procedure.
One might say that knowledge is based on observing facts (Peirce 2001: 289). The following example can be useful: observing an ink-pot, this is a fact; however, before one can say that, one can have sensitive impressions, in which there is no idea of an ink-pot, or of any separated object, or of a ‘self’, or of the act of observing; and the fact of seeing an ink-pot in front of oneself is the outcome of a number of mental operations over such sensitive impressions. Only when the cognition has developed into a proposition or idea over a fact, one can directly control the process. As a matter of fact it is an idle question to discuss ‘legitimacy’ of what cannot be checked. Therefore, all observations should be accepted as they occur. In a certain way, Peirce’s (1931-1958) use of the language is quite old fashioned, and above we have presented a paraphrase of his speech, but the intuitions contained are significant and anticipate times. Particularly explicit is the following statement: “The first thing to do is to propose a questioning hypothesis. Secondly, one should verify feasibility limits with experimental tests”. Hypothesis is an instrument of Peirce’s scientific and philosophic work (2001: 290). He maintains that with hypothesis he does not only mean a supposition on an observed object; in particular, he means that the initial position of a hypothesis and how is it considerate, either as a simple question and at any degree of faith, can be seen as an inferential step that Peirce suggests could be called abduction. This includes the preference for one hypothesis among others to explain the facts, until such preferred hypothesis is neither proved on a previous relevant knowledge, nor verified over other hypothesis already being proved. Finally, Peirce (2001: 304) mentions some of the problems from absolute absence of hypothesis in research. There are scholars who affirm that no hypothesis can be accepted, not even as a hypothesis, until its rightness or wrongness can be directly perceived. Peirce holds the opinion that this is what Auguste Comte (the social philosopher who actually first formulated this) had in mind. Of course, this abduction presupposes that we should believe only what we see, and there are authors who maintain that to make predictions is not a scientific attitude. Therefore, this should also mean that expecting something from research is not a scientific attitude as well. One’s opinion should be limited to what effectively can be perceived, maintains Peirce, as well as he seems to be perfectly aware that such a position cannot be coherently held. In a certain way, this position is auto-denying because it is an opinion based on more than effectively can be perceived.
The problematic relationship between concepts and theories
As we well know, in sociology there is a double context for scientific activity: the context of discovery and the context of justification: “sensitizing concepts” are meant to satisfy both needs of discovery, that is to say both of the initial inquiry non-hypothesis based, and of justification, that is to say of proof and experimentation.
As a matter of fact, if theories represent a structured whole tending to orientate the inquiry and explain phenomena, the concepts are used to ground theories and give them a body and an articulation. Theory can’t be without concepts. Concepts do not present a valid explanation of reality. What happens in qualitative research, as described above, is no more than – with some necessary change – rendering concepts operative, almost as well as in quantitative approach, where concepts are transformed into questions to be asked in a questionnaire. Instead, in the case of “sensitizing concepts”, these are inserted as key-concepts (or codes or labels or, according to NVivo, nodes) as side text of analysed texts, which is to say to be codified according to the list of nodes previously individuated (some can choose to code a text only according to protocols or inquiry transcriptions, without referring to any previous list of abstract and/or real elements).
Some qualitative sociologists refuse to give a definition of concepts and theories in order to keep at a distance from methods and quantitative instruments, but also probably, in order to open the way to test differently the ground research, through inventing new methods, experiencing other non-standard methods. When practising ‘participant observation’, for example, there is the preference to avoid previous opinions or basic theories. However, when data collection has another source, such as interviews for example, one may find useful to have a certain degree of formalization, at least as far as concepts and theories are concerned. Turning upside down traditional research approaches is already quite problematic, even if conceptual and theoretical supports are maintained in swapped chronological and hierarchical positions. A more scientifically constructive form can be searched for, and it can emerge directly from an attentive and precise abductive perspective, which may stand for a new way of carrying out scientific research, without denying either induction or deduction, at least to a certain extent. We can start from the following scheme:
Theory
↓
Hypothesis
↓
Data collection
↓
Data analysis
↓
Results
Such a scheme implies that in the passage from theory to hypothesis there is a deductive process; in the passage from hypothesis to data collection there is an operational process; from data collection the passage to data analysis can be done only after data elaboration; results are the outcome of data analysis, thanks to the interpretation process. Finally, from results there is a going back to theory with an inductive process. Therefore, deduction and induction, at a clear analysis, are present both in quantitative and qualitative approach.
But the problem of the viewpoint expressed by the social actor remains open. In a qualitative approach (as well as in the quantitative one) almost everything risks of being left to the analysis and interpretation of the researcher. The issue is quite delicate and of no easy solution. Undoubtedly the biographical interview offers much more chances to the interviewed subject than it may occur in a quantitative quick questionnaire.
Uses and abuses of computer-assisted procedures
At this point, we should underline that no software, no computer process, can totally replace a social researcher in his scientific work. On the other hand, social scientists know well that their job is particularly delicate, rich in uncertainties, of temporary validity and subject to continuous adjusting.
Nonetheless, the recent widespread availability of software for qualitative research analysis and, in particular, Grounded Theory functions oriented has opened new and interesting possibilities, that a few years ago one would not even imagine. The problem now is how to choose among a wide variety of programs. For the moment the more accredited seem to be the German ATLAS/ti (www.atlasti.com) and the Australian NVivo (www.qsrinternational.com), whose characteristics are similar but with up dating and improvements in permanent evolution. In 2009 NVivo 8 was launched after the new version of NUD*IST 6 and NVivo 7, both widely known and used. NVivo 9 has the following feature: texts are not the only data treated, but also images. Some functions are of common use: data storage; coding without limits of labeling; writing memos, that means notes on the research field, annotations relative to theoretical and conceptual intuitions to be put in relation; re-coding of data according to new needs; melt together data coming from different researches; auto-code data (even if the best thing to do is to do it personally); work on entire or partial texts; crossing content data with attributes such as age, gender, nationality, income, education, and more. And now a new release is available: NVivo 10.
However, not all kind of operations can be performed by the computer, no matter how appealing the market offering may be. Every single passage has to be monitored, and nothing can be taken for granted. A good rule to follow is also not to get accustomed to the software characteristics, so to avoid the risk of planning research on the base of software potential, neglecting other possibilities which are not taken into account just because the software doesn’t contemplate it. If a research requires a certain progression of phases, acquisition and treatment of data, the choice should not be taken according to the possibility of the computer machine. Very fruitful, instead, would be to ignore it, in order to look for new and other logics not belonging to computer’s algorithm sequence.
Programs such as The Ethnograph (http://www.QualisResearch.com) as well as HyperRESEARCH (http://members.aol.com/researchwr), once popular, are now lagging behind. Other programs, even of initial good quality, did not develop significantly enough to keep up with the most widespread software, and this is the case of Qualrus (www.qualrus.com).
The computer-assisted qualitative analysis
NVivo is a software that originates as a tool for qualitative analysis, and in particular for Grounded Theory. It is the outcome of a mutual collaboration of a computer science specialist, Tom Richards, and a sociologist significantly dedicated to qualitative analysis, Lyn Richards. To be true, the marketing presentation of this software is promising much more than it really can keep. Furthermore, learning the procedures of this software is not easy and it takes a constant and long application (some months of exercising before one can reach a good knowledge of the program, and in some circumstances it can even not properly work). In other words, after an initial hard phase the outcome reaches good quality. Another characteristic is that not all hidden potentialities of NVivo can be understood, even at a distance. The most problematic passage still remains the transition from data to theory. The support of the software is not of great help, in this case. Flux diagrams can be created, as well as cartographies of concepts, mapping of relations among concepts, but the most of the job is coming from the researcher application instead of the computer program. Therefore, especially when the theory has to be structured, almost everything is depending on researcher’s inventive more than NVivo’s elaboration of results. In a certain way, this is also a positive outcome, because it stresses once again the fact that is the social scientist who prepares the theoretical structure emerging from data, instead of expecting a software could produce theory.
The experience carried out with NVivo appears to be satisfying, even if the beginning of the experience requires to undertake the challenge without holding the necessary elements to consider whether the software functions are worthwhile risking. A demo on a floppy disk or a brochure on coated paper is not enough to guarantee the quality of the product. Only an active application can tell something about its reliability. Therefore, it is just like a blind date, which has given, until now, good results. The market of computer-assisted software for qualitative social research is crowded with many different proposals. Only after a decade of experience and knowledge a software can be taken into consideration for social research, otherwise the risk of wasting human and economical resources as well as time is too high.
The function ofmemos
Analysis of qualitative data, according to the methodological indications of Grounded Theory and its feasibility offered by the software NVivo, operates at two major levels: nodes, that is to say the key-concepts, and memos, that is to say observations, considerations, theoretical and scientific perceptions coming from data handling. Sometimes one may work a lot, or mainly, on nodes and just a little with memos, which may be neglected and written very seldom. The absence or insufficient number of memos may represent a serious damage for more important operations within the research. As a matter of fact, not only nodes can be in relation to each other, but also memos, and memos can be in relation with nodes, thus enriching with no limits interpretive potentiality of researchers. The group of memos, but also every single memo, is a vital piece of the chain through which one should pass to build theories, attempt interpretations, set significant relations with different parts and results of a research. Memos are the traces of our thoughts over the research problems. Such thoughts in progress may change, but can also consolidate, according to: central and marginal variables; principal and secondary ones; with a hierarchy at any level; with the tree system, which defines priorities and gradual differences of the considered elements. The next passage, which defines one or more theories, is the peculiar job of social scientist, who assumes the role of transforming empirical data into abstract theories.
An experiment on the Jubilee of the year 2000
Our results of a qualitative research on ‘jubilant people’, to say pilgrims participating in the Jubilee of the Year 2000 in Rome, give a contribution to the sociological analysis and interpretation of a collective phenomenon of mobility (be it religious or not), and to the process of “building theory”.
The qualitative research carried out in 2000 and the years after, starting from data collected over 96 pilgrims in Rome (from 18 countries, and speaking 8 different languages) in occasion of the Great Jubilee of 2000 (Cipriani 2003; 2006), has been, as far as we know, the first research in Italy based on Grounded Theory and realized with NVivo. Actually not all resources of the software have been used. However, the results are to be considered quite promising, even if further interpretations of collected data are still possible. This research shows the outcome of a triangulation between the software DiscAn, invented by Pierre Maranda (a Canadian anthropologist), the Analysis of Lexical Correspondences, and the results of operations with NVivo.
The interviewees, both men and women, presented diverse backgrounds, resulting from their freedom of expression, without any kind of restriction and with no pre-defined questions and pre-coded responses, giving way to a high level of spontaneity in the answers and as consequence a deeper knowledge of some issues concerning the Jubilee.
There are 34 main results coming from qualitative analysis (for instance respect for the official teaching of Catholic Church together with some difficulties in linking the ritual aspect to that of indulgence). But when the qualitative and quantitative approach are used simultaneously the outcome is very rich and permits to reach more evidences. To give an example, at the end the most important concepts are situated in the following manner:
Religiosity (religiosità) appears as the core category, together with jubilee (giubileo) and faith (fede), and also emotion (emozione). Church is marginal, and the family too is peripheral. Another similar graphic construction is suggested through the software NVivo, which presents a clear relationship between the same primary concepts (religiosity, faith, jubilee, emotion):
To complete the illustrations of results a semantic map, created through DiscAn, confirms the key role of jubilee (as a central relay=R), religiosity (as a source=F), and faith (as a relay=R). In this case, however, emotion doesn’t seem so relevant: it is a relay but isolated.
The documents gathered could be used for other interpretations too, but our outcome has been useful to build a provisional theory of events based on collective religious mobility. The final theoretical framework is the following, in short:
PRIMITIVE GENERAL TERMS
PRIMITIVE PARTICULAR TERMS
SECONDARY PARTICULAR TERMS
STATEMENTS
ARGUMENTS
SCOPE CONDITIONS
Events (pilgrimages)
Religiosity
Faith
If there is a background religiosity a participation in the events like Jubilee is foreseeable
Religiosity is the motivation for pilgrims mobility
Relative applicability
Mobility
Jubilee
Church as institution
It is rare that a non believer could be a pilgrim
If an individual is Catholic he will participate in Jubilee
Possibility of enlargement
Collectivity
Higher religiosity corresponds to higher participation in the events of collective religious mobility
Faith is a good support to participate in pilgrimages
Possibility of modifications
Jubilee is much more a relay than a source of collective behavior
Faith comes from official Church teaching
Use of a general condition
Church is marginal in the phenomenon of collective mobility
Motivations to participate in pilgrimages do not come from official Church teaching
No details of specific conditions
Jubilee motivations are complex
Temporary, local, and undefined applicability
The aim is to show practically that quantitative approach and qualitative approach can be very fertile if treated and balanced together with methodological rigor and scientific attention, which means to aim at keeping the best of both different approaches. These can unveil useful elements over social action motivations, over the preeminent values orienting experience, over more recurring sociological categories in the perception of social reality, and finally, over the connections that motivate most significant choices.
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